Come poter riassumere un’esperienza visiva come quella di “The Artist”? Semplice, in realtà, con una descrizione, una che rimandi a una reminiscenza a tratti terrificante…
“The Artist” allunga la mano verso il cuore di uno spettatore, preme su esso fino a strapparlo via dal petto. Ci gioca, forse sadicamente, facendolo sobbalzare dinanzi ai nostri occhi con mal celato distacco e una freddezza apparente. Non possiamo che giacere lì inermi, impossibilitati anche solo ad azzardare alcuna reazione. Vorremo urlare, implorarlo di smetterla ma non fuoriesce alcun suono dalla nostra bocca. Siamo prigionieri di un mondo silenzioso come lo sono i protagonisti. Per loro, però, è la naturalezza, per noi, invece, la particolarità di una visione del tutto nuova. Perché “The Artist” non è solo un inno al cinema muto, non è un’ode a un genere oramai superato; “The Artist” è il passato che divora il moderno fino ad inglobarlo con voracità, trasfigurando l’anima di uno spettatore nel proprio “banchetto emozionale”.
E solo al termine di questa esperienza, quando George e Peppy riprendono a ballare nel “grigiore” di un’immagine in bianco e nero, tu, spettatore incosciente come il sottoscritto che compone questi passi, ti senti realmente libero di poter recuperare quel cuore e riportarlo al suo posto, lì dove deve stare, per riprendere a battere con un ritmo lento e compassato. L’ansia e l’angoscia provate da George sono cessate con la carezza delicata di Peppy. Possiamo uscire da quel tunnel in cui non penetrava alcun raggio di sole, terminare quel protratto ed eloquente silenzio che rispettosamente abbiamo mantenuto per empatia verso di loro. Non era un fare violento il suo, “The Artist” voleva soltanto stringere a sé il cuore in quanto simbolo pulsante dell'emotività più profonda, fino a colpirlo con la spiritualità di un cinema d’epoca. "The Artist" non è semplicemente una storia raccontata in pellicola, ma una vera esperienza taciturna che avvolge l'animo di chi la vive semplicemente osservandola.
“The Artist” è una traghettata nel freddo mare della paura di star male, di fallire, di restare soli e soffrire maledettamente. Il tutto sullo sfondo di una mutazione artistica del cinema anni ‘30, in cui il sonoro succede al genere muto, e il musical è pronto a entrare, con grazia artistica, nel fantastico mondo della settima arte. La mescolanza del sentimento umano si unisce all'evoluzione prossima del cinema.
Vi è solo un modo per evitare di cadere nel vortice subdolo della depressione causata dal timore di un imminente futuro nebuloso e incerto: aggrapparsi all’amore, all’affetto di una ballerina capace di salvare una vita, restando gelidamente laconica ma calorosamente sorridente.
"King Kong ed Ann" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters
Immaginate di varcare la soglia di un museo del cinema in cui viene riproposta, attraverso sequenze visive proiettate sulle pareti, una storia divenuta immortale.
“King Kong” è un’estesa narrazione visiva incastonata nell’immaginario universale, tanto da essere stata ripresa e reinterpretata più volte, conservando comunque l’unicità di un’opera irripetibile, come una raffigurazione scolpita su pietra. La tragica e suggestiva vicenda del maestoso Kong è una sorta di affresco in cui appaiono ritratte le atmosfere soffocanti della grande depressione americana. E’ in questo immenso affresco che si staglia centralmente la gigantesca creatura vivente. Ai piedi di Kong vi è l’avvilente realtà urbana, poi la natura violenta di un’isola sperduta e infine l’imponenza di un grattacielo su cui volano biplani somiglianti ad avvoltoi affamati; i tre passi fondamentali del linguaggio di “King Kong”. L’amore per questo “affresco” che vide la luce nel 1933 è stato fonte d’inesauribile ispirazione per il regista Peter Jackson, che nel 2005 curò un nuovo “restauro” di tale scorcio, questo quadro eternato nella prestigiosa pinacoteca della settima arte, ricreando egli stesso un "dipinto" del tutto nuovo, più spettacolare e ancor più melodrammatico.
Nel “King Kong” di Jackson la storia tocca le tre ore e approfondisce le tematiche visive e narrative ergendole a veri e propri topos filosofici. Per il regista neozelandese, reduce dal capolavoro senza tempo della trilogia de “Il Signore degli anelli”, “King Kong” è un’odissea dell’amore e della morte, di cui il colossale gorilla è il triste nocchiero. Jackson gli dona la vita, conformandolo con lo spessore di un essere maledetto, solo e abbandonato, rabbioso e violento, malinconico e romantico.
L’impeccabile ricostruzione scenografica della metropoli Newyorkese, in cui la protagonista Ann Darrow (un’incantevole Naomi Watts) vive, svolgendo la sua attività lavorativa presso il Vaudeville, fa da premessa alle atmosfere del film che anela ad essere un’eminente trasposizione di un periodo storico oscuro e frustrante. Eppure, le scene ambientate nella modernità del tempo sono le più spensierate perché fatte carico di una speranza illusoria. Questo perché il “King Kong” di Jackson offre un itinerario inaspettato, sorprendente, nel proprio pellegrinaggio esoterico, una sorta di scalinata ripida e tortuosa da dover percorrere con audacia e vigoria. Dopo essersi lasciata alle spalle l’opprimente società americana, l’opera assurge ai canoni del viaggio esplorativo: le sequenze in mare aperto, a bordo della nave mercantile, sono cariche di mistero e senso d’avventura. Una volta approdati sull’Isola del Teschio, il film trasfigura ancora una volta il proprio essere, trasformandosi in un horror violento, a volte angosciante, con gli indigeni rappresentati come efferati e sanguinari assassini. In seguito, lo stile muta nuovamente in un monster movie in cui la spettacolarizzazione delle immagini visive sfama gli occhi di chi osserva il tutto con l’insaziabile appetito della fantasia. Le lunghe carrellate di animali antidiluviani, ricostruiti meravigliosamente, così come la ricreata flora di un tempo lontano, resa nella sua vivezza originaria di colori e forme, danno un effetto unico. Il “King Kong” di Jackson diviene un Kolossal farcito di stupore e ricco di effetti speciali stupefacenti, disseminati in un mondo esotico, colorato e fluorescente. Il procedere della storia conduce Kong, questo antieroe dalla caratterizzazione tragica, a ritrovarsi però nel mondo dell’uomo, nella “grande mela” statunitense in cui riabbracciamo, sul finale, il clima d’inizio film. Ma la parabola ascendente del nostro viaggio ora è diversa, perché “King Kong” diviene infine un dramma cupo e desolante, nostalgico e spiazzante, fino a trovare la sublimazione nel tragico epilogo.
Dall’essere “artista” all’allegoria del “sole”
Il rapporto iniziale tra Kong ed Ann, la splendida donna offerta in sacrificio al mostro, è complesso e difficilmente riassumibile. La ragazza teme per la propria incolumità e si trova impotente, stretta tra le dita dell’animale, che la porta con sé fino alle rocciose alture dell’isola. Approfittando di ogni minima distrazione della mostruosa creatura, Ann cerca di darsi alla fuga venendo però prontamente raggiunta da Kong che, furente, l’afferra e dopo averla guardata con occhi rabbiosi la intimidisce ulteriormente con l’emissione di inquietanti suoni gutturali. I due insoliti compagni, così diversi tra loro, si fermano un istante e si guardano fisso negli occhi per cercare di capire le reali intenzioni dell’uno nei confronti dell’altro.
Il mostro osserva con interesse la giovane Ann che per placare l’agitazione dell’enorme gorilla lo intrattiene eseguendo leggiadri passi di danza e bizzarre mosse di mimica facciale. Kong appare incuriosito, nonché divertito dai movimenti della donna.
La bianca epidermide di Ann che emana una luce splendente, simile al dolce sorgere del sole, raggiunge le stanche palpebre dell’animale, ridestandole da un sommesso torpore cui il tempo le aveva fatte precipitare. Gli occhi ormai dischiusi di King Kong non possono che ammirare una figura di donna dalle esili e armoniose fattezze. I biondi capelli che contornano il viso della fanciulla, sotto il volere del vento, arrivano a sfiorarle le rossastre gote, infondendo nel cuore di King Kong una sensazione d’indelebile presenza fisica. Eppure, l’amore che la bestia comincia a nutrire per la bellanon si sofferma sulla mera esteriorità nell’opera del 2005. Ann diletta il gigante e ne cattura la sua attenzione per poi placarne l’ira. Danza per lui, esegue numeri di destrezza e agilità, si improvvisa abile giocoliera con tre pietre raccolte da terra per poi incantare la bestia con l’ausilio di un piccolo bastone con cui finge di reggersi mentre saltella, destabilizzando così inevitabilmente Kong. Ann attinge dal suo personalissimo “repertorio”. Lei, un’attrice di teatro caduta in disgrazia, una regina del palcoscenico privata però del suo stesso pubblico, in altre parole, un’artista venuta fuori dal sipario strappato della povertà. Ed Ann improvvisa, ricrea il proprio palcoscenico sui suoli rocciosi dell’Isola del Teschio, dinanzi all’unico spettatoreche riesce a mirarla, il gigante della terra, ovvero King Kong. Ed egli osserva Ann con indiscrezione, innamorandosi del suo fare più che del suo apparire, del suo “essere” piuttosto che del suo “sembrare”. King Kong si innamora dell’Ann artista ancor prima che dell’Ann sensuale e leggiadra creatura femminile.
L’intero film di Jackson traspira di un amore evocativo riservato al concetto stesso di “arte”, e tenta di effettuare un’analisi su come esso venga fatto proprio dai protagonisti. Carl (Jack Black) è un cineasta, e regge maniacalmente la sua pesante macchina da presa, difendendola ad ogni costo. Dal suo agire emerge la parte più oscura, la prostituzione dell’arte, in cui non si ha alcun rispetto per i morti e per i viventi, e dove tutto può essere usato come fonte di guadagno. Jack (Adrien Brody), invece, è un drammaturgo che vive per la stesura di un nuovo testo teatrale e che, a malincuore, accetta di seguire Carl in questo rischioso progetto cinematografico. Da Jack deriva quanto di più altruista e raffinato possa riservare l’arte scrittoria, un qualcosa di comprovato dall’eroismo di cui lo stesso Jack si fa carico nel corso del film. Ma la profondità più assoluta del concetto di arte è riservata al personaggio protagonista: Ann, la donna che sedurrà con la grazia del suo fare spettacolo e con l’erotismo del suo essere artista, King Kong. Lo stesso lungometraggio è impregnato di un amore artistico ed incondizionato verso un modo di fare cinema di stampo d’epoca, in cui il fattore empatico tra i personaggi silenziosi (Kong ed Ann) coinvolge lo spettatore con didascalici sguardi ed eloquenti silenzi.
A seguito di una cruenta battaglia si rompe l’astio tra questi due esseri. Kong salva Ann dall’azione predatoria di tre vestasauri, ed ella si concede volutamente al riparo nelle mani del mostro per scampare ai pericoli di quel luogo tanto bello quanto inospitale. La visione del rapporto tra i due riflette improvvisamente molteplici prospettive, come fosse uno specchio frantumatosi in migliaia di pezzi, capaci di catturare un’immagine diversa da un’angolatura del tutto nuova. Kong la conduce nella sua dimora, situata sul picco di una montagna. Kong depone Ann a terra, sedendosi a contemplare il tramonto. Quel sole sembra ritmare la vita di questo re, sorgendo per svegliarlo e tramontando per farlo addormentare. L’importanza di poter rivedere nuovamente il sole certifica per Kong l’essere sopravvissuto a un nuovo giorno, e perciò esso si sofferma quotidianamente ad ammirarlo. Non vi è alcun futuro per la bestia ma soltanto un costante presente. In quel momento, però, il sole vivo e luminoso per Kong s’incarna nel corpo e nello spirito della sua dolce Ann, che proprio in quegli attimi riprende a danzare per lui, cercando di riconquistare la sua fiducia dopo essersi sottratta al suo sguardo. Kong, con la fierezza e l’orgoglio regale di un sovrano ferito, la ignora, ma solo apparentemente, ponendo il suo sguardo sul sole che muore all’orizzonte. Ann, restando oltremodo colpita dalla bellezza di ciò che sta osservando, si sfiora più volte il cuore, mentre seguita a ripetere: “E’ bellissimo!”. King Kong la ascolta laconico, e poco dopo schiude il pugno per far distendere la fanciulla sulla sua mano. Jackson muta il terrore provato dalla giovane Ann in un’accettazione empatica verso la creatura.
Il regista forgia il suo King Kong come un guerriero dannato, dalla vita triste e avvilente. L’aspetto dell’essere suggerisce che l’animale abbia sofferto oltre che di solitudine anche di un persistente dolore fisico. Il suo pelo lascia intravedere decine e decine di cicatrici assieme a evidenti segni di artigli e denti, mentre dalle sue fauci protende una mascella distorta, come se fosse stata piegata durante una drammatica colluttazione. Sebbene quel luogo gli avesse procurato non poca sofferenza, Kong continuava ad amare l’isola in tutto e per tutto, la sola terra in cui poteva vivere in libertà. La bestia, tuttavia, verrà catturata dagli uomini per divenire un fenomeno culturale da poter ammirare e al tempo stesso schernire, imprigionato da catene e sballottato da un teatro all’altro. Una critica all’ardire Hollywoodiano, che tutto spettacolarizza e riesce a vendere al modico prezzo di un biglietto d’ingresso. King Kong viene presentato al grande pubblico nel periodo natalizio a Broadway, per la produzione dell’avido Carl Denham. Una volta liberatosi e fuoriuscito dal teatro, Kong si ritrova vittima di un mondo fin troppo diverso da quello in cui ha sempre vissuto. La modernità del tempo schiaccia l’indole della creatura, disorientata dalle auto e dalle luci della città. La natura tribale di Kong si scontra con la civilizzazione dell’uomo, che ha strappato dalla sua isola un essere così imponente da non potersi adattare a questa nuova realtà. La bestia si muove disperata per ritrovare la bella, afferrando qualunque donna dai biondi capelli le si ponga davanti. L’amore provato da King Kong è tanto profondo dall’essere, nelle sue intenzioni, totalmente monogamo. Esso conserva l’immagine del volto di Ann e non intende portare con sé alcun’altra donna che non sia lei. Tutto d’un tratto il gigante si ferma. Viene a contatto con l’effluvio di un profumo che riconosce. Si volta e riesce a vedere Ann avanzare solitaria verso di lui. Ann indossa un lungo vestito bianco, il “sole” luminoso e cristallino che torna a risplendere negli occhi della bestia. Kong la scruta minuziosamente, riuscendo a riconoscere il suo volto. Quietatosi per il ritrovamento, Kong si avvia con Ann, defilandosi dalle vie più affollate.
E’ la tarda serata di un freddo inverno, e quando la neve comincia a fioccare sulle strade oramai deserte, la bestia allunga il suo braccio verso Ann che si lascia prendere e portare via. Le mani del “gigante” mutano ancora di significato all’interno del film, venendo adesso mostrate come una “carezza” protettiva che la bestia riserva alla sua Ann. La stessa Ann protende la mano per accarezzare dolcemente il muso di Kong, rivelando ciò che era già implicito: anche lei lo ama.
Il gigante si quieta e con Ann si allontana dal centro cittadino per recarsi sul lago di Central Park.
La danza tra la bella e la bestia
Il carattere drammatico e sognante dell’amore proibito di quest’ultimo film assume un valore superiore se paragonato all’intenzione perversa, velatamente espressa dalla creatura, presente nei precedenti adattamenti. Il recente King Kong sembra infatti consapevole dell’impossibilità di poter vivere totalmente (e quindi fisicamente) l’amore che prova per la donna, riuscendo ad esprimere il desiderio di volerla solamente proteggere ad ogni costo, tenendola con sé. Nella suggestione della scena ambientata sul lago ghiacciato, emerge la dolcezza del sentimento della bestia, innamoratasi perdutamente della bella. In quegli intensi frangenti, infatti, King Kong inizia a slittare delicatamente sul ghiaccio, facendo volteggiare in aria la compagna. Ann sorride dolcemente lasciandosi trasportare dai pacati movimenti della bestia che indugiando per qualche istante su e calando vertiginosamente la mano per pochi attimi giù dona alla donna l’impressione di poter “volare”. I due continuano a restare vicini come avveniva sull’isola; ma questa volta, invece che circondati da una fitta vegetazione, sono attorniati da una splendida cornice costituita da tanti alberi di natale, addobbati da palline colorate e illuminazioni intermittenti. L’ambientazione fiabesca trova un’ulteriore esaltazione “favolistica” nel candore della neve che cade sugli alberi che delimitano il lago, mentre la bestia sembra danzare con la bella su di una lastra di ghiaccio. Kong si lascia scivolare lungo le sponde arrivando a scontrarsi con un cumulo di neve accumulatasi ai bordi del lago. Ann resta avvolta dalla neve che le copre il viso, mentre il grande gorilla, anch’esso ricoperto dalla coltre bianca, comincia a ripulire teneramente la giovane dai fiocchi di neve.
Un frastuono irrompe nel silenzio percuotendo il terreno a pochi metri dalla bestia. King Kong comprende di essere di nuovo sotto attacco. Raccolta Ann ancora una volta nella sua mano, il maestoso primate fugge via, arrampicandosi sul monumentale Empire State Building. Seduto su in cima, Kong schiude la mano permettendo così ad Ann di liberarsi. La creatura riprende nuovamente a contemplare la bella, esattamente come faceva nel suo rifugio sulla montagna.
Il sole è prossimo a sorgere, e Kong se ne accorge; quindi comincia a darsi dei colpi sul petto con la mano, proprio in prossimità del cuore. La donna capisce che la bestia sta tentando di comunicare con lei, riprendendo le medesime sensazioni che la bella aveva provato con lui. Ann, sorridendo, ripete: “E' bellissimo!”. L’amore di King Kong, come la sua stessa vita, viene cadenzato dal “ciclo del sole” ed Ann stessa, a mio giudizio, diviene completamente l’aurora della vita dell’animale. Se insieme avevano atteso il tramonto su quell’isola mai riportata su alcuna carta geografica, adesso, osservavano il sorgere di un nuovo giorno, l’ultimo. Non cadrà l’oscurità sull’esistenza della bestia, quanto lo stesso sole luminoso avvolgerà il suo destino, sfavillante come lo era Ann, che accompagnerà King Kong nel suo ultimo atto.
Ultimo atto
La pace delle loro emozioni viene però turbata: i biplani dell’esercito volgono verso King Kong. Le pallottole dei mitragliatori iniziano a bersagliare senza tregua la bestia. Kong urla al cielo la propria ferrea volontà di combattere, percuotendo le nocche sul proprio petto ed ergendosi maestosamente su due zampe. I colpi successivi costringono King Kong a contrarsi per pochi istanti. Con timorosa rassegnazione, egli nota il sangue grondare dalle ferite. Il re dell’isola riesce infine ad abbattere tre aerei ma alle sue spalle ne arrivano di nuovi, che lo trascinano fino allo stremo delle forze. Ann urla disperata di cessare il fuoco ma è ormai troppo tardi. Dopo aver salvato Ann un’ultima volta, Kong la regge tra le dita, ma la fatica del gigante è tanto evidente che non riesce a tenerla saldamente. Così, la distende sulla cima dell’Empire State Building, mentre resta aggrappato al bordo della costruzione. King Kong guarda Ann con intensità, respirando affannosamente. Ella, distrutta dal dolore per la triste fine di quell’essere unico al mondo, protende la sua mano per accarezzare il muso dell’animale. Kong ricambia il gesto, allungando la sua mano per accarezzare la fanciulla, ma mentre sta per mettere in pratica la sua volontà un biplano scarica tutto il suo arsenale di colpi all’indirizzo dell’animale impedendogli così di riuscire nell’intento. D’improvviso quel respiro affannoso non si ode più, e la mano del gigante si muove inesorabilmente verso il basso. Il volto di Kong, fermatosi tristemente sulla base, scivola via, mentre il suo corpo cede la presa, precipitando nel vuoto. King Kong è morto.
Conclusioni
Con il trapasso della creatura, reso straziante come non mai, Jackson va oltre il remake in senso lato, convertendo il suo blockbuster in un poema epico e il proprio “King Kong” in un'ode all’amore più terso. Giungiamo dunque al termine della nostra ascensione, e la cima della fittizia scalinata che raggiungiamo riserva l’emozione toccante della resa di un gigante. Perché, che se ne dica, “King Kong” resta il dramma di un essere vivente in cui si incontrano e si scontrano la brutalità bestiale con il sentimento dell’umanità più pura e sincera. Ann, in lacrime, viene raggiunta e abbracciata da Jack nell’epilogo delle vicende. Alcuni degli uomini presenti diranno che gli aerei infine sono riusciti ad abbattere la bestia, ma verranno frenati dalla tragica realtà: è stata la bella ad uccidere la bestia.
Jackson girò la scena finale con una avvertita sofferenza emozionale. Il personaggio che probabilmente aveva amato di più fin da bambino spirava proprio davanti alla ripresa della sua cinepresa. Il regista neozelandese aveva adempiuto al proprio volere: dare vita alla propria visione di “King Kong”. Questo film, potendo contare su un uso all’avanguardia degli effetti speciali (premiati con l’Oscar), ricreò un meraviglioso paesaggio mai realmente vissuto dall’uomo civilizzato, con una flora “viva” e quanto mai pericolosa, e una fauna giurassica e cretacea opportunamente modificata per indicare la normale evoluzione degli animali nel corso dei secoli. King Kong venne realizzato attraverso un dovizioso studio etologico: molte delle espressioni e degli atteggiamenti, infatti, corrispondono alle vere e comprovate movenze dei gorilla. Un uso eccessivo della ripresa a rallenty e una certa prolissità possono essere considerate le sole pecche del prodotto finale. Jackson riesce sapientemente a coniugare, per il resto, l’impronta avventurosa con l’idealismo passionale. I risultati, infine, premiarono l’imponente lavoro del regista, il film incassò infatti 550 milioni di dollari, triplicando il budget speso per la lavorazione, e portò a casa 3 premi Oscar (per i migliori effetti speciali, il miglior sonoro e il miglior montaggio sonoro) oltre ad averne sfiorato un quarto per la migliore scenografia.
Al momento della morte del re dell'Isola del Teschio, il sole è ormai sorto ed illumina con imparzialità una New York provata. Cala un sipario strappato su quell’affresco dall’inestimabile valore espressivo, e il telone del museo del cinema cui facevo cenno da principio si chiude centralmente su colui che domina l’interezza della rappresentazione: King Kong, l’ottava meraviglia del mondo.
Al cinema, tra il 1977 e il 1980, Harrison Ford era già diventato l’icona dell’eroe forte e coraggioso, ironico e sbruffone, una vera canaglia potremmo definirlo; in precedenza era già stato Han Solo. “Star Wars” e “L’impero colpisce ancora” erano infatti sbarcati al cinema raccogliendo un successo straordinario. Le sorti del contrabbandiere interpretato da Ford al termine de “L’impero colpisce ancora” restavano però in bilico, in una suspense ben congeniata, in attesa del terzo e conclusivo capitolo dell’ormai rinomata “trilogia originale”. Mentre negli occhi di tutti i fan di “Star Wars” restava impressa una sinistra reminiscenza, quella triste immagine in cui Harrison Ford, nei panni per l’appunto di Han Solo, cadeva ibernato nella grafite e portato via dal cacciatore di taglie Boba Fett, lo stesso interprete statunitense veniva contattato da George Lucas per partecipare a un nuovo progetto: “Raiders of the lost ark”.
E proprio l’anno dopo, nel 1981, uscì nei cinema “I predatori dell’arca perduta”, il primo film della tetralogia di Indiana Jones. Lucas voleva da tempo tratteggiare un personaggio che riportasse in auge i canoni avventurosi del cinema anni ’50 e ’60. Serviva un eroe alla Errol Flynn, ma anche un personaggio che riuscisse a convogliare in sé il gusto per l’antico in un adattamento decisamente più moderno. Un protagonista di stampo classico, ma che fosse calato ad arte in una realtà contemporanea, che gli spettatori d’inizio anni ’80 avrebbero potuto apprezzare.
E Indiana Jones, infatti, conquista una grande fetta di pubblico sin dal primo fotogramma in cui appare, divenendo già a conclusione del primo film un autentico simbolo del cinema. Indiana Jones ci viene presentato come un uomo dalla doppia vita, una sorta di supereroe dalla duplice identità: un rinomato professore accademico e, al tempo stesso, un inafferrabile profanatore di tombe antiche. Ma il dottor Jones ama profondamente tutti i reperti che riesce a riportare alla luce, credendo fermamente che meritino d’essere esposti nei musei piuttosto che cadere preda di collezioni private finanziate da ricchi magnati.
Lucas e Spielberg diedero al personaggio persino un proprio “costume identificativo”: Indiana sin dalla sua prima avventura veste sempre con una giacca di pelle, una camicia color marrone chiaro e un pantalone beige. Porta spesso con sé una pistola, ed è inseparabile dalla sua iconica frusta e soprattutto dal suo cappello.
Sin dalle prime sequenze de “I predatori dell’arca perduta”, Indiana Jones appare come un eroe risoluto ma anche un personaggio molto umano, quasi esilarante nelle sue fughe disperate per scampare agli indigeni che cercano di ucciderlo brutalmente. E poi, quando si darà alla fuga a bordo di un aereo, veniamo subito a contatto con la sua più bizzarra caratteristica: la fobia per i serpenti.
Ne “I predatori dell’arca perduta” si torna a respirare il gusto per l’antichità e l’amore per la storia, e il tutto viene amalgamato con la fantasia più sferzante, perché Indiana dà la caccia a un manufatto mistico e dal potere illimitato come l’arca dell’alleanza. E nella sua lotta contro il tempo dovrà vedersela con un gruppo di nazisti. Indiana Jones viene così configurato come l’eroe solitario, all’apparenza un uomo comune, che si erge contro i crudeli, ed è qui probabilmente che si deve riscontrare il legame d’affetto indissolubile che lega l’archeologo al suo pubblico: l’umanità e la semplicità con cui Indiana conduce la sua vita; una vita col piede costantemente premuto sull’acceleratore. Indiana vive d’avventura e lotta per un senso astratto, ma che è più concreto di quanto si possa immaginare, un senso perenne di giustizia. In questa sua prima fatica duetta con l’avventurosa Marion Ravenwood (Karen Allen), con l’amico Sallah (interpretato da John Rhys-Davies, il futuro Gimli nella trilogia de “Il signore degli anelli) e interagisce inizialmente col mitico professor Marcus Brody (Denholm Elliott).
“I predatori dell’arca perduta” ha i meriti di unire in sé avventura, azione e mistero con la dovuta ironia e il giusto umorismo. Anche il suo protagonista non fa che oscillare in tratti caratteristici divergenti: Indiana è un signorile accademico ma anche uno sciupafemmine incallito, che prima seduce e poi abbandona le sue donne. Vanta un coraggio da vendere eppure trema dinanzi alla vista di un serpente. Da queste sue contrapposizioni nasce un successo che andrà sempre più a consolidarsi nel corso della saga, merito soprattutto di un Harrison Ford nato per interpretare tale ruolo, magistralmente ritratto e modellatogli addosso, come fosse un abito sartoriale cucito su misura.
Nulla viene meno ne “I predatori dell’arca perduta” dalla musica, col celebre brano composto da John Williams, agli effetti speciali ancora oggi imponenti per l’epoca (vincitori dell’Academy award), fino al ritmo, cadenzato alla perfezione, in grado di offrire picchi vertiginosi d’azione mozzafiato e scene sicuramente più quiete, sorrette sempre e comunque da una sceneggiatura ben scritta.
“I predatori dell’arca perduta” rappresenta un cult scolpito nell’immaginario collettivo, capace di fregiarsi di ben cinque Premi Oscar, e di compiacersi con altre quattro nomination, tra cui quella per il miglior film dell’anno. Il caposcuola di un genere, lo spartiacque tra ciò che fu in passato e ciò che sarà d’ora in poi il cinema d’avventura, perché ogni cosa, in un modo o nell’altro, scaturirà da Indiana Jones e da quell’inconfondibile stile che sarà emulato e fatto proprio dai diversi personaggi tra grande e piccolo schermo nel corso dei decenni successivi.
Col suo “I predatori dell’arca perduta” Spielberg assieme a Lucas ci permette di interagire con un particolare tipo di sogno, il sogno di poter vivere la vita come fosse una grande avventura (frase che Spielberg inserirà nel suo “Hook – Capitan uncino”).
Henry Jones Junior non ha certamente bisogno di presentazioni. Beh, forse se lo chiamo col suo nome di battesimo non attiro nei lettori la giusta attenzione e non suscito in loro la dovuta ovazione, cosa che invece dovrebbe manifestarsi. Mi correggo, allora: Indiana Jones non ha di certo bisogno di presentazioni. Così dovrebbe andar meglio! D’altronde, parliamo dell’archeologo più famoso di sempre, un avventuriero che col suo agire spericolato non ha fatto che ispirare tanti altri personaggi che hanno, in qualche modo, voluto avvicinarsi a quel tipico savoir-fare ritratto da Harrison Ford. L’astuto Rick O’Connell, nella trilogia de “La mummia”, vi dice niente? E Lara Croft? L’avvenente e inarrestabile archeologa protagonista della celebre saga videoludica - ma anche cinematografica - Tomb Raider è anche lei ispirata a Indiana Jones. Flynn Carsen, meglio conosciuto come “Il bibliotecario” nei film “The Librarian”, è pure lui una sorta di “discendente” di Henry Jones Junior. Carsen ha generato a sua volta una serie televisiva fantasy-avventurosa recentemente trasmessa su Paramount Channel chiamata “The Librarians”. E come non citare la professoressa Sidney Fox, che passava più tempo a recuperare reperti mistici e manufatti antichissimi con il fido aiutante Nigel in “Relic Hunter” piuttosto che insegnare, seduta comodamente in un’aula universitaria? Tutti figli di uno stesso padre, insomma. Indiana Jones è stato a tutti gli effetti un caposcuola di un genere che è andato sempre più a consolidarsi sul grande e piccolo schermo nel corso degli anni. Indy è una sorta di padre per tutti gli eroi dalla vita spericolata, un po’ come quella che negli anni ’60 viveva al cinema Steve McQueen… (non iniziate a canticchiare…) Ma Indy oltre che padre è stato figlio, a sua volta, venendo creato da George Lucas, plasmato da Steven Spielberg, ma ancor prima ispirato dall’azione spettacolare di uno 007, reso immortale sul grande schermo dal suo primo, storico interprete: Sean Connery. Non è infatti un caso che proprio il grande attore scozzese abbia preso parte come comprimario a “Indiana Jones e l’ultima crociata” nelle vesti di Henry Jones senior, ovvero il padre del famoso archeologo. Sean Connery col suo 007 è stato a tutti gli effetti il padre di Indy. Ma un’altra persona, forse, meriterebbe d’esser menzionata nella concezione originaria dell’avventuriero armato di frusta, che porta sempre un cappello: Charlton Heston. Provate a ricordare l’outfit di Heston ne “Il segreto degli Incas”, non trovate delle somiglianze più che evidenti? Ne “Il Segreto degli Incas” troviamo, forse, le origini primordiali di Indiana Jones, quelle che avrebbero catturato le attenzioni di Lucas per la stesura dei tratti fisici di Indiana Jones.
Charlton Heston ne "Il segreto degli Incas"
Indiana Jones è una saga composta da una tetralogia. Il debutto assoluto del personaggio avvenne ne “I predatori dell’arca perduta”. Sin dal suo primo, storico film, conosciamo Indiana come un uomo dalla doppia vita, come fosse una sorta di “supereroe” dalla duplice identità: un rinomato professore accademico e, al contempo, un inafferrabile profanatore di tombe antiche. Ma il dottor Jones ama profondamente tutti i reperti che riesce a trafugare, credendo fermamente che meritino d’essere esposti nei musei invece che cadere preda di collezioni private finanziate di ricchi magnati.
“Indiana Jones e il tempio maledetto”, pur essendo all’apparenza un sequel, è in verità un prequel, poiché ambientato prima degli eventi del primo capitolo. I primi tre episodi della saga sono ancora oggi i più amati, ma forse “Il tempio maledetto” necessita di una riscoperta, in quanto tra i tre è quello che ha suscitato più di qualche obiezione. In questo secondo (anche se cronologicamente primo) capitolo della saga, Indiana divide la scena con il piccolo Short Round (interpretato dall’allora bambino Jonathan ke Quan) che Indy chiama affettuosamente “Shorty” e WilhelminaScott, detta “Willie” (Kate Capshaw). Il Dottor Jones diviene il paladino di una tribù povera e isolata dell’India che lamenta la scomparsa di una pietra sacra, rubata dai Thug, una pericolosa setta indigena che compie riti mistici nei sotterranei del palazzo di Pankot. Gli autoctoni informano l’archeologo che molti dei loro bambini sono stati strappati all’affetto delle loro famiglie e condotti in segreto al palazzo. Quando Indiana riuscirà a trovare il passaggio segreto che lo condurrà nei sotterranei, dovrà affrontare numerosi pericoli, dai Thug stessi ai diabolici effetti di un “sortilegio” che arriverà persino a annebbiare la mente del nostro eroe…
Indiana Jones - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
La trama di base del lungometraggio sembrerebbe essere solida e avvincente. Eppure, il film diretto da Steven Spielberg non è esente da difetti. Nella parte centrale della pellicola, quando Indiana varca l’entrata segreta dei sotterranei, il film sembra arenarsi in un pantano fangoso, venendone via con tremenda fatica. Questa fanghiglia appiccicosa vuol quasi “imprigionare” i toni adrenalinici della prima parte del film, per risucchiare a sé e, per l’appunto, impantanarlo nella noia. Il pezzo in cui Indiana viene a contatto con i Thug fino a farsi contaminare dal sangue della dea Kali e cadere preda di un oscuro maleficio che gli avvelena la mente, appare prolisso, scandito da un ritmo fin troppo rallentato. I toni del film più sbarazzini, comici e immediati nella parte iniziale, diventano a un certo punto cupi e brutali. I bambini fatti schiavi che lavorano in quelle miniere a ritmi forsennati, piegati dagli stenti, sono immagini crude, forti, che secondo alcuni poco avevano a che vedere con l’ironia spavalda del personaggio. Ma George Lucas sentiva che un clima pesante si sarebbe dovuto respirare in questa nuova pellicola dedicata al personaggio. George Lucas aveva appena divorziato da Marcia Griffin, e si portava ancora dietro gli strascichi di quella separazione. Il dolore provato da quell’aspro distacco lo portò a desiderare un taglio più rude e crudele per questa sua nuova fatica cinematografica.
Altre critiche vennero mosse dai fan per la caratterizzazione della spalla femminile di Indiana Jones. Willie, per molti, non era altro che lo stereotipo della donna incapace di badare a se stessa, che passa gran parte del tempo a lanciare insopportabili urla e schiamazzi, e a preoccuparsi soltanto del proprio aspetto esteriore. Sebbene queste pecche possano essere condivisibili, “Il tempio maledetto” è a tutti gli effetti un cult riuscitissimo. Ma si tratta però di un cult da riscoprire ancora una volta, perché riesce in verità a far divertire anche con i suoi punti deboli. Ad esempio, se Willie appare alquanto stereotipata in alcune sue sfumature caratteriali, ha comunque l’abilità di tenere testa, a suo modo, a Indiana Jones.
A tal proposito Willie è protagonista di un gioco attrattivo indimenticabile con il protagonista, una sorta di caccia tra predatore e preda in cui difficilmente si riesce a stabilire chi sia il “cacciatore” e chi il “cacciato”. La scena notturna, ambientata nelle camere del Palazzo, è girata con un’apprezzabile ironia, e assistiamo agli insoliti approcci amorosi di Indiana e Willie, palesemente attratti l’uno dall’altra, intenti a sfidarsi apertamente su chi cederà per primo e busserà alle rispettive porte. In una gara d’orgoglio entrambi attendono che l’altro faccia la prima mossa, senza però ottenere gli sviluppi sperati. Magari Willie non avrà la fermezza autoritaria della Marion vista nel primo capitolo, ma ha dalla sua una dolcezza che merita d’esser scoperta sotto quell’involucro fastidioso costituito da tutti i suoi commenti apparentemente superficiali. Willie, inizialmente, è una cantante, abituata a un certo stile di vita, dedito più alla forma che al contenuto, eppure si lascia trasportare dal fare avventuroso del protagonista, prestandosi dapprima con riluttanza a quest’incredibile avventura, successivamente con decisione. Ella è caratterizzata da una tragicità-comica che viene ben palesata nelle continue situazioni in cui si trova vittima sfortunata degli eventi. Willie è altresì molto bella e formosa, la Jones-Girl (passatemi la licenza poetica…) più avvenente nonché la più umana e probabilmente la più spontanea. Wilhelmina è dunque il primo personaggio del film a meritare una riscoperta.
Il piccolo Short Round, doppiato in Italia da una giovanissima e sempre eccellente Giuppy Izzo, è una spalla insolita per il grande archeologo. Ma nelle scene in cui i bambini soffrono sotto il giogo dei Thug, Shorty, coetaneo dei prigionieri, rappresenta un piccolo eroe che, quasi al pari di Indiana Jones, può riuscire a liberarli e salvarli da quella prigionia. Una sorta d’interazione significativa per quei poveri bambini fatti schiavi, che possono vedere in lui e nell’archeologo una duplice speranza. Spielberg ancora una volta trae il massimo dalla presenza giovanile all’interno de suoi film, caratterizzando questa scelta come un punto di forza dell’intera pellicola. Da un’attenta analisi comprendiamo come la presenza del piccolo Shorty non fa che accostare ancor di più lamaturità del protagonistaalla fanciullezza di quei bimbi maltrattati da adulti malvagi e senza scrupoli.
“Indiana Jones e il tempio maledetto” vanta un inizio al cardiopalma, e un finale dal ritmo altrettanto movimentato, in cui i protagonisti, dalla loro fuga attraverso le rotaie sottostanti le segrete al loro miracoloso salvataggio su ciò che rimane di un ponte, riescono a divertire e a tenere incollati sulla poltrona gli spettatori. Se la parte centrale continua a risentire di un ritmo scandito, cadenzato, direi fin troppo lento, il resto del film non fa che regalare scene di vivissima impressione. Jones lotta come un leone, senza mai risparmiarsi, privato persino, verso la fine delle vicende, della sua emblematica giacca di pelle. Corre, salta, si arrampica, combatte con la spada, dimostrando, per la seconda volta nella propria storia, d’essere a tutti gli effetti un grande eroe, un eroe capace per giunta di rubare la scena a qualsiasi antagonista provi anche solo a sfidarlo.
In “Indiana Jones e il tempio maledetto” si avverte quell’amore per il passato e per la storia antica, tipico dei primi tre capitoli, caratteristica che ne fa un cult da poter riscoprire, perché quei difetti se scrutati con occhio attento potrebbero trasformarsi in rivisitazioni ben più benevole. Come recitava Willie, quando sibillava con fare provocatorio, “potevo essere la più grande avventura della tua vita…” così, mi sento personalmente di affermare che, anche se “Il tempio maledetto” non viene tutt’oggi ritenuta la più grande delle avventure di Indiana Jones, non può che farsi considerare comunque indimenticabile. Ma non è questo, dopotutto, ciò che fa di un film un cult?
La Bella e La Bestia disegnati da Erminia A. Giordano per CineHunters
“Beauty and the beast” viene spesso definito banalmente come “lungometraggio d’animazione”. Quanto può farmi infuriare un tale appellativo! Non che non lo usi io stesso nel menzionare quest’opera, in quanto, è inutile negarlo, rende chiaro e immediato ciò a cui si fa riferimento. Eppure seguito a non gradire tale denominazione. Per essere totalmente sinceri, non apprezzo nemmeno l’efficace, seppur ancor più semplice, definizione di “film”. Né “film” in senso stretto né “lungometraggio d’animazione”, né tantomeno “pellicola” sembra calzare a pennello, nella mia concezione, per descrivere ciò che propriamente è “La bella e la bestia”. Le precedenti sono descrizioni fin troppo limitanti, quantunque cerchino di assurgere al loro volere esplicativo. “La bella e la bestia” è un’opera d’arte indescrivibile, e come tale non può essere né collocata sotto una data categoria descrittiva né omologata come un ornamento decorativo. “La bella e la bestia” è, per il sottoscritto, magia inviolata, puro lirismo cristallizzato. Una lavorazione impregnata d’irripetibile magnificenza, tersa e intellegibile, in una mistificazione dell’arte animata e in una esaltazione della poetica umana. “La bella e la bestia” convoglia in sé poesia d’amore decantata dai propri dialoghi, arte pittorica palesata nei suoi fondali, arte teatrale trasfusa nei suoi personaggi, composizione musicale esaltata nelle proprie melodie. “La bella e la bestia” è l’incanto dell’arte intrisa nei petali di una rosa. Ogni petalo che da essa cade giù sembra recare in sé la sola, l’unica forma d’arte autonoma e incomparabile, la più candida: quella generata dal cuore e modellata dalla mente. E mantiene tale potenza dal primo fino all’ultimo istante, senza lasciare nel vuoto incolmabile un solo frammento del proprio essere. Sin dall’inizio, sin dal suo prologo…
Analisi del prologo
Dal dissolversi di uno sfondo nebuloso emergono i primi dettagli di un bosco verdeggiante. Si staglia centralmente un’altura rocciosa da cui viene giù una piccola cascata. Ecco che la camera sembra risalire il corso del ruscello, fino a raggiungere il cuore della foresta, dove il sole irradia, coi suoi raggi, un bianco e imponente castello regale. La melodia di Alan Menken risuona dolcemente sin dall’inizio. E’ un’aria di magia, un suono d’incantevole pregevolezza. Con poche, fievoli note veniamo trasposti in un modo fiabesco, all’apparenza ovattato. Giungiamo al palazzo ma non varchiamo i suoi confini. Notiamo invece i ritratti impressi sulle vetrate del castello in cui viene raccontata la storia di un principe…
La splendida voce narrante di Nando Gazzolo, nella versione italiana, ci regala una prima analisi del testo. Comprendiamo così ciò che andremo a conoscere successivamente: un principe che vive tra gli agi delle proprie ricchezze, nella bellezza adamantina della sua dimora. Era un nobile viziato, probabilmente attaccato morbosamente ai propri beni materiali, tanto da non voler che nessuno osasse varcare la soglia del suo castello, onde evitare che potessero godere con lui di tali ricchezze. E infatti neppure noi spettatori riusciamo ad entrare nel castello. Benché il racconto rimandi a un periodo consumatosi anni or sono è come se nel dipanarsi della narrazione noi ci trovassimo in qualche modo a vivere il passato come nel presente. Una notte d’inverno, il principe riceve la visita di una vecchia mendicante che gli offre una rosa in cambio di un riparo dal freddo pungente. Il disegno sulle vetrate mostra appunto una figura di vecchina minuta, ingobbita dalla fatica e da una vita di stenti. Il suo volto è infossato, l’immagine della sofferenza, tanto da ricordarmi i lineamenti scavati del viso dei “Mangiatori di patate” di Vincent Van Gogh. La donna suscita una certa repulsione agli occhi del principe e quindi la respinge.
Vetrata dipinta da Erminia A. Giordano per CineHunters
Quella vecchia mendicante, così deforme e sgradevole agli occhi, in realtà è una fata bellissima. Ella sapeva che il principe non avrebbe guardato all’animo ma all’aspetto esteriore, e così fu. Ebbe dunque la conferma di ciò che sul suo conto già conosceva: nel cuore del principe non vi era spazio per l’amore. Decise così di castigarlo con un terribile maleficio, trasformandolo in una bestia. Notiamo che tale maledizione non si limita soltanto al principe, ma investe l’intero castello e tutti coloro che lo abitavano. Perché? Il maniero doveva riflettere la personalità oscura e ottenebrata del principe. Come era truce il suo animo così orribile doveva diventare la sua dimora, tanto da esternare la malignità che albergava nel suo cuore. La servitù, estranea all’agire del principe, venne comunque maledetta, in quanto loro stessi non riuscirono mai a sciogliere quel cuore di pietra, ma soprattutto perché il principe, egoista nel suo modo d’agire, avrebbe dovuto provare un senso di colpa per il destino che gravava sulla fedele servitù, la sola sua famiglia.
Il prologo de “La bella e la bestia” è un’opera d’arte sequenziale. Basterebbe solo tale introduzione a suggellare il lungometraggio come assoluto capolavoro. Perché vennero scelte delle vetrate che rimandano a quelle delle antiche cattedrali per rinarrare il passato? Perché il disegno doveva essere diversificato rispetto alle restanti immagini dell’intero film. In quelle vetrate noi vediamo ciò che è stato, ciò che ci viene raccontato in maniera imparziale, in un modo quasi giuridico. E’ la fantasia a venir stimolata, non la realtà. Questo perché le intenzioni dei registi Gary Trousdale e Kirk Wise erano quelle che noi tutti avremmo dovuto imparare a conoscere la Bestia esattamente nel momento in cui Belle la incontra. Comprendiamo infatti il passato del principe ma in modo non evidente, perché dobbiamo conoscerlo insieme a Belle. Non è un caso infatti che la camera ci permetta d’entrare nel castello soltanto quando il maleficio si è ormai compiuto: anche noi spettatori dobbiamo interagire per la prima volta con la Bestia, non con il principe.
In un ritratto, il principe si inginocchia dinanzi alla fata, volgendo verso di lei le sue mani, in lacrime, disperato, poiché terrorizzato da ciò che sta per subire. La fata ha un volto triste quando proferisce la maledizione, come se in quanto essere punitivo e neutrale sia stata costretta dal suo ardire a condannarlo. La fata, mai mostrata realmente né tantomeno personificata, lascia una lieve speranza di salvezza al principe: se avesse imparato ad amare e fosse riuscito a farsi amare a sua volta l’incantesimo si sarebbe spezzato. In caso contrario, al compimento dei suoi 21 anni sarebbe rimasto una bestia per sempre. La rosa che gli aveva donato e che egli aveva immediatamente rifiutato perché un qualcosa di naturale e non particolare, assume di colpo un valore trascendentale. Ci tengo a far notare infine la minuziosità con cui venne rappresentata per la prima volta la rosa: non sbocciata rispetto al resto del film, quando apparirà più morente e prossima ad appassire, segno che il lavoro che c’è stato nella realizzazione del minimo dettaglio de “La bella e la bestia” fu assolutamente impeccabile.
Trama
Alcuni anni dopo, in un villaggio situato alle porte della foresta in cui si cela il castello stregato, vive Belle, la ragazza più carina di tutto il villaggio, caduta preda delle attenzioni per nulla garbate del cacciatore Gaston. Belle è figlia di Maurice, un uomo pingue e pacioccone, stralunato all’apparenza ma di buon cuore. Un giorno, Maurice parte per presentare alla fiera una macchina di sua invenzione capace di tagliare la legna, ma finirà per perdersi nel bosco. Gira che ti rigira raggiunge ignaro il castello maledetto, dove verrà catturato dalla Bestia. Belle, preoccupata per il padre, parte alla ricerca e lo ritrova poco prima d’imbattersi nella mostruosa creatura. Belle decide di sacrificare se stessa pur di lasciare andare l’anziano genitore: stringe difatti un accordo col signore del castello che, palesandosi sotto la luce, si lascia guardare dalla ragazza nella propria mostruosità. L’iniziale rapporto tra Belle e la bestia non è certo idilliaco; lei lo vede come un mostruoso carceriere e la Bestia non fa nulla per domare la sua indole iraconda. L’evento che spezza l’astio tra Belle e la Bestia, paradossalmente, è da riscontrarsi in un momento di puro terrore. Quando Belle intravede la rosa incantata e muove la sua mano per toccarla, la Bestia le appare in tutta la sua espressione furiosa, e la scaccia via dal castello, salvo poi venire a pentimento. Così, la creatura esce dal castello e raggiunge la giovane salvandola dall’assalto dei lupi. La bestia, ferita gravemente a seguito della furibonda lotta, si accascia sulla neve e nonostante Belle avesse la possibilità di andar via, decide di tornare indietro al castello per permettere alla bestia di ricevere i dovuti soccorsi.
Principe dipinto da Erminia A. Giordano per CineHunters
Da questo momento tra Belle e la Bestia si sviluppa un tenue rapporto di complicità che nei giorni successivi si rafforza sempre più. La bestia dal suo rapportarsi con Belle comincia a riscoprire i sapori della quotidianità, le bellezze della natura e la serenità che una dolce compagnia può trasmettere. La bestia riprende a camminare in posizione eretta, a pranzare con l’ausilio delle posate, dettagli apparentemente futili, ma che certificano il suo lento progredire nel riscoprire un’umanità che credeva essere stata annientata dal suo aspetto. Belle, dal canto suo, scopre la timidezza, l’imbarazzo e la generosità celata nell’animo della creatura non più brutale come appariva un tempo.
La Bestia porta Belle ad ammirar lo splendore di un’enorme sala adibita a biblioteca, in sui sono custoditi migliaia di libri. La bestia dona a Belle quell’intero salone, mentre si sta già innamorando perdutamente di lei, tant’è che organizza una serata romantica. Ma sarà proprio Belle ad avvicinare la Bestia e a condurla nella sala grande, a stringersi a lui in un abbraccio condiviso, seguito a breve da qualche passo di danza. La bestia riesce a stento a deglutire per l’emozione; una linea di demarcazione ben evidente tra i due: da una parte Belle dimostra ancora una volta di essere una donna dolce e sognante ma anche forte e decisa, dall’altro la Bestia certifica che il suo animo è totalmente cambiato, divenuto timido e gentile, garbato ed elegante. Adesso la Bestia lascia andare via Belle in modo che possa far ritorno a casa, dove il padre l’attende, rinunciando così, per sua stessa volontà, alla possibilità di poter porre fino al maleficio. Una volta che Belle abbandona il castello, la Bestia si lascia andare a un lamento inconsolabile. Belle riabbraccia il padre e lo conduce al villaggio proprio quando il perfido Gaston ha già attuato un piano per ottenere la mano di Belle: ha, infatti, stretto un accordo con il responsabile del manicomio per far internare Maurice, colpevole d’asserire dell’esistenza di una bestia mostruosa che vive in un castello. Belle dovrà acconsentire a sposare Gaston se vorrà salvare il padre. Ma per dimostrare che Maurice dice il vero, Belle mostra la bestia attraverso lo specchio magico che la stessa creatura le aveva permesso di portare via. Gli abitanti del villaggio, terrorizzati alla vista della bestia e spronati da Gaston, decidono di raggiungere il misterioso castello per uccidere l’animale.
Gaston trova la bestia in uno stato di totale rassegnazione, come se la creatura, privata della presenza di Belle, avesse perso la voglia di vivere. Gaston non esita a trafiggerlo con una freccia scoccata da breve distanza, ma quando la Bestia scorgerà in lontananza Belle, accorsa al castello per salvarlo, riprenderà a lottare, riuscendo ad avere la meglio su Gaston. L’umanità riscoperta dalla Bestia però gli impedisce di uccidere il rivale, così lo depone al suolo, ordinandogli di lasciare il castello. La bestia oltrepassa così le mura del castello per raggiungere Belle, ma Gaston lo pugnala alle spalle, poco prima di precipitare giù nel vuoto, trovando la morte. La bestia spira tra le braccia di Belle, rimirandola per l’ultima volta. La donna, commossa, declama il suo amore sul corpo esanime della Bestia poco prima che anche l’ultimo petalo abbandoni lo stelo…
Analisi della caratterizzazione dei personaggi
Prima di trattare l’epilogo dell’opera, facciamo una digressione per analizzare i molteplici fattori estetici e tematici presenti nel film, partendo appunto dai personaggi. Una cura meticolosa è stata usata nella stesura delle parti dei protagonisti. Ognuno di loro ha infatti una caratterizzazione propria, basata su una sceneggiatura più che consolidata. Belle è una splendida e giovane donna, dall’aria perennemente sognante e amante della lettura. Ella tiene i suoi bei capelli castani legati con un fiocco azzurro ed è ritratta con un viso tondeggiante in cui sono incastonati due occhi profondi come la sua stessa immaginazione. Il padre di Belle, Maurice, è di acume sottile ed è più che evidente che Belle abbia preso da lui gran parte del suo spirito d’inventiva. Non ci è dato sapere nulla circa la madre della giovane, ma è facilmente intuibile che sia scomparsa già da parecchi anni e che Belle sia stata allevata con amore incondizionato dal bizzarro padre. Maurice è un inventore, un mestiere piuttosto peculiare nel villaggio in cui i due sono giunti e dove si sono stabiliti. Un luogo in cui “l’invenzione” e la “novità” non sono certo fattori contemplati. I villeggianti, infatti, sono persone molto ingenue, abitudinarie, bigotte e poco istruite ma non per questo cattive. Belle, donna alquanto informata e d’intelletto, sa che i suoi compaesani sono dei sempliciotti, ma non per questo evita di dialogare con loro, cercando anche di farli appassionare ai racconti che tanto la coinvolgono, ma sempre con pessimi risultati. Belle si reca quotidianamente nella biblioteca di città per prendere in prestito libri da leggere. Questi tomi diventano per Belle gli unici strumenti con cui estraniarsi dall’apatia del villaggio in cui vive, per viaggiare lontano, verso luoghi remoti e vivere, con la sua verve sognante, mirabolanti avventure. Se per il principe lo specchio è la sola finestra sul mondo esterno, per Belle i suoi libri diventano l’unico portale su cui porre il suo sguardo bisognoso di “magia”. Il villaggio in cui vive la ragazza sembra non garantire alcun futuro per una giovane donna come lei, se non quello di prender marito. Belle si ritrova così più volte costretta a respingere, elegantemente, le avance del superficiale Gaston, che pur di averla come sposa è disposto a tutto. Gaston è uomo nerboruto e gretto, villico e rozzo, violento e maschilista, sadico e narcisista. Non a caso è rappresentato come un cacciatore nel lungometraggio d’animazione, poiché vede Belle non come una donna d’amare ma una predada conquistare e sfoggiare in casa propria. E’ questa la prima vera linea di demarcazione che il film vuol tracciare tra la figura della Bestia e quella dell’antagonista Gaston: quest’ultimo, pur venendo rappresentato come un uomo violento e crudele è altresì un meschino vigliaccio, a differenza della Bestia che si batterà con ardore pur di salvare Belle. Le Tont, il fido amico di Gaston, è un uomo succube del cacciatore, probabilmente anche invidioso di lui ed è proprio qui che va ricercata la sua sudditanza: poiché non può essere come lui, Le Tont sceglie di diventarne il fedele servitore. Le Tont è stupido e di bassa statura e con la sua inettitudine stempera, come può, l’alone di malvagità che aleggia attorno alla figura di Gaston.
Dipinto del Principe di Erminia A. Giordano per CineHunters
Il principe ha una personalità intrigante e dualistica, oscillante tra una cattiveria passata e una bontà ritrovata nell’esperienza catartica della trasformazione e della conoscenza di Belle. Sin dalle prime sequenze in cui la Bestia si presenta finalmente dinanzi agli spettatori, “egli” cammina su quattro zampe, come fosse a tutti gli effetti un’animale indomito e selvaggio. Eppure, emergono, sin da subito, particolarità umane, dapprima nell’aspetto, in seguito anche nel modo di porsi. La bestia lascia intravedere nel suo viso, così aggressivo, dalle cui fauci fuoriescono denti aguzzi, due occhi azzurri come il cielo. Essi sono l’unica reminiscenza del suo aspetto umano. Nell’atteggiamento, invece, la Bestia permette agli spettatori di comprendere un’ira spiccatamente umana nella scena in cui Belle, tenendogli testa, rifiuta di raggiungerlo a cena. La bestia, furiosa, dibatte i suoi pugni sulla porta e il suo pelo si irrigidisce. Le sue espressioni variano da una rabbia mal celata per non essere stato accontentato nella sua richiesta fino a una furia esternata nel non essere stato ricevuto dalla ragazza, in un gioco ironico ma al contempo serioso circa il suo essere rifiutato. Sentimenti umani espressi per l’appunto da gestualità indicanti insoddisfazione; indimenticabile per l’appunto il modo in cui la Bestia allunga la mano rigida sibilando: “quella fa così la DIFFICILE!” I lineamenti del principe Adam sembrano ispirati alla conformazione del volto della Bestia, come se non fosse la creatura ad essere stata adattata all’uomo, ma invece l’uomo alla Bestia nelle realizzazioni estetiche.
Dalle ambientazioni dark, agli oggetti animati e alle umanità nascoste
La bestia ha vissuto per anni nell’isolamento, e l’arrivo di Belle viene interpretato come se la donna fosse giunta lì perché il fato gli permettesse di scoprire l’amore e porre fine all’incantesimo. La figura di Belle viene così trasfigurata agli occhi della Bestia in quella di una dama giunta al castello per salvarlo. Eppure, egli cerca di non lasciarsi illudere da quella che potrebbe rivelarsi soltanto un’illusione e anche il suo carattere irascibile non gli permette di rapportarsi alla giovane con le dovute maniere. Ci penseranno i suoi servi a trattarla con rispetto ed eleganza, tra tutti Lumière e Tockins, rispettivamente un candelabro e un orologio: due oggetti animati, un tempo uomini, che assurgono ai canoni di una vera e propria coppia comica. La comicità distillata sapientemente nel film del 1991 è di una raffinatezza sublime. Si ride e si riflette costantemente, ma la risata che ne deriva dai siparietti comici di Lumière e Tockins non è mai banale o puerile, ma sempre elegante e ben studiata e nasce dalle loro aperte contrapposizioni. Lumière è svagato, ironico, trascinante, Tockins, invece, è preciso come “un orologio”, timoroso, e non prende mai l’iniziativa, perché troppo fedele al volere del padrone. Se Tockins è la quiete, Lumière è l’estro, se il primo è il realismo, Lumière è la fantasia. Ma nel castello è tutto vivo e senziente, dalle posate argentee ai servizi di porcellana, dalle tazzine parlanti, come il piccolo Chicco, alla grande teiera chiamata Miss Bric. Personaggi secondari, oserei dire di supporto, ma dalla personalità talmente debordante da divenire comprimari di Belle e della Bestia.
In una lunga camminata introduttiva tra gli ampi corridoi del castello la Bestia guida Belle fino a quella che dovrà essere, d’ora in poi, la sua stanza. Proprio in tali frangenti la ragazza scruta con occhio vigile il castello, intravedendo inquietanti sculture demoniache che dominano la sommità del palazzo. “La bella e la bestia” contiene nelle sue tetre tavole artistiche e nelle sue atmosfere cupe e stregate lievi accenni all’horror, in cui il terrore è rappresentato nella concretezza artistica delle statue in pietra poste in cima al castello o nei quadri spettrali che “ornano” le pareti, oltre che, naturalmente, dal fare sinistro della Bestia. L’ambientazione barocca diviene di un gotico spiccatamente dark e trasmette un senso di perenne inquietudine.
La scenografia ben definita e la ricostruzione degli ambienti ne “La bella e la bestia” non solo è straordinaria ma unica: il castello e i suoi abitanti mutati in oggetti animati donano linfa vitale agli sfondi del film che diventano protagonisti della scena come fossero attori in carne ed ossa, travalicando i confini scenici e formando un trittico perfettamente amalgamato in una medesima fonte di suoni, movimenti e immagini. Gli sfondi tinteggiati non diventano più soltanto i luoghi in cui i protagonisti muovono i loro passi, bensì sono parte integrante dell’azione e dell’agire dei personaggi. Ne “La bella e la bestia” tutto sembra vivo e ogni cosa è caricata di un alone di mistica vivezza. Gli oggetti animati permettono a Belle d’instaurare un primo, vero legame con il maniero della Bestia, quel luogo che lentamente si scoprirà essere non più una prigione per la fanciulla ma una casa. Quel canto di Lumière che seguita a intonare i versi di “Stia con noi…” non fa che reclamare la permanenza della donna lì al castello, perché Belle è la loro unica speranza, la luce che torna a rischiarare le tenebre del castello non più rilucente come veniva descritto in passato. La sala grande in cui Belle e la Bestia si perdono nei rispettivi sguardi, tra i passi di un suggestivo Valzer, fu la prima sequenza creata con l’ausilio di sfondi 3D per un film d’animazione.
La Bella e La Bestia disegnati da Erminia A. Giordano per CineHunters
Le canzoni composte per “La belle e la bestia” sono alcuni dei brani più belli e intensi della storia del cinema, capaci d’arricchire un apparto melodico della colonna sonora già, di per sé meravigliosa. Le canzoni inserite nei punti chiave del film non riflettono soltanto lo stato d’animo dei personaggi ma ricalcano soprattutto la personalità dei protagonisti. Ascoltiamo quindi i sogni di Belle circa un futuro avventuroso che sembra non snocciolarsi mai dinanzi a sé, udiamo gli elogi sprezzanti intonati dai paesani a Gaston, fino a volgere l’attenzione delle nostre orecchie ai canti in cui Belle e la Bestia iniziano ad innamorarsi l’uno dell’altra. Ai suoni e alle parole intonate si abbina una magnificenza nel disegno, impossibile da non apprezzare, specialmente per l’espressività che i due registi sono riusciti a dare ai personaggi. I volti, gli occhi, le labbra sembrano sempre voler comunicare qualcosa di più delle singole parole, scena dopo scena, toccando vene iperrealistiche e melodrammatiche, specialmente nella scena finale, in cui Belle, disperata, sussurra sommessamente quel “io ti amo…”.
Trasformazione finale: la pietà della fata.
…quando Belle ammette d’amare la Bestia, il maleficio della fata viene meno. Eppure, in pochi si soffermano a riflettere sul fatto che la Bestia sia morta. Il maleficio prevedeva che l’amore provato e ricambiato a sua volta avrebbe annullato il sortilegio, ma non vi è alcuna spiegazione su ciò che poteva avvenire nel caso in cui la Bestia fosse morta. Una minuzia che mi ha sempre lasciato esterrefatto sin da bambino: perché la bestia torna in vita? Ecco che la pietà della fata, mistificata nella sua idealizzazione, silenziosa e invisibile nella propria trasfigurazione, sembra perdonare il principe e fargli un dono dal valore inestimabile: restituirgli la vita. Nessuno sembra soffermarsi su questo meraviglioso particolare; la fata, in quanto spirito punitivo, diviene infine uno spirito benevolo. La bestia comincia a trasformarsi: i suoi arti lentamente riprendono l’aspetto umano, le sue zampe progressivamente riacquistano le sembianze di piedi, in un lavoro artistico minuzioso, quasi maniacale. Persino il volto della bestia perde sempre più quella folta peluria e le sue fauci diminuiscono fino a tramutarsi in semplici labbra. Una delle scene più intense della storia del cinema. Il mantello che avvolgeva il corpo della Bestia viene deposto delicatamente al suolo, come se la fata vivesse in una forma astratta, impossibile anche solo da vedere, e lo reggesse a sé, accompagnandolo fino a toccar terra, come a farlo rinascere. In tale scena avviene la “morte” della Bestia e la “rinascita” dell’uomo. Una trasformazione avvenuta ben prima, nelle settimane precedenti in cui la Bestia aveva conosciuto Belle e imparato ad amarla e che adesso trova la propria sublimazione. Belle riconosce il principe da quell’unica particolarità umana che gli era rimasta nell’aspetto: i suoi occhi cerulei. Ella rammenta ciò che era e comprende ciò che è diventato attraverso i suoi occhi, lo specchio dell’anima del principe, del suo cuore, tutto ciò che lei ha amato di lui. Il principe e la giovane si baciano e in un tripudio di colori, l’incantesimo perde i suoi funesti effetti. Il castello torna bianco e splendente come era un tempo e le figure demoniache vengono tramutate in sculture angeliche. I servitori riacquistano le loro fattezze umane e la bella riprende a danzare col suo principe nella sala grande del castello. La camera ci accompagna fuori dal palazzo, a rimirare un’ultima volta le vetrate che avevamo visto all’alba di tutto. Ce ne è una nuova, quella ritraente il principe Adam e Belle che ballano sotto la raffigurazione di una rosa che sovrasta le sagome dei due innamorati. Il film termina nell’esatto modo in cui era cominciato, sfruttando appieno l’egual sequenza narrativa. Questa volta, però, la vetrata testimonia ciò che abbiamo realmente vissuto nei meandri di quel castello ed è come se quella stessa raffigurazione l’avessimo in un qual modo dipinta noi stessi.
Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
Un successo planetario
“La bella e la bestia” terminò la propria corsa al botteghino conquistando un posto nel podio dei tre film di maggior successo dell’anno. Al trionfo in termini di guadagno si unì una ricezione critica entusiastica. “La bella e la bestia” vinse 3 Golden Globe, per il miglior film, la miglior colonna sonora e la migliore canzone, un risultato che per l’animazione verrà eguagliato da “Il re leone” nel 1994. “La bella e la bestia” ricevette inoltre 6 candidature all’Oscar, 3 per le migliori canzoni, altre due per la miglior colonna sonora e il miglior sonoro e infine una per il miglior film. Si, avete letto benissimo, “La bella e la bestia” riuscì nella grande impresa, quella di conquistare una nomination all’Oscar come miglior film dell’anno, e fu il primo lungometraggio d’animazione a riuscire a raggiungere tale traguardo. Deterrà questo primato in solitaria per quasi un ventennio, quando verrà raggiunto da “Up”, ma quest’ultimo eguagliò il record quando le categorie di nomination vennero portate da 5 a 10. Il record de “La bella e la bestia” è quindi, tutt’oggi, da ritenere assolutamente straordinario. Soltanto “Il silenzio degli innocenti” riuscirà a strappargli la statuetta per il miglior film, ma “La bella e la bestia” sfiorò oggettivamente un’impresa ritenuta impossibile. “La bella e la bestia” vinse comunque due premi Oscar, venne infatti premiata la meravigliosa colonna sonora e la canzone “Beauty and the Beast” cantata da Célin Dion e Peabo Bryson, e nel film da Angela Lansbury, che prestava la voca a Miss Bric.
Conclusioni
Ciò che in verità siamo supera ciò che l’apparenza può facilmente ingannare, è questo il messaggio principale veicolato all’interno del film. Ma non è altro che una delle innumerevoli tematiche trattate da quest’opera unica e intramontabile. “La bella e la bestia” è un monumento, alto e possente, come il castello della fiaba stessa, che merita d’esser perscrutato, come se volessimo viaggiare nel cuore e nella mente di questi due protagonisti, il principe Adam e la principessa Belle. “La bella e la bestia” reca in sé un’avvenenza incontaminata, un’eleganza mai soggetta alle mode o al volere del tempo. Un capolavoro senza eguali incastonato nella regalità di una grazia tipica delle opere tanto belle da toccare le nascoste corde dello spirito. “La bella e la bestia” è un incanto visivo, intellettivo ed emotivo e la sua magia sta nella meraviglia con cui continua a invitare il proprio pubblico a tornare al castello, e a restare lì con loro…Io, per primo, vorrei così spesso tornare laggiù, ad ammirare il volto di Belle, dalla mia personalissima ala ovest…perché “La bella e la bestia” possiede il dono dell’eterna giovinezza, la cortesia di non voler sprecare mai un solo fotogramma che non sia destinato a dilettare; “La bella e la bestia” è una bellezza che appassisce e al contempo si rigenera, come il distacco dell’ultimo petalo di quella rosa incantata.
Voto 10/10
Autore: Emilio Giordano
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Comunicazione e Social: Maria Chiara Scaramozzino
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Vi sono quei personaggi fittizi a cui proprio non si riesce a dire addio, forse perché, in qualche modo, è come se avessero fatto parte di noi. Spyro,Lara, Crash…tre singoli nomi e dozzine d’avventure del tutto diverse. Tre storici emblemi della vecchia e mai dimenticata Playstation 1, il primo amore di ogni videogiocatore. Se Lara ha proseguito ad emozionarci nel corso degli anni, tanto da aver attraversato, con disinvoltura e con quel suo tipico passo leggiadro e acrobatico, tre generazioni di console diverse, lo stesso non possiamo dire di Crash. Del marsupiale antropomorfizzato che indossa jeans blu, guanti e scarpe da ginnastica rosse e che scorrazzava nei luoghi più insoliti e nelle ere più remote, affrontando nemici sempre più bizzarri, ne sentivamo davvero la mancanza, perché da fin troppo tempo era rimasto lontano dai radar di un Joypad. Fino ad ora! Perché l’avventuroso Bandicoot sbarcherà finalmente su Playstation 4 il prossimo 30 giugno.
“Crash Bandicoot N. Sane Trilogy” è una raccolta che ripropone in chiave moderna, le prime tre, indimenticabili avventure di Crash Bandicoot. Una sorta di rivisitazione nostalgica realizzata attraverso il cosiddetto “remastered” dei primi tre capitoli di Crash Bandicoot. Probabilmente ai fan più accaniti del marsupiale questi tre titoli non basterebbero neppure, perché mancheranno prodotti amati in egual misura come “Crash team Racing” e “Crash Bash”. Come dimenticarli d’altronde? Nel primo, Crash diventava un corridore, sfrecciando su di un auto e gareggiando contro i suoi avversari più celebri. Nel secondo, invece, Crash non si avventurava più tra i livelli comuni, a caccia di gemme e cristalli, ma sfidava i propri nemici su terreni neutrali in cui poter vincere con bravura, astuzia e un pizzico di fortuna. Come dimenticare, a tal proposito, le sfide su di una lastra di ghiaccio, dove Crash cavalcava un piccolo orsetto che, se caricato al momento opportuno, poteva spingere giù lo sventurato avversario di turno?
Per il momento dovremo accontentarci di ciò che arriverà quanto prima. In effetti il ritorno dei primi tre videogiochi di Crash rappresenta una vera manna dal cielo per i fan del marsupiale.
Crash ha divertito come pochi altri giochi abbiano mai fatto. Forse proprio quella sua vena surreale lo ha reso un videogioco amatissimo. Crash è l’eroe taciturno, all’apparenza persino disincantato, ma dal cuore grande e dal coraggio smisurato. Nel suo silenzio, nei suoi doppi salti, e nelle sue giravolte vertiginose salva costantemente il mondo, sventando i piani di conquista di Neo Cortex con il solo ausilio di sua sorella Coco e di Aku- Aku, una maschera Vodoo di un antico sciamano che protegge Crash dai fatali pericoli. I videogiocatori più nostalgici ricorderanno senza dubbio l’effetto di assoluta “onnipotenza” che si provava quando la maschera di Aku-Aku veniva indossata per la terza volta da Crash…
Gli scenari di Crash erano estremamente variegati, e il personaggio accedeva ai vari livelli dalla cosiddetta Warp Room. Spesso, tale zona conteneva delle aree bonus segrete che il videogiocatore avrebbe potuto scoprire nel corso dell’avventura. Le missioni oscillavano da livelli in cui il Bandicoot si muoveva in solitudine, facendosi strada tra micidiali e sempre più articolate trappole e un gran numero di avversari, ad altri dalle ambientazioni più particolareggiate, come quelli a cui spesso prendeva parte la sorella Coco. In “Crash Bandicoot 2: Cortex Strikes Back”, il protagonista cavalcava in alcune aree un orsetto chiamato Polar, mentre in “Crash Bandicoot 3: Warped” Coco percorreva la grande muraglia cinese in sella a un cucciolo di tigre. Spesso, prima di accedere ad una nuova area del gioco, Crash doveva affrontare e sconfiggere un boss principale.
“Crash N. Sane Trilogy” ci permetterà di rivivere le imprese dell’eroico marsupiale che più abbiamo amato da bambini. Torneremo a ricercare cristalli e gemme, a distruggere casse di legno e a divorare famelicamente una serie interminabile di mele, il frutto di cui Crash va ghiottissimo. Personalmente, il sottoscritto, non vede davvero l’ora di fuggire e scampare alla furia di un gigantesco Triceratopo, tra i cunicoli di una caverna preistorica come avveniva in “Crash Bandicoot 3: Warped”.
Ma “Crash N. Sane Trilogy” non si presenta soltanto come un comune remastered, bensì come un “remastered plus” con l’introduzione di alcune novità e nuove funzionalità di gioco che andranno apprezzate nell’esperienza di gioco.
Siete pronti a riabbracciare Crash? Sono certo che anche voi, come me, non siate mai riusciti a dire addio a questo vecchio e caro amico, ma solo un comune “arrivederci”…
Nel marzo del 1997 la Namco distribuiva “Tekken 3”, un picchia-duro tra i più famosi della storia videoludica. Il videogioco era strutturato in una serie di incontri, ed era prevista la modalità multiplayer in cui poter “sfidare” un amico. “Tekken 3” introdusse molti personaggi destinati a diventare tra i più amati della saga, tra questi son degni d’esser menzionati: Eddy Gordo, un lottatore brasiliano dalle mosse estremamente acrobatiche, Hwoarang che i videogiocatori ricorderanno per la poderosa forza dei suoi calci, il cyborg Bryan Fury storico rivale di Lei Wulong, Law, un personaggio ispirato al compianto Bruce Lee, l’inafferrabile Ling Xiaoyu, un surreale draghetto minuto e dalle mosse alquanto “peculiari” chiamato Gon e soprattutto Jin Kazama, uno dei grandi protagonisti della saga.
Tra i personaggi storici da poter utilizzare meritano una menzione: la splendida e fatale Nina Williams, la sorella e altrettanto pericolosa Anna Williams, il poliziotto maestro dei cinque stili di Kung Fu Lei Wulong, il micidiale Paul Phoenix e lo spadaccino Yoshimitsu.
Ogni personaggio poteva essere utilizzato nella modalità “Arcade” e una volta battuti tutti gli avversari previsti, partiva un filmato conclusivo realizzato appositamente per il personaggio scelto dal videogiocatore. Una volta ultimata la modalità principale, ogni personaggio ne sbloccava di nuovi da poter utilizzare. I temibili avversari finali erano sempre Heihachi Mishima, Ogre che dopo essere stato battuto tramutava in True Ogre, un drago dall’aspetto mostruoso.
“Tekken 3” fu l’ultimo videogioco della serie ad essere stato distribuito per la Playstation 1. Una pietra miliare indimenticabile nei ricordi dei videogiocatori più nostalgici.
Alfred Hitchcock si interrogò durante tutta la sua prolifica carriera su un quesito che sembrava turbarlo così tanto da richiedere un’assidua ricerca mai del tutto conclusa: fin dove si potesse spingere il concetto di “arte”. Era il 1948, e in un caldo pomeriggio newyorkese, tra le pareti di un ampio salone dall’arredamento alquanto pesante, si stava tenendo un ricevimento tra amici. Sprofondati comodamente in un divano situato proprio davanti a un’ampia vetrata che si affacciava su una giungla di palazzi, gli ospiti dialogavano tra loro. Gli argomenti della conversazione volgevano sui canoni del più classico dei dibattiti tra intellettuali: ci s’interrogava sull’idea di morale e su come essa dominasse, sin dai precetti educativi, l’indole degli uomini cresciuti in una società governata da leggi democratiche. Quella che sembrava una semplice, anche se a tratti fin troppo pretenziosa, chiacchierata tra amici, subì un cambiamento improvviso nel modo di discutere quando si toccò il tema dell’omicidio, aspetto ovviamente centrale dei film di Hitchcock.
Due dei partecipanti si domandavano se l’omicidio potesse essere elevato ad una vera e propria forma d’arte. Una teoria filosofica, partorita da alcuni di loro ai tempi del college, avanzava l’idea che certi individui vi nascessero proprio con la predisposizione, e di conseguenza fossero stati “scelti” per poter compiere omicidi, poiché sprovvisti dalla sensibilità e dalla morale comune che, a detta loro, venne creata in principio per placare l’animo barbarico degli uomini. Hitchcock attraverso l’inquietudine di uno scambio di battute cercò di mostrare in “Nodo alla gola” la crudeltà di certi individui capaci, attraverso un’oratoria asservita al momento, di rendere artistico un gesto scellerato, di mutare in una forma di raro “talento” un atto di pura follia.
Da Hitchcock a Burton
Quarant’anni dopo, Tim Burton traspose per la prima volta al cinema il personaggio del Joker in “Batman”, primo film dai toni dark dedicato al tormentato eroe DC Comics. Lo immagino corrucciato, teso come una corda di violino, rinchiuso nel proprio studio, con una lampada accesa in prossimità di una catalogata raccolta di fascicoli. Lo vedo proprio così, Tim Burton, più selettivo e meno lascibile, più rigoroso e notevolmente meno commerciale e ripetitivo nelle scelte rispetto al recente passato. La scelta cadde sul nome che circolava già dal 1980 per voce diretta di Bob Kane: Jack Nicholson. Era il profilo più complesso da conquistare, e proprio per questo era stato lasciato come ultima prestigiosa risorsa. Pur di averlo Burton e la Warner erano disposti a fare carte false, persino a giocare sporco, prima seducendo e poi abbandonando un più che interessato Williams (tra le primissime scelte insieme a William Dafoe e Tim Curry), per mettere pressione e convincere Nicholson ad accettare la parte, facendo infuriare proprio Robin, che offeso mandò all’inferno l’intera produzione. Il celebre ghigno di Nicholson, già portato alla ribalta da Stanley Kubrick in “Shining”, trovava massima esaltazione nelle tecniche di modellamento dei truccatori di “Batman” che “fermarono” l’espressività di Nicholson in uno spaventoso riso perenne.
L’approccio che Burton diede al folle criminale racchiude in sé qualcosa che, a mio modo di vedere, è paragonabile alla tematica sollevata da Hitchcock e di cui facevo cenno precedentemente. Attraverso il Joker di Nicholson, Burton tentò, con acclamato successo, di trasporre i canoni artistici del Joker cartaceo: ovvero quelli di un folle criminale che nella più “pura” delle malvagità trova una vena beffarda, uno spirito parodistico in grado di ridere della sofferenza stessa. Jack Nicholson si dirà orgoglioso della sua performance, descrivendola come una rappresentazione teatrale della Pop Art.
L’origine del Joker – Tra cinema e romanzo grafico
Ispirandosi alla graphic-novel “The Killing Joke”, Burton decise di portare in scena le origini di un Joker che mostra sin da subito segni d’instabilità mentale, con violenti sbalzi d’umore che sfociano in un’aggressività fredda e calcolatrice. Jack Napier, è questo il vero nome del personaggio nel film, è un gangster temuto della malavita cittadina, che aspira a succedere al boss Carl Grissom (Jack Palance). Approfittando di una presunta retata che la polizia di Gotham sta per fare all’interno della Chimica Axis, Grissom incarica Jack di guidare alcuni dei suoi uomini nell’irruzione all’interno della fabbrica, così d’appropriarsi, prima dell’arrivo della polizia, di tutti i documenti che testimonierebbero il collegamento con Grissom. Il boss mafioso in verità ha già provveduto a nascondere i documenti incriminanti, indirizzando pertanto Jack in una trappola, dove troverà la morte per mano dei poliziotti di Eckhardt, un agente corrotto. In fabbrica irrompe anche Batman (Michael Keaton) in una delle sue prime apparizioni. Nella concitazione del momento, Jack spara ad Eckhardt freddandolo a distanza, prima di imbattersi nel cavaliere oscuro. Durante la conseguente colluttazione, Napier cade dalla piattaforma precipitando in una grande vasca contenente dell’acido. Pochi attimi dopo la fuga dell’eroe, una mano pallida riemerge dalle acque verdastre della pozza di scarico.
La camera si sposta successivamente verso un sudicio vicolo, poco frequentato, probabilmente ubicato in una delle periferie malavitose di Gotham City, dove un “povero” chirurgo tenta di sottoporre Napier, miracolosamente sopravvissuto, a un delicato intervento di chirurgia estetica, nonostante l’uomo abbia i nervi completamente recisi. Il chirurgo resta impietrito vedendo il volto del gangster che reclama con forza uno specchio. Nella scena in cui Napier vede il proprio riflesso perennemente ghignante e ormai sfigurato dal bagno chimico, esce di senno, e la sua mente imbocca definitivamente la via della follia. Jack comincia a ridere. In quella smorfia sorridente e in quell’aspetto clownesco, l’uomo interpreta il perverso scherzo di un fato dannato che nel castigo perenne ha voluto beffarsi di lui. Come un bambino che emette il suo primo vagito così il Joker nacque, facendo riecheggiare la sua prima, amara, folle risata: un’insana risposta alla propria dannazione. Il Joker ride di se stesso, del triste destino che la vita gli ha riservato. L’uomo si rifugia così nella follia, vedendo in essa l’unica ancora di salvezza a cui aggrapparsi per sfuggire a una realtà talmente atroce da non poter essere accettata se non con il torbido ausilio della pazzia primordiale. Una singola, orribile giornata, come la definì Alan Moore nel suo celebre romanzo grafico, distrugge l’animo dell’uomo, ormai privo di alcun freno inibitore. Non possiamo sapere se il Joker sia stato davvero dannato da un destino crudele e pertanto elevato al rango di “assassino prescelto” come teorizzavano i manipolatori protagonisti dell’opera di Hitchcock, ma senza dubbio il Joker diviene la personificazione di una dissennata allegria.
Dal buio alla luce: avviene così la rinascita di un personaggio portatore di morte. L’oscurità accompagna il Joker nella sua prima, definitiva apparizione. Ripresentatosi nella dimora di Grissom, Napier avanza, continuando per diretta scelta stilistica di Burton a nascondere il proprio viso nel buio. “Il gioco di luci” è eccezionale in questi intensi momenti, perché nonostante una completa oscurità avvolga il Joker, man mano che avanza si comincia sempre più a notare il sinistro colore della sua pelle, talmente biancastra da poter essere individuata nel buio del salone. Grissom implora Jack di avere clemenza ma Napier nega l’esistenza di alcun Jack, riportando invece la notizia della morte dell’uomo che ha “abbandonato” il suo essere per lasciar posto ad un agire liberatorio: al Joker, che ci configura così come l’incarnazione di una esistenza priva dal benché minimo senso di umana coscienza. Emerso finalmente alla luce, Joker toglie il cappello, concedendo l’estremo saluto. I capelli verdi, la pelle biancastra e le labbra di un rosso rubino, immobilizzate in un inquietante sorriso, vengono finalmente mostrati dalla sapiente regia di Burton che inquadra il Joker dal basso verso l’alto per accentuarne l’impatto visivo e la chiarezza dei connotati colorati. Una sadica risata dà il via ad una serie di colpi che il Joker scarica senza alcuna pietà sul corpo di Grissom, che di fatto è la prima vittima del clown di Gotham City.
Il Joker riversa sulla figura di Batman la colpa della propria tragedia e sulla città, un folle odio distruttivo. L’ascesa al potere per il Joker comincia con l’efferata uccisione dei capi delle fazioni mafiose della città di Gotham.
L’artista dell’omicidio
La scheda relativa a Jack Napier, sfogliata da Bruce Wayne nel proprio studio, riporta proprio di come Napier fosse un uomo estremamente intelligente, nonché molto portato per l’arte e l’alchimia. Grazie alle proprie competenze il Joker crea un veleno chiamato “smilex” che diviene tossico al contatto con delle particolari sostanze alterate già alla fonte dal Joker stesso. La città appare piegata al volere del criminale, che annuncia in diretta televisiva l’avvenuta contaminazione di tutti i cosmetici presenti nelle profumerie della città. Il Joker si fa promotore della sua stessa creazione, ridicolizzando le più comuni pratiche di sponsorizzazione pubblicitaria, insinuando il dubbio nelle persone se siano già in quel preciso istante entrate in possesso dei prodotti avvelenati senza rendersene conto. Tutto appare come un’esilarante storiella, messa in scena in un breve spot televisivo, in cui il Joker conforma il terrore alla parodia. Tale veleno procura un violento attacco psicotico nelle vittime che esalano l’ultimo respiro, dopo folli risate. Il Joker lascia sul suo cammino una lunga scia di morti con un terrificante sorriso stampato in volto. La morte diviene pertanto uno scherzo per il Joker, un elogio euforico all’addio perpetrato da una risata incontenibile. Il Joker si eleva così, e per sua stessa ammissione, al rango di artista dell’omicidio. Un macabro senso dell’humor diviene parte integrante della dialettica del criminale, che unisce al proprio aspetto clownesco una raccapricciante parlantina tra l’ironico e il sarcastico, ricca di taglienti battute, il tutto tendente a rendere parodistica la crudezza e l’atrocità delle sue stesse azioni. Burton attraverso le gesta del proprio antagonista intraprende un’indagine sul concetto stesso di “comicità” domandandosi fin dove essa possa spingersi nell’indole esilarante di un uomo folle sia nell’animo che nell’aspetto.
La deturpazione dell’arte
Ma se già l’irrazionale ilarità delle azioni e dell’agire del Joker costituisce un paradigma specifico di base nella costruzione artistica di questo personaggio, è l’ideologia stessa di arte che merita un’analisi unica nell’opera del 1989. Il Joker crede in primo luogo che la morte sia una forma di espressione artistica estrema, che meriti un’accentuazione indipendente. La follia del criminale e il suo assurdo concetto di arte trovano una massima esaltazione nella celebre sequenza del museo di Gotham City. Irrotto nell’edificio, il Joker comincia a devastare quadri dall’inestimabile valore, imbrattandoli con getti di vernice. Il Joker, pur considerandosi un artista in senso stretto, sembra non provare alcuna empatia per le maggiori opere pittoriche dei grandi del passato, prediligendo soltanto ritratti cupi e spettrali. Questa celebre sequenza che vede il Joker distruggere i quadri del museo, accompagnato da un brano vivace di Prince, nasconde l’aspetto drammatico del momento in sé. Il Joker compie azioni scellerate nella malata euforia delle proprie intenzioni, così Burton, sposando appieno le peculiari caratteristiche del personaggio, lo segue con una tecnica di ripresa volta a alleggerire la tensione, poiché non è nel volere del cineasta terrorizzarci in quei frangenti quanto farci riflettere secondo l’agire del Joker. Vi è la possibilità di poter scoppiare addirittura in una fragorosa risata quando Nicholson si scatena in danze improvvisate mentre sale le scale del museo. Non viviamo quegli attimi con una particolare agitazione, anzi ridiamo addirittura di ciò che sta accadendo, perché il Joker possiede lo stile paradossale di far ridere del proprio folle operato; ma è un pensiero a posteriori che il regista statunitense desidera generare. Questo Joker non impaurisce con la suspense o la violenza, quanto con l’essenza stessa della risata. L’arte viene così “stuprata” in un clima disteso e gioviale, in una contrapposizione che tenta di demarcare un confine ormai incerto: la beatitudine e il dolore, la felicità e la tristezza, la vita e la morte vengono inglobati dalla follia e posti sul medesimo piano esistenziale, come fossero due facce della stessa medaglia. Il Joker di Nicholson non desidera spaventarci quanto distruggere le nostre certezze, inducendoci a chiedere cosa sia realmente divertente, e se si possa scherzare dinanzi al caos distruttivo.
Il tutto procede in una disarmante tranquillità quando il Joker siede intorno ad un tavolo ed inizia a dialogare con la fotoreporter Vicki Vale (Kim Basinger), unica scampata al massacro del museo. E’ interessante evidenziare la valenza dei costumi in queste scene: Joker indossa un basco viola che ricorda nelle forme il cappello dei pittori ottocenteschi. Non è la prima volta che il personaggio nel film esprime, attraverso il proprio abbigliamento, aspetti artistici. Resta indimenticabile infatti la scena in cui Joker si finge un mimo, usufruendo di una gestualità articolata e una mimica facciale buffa per camuffarsi tra gli artisti di strada. Scrutando le fotografie della donna, l’antagonista afferma di amare il modo in cui ella “cattura” i tratti morenti degli innocenti sul terreno di guerra. Nel film il personaggio della Basinger è stato nel Corto Maltese una fittizia località in cui era in atto un violento conflitto, riuscendo a scattare molte fotografie ritraenti le povere vittime dei bombardamenti. A quel punto il Joker, coperto da un trucco che nasconde la vera colorazione della sua pelle, si avvicina alla giornalista confessandole che lui stesso è un artista, che ha ormai superato il più banale dei dilemmi relativi all’estetica: “cosa è bello e cosa non lo è”. Joker riporta di come la gente si preoccupi spesso delle apparenze e a quel punto invita Alicia Hunt, una giovane donna con cui aveva avuto in precedenza una relazione, a raggiungerli. La donna indossa una maschera di ceramica mentre parla con voce provata, disarmonica. Joker comunica a Vicki che Alicia è la sua prima opera d’arte vivente, concepita secondo i suoi nuovi canoni estetici di bellezza. Su invito del Joker, la donna rimuove la maschera rivelando il proprio viso sfigurato. Vicki di scatto si alza terrorizzata.
Il Joker la segue ma la reporter riesce a trovare temporaneo riparo lanciandogli contro una brocca d’acqua, che raggiunto il viso del criminale gli guasta il trucco. Giratosi improvvisamente, il Joker rivela il suo vero aspetto, fatto di un’accozzaglia di colori, dove il bianco della sua nuova pelle si mescola ai toni del marrone del trucco ormai parzialmente slavato. Come un olio su masonite, realizzato con tratti aspri e pennellate violente e grondanti di colore, il volto del Joker si conforma in questi frangenti alla sua delirante ideologia di arte, mai lineare quanto terribilmente contorta e inestricabile. Batman fa irruzione nel museo sfondando la vetrata del piano superiore, salvando Vicki e fuggendo via con lei dall’edificio. L’arte per il Joker possiede un valore estetico e fatale, incentrato solo sulla sofferenza dell’essere umano. Egli distrugge le opere dei grandi pittori poiché le considera forme d’arte sorpassate, non più al passo con la dissacrante cultura di cui egli si fa promotore. La bellezza estetica per il Joker è paragonabile alla mostruosità, alla vera deformazione dell’arte, non più un’espressione in grado di catalizzare ogni sfaccettatura del sentimento dell’uomo quanto un modus operandi per testimoniare la sola crudeltà dell’agire umano.
Danzi mai col diavolo nel pallido plenilunio?
E’ la diabolica domanda che il Joker ripete a molte delle sue vittime prima di finirle. Bruce, sentendo quest’inquietante interrogativo, si sofferma sui ricordi che lo tormentano fin da bambino. Riemerge così la drammatica reminiscenza della morte dei propri genitori, l’evento che scatenò il desiderio di giustizia nel cuore dell’eroe. Bruce ricorda un ladro che nel buio sparò ai suoi genitori. Ancora una volta Burton ci mostra come la negatività del personaggio del Joker abbia agito, sin dal principio, in un instabile equilibrio tra luce e ombra: persino in questa che cronologicamente corrisponde alla sua prima apparizione, il criminale si nasconde nell’oscurità per poi mostrarsi alla luce soltanto per sorridere della sofferenza da lui stesso arrecata. Il freddo assassino sta osservando il bambino e, puntandogli contro la pistola, gli domanda: “Hai mai danzato con il diavolo nel pallido plenilunio?” I colpi sparati dal rapinatore sui coniugi Wayne hanno tuttavia attirato la polizia che si appresta a giungere sul luogo del delitto. L’uomo comprende che deve darsi alla fuga e voltandosi nuovamente verso il piccolo, lo grazia, salutandolo con un semplice “arrivederci.” Bruce, oramai adulto, deduce che il Joker è in verità lo stesso uomo che aveva ucciso i suoi genitori. Questa fu una licenza che Burton si concesse e inserì nel film per rimarcare ancor di più il destino che lega e attanaglia l’eroe al suo antagonista, creatisi involontariamente a vicenda.
L’ultimo scherzo del Joker
Come uno stravagante incantatore di folle, troneggiando su di una pittoresca torta da sfilata, Joker raduna un vasto seguito di incauti cittadini, attratti dalla promessa che il clown lancerà ai presenti venti milioni di dollari in contanti durante il festival per il duecentesimo anniversario dalla fondazione della città. L’avidità del popolo è una sentenza di morte per il gangster, il quale aziona un comando che fa spargere il gas smilex dagli enormi palloni da parata, cominciando a mietere diverse vittime tra i venali che tentano disperatamente di non inalare il gas, coprendosi la faccia con le banconote appena raccolte. Batman interviene per impedire al Joker di mettere in pratica la sua folle idea. I due si fronteggiano nella suggestiva e colossale cattedrale di Gotham City, proprio in cima alla torre, nell’antico e polveroso campanile. Ricorre in questi frangenti il tema della danza, e di come essa possa venire rappresentata, quale atto sinistro. La figura del diavolo che danza illuminato dal plenilunio si correla di colpo con quella del Joker, il quale, danzando nei pressi del cornicione con Vicky Vale, diviene l’allegoria di quella stessa “interpellanza” di cui spesso si faceva truce portavoce. Batman gli ripete quel funesto interrogativo prima di colpirlo brutalmente. Il confronto tra i due avversari, culmine della pellicola, non si piega al semplice e aspro conflitto corpo a corpo quanto ad un’esternazione delle rispettive avversità. Il Joker riesce a spingere giù dalla cattedrale il cavaliere oscuro e la donna. Questa volta è proprio lui ad essere in salvo mentre il suo odiato avversario regge a fatica, aggrappato alle deboli e precarie sporgenze della cattedrale. Joker si arrampica su di una scala calata giù da alcuni dei suoi uomini che lo hanno raggiunto in cima grazie ad un elicottero. Batman però usa il suo rampino legando il piede del Joker a un gargoyle. La statua cede e resta sospesa nel vuoto trascinandosi dietro il Joker che non riesce più a risalire. Rovina così tragicamente nel vuoto e vi trova la morte. Batman, dopo essere precipitato con Vicky dalla torre, riesce a salvare entrambi, con l’ausilio del suo rampino. Con il Joker eliminato e i suoi uomini arrestati, Gotham City è per il momento salva. La scena finale vede Alfred che accompagna Vicki a casa e Batman su un tetto mentre osserva con fierezza il Batsegnale, un simbolo di speranza che illumina il cielo.
Il commissario Gordon, insieme alla sua squadra di polizia, ritrova il corpo del Joker, schiantatosi al suolo. La camera di Burton procede dall’alto verso il basso, roteando l’immagine, fino al corpo esanime del clown, mentre in sottofondo si ode un’agghiacciante risata. Il volto del Joker appare disteso e forse con un ghigno ancor più tetro che nelle passate apparizioni. E’ morto, eppure sembrerebbe compiaciuto del suo ultimo atto. Una risata aspra, cupa, interminabile risuona per l’imbarazzo dei poliziotti che non riescono a spiegarsi da dove provenga. Gordon frugando tra gli abiti trova lo strano marchingegno che simula quella risata ossessiva. E’ l’ultima gag del Joker, la battuta conclusiva con cui decide di congedarsi dal proprio pubblico: egli riesce a ridere anche dopo la fine della sua esistenza, poiché la vita come la morte altro non è che un assurdo, artistico, equivalente scherzo.
Come già accaduto per “Maleficent”, “Cenerentola” e “Il libro della giungla”, trasposizioni con attori in carne ed ossa dei rispettivi classici d’animazione di cui ricalcano titolo, ambientazioni e storia (pur discostandosi, a volte, come accaduto per “Maleficent”), anche “La bella e la bestia” sbarca al cinema come nuovo live action prodotto dalla Walt Disney Pictures, remake ufficiale del capolavoro del 1991. Il film si presenta come una rivisitazione, con tematiche moderne e contestualizzate in un dato periodo storico della meravigliosa storia d’amore tra Belle, una giovane ragazza tenuta prigioniera in un castello incantato, e, appunto, una bestia. In quanto live action del lungometraggio d’animazione, “La bella e la bestia” non differisce dalla sua prima stesura originaria, anzi, tutt’altro! Rivolge la sua mano all’antica versione e insieme decidono di procedere a braccetto. Il remake mima i gesti, emulando i movimenti dell'originale, divenendo una sorta di “ombra” che attraverso un riflesso di luci, suoni e immagini, duplica le azioni della sua controparte, trascrivendone lo stile e riadattandolo secondo i propri tempi, ritmi, bisogni. “La bella e la bestia” pertanto trasfigura molte delle sequenze più celebri del film d’animazione, simulandone persino le inquadrature principali. Per gli amanti del classico non potrà che essere un piacere rammentare le colorate sagome in movimento prendere nuovamente vita su sfondi luminosi, le verdi praterie e i tetri scenari del castello stregato. Eppure, l’opera diretta da Bill Condon, pur elogiando con occhio attento il lungometraggio da cui trae origine il lavoro, cerca d’allontanarsi da esso in alcuni punti chiave, fornendo, alle volte, una rilettura interessante, specialmente per quel che riguarda le nuove caratterizzazioni dei protagonisti, altre volte perdendo la bussola e uscendo pericolosamente dal sentiero: ne è un esempio il prologo iniziale.
Attenzione pericolo spoiler!!!!
UN PROLOGO DISASTROSO
Gran parte del fascino immutato del classico era dovuto alla straordinaria sequenza introduttiva. Dal dissolversi di uno sfondo ottenebrato emergevano i primi dettagli a colori di una piccola cascata che scendeva lungo un’altura rocciosa, proseguendo il proprio “tragitto” lungo il fiume. Il tutto veniva presentato da una celebre melodia che amalgamava completamente le immagini alle parole proferite dalla composta eleganza di Nando Gazzolo. La camera mostrava il principe ritratto su delle ampie vetrate del palazzo nobiliare. Con il progredire della narrazione, gli stessi ritratti mutavano via via per adattarsi a quanto la voce narrante stava raccontando, fino a rappresentare la terribile trasformazione. Il prologo volutamente lascia il tutto avvolto nel mistero più recondito e fascinoso, lasciandoci solamente immaginare come fosse il principe prima della maledizione e cosa facesse nel suo castello. Un grande ritratto, posto al centro di una parete della stanza del principe, viene danneggiato dagli artigli della stessa bestia che, distrutta dal dolore, non riesce più a rimirare il quadro che lo ritraeva quand’era soltanto un ragazzo. L’intero film del 1991 ruota proprio intorno alla scoperta di tale castello che sembra essere sconosciuto dagli abitanti del villaggio e celato nelle profondità di una foresta infestata dai lupi. Ciò che accadeva in quel castello e ciò che furono i suoi abitanti è lasciato volutamente nel mistero. Nel live action del 2017, invece, il principe fa la sua apparizione umana sin dall’inizio, sovvertendo così le intenzioni poste alla base dell’opera originaria. Se da una parte è interessante soffermarsi nella primissima inquadratura sugli occhi cerulei dell’uomo - unica caratteristica umana ancora ben visibile quando diverrà bestia - e se sempre dalla suddetta parte è apprezzabile notare un cambio di stile e un tentativo di fornire un’impronta autoriale diversificata al prologo del film, esso finisce per annientare, ancor prima di cominciare, l’alone di mistero e misticismo che aleggia attorno alla bestia, mostrandoci immediatamente com’era e rendendo la sua trasformazione, dinanzi a centinaia di ospiti nella sala grande, meno tragica di come veniva raccontata un tempo, in cui il principe pareva esser descritto come egoista e cattivo tanto da evitare volutamente la presenza di altre persone al solo scopo di non dividere con esse la bellezza della sua dimora, trasmettendo così l’idea di non voler ospitare la mendicante per restare sempre solo con le proprie ricchezze. Da ciò arrivò la condanna della fattucchiera. Un maleficio che per come viene realizzato nel lungometraggio del 2017 perde totalmente il fascino del racconto, finendo per divenire una semplice sequenza che si può ammirare chiaramente senza così venir stimolata la fantasia, come avveniva in quelle meravigliose rappresentazioni impresse sui vetri del castello. La voce narrante italiana della Puccini non ha certamente migliorato questo prologo straniante, in cui non vi è neppure l’accenno finale allo specchio come unica finestra sul mondo esterno per il triste protagonista.
CORALITA’ DEL CAST
Se il prologo, secondo il modesto parere del sottoscritto, è stata una rivisitazione infelice, il cast che ci viene presentato subito dopo costituisce il punto di forza del film. Emma Watson è Belle, la protagonista della storia. La scelta della Watson, piccola strega di Harry Potter, oramai giovane donna del grande schermo, non sembra casuale; ella, così impegnata sul fronte politico e sociale verso la parità dei diritti, sembra incarnare, per lo meno sul fronte caratteriale, ciò che è la Belle del film classico. Per la delicatezza dei tratti del suo viso e per la forza perentoria con cui fa agire i suoi personaggi, specie nelle parti che richiedono maggior devozione ai ruoli d’azione, Emma Watson sembrerebbe perfetta per interpretare un ruolo da “principessa Disney”, uno di quelli in cui la principessa non è una donzella in difficoltà ma una fanciulla in grado di badare a se stessa; eppure la sua Belle conserva poco della dolcezza e della verve sognante dell’originale. Somiglia più a un’eroina, che si batte senza timori, restando il più delle volte fredda e distaccata. La Belle di Emma Watson non si scioglie mai, indugiando rarissimamente su note emotive di tenerezza, restando quasi sempre altera e autoritaria. Durante la scena del ballo porta nel mignolo destro un anello, che sta a indicare una personalità coraggiosa che non si ferma davanti a nulla, generosa e appassionata in amore e poco incline alle mezze misure. Scelta casuale? Non credo! Probabilmente la stessa attrice ha optato per questa particolarità, non certo ben evidente di primo acchito. Le sue doti d’interprete si affidano ad una naturalezza semplice dell’espressione minima di stupore, e limitano diverse scene, una fra tutte, quelle della cena in cui resta spettatrice disincantata, riuscendo ad accennare solo un flebile sorriso. Troppo poco se pensiamo alle meraviglie coreografiche che stanno avvenendo intorno a lei, dai canti di Lumière ai piatti che roteano su se stessi e circondano la sala da pranzo in un movimento ritmato, armonico e studiato, egregiamente ripresi dalla camera che rende il giusto merito a una delle sequenze più famose del film animato.
Luke Evans è il mattatore per eccellenza del film. Ruba letteralmente la scena, interpretando alla perfezione il ruolo del superficiale e crudele Gaston. Non avrebbero potuto fare scelta migliore: Evans è a tutti gli effetti la perfetta trasposizione di un personaggio animato. Molte delle espressioni dell’attore sono del tutto somiglianti a quelle della sua controparte cartoonesca, ciò dimostra che Evans ha studiato doviziosamente la parte per regalare ai fans un Gaston impeccabile per connotazioni fisiche e caratteriali. Accanto a lui spicca un Josh Gad divertentissimo, che addirittura migliora il Le Tont visto nel lontano 1991. Il Le Tont di Gad si differenzia dall’originale per non essere più soltanto un uomo inetto, incapace di reagire ai soprusi; egli è, infatti, innamorato di Gaston e ne diviene il suo servo fedele, non più impossibilitato ad essere come lui, e di conseguenza volerlo seguire solo come aspirazione, bensì per una questione attrattiva. Le Tont del film in live action è il primo personaggio gay della storia della Disney. Il che ha innescato polemiche del tutto ingiustificate, poiché i riferimenti a questa natura del personaggio sono alquanto velati, trattati con ironia e persino conditi a volte con qualche battuta.
Nota dolente per quel che riguarda il cast è riservata alla realizzazione in CGI della Bestia. Dan Stevens, prigioniero di una massa di pelo, può far intravedere soltanto le sua labbra, fin troppo pronunciate sotto quella maschera in computer grafica da cui fuoriescono corna rivolte all’indietro, artigli ridotti e fauci poco vistose. Deludente la sua resa sul grande schermo, poiché visivamente d’impatto il suo poco omologarsi ai restanti scenari.
Chiudono il cerchio i personaggi che doppiano gli oggetti incantati del castello: Ewan McGregor è Lumière, e nella sua trasformazione finale, col suo sorrisetto furbesco e amicale, lascia intendere che sia stata una scelta ottimale per il ruolo dello svagato “candelabro francese”. Ian Mckellen è il maggiordomo preciso come, per l’appunto, un “orologio” Tockins, Emma Thompson è Mrs Bric e Gugu Mbatha-Raw Spolverina. Il talento del cast andrebbe apprezzato nella versione originale dell’opera, poiché il doppiaggio italiano, peraltro in diversi casi pessimamente adattato, non lascia intravedere la bravura degli interpreti.
SCENOGRAFIA, MUSICHE E COSTUMI
Un lavoro meraviglioso è stato eseguito dalla scenografa Sarah Greenwood. Per ricreare le ambientazioni fiabesche del film d’animazione hanno collaborato tra loro numerosi artisti: il direttore della fotografia Tobias Schliessler, la costumista Jacqueline Durran, la truccatrice Jenny Shircore e la direttrice del casting Lucy Bevan. Il paesino immaginario di Villeneuve, in cui vivono Belle e suo padre, è ispirato al villaggio di Conque, nel sud della Francia. Curioso che in questa rivisitazione non vi sia una biblioteca in cui Belle va quotidianamente per prendere in prestito un libro, bensì soltanto una Chiesa con una decina di tomi. Gli abitanti del villaggio, ignoranti e dalla mentalità ristretta anche nel lungometraggio degli anni ’90, qui vengono caricaturati all’inverosimile nelle loro accezioni negative. Si infuriano addirittura con Belle quando tenta d’insegnare a leggere a una bambina. Scelta da copione atta ad evidenziare la superiorità intellettiva ed educativa della giovane rispetto al resto dei compaesani. Curioso che le canzoni cantate dai popolani inneggino ad una Belle che “guarda tutti dall’alto in basso” e che durante le sequenze iniziali cammina con indifferenza su di un muretto in cui alcune bambine lavano i panni, sembrando irrispettosa verso il lavoro di quelle massaie in erba. Belle nel lungometraggio originale vuol soffermarsi a parlare con gli abitanti del villaggio, ma sono essi stessi ad ignorarla dopo un po’, poiché troppo presa dai racconti che poco entusiasmano l’animo dei villeggianti. Qui viene trasmesso l’esatto contrario.
Gli scenografi hanno creato il castello della bestia ispirandosi al Rococò francese. Nel film, il maniero subisce anch’esso le nefaste sorti della caduta dei petali della rosa incantata, distruggendosi man mano. Inoltre gli interni del palazzo regale sembrano esser più oscuri e demoniaci in prossimità dell’ala ovest, ricreata secondo gli stili del Barocco italiano, e meno ottenebrati dal maleficio nell’ala est dove si trova la stanza di Belle. L’enorme sala da ballo in cui si consuma la celebre sequenza dove la bestia e Belle danzano insieme è stata realizzata ispirandosi a un motivo presente sul soffitto dell’abbazia benedettina di Braunau, in Germania.
Il costume color oro di Belle, come riporta la documentazione di lavoro del film, è stato realizzato con una filigrana di foglie d’oro e poi arricchito con cristalli Swarovski.
Le musiche nella colonna sonora originale mantengono lo splendore della versione primaria, ma in italiano perdono totalmente l’incanto poiché l’adattamento è stato modificato per garantire una sincronizzazione con il labiale (mal riuscita) più veritiera possibile. Non si potranno di conseguenza intonare con gli attori i motivi più famosi del musical.
TRA RISPETTI E INNOVAZIONI
“La bella e la bestia” rispetta con assoluta devozione il classico d’appartenenza, rifacendosi ad esso nei punti centrali del proprio svolgimento. Ma il cineasta Bill Condon ha disseminato nel corso del film diverse sotto-trame che avrebbero dovuto approfondire le caratterizzazioni dei personaggi principali. Voler dare un passato ai due innamorati è stata senza dubbio una scelta lusinghiera. Da una parte vediamo come il giovane principe abbia perso la madre in tenera età venendo educato crudelmente dal padre, dall’altra parte notiamo come Belle abbia perduto la madre quand’era ancora in fasce, venendo poi allevata con amore incondizionato dal padre (un buon Kevin Kline). Rimandi narrativi interessanti se non fossero stati limitati a brevi deviazioni. Sembrerebbe infatti che Condon volesse in qualche modo abbandonare la rotta cardine e intraprendere un secondo viaggio per un sentiero diverso, in cui poter trattare con parsimonia questi nuovi accenni di trama, ma la paura di sostare troppo su queste digressioni lo ha portato più volte a riprendere in fretta il sentiero principale, ovvero quello maggiormente conosciuto della storia originale. Il ritmo alterna così stacchi più rapidi ad altri più lenti e introspettivi non garantendo un equilibrio perfetto. La sceneggiatura risente di tali frammentazioni, le quali non permettono alle tempistiche di cadenzarsi brillantemente per quel che riguarda la nascita dell’amore tra Belle e la Bestia, dove il tutto sembra avvenire perché deve essere così e non per tutti i piccoli dettagli che nel cartone animato facevano lentamente scoprire alla donna la gentilezza dell’animo del principe. Splendide, invece, le aggiunte per quel che riguarda le nuove canzoni, specialmente quella della Bestia, cantata poco dopo l'addio di Belle al castello. In quei tristi frangenti, la Bestia si lascia andare ad un lamento, intonando versi che richiamano Belle a far ritorno. Il libro con cui poter scegliere dove spostarsi semplicemente immaginando il luogo prediletto l’ho trovata una scelta gradevole ma poco incisiva. Un’innovazione che mi ha particolarmente colpito in positivo è stata la condanna finale, in cui se l’incantesimo non si fosse spezzato tutti i servitori incantati sarebbero rimasti tramutati in oggetti inanimati per sempre. Una scelta peculiare ma che riesce a commuovere, rendendo più tragico l’atto finale e ancor più eroico l’amore di Belle. Scelta casuale? No, non credo proprio! Belle, come scrivevo, si comporta più da eroina che da fanciulla decisa e sognante.
Ma l’innovazione peggiore apportata dal film alla storia è da ritrovarsi nella figura della Maga Agata, interpretata da Hattie Morahan. La sua presenza, sullo sfondo delle vicende, come fosse una sorta di “corvo” che veglia sull’andamento della sua maledizione, mi è sembrata un’aggiunta fuori luogo e inutile, personificando la fata che nel classico era avvolta nell’ascetismo. La fata l’ho sempre considerata come uno spirito punitivo che avesse colpito il principe per poi sancire una maledizione che si sarebbe compiuta o sciolta senza che ella vegliasse su ciò che stava avvenendo. La presenza della maga, anche nella scena finale in cui Belle declama il suo amore verso la Bestia, caduta sotto i colpi di Gaston, ha intralciato un momento di pura estasi amorosa, in cui la sola esternazione dell’amore di Belle spezzava l’incantesimo. La magia, nel silenzio, nel misticismo idealizzato e non personificato, donava nuova linfa vitale alla bestia trasformando tale creatura in un principe. La maga trovandosi lì e udendo le parole di Belle ha reso meno intensa e suggestiva la scena. La trasformazione è frettolosa, lontanissima dalla cura minuziosa, quasi maniacale con cui veniva mostrata la metamorfosi degli arti nel capolavoro di Gary Trousdale e Kirk Wise. Belle resta poco stupita da ciò che intorno a lei sta avvenendo, riconoscendo il principe in pochi istanti e suggellando il loro amore con un intenso bacio. L’eleganza e la raffinatezza del ballo finale viene infine deturpata da un’orripilante battuta proferita dai due innamorati: il principe risponde con un feroce ruggito alla domanda di Belle sulla sua volontà di farsi o meno crescere la barba. Una scena dal no-sense più che evidente. Le innovazioni apportate al film risultano accettabili in alcuni casi e completamente estranianti in altri, testimonianza del fatto che tentare di modificare o cambiare qualcosa da un soggetto originale già di per sé perfetto diventa difficile senonché impossibile.
CONCLUSIONI
“La bella e la bestia”, pur sforzandosi di riproporre la purezza cristallina del lungometraggio d’animazione, mantiene un’anima propria e un’identità, alla fin fine, del tutto sua. E’ innegabile possa risentire del paragone con la sua opera d’origine, a cui fa naturalmente da raccordo. “La bella e la bestia” del 1991 è un film praticamente perfetto, a mio giudizio il più grande capolavoro della Walt Disney e tentare di riproporlo sotto un altro aspetto poteva rivelarsi una mossa suicida. Si rivelerà, invece, l’ennesima mossa di successo che porterà nelle casse della Disney introiti straordinari. Gli amanti del cinema potrebbero domandarsi infine l’utilità di queste trasposizioni, che vanno a fare il verso ai lungometraggi animati già ampiamente entrati nell’immaginario collettivo così come sono. Questo ambizioso progetto della Walt Disney di rifare i propri classici in live action sembra che di ambizioso non abbia nulla, se non la volontà di far divertire. In conclusione, la chiave di lettura è proprio questa: “La bella e la bestia” del 1991 era un’opera concepita per meravigliare, stupire, incantare e far commuovere, “La bella e la bestia” del 2017 vuole, invece, soddisfare con la reminiscenza del suo primo capolavoro. E’ questa la linea di demarcazione tra i classici di un tempo e le riproposizioni: i primi meravigliavano di per sé, poiché nascevano dall’incertezza, i secondi no, in quanto nati dalla sicurezza di riproporre quanto già conosciamo.
"Navarre e Isabeau" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters
Ogni fiaba che si rispetti comincia sempre con “C’era una volta…” E se decidessimo, solo per un istante, di sorvolare tutte le altre pagine della storia e andassimo a scorrere le ultime righe della nostra fiaba non ci aspetteremmo altro da leggere che: “…e vissero tutti felici e contenti”. E’ una formula ben collaudata e fin troppo nota, che non riserva alcuna sorpresa, pur restando sempre efficace come una gradevole consuetudine. In fondo è quello che noi lettori desideriamo: una prassi narrativa consolidata nel tempo ma con quel pizzico di novità nel suo sviluppo centrale. Una fiaba deve lasciarci viaggiare con la fantasia, seguendo quei dettami imprescindibili. Deve, per esempio, riportarci in un passato che altrimenti non potremmo vivere, facendoci appassionare a una storia d’amore tra un principe e una principessa, o ponendoci nelle condizioni di affrontare fattucchiere maligne, sapienti stregoni e addirittura draghi sputafuoco, da cui potremmo difenderci soltanto con l’ausilio dello scudo costruito da un abile artigiano del villaggio. La fiaba che sto per narrare potrebbe cominciare anch’essa con un bel “C’era una volta…” ma questo non sarebbe sufficiente nella logica di una sceneggiatura cinematografica. Dovremo allora essere più specifici, scendere più nel particolare: il passato che andremo a vivere risale al lontano Tredicesimo secolo.
Sempre insieme, eternamente divisi
Un giovane ladro chiamato Philippe Gaston si appresta a compiere un’impresa mai riuscita a nessun altro prigioniero confinato tra le segrete del castello di Aguillon: fuggire. Strisciando per i sudici cunicoli delle caverne sottostanti, Philippe ritrova la libertà, scampando così da una condanna per impiccagione che si sarebbe consumata alle prime luci dell’alba. Le campane di Aguillon suonano senza sosta per segnalare proprio la prima, inaspettata fuga dalla fortezza. Certo di essersi lasciato alle spalle le guardie del vescovo, Philippe, nonostante gli assordanti rintocchi, decide di concedersi qualche attimo di riposo, sostando nei pressi di una taverna. Quello che il giovane non può immaginare è che molti dei commensali che siedono con lui al tavolo altri non sono che i cavalieri di Aguillon, prossimi a giustiziarlo. Philippe viene salvato dal provvidenziale intervento di un misterioso cavaliere. Il valoroso combattente afferma di chiamarsi Etienne Navarre, vecchio capitano della guardia di Aguillon. Navarre cavalca un maestoso destriero nero e porta sempre con sé un bellissimo falco a cui è molto affezionato. Philippe scende a compromesso con il misterioso cavaliere a cui deve riconoscenza: per ricambiare il favore di avergli salvato la vita egli dovrà aiutare Navarre ad irrompere nella roccaforte del vescovo, ritenuta fino a quel giorno praticamente inespugnabile. I due, divenuti amici per circostanza, si addentrano nel bosco prima del calar del sole. Il cavaliere, dopo aver legato il ladruncolo per impedirgli di scappare, si allontana proprio quando il sole sembra scomparire all’orizzonte, e mentre sta per genuflettersi davanti all’astro morente sussurra tra sé con voce compassata: “un altro giorno”.
Solo a notte fonda Philippe riesce a liberarsi, e così si dà alla fuga, ma dopo aver percorso soltanto pochi metri s’imbatte in un feroce lupo dal manto cupo e dallo sguardo di ghiaccio. Terrorizzato alla vista dell’animale, Gaston tenta di nascondersi in un capanno, quand’ecco che scorge una donna dal candido viso e dai grandiocchi color del cielo. La giovane avanza senza timore alcuno verso il lupo che, d’un tratto, si mostra domo e mansueto. La notte cede il passo agli albori di un nuovo giorno in cui Navarre riemerge dal bosco, e ritrova il suo adorato falco che volteggia alto nel cielo per poi finire la sua corsa sul braccio dell’amico cavaliere. La notte successiva, Philippe, per evitare che fugga via, viene ancora legato da Navarre, prima che questi si inoltri di nuovo tra la fitta vegetazione del bosco. Durante la notte si odono continui ululati che agitano non poco il povero Gaston, il quale viene liberato dalla stessa donna che aveva incontrato la notte precedente. La giovane afferma di chiamarsi Isabeau D'Anjou, e che purtroppo lei non è altro che una portatrice di dolore e sventura. L’eterea bellezza di questa dama dei boschi è paragonabile a quella di un fiore appena sbocciato, ma al contempo prossimo ad appassire, perdendo via via quei petali tanto profumati che cadono al suolo come avvizziti dal freddo dell’inverno. Isabeau volge i suoi occhi affranti verso il bosco, per cercare di scorgere il lupo, i cui ululati echeggiano tra la fitta vegetazione, proprio come se lei riuscisse a leggere dentro quei versi emessi dall’animale.
Philippe, piuttosto turbato dalle figure del cavaliere e della donna, avvolte da un palpabile alone di misticismo, decide di scappare via, venendo tuttavia raggiunto l’indomani da Navarre e dal suo falco. Anche le guardie del vescovo rintracciano il ladro, e quando Navarre si frappone tra loro e Gaston, ne segue un conflitto che vedrà trionfare il cavaliere nero. Durante l’aspra battaglia il falco rimane ferito da una freccia scoccata da una balestra e precipita giù in picchiata, per poi poggiarsi ormai sfinito a terra. Navarre, sconvolto, si affretta a raccogliere la bestiola ferita e ormai prossima alla morte. Il sole sta tramontando quando Navarre ordina a Gaston in maniera perentoria di portare il volatile alla diroccata cattedrale del monaco Imperius. Quest’ultimo si prende immediatamente cura del falco ferito il quale, a mano a mano che i raggi del sole illuminano sempre meno le alte mura del castello, perde il suo aspetto di pennuto e ritorna a essere una bellissima fanciulla, la stessa che Philippe incontrava tutte le notti da quando scortava Navarre. Isabeau ha una freccia conficcata nella spalla, rivelando oramai per certo ciò che sembrerebbe apparentemente impossibile: il falco e la ragazza sono la medesima esistenza. Imperius riesce ad estrarre la freccia dal corpo di Isabeau che si lascia andare a un urlo di dolore quando, contemporaneamente, il lupo, fermo su di un’altura, ulula al plenilunio, cercando d’esternare le proprie sofferenze. Imperius svela a Philippe e a noi spettatori ignari di questa fiaba, che rimane ancora avvolta nel mistero, ciò che in effetti accadde nel passato. Giunta già da qualche anno ad Aguillon, la splendida Isabeau incantò molti degli uomini che ebbero la fortuna di ammirarla, ma tra tutti loro ella ricambiò soltanto l’amore di Etienne Navarre. Il capitano della guardia, venuto a conoscenza della folle attrazione che il vescovo nutriva per la bella Isabeau, decise di tenere nascosta la relazione tra i due, memore della sinistra fama che aleggiava attorno al prelato, confidando la verità soltanto ad un monaco che avrebbe dovuto, di lì a breve, celebrare le loro nozze in segreto. Il monaco, che si rivelerà essere lo stesso Imperius, tuttavia, tradì la fiducia dei due innamorati, quando ubriaco, confessò al vescovo la relazione tra Navarre e Isabeau. Consumato dalla gelosia, il vescovo maledisse i due giovani riversando su di essi i malefici del demonio che condannarono Navarre e Isabeau a una vita condivisa ma eternamente distante: di giorno Isabeau sarebbe stata tramutata in un falco, mentre di notte avrebbe ripreso le sue sembianze umane; Navarre invece sarebbe rimasto uomo di giorno e lupo al calar delle tenebre.
Alla scoperta di “Ladyhawke”: la notte e il giorno
Una Michelle Pfeiffer poco più che venticinquenne donò la sua celestiale bellezza alla giovane Isabeau, conferendo al personaggio un’aura particolare, contraddistinta da una sofferenza protratta nel tempo. Isabeau nell’interpretazione della Pfeiffer è una donna forte, che combatte senza alcun timore pur di proteggere Navarre quando egli, trasformato in lupo, rischia di cadere vittima di un sanguinario cacciatore. L’attrice possiede l’abilità di concedere al personaggio tratti tanto dolci e aggraziati quanto fermi e decisi, essendo essa disposta a tollerare il dolore di una vita oppressa da una strana forma di prigionia pur di non arrendersi, continuando a credere fermamente che ci sia ancora spazio alla speranza d’annullare il tristo maleficio. Navarre, interpretato da Rutger Hauer (già famoso per aver pronunciato il celebre dialogo finale in “Blade Runner”), è invece un personaggio molto più rassegnato al proprio destino rispetto a Isabeau. Sarà per via della sua maturazione, ben più evidente rispetto a quella della ragazza, che lo porta ad affidarsi poco a un’aspettativa che potrebbe rivelarsi un’utopistica illusione. Navarre è un cavaliere dall’indomito coraggio, che rispecchia totalmente i caratteri tipici dell’eroe solitario e incorruttibile che si batte più per amore di Isabeau che non per se stesso.
“In fondo domani è un altro giorno…” è una delle frasi più famose pronunciate da Vivien Leight in “Via col vento”. Un messaggio di speranza che la protagonista del capolavoro del 1939 diceva a se stessa, per continuare a credere in un domani migliore e in un futuro benevolo. In “Ladyhawke” il domani è soltanto la triste, seppur diversificata, ripetizione di un giorno già trascorso. L’indomani non reca alcuna speranza per il cavaliere nero, poiché il sole seguiterà sempre a sorgere e le tenebre scenderanno comunque ogni notte sulle vite dei due innamorati. Ne deriva un’evidente demarcazione rappresentata dai protagonisti: il buio e la luce, la notte e il giorno. Navarre con indosso un’armatura coperta da un mantello nero reca sempre con sé il simbolismo della notte, dell’oscurità che tortura il suo spirito. Isabeau, invece, è una fanciulla dai lineamenti angelici che cammina solitaria tra i boschi con la grazia indiscussa di un elfo nato dalla penna di J. R. R. Tolkien. Come i protagonisti, che risultano intrappolati in una specie di vita a metà, così “Ladyhawke” è una sorta di storia prigioniera in un genere ambivalente: quello della fiaba e della favola. Navarre e Isabeau nelle loro fattezze umane assurgono ai canoni della fiaba, ma nella loro trasformazione in creature della foresta e del cielo tendono ad avvicinarsi ai velati aspetti della favola, con gli animali intesi come incarnazioni di ideologie e credenze del tempo. Una seconda diversità personificata dalle due creature è da ritrovarsi nei due “spazi vitali” in cui si muovono la donna e l’uomo. Isabeau, tramutata in falco, diviene la signora del cielo, volando con le proprie ali fino alle vette più estreme. Navarre invece, trasformato in un lupo, è il signore della notte, rimasto con le zampe ben ferme a terra, potendo solo alzare i suoi occhi al cielo, in quella “realtà” così distante che non potrà mai raggiungere. Il lupo nero ulula alla luna come se volesse lasciarsi andare ad un malinconico canto che soltanto il cielo può accogliere nella tranquilla “riservatezza” della notte. Come il lupo resta attratto dalla luna, non riuscendo a scorgerla pienamente perché fin troppo distante, così Navarre, subita la trasformazione, cede a un continuo lamento verso quella volta celeste in cui, di giorno, il suo falco vola maestoso. L’ululato del lupo nel film altro non rappresenta se non il grido disperato di Navarre rivolto al cielo, quella realtà che egli non può raggiungere esattamente come non può rivedere Isabeau. La dannazione circa il fato dei due sfortunati innamorati è ulteriormente rimarcata nel tema dell’incomunicabilità. A differenza delle favole di Esopo, gli animali non possono esprimersi in quanto tali, e la vicinanza tra Navarre e il suo falco non può che limitarsi a lievi carezze che l’uomo riserva all’adorato pennuto. Isabeau, al contempo, può soltanto placare l’animo irrequieto del lupo accarezzandone il manto per regalargli qualche attimo di conforto e serenità. Navarre e Isabeau, divisi da una metamorfosi corporea, non possono quindi comunicare neppure con brevi sguardi corrisposti. La figura di Philippe si pone nel mezzo, essendo essa utile a garantire un punto di raccordo tra i due innamorati privati della possibilità di potersi rivedere. Di giorno Philippe riporta al suo salvatore le parole pronunciate dalla bella Isabeau, e di notte ciò che Navarre vuole che Isabeau sappia. Philippe rappresenta quindi una sorta di “trasposizione” eseguita dal regista Richard Donner nei confronti dello spettatore, nel caso in cui uno di noi fosse “catapultato” in questa fiaba e si trovasse interposto tra queste due anime separate da forze rie e ostili.
L’ambientazione del film è spiccatamente italiana, con il castello di Rocca Calascio e il Borgo di Castel del Monte come luoghi prescelti per impreziosire ancora di più una ricostruzione scenografica di un mondo medievale. In “Ladyhawke” traspira un amore per il cinema girato dal “vero”, tipico degli anni ’80, in cui si prediligeva scegliere da principio aspetti sognanti e fantasiosi, infondendo in essi i caratteri più profondi di un’indagine sull’animo umano e verso l’amore ben più articolata di quanto sembrerebbe a priori. “Ladyhawke” è una fiaba onirica, costantemente in bilico tra il sogno e la veglia, tra la realtà crudele e il mondo idilliaco del miraggio fantastico.
La scena più intensa del film è senza dubbio quella in cui Isabeau attende il sorgere del sole, riparata in un piccolo spazio, distesa assieme al lupo. Il sole comincia a sorgere dietro le colline e i raggi luminosi irradiano l’epidermide dell’animale. L’incantesimo si disfa progressivamente e Navarre si materializza, riprendendo la sua forma umana. Il sole non è ancora sorto completamente e Isabeau ha mantenuto ancora il suo aspetto naturale, quando Navarre si volta riuscendo a vederla. I due innamorati tornano a rimirarsi dopo interminabili mesi, ma non appena allungano le mani per potersi a stento sfiorare, l’inclemente maleficio si manifesta di nuovo e Isabeau, trasformatasi in falco, vola via: delle brevi sequenze dall’innegabile valenza commovente. Guardare la persona a noi più cara, poterla fissare ogni qualvolta lo desideriamo, avere la possibilità di stringerla a noi, farle una carezza per mostrarle tutto il nostro affetto, è ciò che spesso diamo per scontato. Dinanzi a due innamorati che dispongono appena di qualche istante per potersi soltanto intravedere non possiamo fare a meno di chiederci quanto sia ineluttabile il destino di una vita e quanto valore abbia il tempo che passiamo assieme alle persone amate.
Un giorno senza la notte e una notte senza il giorno
Navarre, non vedendo alcuna via d’uscita da questa tragica sorte, decide di vendicarsi irrompendo con Philippe nella fortezza di Aguillon per uccidere il vescovo. Il cavaliere prima di intraprendere quest’ultima missione ha ordinato a Imperius di uccidere il falco se avesse udito le campane della chiesa suonare, poiché ciò avrebbe significato la morte dell’uomo. La chiesa guidata col pugno di ferro dal crudele porporato assume i caratteri contrapposti a quelli della casa di Dio, cui dovrebbe essere, divenendo invece un luogo tetro e malvagio, dimora del diavolo. Il vescovo di Aguillon, nella sua ideazione, sembra essere ispirato a Claude Frollo, il prete custode della cattedrale di Notre-Dame nel capolavoro letterario di Victor Hugo “Notre Dame de Paris”. Come Frollo anche il vescovo s’innamora di una giovane donna dalla bellezza indescrivibile, ammirata per la prima volta sul sacrato della chiesa in cui Isabeau (Esmeralda nel libro di Hugo) trascorreva alcuni momenti della sua giornata. Il vescovo è paragonabile alla figura del truce religioso parigino soprattutto per la sua folle concezione dell’amore: un sentimento violento e possessivo, che lo porterà a sviluppare l’idea che se non potrà avere lui quella donna allora non l’avrà nessun altro. L’elemento soprannaturale però è unicamente riscontrabile nell’agire del vescovo, che maledisse i due giovani per impedire loro di vivere appieno l’amore che provano l’uno per l’altra. “Ladyhawke” tenta inoltre di mostrare come in epoca medievale la chiesa fosse una potenza politica e militare che poteva contare su imponenti eserciti e dominare con velleità dittatoriali. Navarre prima di poter affrontare il vescovo dovrà duellare con il capitano della guardia. Navarre, come ha sempre fatto, indossa un’armatura scura mentre sta in sella al suo cavallo nero; il suo avversario, invece, cavalca un cavallo bianco, difendendo una chiesa corrotta, un “bene” in questa storia non cristallino, anzi alquanto “opacizzato”. Appare evidente una sorta di dicotomia contrapposta tra i colori di scena rispetto alle scelte classiche, in cui il nero rappresenta il bene e il bianco il male. Al termine della contesa, Navarre sconfigge il cruento rivale, prima di accingersi a uccidere il vescovo. In quel momento avviene un’eclissi solare, e la luce del mattino tende a perdersi in una flebile oscurità: è un giorno senza la notte e una notte senza il giorno. Isabeau improvvisamente varca la soglia della chiesa: la maledizione si è spezzata. Navarre, una volta intravista l’amata, ignora improvvisamente il suo acerrimo nemico per avvicinarsi a lei. I passi dei due giovani si fanno sempre più incalzanti e in prossimità dell’altare, Navarre, prostrandosi in ginocchio, riabbraccia Isabeau. La splendida ragazza si avvicina in seguito al vescovo, che abbassa lo sguardo sopraffatto dalla vergogna. Isabeau mostra le sue mani oramai “spoglie” delle dannate catene in cui l’aveva confinata. Il porporato accecato dall’odio non accetta la sconfitta, e tenta di sorprendere alle spalle la giovane donna, ma Navarre, avvertito il pericolo, si volta di scatto e trafigge il prelato con la sua spada, uccidendolo. Navarre quindi si ricongiunge a Isabeau e l’abbraccia calorosamente, sollevandola con forza verso l’alto, mentre la ragazza, voltando lo sguardo all’indietro, si lascia andare ad un sorriso liberatorio. L’eclissi svanisce e il sole torna a risplendere, illuminando così i corpi dei due innamorati attraverso la vetrata della chiesa.
Terminare questa meravigliosa storia d’amore con la formula di rito “…e vissero tutti felici e contenti.” potrebbe apparire come un qualcosa di riduttivo alla celebrazione di un tale momento di gioia. Tuttavia non possiamo essere certi che i due innamorati abbiano vissuto per sempre nella felicità più autentica e cristallina. Ciò che è certo però è che da quel momento in poi ebbero di nuovo la possibilità di poter vivere comunque la loro vita assieme.
Preferisco terminare queste mie osservazioni sul film dicendo solamente che Isabeau e Navarre vissero per sempre uniti e mai nessuno più li divise, finché il sole continuò a sorgere e a tramontare, finché ci fu il giorno e ci fu la notte.