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NON PIANGER PIU’ – DUMBO

"Dumbo" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

Anni addietro lessi una meravigliosa poesia di Charles Baudelaire intitolata “L’albatros”. L’albatros è un candido uccello marino dalla grande apertura alare, maestoso e ed elegante quando solca in volo la superficie del mare. Il componimento di Baudelaire tratta di marinai che catturano uno splendido esemplare di albatros, e quando viene deposto sulle tavole dell’imbarcazione improvvisamente perde tutta la sua maestosità divenendo addirittura impacciato e goffo. Le agili ali che gli permettevano di volare divengono sulla terra dei pesi insopportabili da poter reggere. L’albatros, precedentemente ammirato nel suo volo, viene adesso deriso dai marinai per la sua difficoltà a muoversi a bordo del bastimento. Il poeta paragona la figura dell’Albatros a se stesso, vittima di ingiurie da parte dei popolani. Baudelaire nutriva in cuor suo il sogno, l'immaginazione, la fantasia che gli permetteva di librarsi alto, oltre gli scherni dei villici. La prima volta che lessi i versi di quella lirica mi venne naturale accostare l’albatros di Baudelaire, come in una specie d’assonanza, alla figura cinematografica di Dumbo. Come l’albatros, signore del cielo, appare frastornato così anche il minuto elefantino sulla terraferma si muove con difficoltà. Le grandi ali dell’albatros come le grosse orecchie di Dumbo impediscono un movimento coordinato, perché entrambi questi due esseri sono destinati a librarsi alti nel cielo. Per Dumbo, però, la vera particolarità è da riscontrarsi nel fatto che esso, pur essendo un animale terrestre, riesca a trovare il suo “mondo prediletto” su nella volta celeste.

A notte inoltrata, in un cielo stellato, uno stormo di cicogne volteggia su di un grosso tendone da circo. Planando in prossimità delle gabbie in cui riposano gli animali, le cicogne lasciano cadere dolcemente dei cuccioli tra le braccia accoglienti dei neogenitori. Un’elefantessa dall’ampia cuffia rosa e con un drappo azzurrastro che le copre la schiena, da tutti chiamata “signora Jumbo”, attende con impazienza che una cicogna giunga proprio sulla sua caustica dimora; ma sarà questa un’attesa destinata a non trovare il compimento desiderato. L’indomani il circo chiuderà i battenti in quella località e si sta già provvedendo a caricare gli animali sui vagoni del treno alla volta della nuova destinazione. Ed ecco una cicogna in evidente ritardo fermarsi qualche istante su di una nuvola e poggiare su di essa un cucciolotto avvolto in una calda coperta. La cicogna legge con attenzione la mappa che ha con sé per capire dove si trovi con precisione la signora Jumbo, a cui deve recapitare una “consegna” alquanto importante. Nel frattempo il peso del nuovo nato crea non pochi problemi alla cicogna la quale deve più volte riacciuffarlo in extremis prima che esso precipiti definitivamente giù dalla nuvola. Ogniqualvolta rivedo questa scena, e mi succede ancora oggi, mi sembra di vedere con una certa qualità d’immagini, suoni, gesti e schiamazzi di un qualsivoglia pubblico intento a urlare alla cicogna di voltarsi il più in fretta possibile per afferrare il “pargoletto” prima che vada giù. La cicogna si fa nuovamente carico di questo dono speciale e si getta all’inseguimento del treno oramai in movimento. Raggiunto il vagone in cui si trova la signora Jumbo, la cicogna le offre il panno in cui è ancora avvolto l’elefantino che la mamma chiamerà Dumbo. Il piccolo ha due bellissimi occhioni azzurri e con essi comincia a scrutare il mondo circostante, a osservare ciò che gli sta accanto. Dapprima sorride a sua madre, poi alle altre elefantesse lì presenti a cui accenna una seconda espressione gioviale. Uno starnuto improvviso di Dumbo fa sì che le sue orecchie si liberino e si mostrino in tutta la loro effettiva e ingombrante rarità. Questa stravagante peculiarità del suo aspetto non viene affatto gradita dalle altre elefantesse che iniziano a deriderlo per la bislaccheria di tali orecchie a sventola. La madre, infastidita dal borbottare sommesso delle altre elefantesse, raccoglie con la sua proboscide Dumbo e lo allontana così dagli sguardi indiscreti e maliziosi delle presenti. Dopodiché comincia a cullarlo con quell’amore sincero e incondizionato che solo una madre sa dare.

“Dumbo” venne proiettato nei cinema di tutto il mondo nell’ultimo trimestre del 1941. Durava poco più di un’ora. Il che fece esitare inizialmente molti distributori che manifestarono a Disney l’intenzione di distribuirlo come un “B-movie” o, in alternativa, come un cortometraggio. Disney rifiutò categoricamente di denigrare in qualche modo la sua opera, privandola dell’etichetta di vero e proprio “film”, pretendendo che “Dumbo” venisse universalmente riconosciuto come un’opera di breve durata ma dall’egual valenza di un film di canonica durata. “Dumbo” rappresentava il quarto classico della Disney, successivo a “Bianca neve e i sette nani”, “Pinocchio” e “Fantasia”.

Dumbo” inizia con un’attenzione accorta e sensibile riservata al concetto classicista di “famiglia”. Facendo leva sulla favola popolare degli infanti portati dalla cicogna, il film rilascia il primo messaggio: il dono della nascita. Un dono inestimabile sia per il nascituro che viene al mondo sia per i genitori che ricevono tale “pegno d’amore” in una notte senza alcun preavviso ma che magari attendevano da tempo. La nascita viene quindi rappresentata come un avvenimento condizionato ad un determinato momento della vita, in cui gli stessi genitori si sentono pronti ad accogliere e allevare un figlio. La nascita compiuta attraverso il gesto simbolico di una cicogna che porta i cuccioli è un atto necessario per tracciare un legame sottinteso ma intrinseco tra figli e genitori, volto a rivelare un affetto che sboccia in maniera istantanea. Gli animali disegnati dalle magiche matite degli artisti della Disney divengono genitori nel momento in cui scelgono di crescere la prole che il cielo gli ha donato, rimarcando come tale rapporto sia ugualmente paragonabile al legame di sangue: genitore è chi mette al mondo un figlio ma lo è di più chi, di quel figlio, se ne prende cura. Gli animali divenuti genitori nel film sono il più delle volte singole madri.  La stessa signora Jumbo aspetta il proprio cucciolo, ma esso sembra tardare ad arrivare, rendendo ancor più unica la sua nascita, come un parto speciale e per questo difficilmente prevedibile. Dumbo non possiede un padre, come se si volesse sottintendere che anche le madri rimaste sole possano crescere con affidabili riscontri i propri figli, districandosi comunque tra il lavoro (qui rappresentato dal circo) e il ruolo affettivo ed educativo di “mamme”. Come accadrà pochi anni dopo al piccolo Bambi, anche Dumbo verrà sottratto all’affetto della madre. Ma se il piccolo cerbiatto dovette sostenere il fardello di un trauma improvviso che portò con sé l’efferatezza di un’innocenza spezzata da un evento tragico, e difficile da comprendere in tenera età come la morte della madre, Dumbo viene soltanto costretto a rimanere lontano dalla genitrice, assumendo un’aria triste e sconsolata ma non per questo perdendo la sua vena sognante e speranzosa che lo porterà a non smettere mai di cercarla fin quando non la ritroverà. Una volta che il circo viene aperto al pubblico, Dumbo viene schernito da un nugolo di ragazzini. Uno in particolare, somigliante in maniera piuttosto evidente al noto Lucignolo di “Pinocchio”, si dimostra aggressivo nei confronti del piccolo elefante, strattonandolo con forza. Furibonda la madre di Dumbo si scaglia prima sul manipolo di vessatori e poi sul personale del circo, che la rinchiude in una gabbia come “elefante impazzito”. Dumbo resta così triste e solitario. Nascostosi sotto un cumulo di paglia, viene avvicinato da Timoteo, un topo con cui stringerà la prima amicizia della sua vita.  Timoteo ricorda, negli atteggiamenti e nel suo ruolo di mentore nei confronti del protagonista, il grillo parlante di “Pinocchio”. Proprio Timoteo infatti concede velati rimandi a questa sua natura di “voce interiore” quando di notte sussurra all’orecchio del direttore circense le esibizioni future da dover portare in scena. Il direttore crede infatti che le idee nascano dai propri sogni, come se la notte gli portasse consiglio, quando in verità sono soltanto le parole del topolino apprese inconsciamente.

Timoteo, il solo ad avere compassione del piccolo, sprona più volte Dumbo ad assumere maggior fiducia in se stesso.  L’amicizia tra i due animali è strutturata in modo da insegnare cosa sia realmente l’accettarsi a vicenda. Timoteo è un topo, l’animale di cui gli elefanti hanno timore, secondo le credenze popolari. In realtà, il topo, essendo piccolo e veloce, destabilizza gli elefanti che lo vedono aggirarsi di soppiatto nelle loro vicinanze; nient’altro. Lo stesso Timoteo terrorizza le elefantesse che mostravano totale indifferenza nei confronti del piccolo Dumbo. Eppure, il piccino non ha alcuna paura del topo. Come se da bambini, restando al di fuori dei pregiudizi, in quell’innocenza infantile, non si comprendesse davvero ciò che in età adulta potrà diventare odio e timore razziale. Il topolino rappresenta la specie “avversa” a quella degli elefanti, ma l’amicizia con il piccolo Dumbo certifica come spesso l’incomunicabilità e la diversità possano essere superate dalla semplice conoscenza.

Dumbo è timido e innocente, ancora incapace di reagire ai soprusi. Egli viene emarginato dai suoi simili prima ancora che sbeffeggiato dagli uomini poiché diverso nell’aspetto, e per questo non accettato. Le sue grandi orecchie sono la metafora visiva della sua diversità. Dumbo sembra non curarsene, o per meglio dire, sembra non accorgersi minimamente della sua particolarità esteriore, non riuscendo così a comprendere propriamente perché venga isolato da tutti. Le sue grandi orecchie minano persino la sua andatura e lo fanno spesso inciampare, questo perché Dumbo non è nato per restare con le zampe sempre ben piantate al suolo.

Timoteo conduce il piccolino a trovare la mamma, rinchiusa in una cella cupa e soffocante. Dumbo è talmente piccolo da non saper parlare, per questo il legame con la madre viene solamente espresso con gli occhi colmi di lacrime e le carezze delle loro proboscidi. Se da una parte Dumbo non può parlare alla madre, essa dall’altra non può neppure vederlo, poiché la gabbia è chiusa quasi fino al tetto, lasciando soltanto una piccola finestrella, dove potersi affacciare. Dumbo non può raggiungere tale altura così la madre protende la sua proboscide, iniziando a cullarlo dolcemente da destra a sinistra e viceversa. Ciò che non viene espresso a parole o con gli sguardi viene semplicemente mostrato dal tatto affettivo. Una scena dal pathos viscerale, che genera una commozione istantanea. I nostri occhi vengono inumiditi come in un riflesso condizionato, tanto profondo è il linguaggio emotivo della scena da arrivare dritto al cuore, scandendo ogni singolo battito.

Le influenze di “Fantasia” sono riscontrabili anche in “Dumbo” e spesso la musica accompagna i movimenti del cucciolo, cadenzando il ritmo musicale con il semplice gesto o lo spostamento dell’elefantino. La musica e l’immagine divengono una cosa sola nella celebre sequenza degli elefanti rosa. Dumbo si abbevera da una tinozza insieme a Timoteo senza rendersi conto che in quel barilotto è stata accidentalmente versata un’intera bottiglia di champagne. I due, ubriachi e confusi, iniziano a vedere dappertutto elefanti rosa che ballano, suonano e intonano versi inquietanti. Una scena lunga e intensa in cui i colori luminosi del sogno vengono “divorati” dalle musiche angoscianti dell’incubo, come se Ipno, il dio greco del sonno, subisse i canti nefasti del fratello Thanatos. Il coro accompagna la danza in un incubo ad occhi aperti che induce Dumbo a non curarsi di ciò che sta avvenendo realmente intorno a lui. La mattina seguente Dumbo e Timoteo si svegliano sulla cima di un albero. Timoteo deduce che sono arrivati fin lì grazie a Dumbo e che l’elefante ha imparato a volare. Dumbo non ci crede e così Timoteo, supportato da un gruppo di corvi canterini, dona all’amico una magica piuma che permette a chi la possiede di poter realmente volare. Tenendola stretta sulla sua proboscide e guardandola intensamente, Dumbo comincia a librarsi in aria, sospinto dalle sue grandi orecchie. Tornato in scena al circo, Dumbo si esibisce nuovamente nel suo numero da “pagliaccio”, ma questa volta, lanciatosi dal limite massimo di un palazzo in fiamme, non precipiterà giù, ma volerà, gettando nello stupore un’intera platea gremita di spettatori. Timoteo, rimasto nascosto nel cappello indossato da Dumbo, gli toglie via la piuma magica, in verità soltanto uno strumento per far prendere a Dumbo la giusta fiducia in se stesso, e, infatti, egli prosegue comunque a volare. Dumbo diviene una star di prima grandezza, trionfando su chi si prendeva gioco di lui. Timoteo diviene il suo impresario, mentre Dumbo si ricongiunge alla madre in un vagone privato del treno a lui completamente dedicato.

Dumbo trasforma quello che per molti era un difetto in un pregio. Le orecchie scomode che spesso lo facevano cadere maldestramente divengono le sue ali, permettendogli di volare in alto con sicurezza e abilità. Come l’albatros della poesia così Dumbo dimostra di non appartenere propriamente alla terraferma, ma di poter raggiungere le vette più alte dei sogni e delle speranze. “Dumbo” insegna la condivisione della diversità estetica, dell’unicità di ogni singolo talento custodito e coltivato in noi. “Dumbo” è un film carico di sentimento e traboccante di coinvolgente pathos, un film che commuove dal primo all’ultimo istante. Nessun altro personaggio della Disney riesce a conservare in sé una dolcezza e una tenerezza paragonabile a quella dell’elefantino. Dumbo è emotività viva e senziente, comunicativa e profonda. Esso si rivolge al pubblico senza proferire parola alcuna, bensì comunica con gli sguardi e con il singolo gesto della sua proboscide, con i movimenti talvolta roteanti delle sue orecchie e con l’immensità animosa dei suoi occhi. Dumbo si rivolge al cuore di chi segue il suo cammino, non temendo di piangere dinanzi a chi impara lentamente a conoscerlo. Un elefantino talmente amabile che ogniqualvolta piange, soffrendo l’allontanamento dall’amore materno, non fa che indurre i propri spettatori a sussurrare: “non pianger così, non pianger più”. Se poi a queste parole si abbina il valore della melodia e della colonna sonora premiata con l’oscar, “Dumbo” travalica i confini della pellicola, riuscendo a creare un legame con i suoi spettatori fatto di canti e lacrime vere. Esso resta in silenzio, lasciando noi tutti a meditare magari alla nostra di madre o alla figura che maggiormente ricordiamo come la più importante della nostra infanzia, intonando le parole del testo: “Bimbo mio, non temer, la tua mamma è con te; fa' brillar gli occhioni blu, non pianger più, non pianger più, bimbo mio”.

“Dumbo" indugia sulla commozione ma non desidera soffermarsi completamente su essa, vuole invece allontanar tale pianto, poiché solo dopo averlo provato possiamo comprendere come farlo andar via. Il turbamento e la commozione generano infine la spensieratezza e l’ilarità in un viaggio contradditorio del sentimento umano. E nel finale, infatti, quando lo ritroviamo con la sua mamma, possiamo finalmente spogliarci di quella sorta di catarsi che il film ci ha indotto a sperimentare, rimanendo qualche istante fermi con il sorriso stampato in volto, a intonar un’ultima volta “non pianger più”. Perché davvero non vogliamo che Dumbo pianga più. Mai più!

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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