Vai al contenuto

C’era una volta…”,  basta che si pronunci la piccola formula, e già ci sentiamo nel mondo delle fiabe, con i suoi personaggi misteriosi e benefici, ma anche malvagi, i talismani, le bacchette magiche, i tappeti volanti e le bambinaie che volano senza ricorrere neppure al tappeto, basta solamente un ombrello. Già, come se con gli ombrelli si potesse volare!

Avrete di sicuro capito di chi sto parlando. Già, proprio di lei, di Mary Poppins. La tata più famosa di sempre. Una tata del tutto particolare, di quelle che non se ne vedono tante in giro. Anzi, direi proprio nessuna, perché c’è solo lei. Mary Poppins è unica!

Mary Poppins è diventato un film nel 1964, diretto da Robert Stevenson, tratto da un romanzo di Pamela Lyndon Travers. Walt Disney impiegò vent’anni prima di convincere la Travers a realizzare un film da quel suo romanzo. La sua costanza fu premiata, come dicevo appunto, nel 1964. E fu un successo senza precedenti, benché fino all’ultimo l’autrice rimase alquanto scettica che il film potesse rendere giustizia al suo personaggio particolare.

Il lungometraggio racconta le avventure di una tipica famiglia londinese degli anni Trenta, i Banks, che un giorno assume per i suoi due bambini una straordinaria governante di nome Mary Poppins. Mary all’aspetto è una normale donna. In realtà è un essere straordinario, capace delle più strabilianti magie. La caratteristica del film è proprio la naturalezza con cui l’irrazionale e lo straordinario entrano di soppiatto nel quotidiano.

Contrariamente a quanto possa sembrare i veri protagonisti del film non sono i bambini ma gli adulti. Se ci soffermiamo un attimino a pensare ci accorgiamo che Mary Poppins agendo sul temperamento di Jane e Michel, i due bambini ritenuti irrequieti, in realtà giunge a mutare il modo di pensare e d’agire dei grandi, a modificarli e trasformarli, facendo diventare un po’ più bambino qualcuno e un po’ meno qualcun altro. La morale è talmente chiara ed evidente nel film da non farcene quasi rendere conto. Salta subito agli occhi che per essere felici basta solamente  essere ricchi, amati e baciati dalla fortuna. Non serve altro. In effetti però non è affatto così. E lungo lo scorrere del film questo viene fuori in tutta la sua disarmante verità e presa di coscienza. Occorre dunque cogliere tutte le sfumature della vita che agli occhi dei due piccoli protagonisti neppure esistono e guardare il mondo per quello che realmente è.

Mary Poppins è un bellissimo film musicale, una commedia per tutte le età, e nonostante siano passati parecchi lustri dalla sua prima apparizione sul grande schermo può sempre rappresentare un buon punto di partenza per analizzare il tema dei metodi educativi, il ruolo dei genitori e le aspettative dei figli in seno alla famiglia. La prima scuola di socialità è appunto la famiglia, è il luogo natio, è lo strumento più efficace di umanizzazione perché collabora alla costruzione della società e alla trasmissione dei valori e dei principi.

Il concetto spesso ripetuto da Mary Poppins, e cioè “Non giudicare mai le cose dal loro aspetto” ci pone davanti un quesito filosofico. Con questa frase la bambinaia ci fa correre con la mente al pensiero di Platone e di Schopenhauer, due filosofi che mostravano una spiccata diffidenza verso la sfera dei fenomeni empirici, così come viene immediatamente suggerito dai sensi. Un film, Mary Poppins, che dal lontano 1964 riesce ancora a entusiasmare chi lo guarda. Con il suo racconto lineare, descrive un mondo da sogno, assolutamente fantastico, che, in frangenti razionalmente inverosimili, conduce lo spettatore nel più profondo dei percorsi introspettivi, palesando quanto la fantasia, l’assoluto potere dei sogni, in cui tanto confidava Walt Disney, possa modellare la realtà.

Mary Poppins si rivolge al cuore ma anche alla mente dello spettatore. Questa straordinaria bambinaia piovuta dal cielo, che nel dire le cose le dice cantando, ma che sa all’occorrenza essere anche risoluta e fascinosamente sopra le righe, si farà beffa della caducità della vita con la sua splendida voce, le sue arti magiche, le sue trovate, soprattutto con la sua grande umanità. Mary Poppins è l’icona della fantasia, la personificazione del sogno, la perseveranza di Walt Disney e della bontà del suo profondo progetto. E’ un film bellissimo, senza eguali. Non una scena, non una sequenza, né tantomeno una battuta è messa lì per caso o solo per metterla, per riempire uno spazio, per dar libero sfogo a esigenze di mercato. Ogni frase, ogni dialogo, ogni battuta rende armonioso il disegno originario, completa l’ingegno creativo e ne soddisfa l’intento. E lo dimostrano le tantissime testimonianze che a cinquant’anni dalla sua prima uscita lo vedono ancora protagonista delle serate casalinghe.

Mary Poppins è un cult dal primo soffio del vento dell’Est all’ultimo aquilone che solca l’aria nell’azzurro del cielo. Una scena di pregevole fattura è quella degli aquiloni in cui la spensierata canzone, che da fanciulli resta tale, qui prende significati molto più profondi e intimi che arrivano diritto al cuore dello spettatore.

Il fascino di questo film non sta solamente nei segreti della singolare bambinaia ma in tutto il complesso delle emozioni, degli stati d’animo, delle sensazioni che come un caldo abbraccio ti raggiunge e ti riempie di pacata beatitudine. Che dire poi della vecchina dei piccioni? Arte allo stato puro! Piccole e grandi emozioni capaci di provocare lacrime vere e candidi sorrisi.

Il film vinse cinque Premi Oscar: miglior attrice protagonista, (Julie Andrews), miglior montaggio, migliori effetti speciali, miglior colonna sonora, miglior canzone.

Venne nominato al miglior film, alla miglior regia, alla migliore sceneggiatura non originale, migliore fotografia, migliore scenografia, migliori costumi, miglior sonoro, miglior colonna sonora adattata.

Julie Andrews vinse anche il Golden Globe come miglior attrice.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

Vi potrebbero interessare:

Jessica Rabbit disegnata da Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Potrà sembrare alquanto peculiare come scelta descrittiva, ma forse proprio per questo, vorrei tentare in qualche modo di paragonare “Chi ha incastrato Roger Rabbit” a un western di stampo classico, contrassegnato dal solito duello tra due “banditi”. L’unica variante, davvero “unica”, se così posso definirla, riguarda i costumi di scena anni ’50 indossati da questi due atipici “contendenti”. Supponete dunque d’intravedere due pistoleri che si dispongono ai poli opposti di un’arena deserta in cui regna un silenzio carico di suspense. Da un lato scrutiamo la sagoma piuttosto tarchiata di un pistolero dalle grandi orecchie a punta che seguita a mantenere un atteggiamento giocoso e una risata stridente stampata su di un volto candido, nascosto da una bandana, che lascia intravedere soltanto i due occhioni azzurri. Dall’altro lato, il rivale, decisamente più alto e pingue, resta cauto e flemmatico, con un’espressione rabbiosa e uno sguardo glaciale, celato da un copricapo grigio che fa pendant con un impermeabile beige. La mano di quest’ultimo tamburella sul fodero della pistola, egli è impaziente di estrarla e premere il grilletto più velocemente dell’altro contendente per colpirlo. Il più “allegro” dei due, però, sfodera una pistola cartoonesca, da cui partono pallottole vive e senzienti, alcune di esse dotate di occhi, labbra e persino baffetti spioventi che si soffermano in aria e cominciano a intonare motivetti lieti e spensierati. Il rivale più tristo, a quel punto, non può che lasciarsi andare a una fragorosa risata, essendosi fatto contagiare da quell’ironia surreale perpetrata dal primo pistolero. I due depongono così le armi, ritrovando probabilmente se stessi in questa sorta di “singolar tenzone”. Il pistolero amareggiato toglie il cappello e rivela il suo vero volto, mentre l’altro slaccia la bandana rivelando il proprio viso da…coniglio. Li ho più volte reinterpretati così, Roger ed Eddie, come due rivali prima ancora che due amici. Come due “pistoleri” in cui confluiscono e inevitabilmente tendono a scontrarsi sentimenti ambivalenti: la gioia di vivere e l’amarezza di sopravvivere. Il primo pistolero, ovvero Roger, contagia con la sua ironia il secondo pistolero, vale a dire Eddie Valiant.

“Chi ha incastrato Roger Rabbit” venne prodotto da Steven Spielberg e diretto da Robert Zemeckis dalla cui collaborazione aveva già visto la luce il primo capitolo della trilogia di “Ritorno al futuro”. “Chi ha incastrato Roger Rabbit” fu accolto con reazioni entusiastiche, vincendo quattro premi Oscar e entrando di diritto tra i capolavori più rinomati del cinema d’ogni tempo. Il film, girato in tecnica mista, unisce attori in carne ed ossa con cartoni animati, realizzati con l’ausilio di straordinari effetti speciali, il tutto in un clima capace di stuzzicare la fantasia dei più piccoli e soddisfare i desideri degli adulti con una trama accattivante e per nulla prevedibile. La pellicola possiede una comicità esilarante incarnata nel personaggio di Roger, e un rassegnato cinismo personificato, invece, in Eddie Valiant. “Chi ha incastrato Roger Rabbit” è un noir in cui la realtà cruda si mescola con la fantasia più sferzante, in un dualismo tra “uomo” e “creazione artistica” che costituisce il paradigma di base dell’investigazione dei due protagonisti: ancora Eddie e Roger. Eddie (interpretato da Bob Hoskins) è un detective privato irascibile e frustrato. Valiant soffre di un’acuta depressione e tenta inutilmente di soffocare i suoi problemi rifugiandosi nell’alcool. Eddie vive in una realtà in cui uomini e cartoni coesistono in perfetta armonia. Questi ultimi non vivono solo sullo schermo grazie al volere produttivo dei propri creatori, ma hanno un’identità del tutto autonoma, svolgendo il proprio lavoro come fossero degli attori stipendiati nell’Hollywood della prima metà del Novecento. Eddie è innamorato di Dolores, una bellissima donna della sua stessa età, la quale ricambia i suoi sentimenti. Tuttavia, Eddie continua a non essere pronto per una relazione stabile, poiché tormentato dal passato. Egli non si fida di nessuno e odia i cartoni i quali gli rammentano che proprio uno di essi ha ucciso il fratello. Eddie conserva tuttora il ricordo dello sguardo terrificante e della risata ansiogena dell’assassino. L’incontro con Roger Rabbit, un coniglio simpaticissimo quanto goffo e poco intelligente, segna l’inizio della rinascita di Eddie.

Roger non sembra comprendere la tristezza che attanaglia l’animo dell’uomo, cercando più volte di stemperare la sua tensione con gag improvvisate e battute ben congegnate. Roger è cosciente che i cartoni sono venuti tra noi per far ridere la gente, come se fossero stati investiti sin dalla nascita del peso di portare gioia e spensieratezza nell’animo dell’uomo che li osserva, maggiormente soggetto alla sofferenza e alla perdita degli affetti. I cartoni non possono morire e pertanto non comprendono cosa sia realmente il dolore del distacco. Questo fino al giorno in cui il terribile giudice Morton (un irriconoscibile Christopher Lloyd) sperimenta la salamoia, un miscuglio acido di sua invenzione, su una povera scarpetta viva che si scioglie senza poter avere alcuno scampo. Morton sconvolge Cartoonia, il mondo in cui vivono i cartoni, facendoli piombare in un terrore che nessuno di loro aveva mai provato prima: la paura di morire. Tale terrore però non riesce comunque a minare le intenzioni dei cartoni che proseguono a essere portatori di felicità incondizionata. “Chi ha incastrato Roger Rabbit” sembra tracciare una linea immaginaria secondo la quale gli uomini sono i depositari del dolore e i cartoni, invece, sono coloro che riescono ad alleviare questa condizione. Roger si prefigge così l’obiettivo di restituire ad Eddie la fiducia nel prossimo e permettergli di ritrovare quel senso di umorismo che sembra essere naufragato nel mare d’alcool che è diventata la sua mente. Tale rapportarsi tra i due protagonisti del lungometraggio permette il superamento del dolore di Eddie e il ritrovamento di una speranza celata da fin troppo tempo nell’oscurità del senso di colpa per non aver salvato il fratello.

Roger è sposato con Jessica Rabbit, una famosa cantante che si esibisce nel locale “Inchiostro e tempera”. Ho da sempre creduto che conoscere la parola d’ordine per entrare nel locale “Inchiostro e Tempera” fosse un privilegio. Non certo perché potevo assistere ai per nulla idilliaci spettacoli di Daffy Duck e Paperino, e neppure perché ai tavoli poteva servirmi da bere una Betty Boop ancora priva di colore. Devo confessare però d’essere comunque soggetto al fascino formoso di Betty, dopotutto, il gusto classico possiede una bellezza imperitura. Tuttavia, sorseggiare un whisky on the rocks in quella sala era un privilegio perché quando il sipario si alzava, ed emergeva dal drappo di tessuto Jessica Rabbit, il film mi concedeva la possibilità di rispondere positivamente a un quesito: sì, ci si può realmente innamorare di un disegno.

Jessica è di una bellezza estrema, ed è stata concepita come l’archetipo della femme fatale perfetta, dalla vita molto stretta e dai fianchi morbidi e sinuosi. Porta sempre i rossastri capelli sciolti sulle spalle, ha delle labbra carnose, accentuate da un rossetto color porpora acceso; il suo viso di porcellana è caratterizzato da uno sguardo magnetico, reso ancor più vivido dalle forti tonalità del trucco, che va poi ad attenuarsi in prossimità degli occhi. D’intenso colore sono anche i guanti che le coprono le mani e gran parte delle braccia, e l’abito che indossa è sempre di un rosso scarlatto lucente, con un’ampia scollatura sul davanti che lascia intravedere un seno prosperoso. L’ampio spacco su di un lato fa emergere tutta la sensualità di una gamba perfetta, mentre un’audace scollatura sul di dietro scopre la schiena, totalmente. Per tutti, di primo acchito, è sorprendente quanto paradossale che ella sia sposata con il goffo Roger Rabbit. Invero, Roger l'ha conquistata con il più seducente dei corteggiamenti: facendola ridere.

Una delle citazioni più celebri di Jessica riguarda l’esternazione “Io non sono cattiva, è che mi disegnano così”. Una frase che spesso non viene carpita e compresa con dovizia analitica. Jessica, nella realtà fittizia del lungometraggio, è stata disegnata con le forme del corpo più provocanti volutamente estremizzate. Essendo disegnata in tal modo, Jessica sa che il suo aspetto fisico predominerà sempre la sua personalità agli occhi di chi la osserva superficialmente. “Disegnare”, alle volte, può essere sinonimo di “descrivere”. Jessica è tratteggiata, colorata, rappresentata e, pertanto, descritta, attraverso quei suoi tratti estetici mozzafiato, come se dovesse incarnare una bellezza malvagia, tentatrice ed arrivista, ciò che, in verità, non è. Ella è conseguentemente condannata a far sì che la sua esteriorità suggerisca erroneamente quello che il suo cuore non serba davvero. Jessica si trova così costretta a respingere giornalmente le avance invasive dei suoi ammiratori, fino a dover nascondere persino una “trappola” nello scollo.  La sua relazione con Roger non fa che insospettire tutti, perché sembrerebbe impossibile che una donna del genere sia sposata con un “imbranato” come Roger. Ma Jessica è, in verità, dolce e profondamente innamorata del marito, ed ella dimostra come non ci si dovrebbe mai fermare alle semplici apparenze.

Jessica è un personaggio di certosino spessore estetico e caratteriale.

La prima parte dell’indagine del film ruota proprio intorno al presunto adulterio di Jessica, la quale avrebbe tradito il marito con Marvin Acme, titolare della ACME Corporation, mediante il celebre “farfallina”, un innocuo gioco da bambini che per i cartoni equivale a un vero e proprio tradimento. La morte improvvisa di Acme porta Roger a essere ritenuto il principale indiziato dell’omicidio. Così, il coniglio si rifugia in casa di Eddie, famoso per essere stato al tempo un investigatore che più volte scagionò i cartoni da reati di cui erano stati ingiustamente considerati colpevoli. In verità, Jessica, come supposto dal marito, fu costretta a giocare con Acme e farsi così fotografare da Valiant per impedire che Roger venisse licenziato dal feroce R.K. Maroon, impresario e produttore in combutta con il giudice Morton, da cui verrà successivamente tradito e giustiziato. La morte di Acme, a seguito dello scandalo suscitato dalla pubblicazione di tali fotografie, avrebbe fatto inevitabilmente cadere la colpa sul coniglio accecato dalla gelosia e desideroso di vendetta; dunque, Roger sarebbe stato a tutti gli effetti “incastrato”. Come si scoprirà sul finale, l’anziano Acme, poco prima di venire barbaramente ucciso, aveva redatto un testamento in cui lasciava Cartoonia, la sua più grande proprietà, in eredita ai cartoni. Morton, per impedire tale lascito e per impossessarsi egli stesso di Cartoonia, uccise il ricco magnate, non riuscendo tuttavia a trovare il testamento che verrà successivamente rinvenuto dallo stesso Roger. “Chi ha incastrato Roger Rabbit” a discapito della sua fotografia pigmentata è una pellicola cupa e seriosa, dove l’avidità (il progetto avanguardistico del giudice) tenta di calpestare e distruggere la meraviglia dell’immaginazione (Cartoonia).

Il tema dell’amore in “Chi ha incastrato Roger Rabbit” è incentrato sull’attesa della verità e sulla pazienza che le due donne (Dolores e Jessica) nutrono nei confronti dei rispettivi partner. Dolores comprende l’agonia e il rimorso che divorano sempre più l’animo di Eddie e continua ad attendere che egli abbandoni un tale fardello per poter cominciare una nuova vita insieme. Jessica, invece, nella prima parte dell’opera è un personaggio piuttosto ambiguo, fin quando non si scoprirà che lei ama in maniera pura e disinteressata il marito, e tutto quello che dovette fare, in perenne alternanza tra verità e inganni, lo fece al solo scopo di proteggere Roger. Da una parte il personaggio di Dolores rappresenta quindi la speranza attendista di un domani migliore, dall’altro quello di Jessica la pazienza che la verità possa, sul finire della vicenda, frantumare il cumulo di menzogne e pregiudizi erroneamente formatisi nel corso della prima parte dell’opera. Le due donne sono figure imprescindibili per i protagonisti. Eddie senza Dolores perderebbe l’unica fonte che alimenta il suo spirito combattuto, e Roger senza Jessica non riuscirebbe a mantenere il suo inconfondibile buonumore. Entrambi sono quindi accomunati dallo stesso legame che li tiene saldamente ancorati, impedendo loro di sperdersi nei meandri della solitudine.

I due sentimenti più grandi trattati dal film, il patimento e l’amore, vengono affrontati con la forza della risata. Lo stesso Roger conquista Jessica, una donna all’apparenza fuori dalla sua portata, proprio con la sua simpatia, la fa ridere e intenerire della propria goffaggine e per questo lei lo ama. Incanalare l’ironia e lasciarla defluire all’esterno diviene l’unico sostegno per poter sopportare l’ingiustizia di una vita colma di cattiveria. E così Eddie torna a ridere ma soprattutto torna a far ridere, gigioneggiando in scena con oggetti animati e trucchi clowneschi tipici dei cartoni, facendo ridere a crepapelle le faine e affrontando il giudice Morton, il vero antagonista dell’opera, l’uomo dietro al cartone animato, la maschera umana dietro cui si nasconde il sadico assassino del fratello di Eddie. L’uomo non diviene più soltanto il “custode” del dolore e il portatore dell’odio efferato in quanto soggetto dotato di bramosia, ma anche il “cartone”, nato per divertire la gente, può tramutarsi in un male spietato, poiché anch’esso conservatore di un sentimento più variegato di quel che potrebbe sembrare. La gelosia e l’avidità trascendono l’uomo, colpendo persino una creazione così diversa eppure accomunata dalle medesime oscurità. Eddie riesce infine a uccidere Morton per poi soffermarsi a vedere Cartoonia insieme a Roger, Jessica e Dolores.

I quattro s’incamminano in quella valle illuminata dal sole, dai contorni favolistici, ed io li reinterpreto una volta ancora, immaginando che Eddie e Roger, stretti a braccetto con le rispettive compagne, incrocino gli sguardi un’ultima volta, quasi a rammentare ciò che è stato l’esordio della loro avventura. Potrebbero infine voltarsi a osservare ciò che si sono lasciati alle spalle, quel cappello e quella bandana di cui facevo cenno giusto all’inizio. Oggetti inanimati rimasti inermi sul terreno. La paura di un passato drammatico è stata superata, adesso non resta loro che procedere verso un orizzonte limpido e radioso, tra realtà e fantasia, tra un dolore trascorso e un amore ancora tutto da vivere, ciascuno con la propria amata.

Voto: 9/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

Vi potrebbero interessare:

1

Nasceva il 13 agosto del 1899 e il 29 aprile del 1980 ci lasciava il grande maestro Alfred Hitchcock, uno dei più grandi registi della storia del cinema.

Lo avrete certamente visto da qualche parte. Ha un volto conosciuto e un profilo comune. L’avrete senza dubbio incontrato, magari in un bar, dove beveva a pochi passi da voi, per poi volatilizzarsi in un batter di ciglia, o probabilmente lo avrete visto collocarsi di soppiatto alle vostre spalle, mentre qualcuno stava per scattarvi una foto, per il semplice gusto di rimanere immortalato egli stesso a vostra insaputa. Ma la cosa più divertente è che nel momento in cui il diaframma si apriva per poi richiudersi immediatamente non avevate per nulla notato quella presenza, una sagoma panciuta e sospettosa apparire alle vostre spalle. E’ capitato a molti. Egli infatti adora palesarsi quando meno ce l’aspettiamo.

Vedete, nelle sue opere più famose la sua presenza, seppur non semplice da intravedere, è consueta. Si è sempre ritagliato uno spazio nei modi più disparati: dalla camminata sullo sfondo al breve passaggio nel centro della scena, fino a riproporre, di tanto in tanto, il suo celebre profilo con l’ausilio, fatto ad arte, di luci a intermittenza su un’insegna al neon posta in lontananza. Sembrerebbe che volesse a tutti i costi divertire il pubblico e divertirsi egli stesso; una sorta di testo autografato, un marchio, un sigillo d’appartenenza a quell’opera da lui stesso creata. Quasi come una caccia alla firma, invitava il suo pubblico a cercarlo, a “scovarlo” tra i passanti, dietro una siepe, impresso su un fotogramma. Una sottile “caccia all’uomo”, al divo, al personaggio, al maestro; una caccia arguta e raffinata.

Ma quello che molti faticano a comprendere è che nei suoi film, l’alone della sua presenza, delle tematiche che intendeva trattare, del suo esprimersi diremmo, permea il totale contesto. Hitchcock appare anche quando non è sua intenzione farlo. Perché il pubblico non solo ricerca il suo vero cameo, ma vede i suoi film come una finestra spalancata su una porzione del suo genio creativo. L’apparizione vincente di Alfred è quella di rendere i suoi film indissolubilmente legati alla propria figura: “In un film di Alfred Hitchcock ci può essere un solo regista”. Non vediamo i suoi film per appassionarci alla storia, alla trama, quella è solo la superficie; vediamo i suoi film per entrare nella sua mente, per conoscere, ogni volta di più, Alfred Hitchcock. E questo è senza dubbio il suo più grande cameo: essere dappertutto! Essere l’intero film. Essere il genio che vede la realtà con l’occhio di una camera da presa.

Essere, se riuscite a immaginarlo, anche lì, proprio accanto a voi.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

Vi potrebbero interessare:

2

"Harley Quinn" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Presentare una banda di malfattori ad una vasta platea cinematografica non è impresa da poco, specie se tali delinquenti provengono dalle pagine colorate di un fumetto. Chi conosce già i suddetti criminali si aspetterà di vederli del tutto somiglianti alle loro originarie rappresentazioni fumettistiche, chi, invece, non li ha mai incontrati nelle proprie letture dovrà conoscerli per la prima volta e di gran fretta. Il primo compito da espletare per il lungometraggio "Suicide Squad" è, dunque, quello di mostrare i membri di questa squadra suicida, ognuno con la propria particolarità. Rivolgersi a un pubblico avvezzo alle letture “supereroiche” è certamente più semplice per gli autori di un cinecomic, dopotutto, questi dovrebbero solamente preoccuparsi di soddisfare le aspettative, sia estetiche che caratteriali, che i lettori nutrono nei riguardi dei celebri alter-ego cartacei. Purtroppo o per fortuna, dipende dai punti di vista, al cinema giungono anche persone che non hanno mai tenuto in mano un singolo albo a fumetti, tanto meno una graphic-novel. Gli autori, naturalmente, devono impressionare anche loro con incisive caratterizzazioni e brevi accenni storici per ogni personaggio che via via si defilerà sul grande schermo pronto ad essere esibito dinanzi agli occhi attenti degli spettatori.

Seguendo questi dettami, il regista dell'opera sceglie la via più facile, affidando ad Amanda Waller (Viola Davis) il compito di raccontare il trascorso dei tanti cattivi che, molto presto, diverranno un'unica squadra. Amanda, seduta intorno a un tavolo, intenta a cenare con una certa premura, delinea via via, secondo uno schema piuttosto elementare di sequenza d’importanza, i vari protagonisti di questa avventura: i malvagi. Il montaggio è semplice ma intenso: la voce narrante della Waller ci racconta la storia di ognuno di loro e le immagini della pellicola attingono direttamente dal passato, rimettendo in scena avvenimenti avvenuti, con stacchi rapidi su scene d’azione, alternate ad altre più spiccatamente emotive.

I fan dei fumetti, seguendo questa presentazione iniziale, potranno restare soddisfatti dalla somiglianza e dalla cura estetica dei vari "antagonisti-protagonisti" e, in egual modo, coloro che conosceranno per la prima volta questi inquietanti personaggi saranno, senza dubbio, incuriositi dalle loro peculiarità. Ma un inizio così positivo e dei personaggi così unici e reietti basteranno a mantenere la pellicola su di una giusta "rotta di navigazione"?

La Suicide Squad si compone dopo una prima mezz’ora, e i membri di questa squadra suicida scendono in battaglia col futile motivo di affrontare una minaccia, pretesto necessario, anche se poco curato, per perpetrare un’analisi all’animo dei cattivi, probabilmente per insinuare il seguente dubbio nella mente degli spettatori: se i cattivi siano veramente cattivi e se i buoni non siano altro che malvagi nascosti da un potere che permette loro di proliferare a discapito di chi, probabilmente, si macchia degli stessi crimini pur senza le medesime “protezioni”. Il film, sebbene segua un'introduzione lineare, e nonostante offra una caratterizzazione sufficiente e, talvolta, anche emotivamente d'impatto nei confronti della maggior parte della Suicide Squad, che diventa a tutti gli effetti una famiglia ritrovata per molti dei suoi  appartenenti, la sola occasione per riscattare un’esistenza dedita soltanto al tetro e all’agire oscuro, è confuso e dalla trama fin troppo inverosimile.

I personaggi, però, funzionano e si amalgamano molto bene tra loro. Will Smith, nonostante un leggero segno di ripetitività, riesce sempre a stare sul pezzo, a cogliere le simpatie degli spettatori e a trascinarli, con lui, in battaglia. L’interprete di Katana (Karen Fukuhara) è magnetica, l’Incantatrice (Cara Delevingne) è sensuale e sinistra, Boomerang ( Jai Courtney) è testardo quanto basta e Croc ( Adewale Akinnuoye-Agbaje) è mostruoso al punto giusto, aiutato da un trucco (premiato con l'Oscar) inquietante e perfetto. Margot Robbie è proprio Harley Quinn, nella sua follia, nella sua indole da schiava d’amore e nella sua espressività disincantata, provocante e svampita. 

i difetti del film, man mano che la storia si sviluppa, diventano alquanto evidenti. Dove si interrompe la "risata del Joker" dunque? Nei cattivi. O meglio, nei cattivi che fungono da veri cattivi della pellicola, coloro che si contrappongono alla squadra suicida. Gli avversari della Suicide Squad sono tutt'altro che memorabili, ma apparentemente improvvisati e blandi. Triti e ritriti nei loro modus operandi, con l’ennesima ossessione di conquista e l’ennesimo "potere divino" che viene annientato con l’ausilio di qualche bomba, il tutto risulta troppo facile.

Il Joker ride, ma la sua risata si contrae in un ghigno interrotto a metà, perché se Leto lo interpreta ottimamente, ha troppo poco tempo per comunicare qualcosa che non sia un’attenzione smodata nei confronti di Harley. Proprio così, un'attenzione ingiustificata, specie per chi legge i fumetti e sa perfettamente che il Joker sfrutta Harley, e la di lei triste ossessione per lui a proprio vantaggio, che mai e poi mai potrebbe provare un rimorso per lei, né tantomeno lanciarsi a salvarla da morte certa. Sembrerebbe una forzatura per suscitare, quando non si dovrebbe, l’animo romantico di chi vede coppie da ammirare anche quando la suddetta coppia è stata volutamente concepita per mettere in guardia dalle relazioni violente, capaci di indurre alla sudditanza. Nonostante l'indubbia bellezza del suo personaggio, Harley Quinn è stata concepita per essere una figura che mette in guardia, mai che induce all’imitazione o all’apprezzamento. L’altra parte del pubblico, quello meno avvezzo alle letture a fumetti, lo avrà realmente capito da questa visione?

Il Joker di Leto, è inutile negarlo, era il personaggio più atteso del film, ma chi si aspettava, dunque, un film con un Joker perno imprescindibile dovrà ricredersi.  La sua interpretazione, forse a tratti troppo volta a rimarcare la follia nevrotica del Joker, tecnicamente sarebbe riuscita, ma nonostante ciò non si può certamente affermare che questo Joker abbia brillato. Questo suo nuovo e particolarissimo look abbinato a una caratterizzazione pessimamente scritta per il personaggio, non hanno permesso l'affermazione del Joker in questo film e, per il momento, in questo nuovo universo cinematografico. Indubbiamente sono pochi gli attori, ad oggi, che potrebbero fare meglio di Leto  in questo ruolo. Egli dovrà però attendere ancora prima di far riecheggiare al Joker la risata più grande del nuovo corso DC.

L'intera opera sembra essere stata fatta con eccessiva fretta, risultando così una grossa occasione sprecata."Suicide Squad" riesce comunque a divertire, ad intrattenere, pur con qualche remora di troppo. Anche in questo caso il film non cede ad un finale vero e proprio ma si conclude con un "arrivederci", in modo tale che la già citata risata del Joker, metafora da me utilizzata per indicare l'intero lavoro, mantenga l'opportunità di tornare a scuotere il silenzio del grande schermo, al prossimo incontro. "Suicide Squad", infine, invita proprio all’attesa, all’attesa che questa risata accennata torni a riecheggiare a Gotham, al ritorno a casa, quello stesso ritorno che Joker compie sul finale, liberando Harley e portandola con sè verso la città del Cavaliere Oscuro.

Sebbene l'inizio sia convincente, il lungometraggio si arena, ben presto, in un pantano, sviluppandosi tristemente senza mai decollare, venendo, infine, frenato da una storia lacunosa che non soddisfa nè gli appasionati di fumetti nè gli altri.

La Harley Quinn di Margot Robbie resta la luce più forte in questo tetro buio. Su di lei la DC Comics dovrà puntare per il futuro, per concepire un sequel all'altezza di questa sconclusionata ma, tutto sommato, promettente Suicide Squad.

Voto: 6,5/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

Vi potrebbero interessare:

Dopo "Il ladro" del 1956, prodotto dalla Warner Bros, nel 1957, con “La donna che visse due volte” (noto anche come "Vertigo") Hitchcock tornava al colore e alla sua vecchia casa di produzione, la Paramount. Il film era tratto dal romanzo di Pierre Boileau e Thomas Narceiac “D’entre les morts”. La presenza di un attore del calibro di James Stewart e di una stella nascente come Kim Novak, facevano presagire che il film avrebbe soddisfatto il grande pubblico.

A "La donna che visse due volte" collaborò la squadra preferita di Hitchcock, vale a dire, il direttore della fotografia Robert Burks, l’addetto al montaggio George Tomasini, il compositore Bernard Herrmann, la costumista Edith Head e il produttore associato Herbert Coleman.

Nonostante l’aspettativa favorevole, "La donna che visse due volte" non suscito quel successo desiderato, almeno per quanto riguarda il parere del pubblico. La pubblicità aveva giocato sul fatto che il film era simile ad altri capolavori del maestro realizzati in quel decennio, ma così non era. In effetti, "La donna che visse due volte" era decisamente diverso, non fosse altro che per l’assenza di humour, l’immediata rivelazione della reale identità di Judy e principalmente per la mancanza del lieto fine. C’è da dire però che la stampa quotidiana non si espresse negativamente sul film, lo fecero invece i critici dei settimanali più rappresentativi, biasimando l’esigua verosimiglianza della trama. In ambito accademico "La donna che visse due volte" non fu degnato della minima considerazione.  A restituire il prestigio alla pellicola giunse negli anni ’70 un corale apprezzamento da parte delle nuove generazioni di critici che gli tributarono il giusto riconoscimento.

"La donna che visse due volte" è una scalata tortuosa, accentuata ancor di più dalla paura di cedere nell'ignoto.

 

Eros e thanatos, amore e morte – duplice natura delle pulsioni umane – sono alla base del film. Tutto è costruito sulla polarità: alla sognante, assente Madeleine si contrappone Judy, che appare all’inizio come una donna concreta, appariscente, dal trucco pesante, fino a quando, per amore, non è anch’essa risucchiata nel tentativo disperato di Scottie di far rivivere il passato. Gli specchi riflettono questa continua dualità fisica e mentale, dell'apparenza e della realtà. Il tutto viene calato nel vortice dell'aspirale, presente sin dai titoli di coda, e capace di trascinare gli spettatori nelle profondità vertiginose della travagliata psicologia dei protagonisti.

"La donna che visse due volte" è un film dal ritmo pacato, per certi versi sognante, in cui sono senza dubbio più importanti le sfumature psicologiche e i rapporti fra i personaggi che non gli sviluppi narrativi. I ritmi filmici sono scanditi dal continuo vagabondare dei personaggi, dalle passeggiate, dai percorsi in automobile. Lo smarrimento dell’uomo ricorda, in un certo senso, l’inquietudine del protagonista de’ “La finestra sul cortile”, ma non più scongiurata da un fare ansioso ed esagitato come quello del fotoreporter.

Scottie è alla ricerca di qualcosa che dia senso alla sua vita; nel caos dell’esistenza si trova a fare i conti con l’amore e con la morte, con l’illusione e la realtà della vita, con il rimpianto e il desiderio dell’impossibile. E a conclusione di un aspro percorso, quando la vertigine sembra ormai sconfitta e la realtà riconosciuta, non vi è premio né consolazione: nell’uno o nell’altro caso, con o senza vertigine, c’è d’affrontare sempre un nuovo baratro.

Redazione: CineHunters

Vi potrebbero interessare:

La prima puntata della famosa serie televisiva è andata in onda in Italia il 19 novembre 1992, alle ore 20,30. Era di giovedì e a trasmetterla fu Italia 1.

Attorno alla famiglia Walsh, da poco trasferitasi per motivi di lavoro da Minneapolis a Los Angeles, e precisamente nel più prestigioso quartiere della metropoli, appunto Beverly Hills, ruota un nutrito gruppo di personaggi che vivono nel lusso e nei divertimenti più sfrenati (il famoso 90210 è il numero di codice postale della località). I protagonisti della serie TV sono i giovani adolescenti: il ribelle Dylan McKay, interpretato da Luke Perry, ritenuto il James Dean degli anni ’90, i gemelli Walsh Brandon e Brenda, rispettivamente Jason Priestley e Shannen Doherty, Steve Sanders, interpretato da Ian Ziering, figlio di una star televisiva, poi Andrea Zuckerman (Gabrielle Carteris), brillante e intellettuale redattrice del giornalino della scuola, il West Beverly High, uno dei più prestigiosi istituti di Los Angeles. E poi figurano ancora Kelly Taylor (Jennie Gart) e Donna Martin (Tori Spelling), le migliori amiche di Brenda, e l’aspirante musicista David Silver interpretato da Brian Austin Green.

Nel frivolo universo fatto di lussuose abitazioni, belle macchine, bella vita, ogni puntata cerca di trattare un tema sociale o di attualità, rappresentato dall’alcolismo, dal razzismo, dal difficile rapporto genitori-figli, dal pericolo dell’AIDS. 

Con il susseguirsi delle puntate la serie prende l’aspetto più o meno evidente di una telenovela, in quanto la storia spesso non si esaurisce con la fine dell’episodio ma trasborda nel successivo, così come aumentano i personaggi che crescono di numero e si moltiplicano a vista d’occhio. La serie accompagna così i protagonisti (e alle volte i suoi stessi spettatori) dal diploma al college fino al mondo del lavoro in un continuo sviluppo della maturità che i personaggi acquisiscono nel corso della loro vita. Negli Stati Uniti la serie ha riscosso un grandissimo successo sin dal lontano 1990, quando fu trasmessa dalle reti Fox. Il trio Brenda-Brandon-Dylan ha suscitato nei telespettatori grandi passioni, misti a sensazioni di odio, in modo particolare nei confronti di Shannen Doherty (Brenda), sulla quale sono sorti pettegolezzi inerenti le sue esuberanze da ragazza, diciamo così, maledetta, pure nella sua vita privata, a tal punto che il suo ormai scomodo personaggio è stato allontanato dalla serie con l’artificio di un viaggio di studio a Londra.

Shannen Doherty, nonostante le difficoltà sul set, legò il suo inconfondibile volto al ruolo di Brenda, venendo sempre ricordata con affetto dai fan dello spettacolo. La Doherty diverrà ulteriormente famosa in seguito come Prue Halliwell, la sorella maggiore del trio, nella serie tv “Streghe”, ruolo che ricoprirà per tre stagioni prima di lasciare anche quest’ultima serie per forti divergenze con il cast e la produzione. Anche in quest'ultima serie, l'attrice riuscì comunque a conquistare il cuore dei fan, e il suo improvviso addio lasciò un vuoto incolmabile, attenuato dall'arrivo di Paige. Shannen Doherty è un'attrice abile a conquistare il cuore degli spettatori, e per tale motivo i suoi ruoli sul piccolo schermo, ancora oggi, risultano indimenticabili. La Doherty negli ultimi mesi sta combattendo coraggiosamente un cancro al seno che le è stato diagnosticato nell’agosto del 2015.

Sull’onda del successo americano, la serie è giunta in Italia divenendo subito un fenomeno di costume, con ragazzine in delirio, ascolti da favola e sempre in aumento, e con la nascita di dei fan club. Beverly Hills 90210 può essere ritenuto, per certi versi, una specie di Happy Days vent’anni dopo; il risvolto della medaglia che ha rappresentato “Gioventù bruciata”; è il sogno fatto realtà di un mondo ovattato in cui tutto è possibile.

Charles Rosin, produttore esecutivo della serie assieme ad A. Spelling, ha dichiarato: “Lo scopo del telefilm non era quello di promuovere stereotipi, quanto quello di abbatterli, di svelare i problemi della gente comune al di là della fascia socio-economica alla quale appartiene”.

La serie ha in seguito suscitato uno spin-off, Melrose Place, indirizzato a un pubblico adulto.

Redazione: CineHunters

Vi potrebbero interessare:

“La scrittura è architettura” recita il testo de “Il tempo delle cattedrali” nella splendida versione italiana del musical “Notre Dame de Paris”. L’atto di scrivere può essere elevato a una vera e propria forma d’arte, forte e impenetrabile come la saldezza dell’architettura, plasmata nel tempo, resistente anche allo scorrere delle decadi e ai capricci della natura. Che siano i versi di una poesia, i passi memorabili di un romanzo, i dialoghi sceneggiati di un testo teatrale o la verità manifesta con argute riflessioni nelle pagine di un giornale, la scrittura, più di quanto crediamo, conserva in sé la gloria artistica di dar vita ai pensieri, alle fantasie o ai capricci, più o meno inconfessati. Scrivere è un atto d’amore. Un amore per la creazione. Un processo produttivo che necessita spesso di tempo e pazienza, di idee recondite ma spesso di ispirazioni venute all’improvviso. Ed ecco che un taccuino o un’agenda o addirittura un banale foglio bianco possono diventare alleati preziosi, contenitori in cui l’autore libera i propri pensieri e li fissa su carta, così da poterci tornare di tanto in tanto a rileggerli, e magari arricchirli di nuove sensazioni.

Alcuni scrittori, più di altri, tengono sempre in mano il loro taccuino, e lo scorrono per cercare un angolino tutto libero in cui poter scrivere quell’ultima idea, balenata lì, come si dice, ex abrupto. Il più delle volte, le annotazioni sono riportate con caratteri così strani che difficilmente potrebbero essere riconducibili all’alfabeto, tanta è la fretta d’appuntarsi quel certo particolare per paura di dimenticarlo, e quindi poco importa il modo in cui viene trascritto. Sono i giornalisti in azione coloro che più di altri portano sempre con sé un taccuino, pronto per essere utilizzato. Chi nasce, cresce e vive costantemente alimentato da quella fiammella chiamata passione per la scrittura comprende prima di altri quanto l’onestà comunicativa sia un dettame imprescindibile. Scrivere un articolo richiede una buona dose di responsabilità, qualunque sia il settore giornalistico di competenza. “Verba volant, scripta manent” riporta l’antico detto latino, quasi a ricordarci che la parola scritta ha un potere enorme a cui spesso non diamo il giusto peso. Stephen Glass, giornalista americano del New Republic, verso la fine degli anni ’90 ignorò di fatto il potere del linguaggio scritto. Al suo incauto agire è dedicato il film del 2003: “L’inventore di favole”, titolo italiano di “Shattered Glass”. Proprio il personaggio di Stephen Glass regge in mano un simbolico taccuino in cui appaiono decine e decine di appunti, scritti rigorosamente di proprio pugno, in uno dei tanti scatti promozionali del film.

Il lungometraggio si apre con una ripresa a rallenty, quando una voce fuori campo introduce gli spettatori alle atmosfere dell’opera. Una volta terminata la dissolvenza, la camera inquadra il protagonista intento a scrutare con un furbesco sorriso la redazione giornalistica presso cui lavora, mentre tutto intorno sono in atto dei festeggiamenti. Stephen Glass, a soli 24 anni, è stato assunto come giornalista nel New Republic, una testata dedicata alla politica e alla cultura pubblica statunitense. Glass è amato tanto dai suoi colleghi quanto dal vice-direttore per i suoi modi affabili, per la sua parlantina sciolta e compita, ma soprattutto per la vivezza dei suoi articoli, ora originali e disamanti ora sarcastici e mordaci. Stephen è un giovane sicuro di sé, vive una vita tranquilla lontano dai genitori, i quali però vorrebbero che proseguisse gli studi (temporaneamente abbandonati) presso la facoltà di legge, e invece passa gran parte delle sue giornate sul luogo di lavoro, corteggiando candidamente le sue colleghe, che non esitano mai a dargli una mano e a confrontare con lui i loro pezzi prossimi alla pubblicazione. Stephen è per tutti un ragazzo da ammirare, un nome che sta facendo sempre più parlare di sé tra la stampa americana, tanto da avere perennemente il telefono pronto a squillare, con continue richieste da parte di altri giornali che desiderano la sua collaborazione nella stesura di nuovi articoli. Stephen è per tutti uno scrittore arguto e versatile, una “penna” schietta ed efficace. Il suo status di stella nascente del giornalismo lo porta persino a essere chiamato dalla sua vecchia insegnante di liceo per tenere una lezione agli studenti della sua classe e spiegare loro i segreti di un successo talmente debordante da espandersi a macchia d’olio. Stephen comincia così a narrare al suo giovane pubblico la sua ascesa, mentre resta in piedi dinanzi alla cattedra, il suo momentaneo palcoscenico, fianco a fianco alla sua cara insegnante, che intanto lo scruta con occhio compiaciuto e soddisfatto, come a ricercare qualcuno dei suoi insegnamenti nello sguardo così sicuro e deciso del suo caro, vecchio studente. Il film a quel punto procede su due binari ben distinti: da una parte udiamo ciò che Glass racconta ai suoi ascoltatori, dall’altra vediamo ciò che accadrà in quei mesi burrascosi. Un giorno, il vice-direttore, grande estimatore del protagonista, viene sostituito da Charles Lane, un giornalista facente parte della stessa redazione in cui lavora Stephen. Glass non nasconde ai colleghi la sua antipatia nei confronti del nuovo superiore e ciò, vista la grande influenza che Stephen ha verso i suoi amici, porta anche gli altri giornalisti a sviluppare un senso di lieve avversione verso Lane. Nelle settimane successive, Stephen diviene il giornalista di punta del New Republic.

L’ultima fatica letteraria di Glass è un articolo che sta ricevendo ampi consensi tra i lettori. Il testo tratta con raffinato sarcasmo la storia di un giovane hacker a cui è stato offerto un contratto faraonico per lavorare in una multinazionale, da lui stesso violata poche settimane prima. L’articolo, trattando notizie di carattere informatico, settore di competenza del “Forbes”, viene analizzato attentamente dal reporter Adam Penenberg, rivelando clamorose incertezze sulle fonti citate e grosse incongruenze riportate dallo stesso Glass. Allarmato da queste apparenti scoperte il direttore del Forbes contatta Charles Lane che in un primo momento difende il suo collega. Comincia un’indagine giornalistica che porta il film di Billy Ray ad assurgere ai canoni dell’avvincente cinema d’inchiesta. Contemporaneamente, il regista non smette di spostare la nostra attenzione sul monologo esaustivo che Glass sta tenendo a lezione dai suoi studenti liceali. Il protagonista spiega come il giornalismo politico sia un’arte dedita alla ricerca dell’informazione e dello scoop sensazionale che potrebbe smascherare possibili illeciti. La pubblicazione di un articolo a detta di Glass non è affatto semplice, è un processo costellato da tanti passaggi e da innumerevoli ostacoli da superare. Il giornalista deve recarsi egli stesso sul luogo d’indagine, dev’essere circondato da fonti attendibili che dovrà inevitabilmente citare. Una volta steso, il pezzo dovrà essere corretto e, se del caso, soggetto a riduzioni varie. In seguito, la redazione dovrà verificare la veridicità delle fonti espresse, e solo dopo averne valutato l’attendibilità si potrà mandare l’articolo in stampa, con tanto di firma dell’autore posta in alto al pezzo. Stephen tiene però a precisare che il più delle volte le uniche fonti presenti sono quelle riportate dal giornalista e non possono in alcun modo essere vagliate e verificate. In quel caso la pubblicazione potrà avvenire comunque, purché l’articolo sia coerente e ben scritto e l’autore si prenda le responsabilità delle proprie affermazioni.

Più vanno avanti le ricerche sulla storia redatta da Stephen più l’articolo di Glass perde valore, sgretolandosi come un castello di sabbia all’arrivo dell’alta marea. Non potendo dimostrare ciò che ha scritto, Stephen ammette di essere stato raggirato dalle sue stesse fonti e di aver commesso l’ingenuo errore di essersi fidato ciecamente. Lane nonostante gli attriti con il resto della redazione che difende a spada tratta Glass, si trova costretto a sollevarlo dall’incarico e a sospenderlo per due anni. Una sera, però, Charles scopre che il fratello di Steven vive nella stessa località in cui si trovava una presunta fonte citata da Glass e che lo stesso Lane contattò per avere alcune delucidazioni in merito all’articolo. Charles deduce che il fratello di Stephen e la fonte in questione sono la medesima persona, comprendendo così che l’intera storia è stata totalmente inventata. Poco prima che il Forbes pubblichi un articolo per smentire la veridicità del tema trattato da Glass per il New Republic, Charles licenzia il nostro protagonista. Stephen, in lacrime, chiede un’ultima possibilità, promettendo che non accadrà mai più, ma Charles gli volta le spalle, restando in silenzio. Lane a quel punto viene colto da un atroce timore; raccoglie così tutte le riviste pubblicate nei mesi precedenti e sottopone gli articoli di Glass ad un’attenta lettura, comprendendo tristemente che quasi tutti i pezzi sono in maniera parziale o del tutto frutto della sua fantasia. Il New Republic rischia di sprofondare sotto gli efferati colpi degli altri giornali, i quali, una volta appurata la falsità del primo articolo non esiteranno ad indagare sui precedenti portando così alla luce la verità: la parabola ascendente del giovane Stephen è fondata su un cumulo di menzogne. Una fitta rete di bubbole, avallata, suo malgrado, dallo stesso New Republic. I giornalisti della redazione, dopo qualche ora di smarrimento e dopo aver pesantemente attaccato Charles per aver licenziato Stephen, si rendono conto che il vero giornalista onesto e competente era sempre stato il capo che avevano calunniato, e che l’uomo che seguitavano a difendere era in realtà un manipolatore. L’intera redazione fa trovare sul tavolo di Charles un messaggio firmato di pubbliche scuse ai lettori: Lane capisce così che i suoi giornalisti sono finalmente con lui. Nel frattempo, la tela di bugie tessuta da Stephen si è sgretolata tra le sue stesse mani, mentre egli prosegue imperterrito a parlare del suo splendido lavoro davanti a tutta la classe. Conclusa la lezione, gli alunni si congedano da lui applaudendolo. Lentamente gli studenti si defilano così come il battito di mani perde d’intensità, fino a non sentirsi più e l’aula appare improvvisamente vuota e “rumorosamente silenziosa”. Il protagonista resta lì immobile a fissare il banco e la seggiola su cui sedeva quando era uno dei tanti liceali. Stephen non ha mai parlato con quelle ragazze e quei ragazzi. Era anch’essa una favola dall’aspro finale. Di colpo anche noi spettatori siamo caduti vittime dei suoi racconti per nulla veritieri. L’unico applauso sincero, udibile verso la fine della pellicola, è riservato a Charles Lane e viene scandito dall’intera redazione che lo saluta come un autentico vice-direttore. L’ultima sequenza del film si ricongiunge esattamente con quella iniziale in cui Stephen si muove verso di noi osservando fieramente il luogo di lavoro e ripetendo le medesime parole che aveva proferito inizialmente. Lo scenario però cambia, e i festeggiamenti che stavano avvenendo intorno a lui, fresco vincitore di un Pulitzer, scompaiono senza lasciare alcuna traccia: era quella la sua ultima illusione.

Un ottimo Hayden Christensen dona voce e corpo alla figura di Stephen Glass in questo film biografico diretto da Billy Ray. Christensen accettò la parte quando era già stato scelto da George Lucas come interprete di Anakin Skywalker in “Star Wars”. “L’inventore di favole” venne distribuito nella seconda metà del 2003, quando Christensen era già sbarcato al cinema con l’episodio II della trilogia prequel di “Guerre stellari”. Insieme al ruolo del ragazzo disadattato e schiavo della droga ne “L’ultimo sogno”, performance che gli fruttò una nomination al Golden Globe come miglior attore non protagonista, e naturalmente alla parte del personaggio cardine di “Star Wars” ovvero Anakin Skywalker, questa prova fu la più importante della carriera dell’attore canadese. A tal proposito ne “L’inventore di favole” sembra essere presente un “Easter egg” dedicato all’iconico ruolo interpretato da Christensen. Glass dirà al suo direttore che se dovesse sentire un profondo respiro, agitato e intimidatorio provenire dalla segreteria del numero selezionato inerente la sua fonte, non dovrà preoccuparsi. E’ un chiaro riferimento al celebre respiro ritmato di Darth Vader.

La recitazione dei due protagonisti è studiata minuziosamente per far vedere la diversità caratteriale tra Stpehen Glass e Charles Lane. Il primo è un personaggio logorroico, quasi “piagnucolone” quando tenta di commuovere i suoi interlocutori, abile negli esercizi dialettici, che fa della parola la sua arma in più, del complimento il segreto del suo essere tanto “affabulante”. Il secondo, invece, interpretato da un grande Peter Sarsgaard, è un personaggio taciturno, introverso, che fa delle sue lunghe pause e dei suoi sguardi attenti e riflessivi il suo modo preminente di essere e di rapportarsi con l’ambiente di lavoro.

Il vero Glass, laureatosi in legge dopo essere stato espulso dall’ordine dei giornalisti, definì il film come un viaggio splendidamente eseguito nei meandri imbarazzanti del suo passato. Ma “L’inventore di favole” non si configura soltanto come un film che ripercorre la sfortunata carriera di Glass nel mondo del giornalismo, tanto da offrire una sorta di denuncia all’aspetto fraudolento del suo lavoro, ma desidera anche far traspirare l’amore per il giornalismo in quanto tale e adempiere a monito verso tutti coloro che credono che la realizzazione di un articolo sia un qualcosa di così semplice da poter essere persino creato dal nulla. Non è un caso che “L’inventore di favole” venga spesso trasmesso e pertanto utilizzato nelle scuole di giornalismo statunitense per fornire agli studenti un esempio tangibile di una corretta ma anche scorretta professione giornalistica. Ray carpisce con arguzia le tempistiche e il clima, a volte teso altre volte disteso, che esiste tra i membri di una redazione, cercando di evidenziare come spesso all’interno di un giornale si creino dei veri e propri nuclei familiari in cui poter ricercare un aiuto collaborativo, confidarsi e persino rifugiarsi. Il cineasta non dimentica però quanta responsabilità reca in sé la figura del giornalista, fatto carico del peso di fornire ai lettori una trattazione pertinente e colma di realtà comprovate. Il lettore diviene così il depositario di una confessione pubblica, e può accrescere il proprio bagaglio culturale attraverso la lettura di un argomento che senza le parole scritte dal giornalista non potrebbe altrimenti conoscere. I lettori, a causa dell’operato ingannevole di Glass, si tramutano nelle vere vittime del New Republic. Verità e inganno si amalgamano perfettamente quando seguiamo lo snocciolarsi della storia principale insieme al racconto partorito da Glass nel suo vecchio e sempre caro liceo. Ray vuole che gli spettatori si sentano fuorviati dall’oratoria menzognera di Stephen, quando prenderanno coscienza che ciò che avveniva in quella scuola era, in verità, ancora frutto dell’immaginazione del personaggio centrale del film.

“L’inventore di favole” è un film che volge il suo sguardo verso quell’amore astratto ma pur sempre valente della scrittura. Una scrittura che sin dall’alba dei tempi è e sempre sarà, per l’appunto, “architettura”; e in quanto tale non potrà essere usata come un’arma illusoria, capace solamente di gettare fumo negli occhi di chi guarda. La scrittura su carta di giornale resta tale e possiede il potere di divenire “incancellabile”. Proprio la scrittura, la più grande passione di Glass, si è rivoltata contro di lui. Egli stesso cadde preda delle sue fandonie, perdendo così la possibilità di poter vivere di quelle parole che tanto desiderava far leggere a terzi. La penna ferisce più della spada, perché squarcia l’anima e non la carne. Il ritmo con cui si dipana la storia non è tuttavia calzante e l’investigazione giornalistica non segue certo l’andatura di un poliziesco, ma pur nella sua intensità non eccessiva il film riesce a far scoprire di pari passo la verità tanto ai suoi personaggi quanto al suo stesso pubblico. Come se il montaggio sia costruito seguendo lo stile di un vero articolo di giornale, in cui solo leggendo la successione ordinata delle righe possiamo riuscire a comprendere la realtà celata nella fanfaluca favolistica.

“L’inventore di favole” è un lungometraggio realizzato per chi ama il giornalismo e ciò che concerne tale mestiere, che più di quanto si creda può elevarsi al di sopra della lettura più comune. Pur non potendo vantare un successo paragonabile a titoli come “Quarto potere” o “Tutti gli uomini del presidente”, pietre miliari del cinema dedicato al giornalismo americano, “L’inventore di favole” può senza dubbio essere annoverato di diritto tra le altre pellicole rinomate del settore. “L’inventore di favole” più di molti altri film del genere protende maggiormente all’esaltazione della scrittura in quanto mezzo di comunicazione, una forma espressiva atta ad esortare le menti ad una costante riflessione, un invito a spronare l’aspetto critico e analitico della propria mente su ciò che si sta leggendo. Ma se tale argomento subisce le influenze negative della falsità perché leggerlo? Cosa sarebbe del vero giornalismo se fosse schiavo dell’inventiva dell’uomo? Il giornalismo in quanto tale non potrà che dipendere sempre dall’abilità scrittoria dell’uomo e della veridicità dell’evento, poiché solo attraverso esso si potrà garantire una divulgazione corretta dell’informazione. Da un grande articolo derivano grandi responsabilità. Le responsabilità di chi vede nella scrittura giornalistica l’occasione per rivolgersi a un lettore senza conoscerlo, senza poterlo guardare negli occhi, ma riuscendo comunque a nutrire la sua mente, il suo cuore e l’insaziabile desiderio di sapere che alberga in lui.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

Il personaggio dei fumetti per antonomasia è senza dubbio Topolino. Se non  altro è il più conosciuto e il più amato.

E, infatti, il primo personaggio della banda Disney, destinata poi a diventare leggenda, nacque nel 1927. Si racconta che, per crearlo, Disney si sia ispirato a uno dei tanti topi che frequentavano il suo ufficio, quando egli lavorava come disegnatore per una rivista di Kansas City. Si trattava di un simpatico animaletto che aveva raggiunto una tale familiarità con lui tanto d’arrampicarsi quotidianamente sul suo tavolo da disegno.

Il debutto assoluto del personaggio avvenne l'anno dopo, nel 1928, nel cortometraggio Steamboat Willie, uno dei primissimi cartoni animati a fare uso di audio sincronizzato.  Con l'avvento del sonoro Topolino acquistò la voce. Topolino che parlava suscitò entusiasmo tra il pubblico e così nel 1930 dallo schermo passò ai fumetti, assieme a tutta una serie di altri personaggi, che vanno da Pippo a Pluto, da Clarabella a Orazio, a Pietro Gambadilegno.

All’inizio era un animaletto dispettoso e furbastro che si metteva sempre nei guai, finendo sovente per restare vittima delle sue stesse trappole che disseminava in giro. Ben presto però ebbe una prima trasformazione, divenendo un personaggio positivo, onesto e leale. In questa nuova veste Topolino incarnava l’americano medio, colui che aveva piena fiducia nella giustizia e grande sostenitore dell’intraprendenza individuale. Egli appagava il bisogno di avventura e gli dava conferma della veridicità della sua superficiale visione del mondo, ben diviso tra onesti e maligni. Vizi e virtù rimanevano confinati in una sorta di spazio intermedio. Grande valenza assume l’amicizia, un sentimento ancor più evidente dell’amore.

Pippo è il migliore amico di Topolino. A differenza di Topolino, Pippo è alto e dal passo dinoccolato, ed è altresì ingenuo, distratto, sognante e goffo. Pippo con la sua amicizia trascina il più raziocinante Topolino nella verve di un'avventura marcatamente fantasiosa.

 

Tra i vizi vi si riscontrano il furto, il rapimento e la truffa, tutte colpe contro la ricchezza e il possesso. Mancano i gesti d’eroismo, ma questo è più che comprensibile, perché ciò introdurrebbe il fattore tragico della morte che deve comunque rimanere estranea, anche come ipotesi, al mondo dei fumetti per salvaguardare l’immortalità e l’eterna giovinezza dei personaggi. Al lettore bisogna sempre tranquillizzare l’animo.

Topolino apprendista stregone in "Fantasia" del 1940. Topolino appare come un dispensatore di magia fantastica e pura.

 

A partire dal 1939 Topolino subì profonde modifiche, sia nel disegno che nelle vicende, tipiche di un detective moderno, paladino del sistema politico vigente di cui esegue fedelmente i comandi senza farsi né fare domande. E’ diventato, dunque, una sorta di macchina automatica. Nell’evoluzione del personaggio si rispecchiano i cambiamenti della società americana i cui valori hanno subito un marcato processo di involuzione: dall’esaltazione dell’iniziativa individuale al culto dell’obbedienza passiva e rassegnata.

Ancora oggi Topolino continua a deliziare con le sue avventure adulti e piccini. Non di rado è possibile trovare in allegato al fumetto parti da assemblare per la costruzione di qualche oggetto in miniatura, sia esso un’automobile o una moto o addirittura un’imbarcazione. Questo espediente, anche se non coinvolge la famiglia tutta intera, di sicuro contribuisce a rinsaldare il legame padre – figlio, di cui oggi, più che in passato, se ne avverte forte la necessità.

Quando si scorge la figura di Topolino non si può far altro che fermarsi a riflettere su quanto un singolo personaggio sia stato fondamentale nella creazione di un mondo fantastico. Disney volle sempre rammentare a tutti che ciò che era diventata la "Walt Disney" lo si doveva a un singolo personaggio, che riuscì a far brillare in cielo, per la prima volta, la stella di questa "casa" da cui fuoriuscirono meraviglie visive e immutate. Topolino fu il primo dei "figli" di Walt Disney, e da lui derivarono creazioni che, senza il suo successo, non avremmo potuto altrimenti mirare.

Tutto ebbe inizio...con un Topolino.

Redazione: CineHunters

Vi potrebbero interessare:

3

Una sirena disegnata da Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Fasciame distrutto, remi trasportati dalle correnti, cadaveri abbandonati su delle assi di legno e infine un relitto fantasma, un tempo vanto e orgoglio della marineria, una possente nave che solcava le acque più burrascose, lasciato adesso navigare senza meta, a trovar riposo sottomesso al volere di Poseidone. Erano questi i tetri scenari che le Sirene lasciavano sul loro cammino nei passi della mitologia arcana. Esseri dalla cui voce nasceva un soave e ammaliante canto, che stregava chiunque lo ascoltasse, le sirene erano sensuali creature marine, e il loro corpo rappresentava una irresistibile seduzione per i marinai, che nella solitudine dei loro viaggi, cedevano alla follia del loro richiamo. Accecati nei pensieri, gli uomini tra le braccia delle sirene trovavano la morte e conducevano le loro navi alla rovina. Bellissime in viso quanto sinistre e diaboliche nella mente, le sirene erano degli ibridi ittiomorfi: straordinariamente femminile il loro volto e metà del loro corpo, dalla vita in giù, invece, una coda pinnata si dipanava oltre modo, consentendo loro di nuotare liberamente in mare aperto. Lunghi capelli ne cingevano il magnifico viso coprendo talvolta il seno nudo, mentre gioielli serpentiformi e monili dorati, certamente trafugati dai relitti, ne ornavano le braccia. La coda era imponente nonostante sembrasse leggerissima alla vista, quando veniva mossa con estrema naturalezza e leggiadria. Probabilmente nel solcare le acque talvolta strofinavano le code sul fondo del mare, catturando perle preziose che aderivano alle loro squame senza più staccarsi, fornendo alle sirene una lucente pelle riflettente. Nonostante tra le onde trovassero l’ambiente naturale nel quale muoversi perfettamente, le sirene riuscivano ed adagiarsi anche sulle rive, traendo conforto e piacere nello sdraiarsi sugli scogli, venendo accarezzate dagli schizzi dei fluttui che, scontrandosi con le rocciose pareti, bagnavano i loro corpi. Quando avvistavano una nave all’orizzonte cominciavano a far echeggiare il loro dolcissimo canto, e una volta che i marinai soggiogati indirizzavano le vele verso la loro isola, le sirene si immergevano in acqua nuotando verso la prua della nave. Lasciavano i loro corpi semi sommersi, mostrando solo il tronco nudo, generando così un turbinio di passione a tutti coloro che le osservavano attoniti. Nelle mente degli uomini quei melodiosi canti ricordavano quanto di più tenero e allettante i loro pensieri potessero rammentare: il sorriso di una madre perduta, la risata delle fanciulle di un tempo e il bisbiglio all’orecchio di una sposa lontana che invocava il marito, distesa su di un morbido letto. Gettandosi in mare i marinai ponevano i loro sguardi senza sosta alla disperata ricerca di quelle creature cosi incantevoli e belle, per nulla coscienti che in quegli istanti la loro fine giungeva implacabile dal fondo del mare: mani misteriose infatti afferravano le gambe degli stolti e li trascinavano verso una morte sicura. Sulle rive opposte, raccolti i corpi ormai privi di vita, le Sirene riempivano l’aria con l’eco di una nenia malinconica, sentenziando un mistico funerale di congedo.

E’ questa che ho raccontato con sentito trasporto la descrizione più classica del mito delle sirene. Una rievocazione descrittiva valevole fino al 1837, quando il genio letterario di Hans Christian Andersen rese partecipi i propri lettori di un capolavoro destinato a mutare per sempre ciò che si poteva immaginare sulle sirene. Non erano più soltanto creature sensuali e bellissime, seducenti e fatali. Le sirene con Andersen erano donne sognanti e innamorate, creature dall’animo puro e incontaminato, anime cristalline, capaci di amare incondizionatamente. Con la fiaba dell’autore danese, le sirene divennero universalmente conosciute anche come delle essenze femminili di armoniosa grazia.

Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Protagonista della fiaba più famosa di Andersen è una Sirena, o meglio, una Sirenetta, tanto gentile, tanto bella, ma anche tanto sfortunata. La storia della Sirenetta ha qualcosa che non si trova di solito nelle altre fiabe: non mette solo in moto la nostra fantasia, la nostra immaginazione, mette in moto soprattutto il nostro sentimento. Il nostro cuore soffre e si rattrista per la giovane Sirena così dolce e delicata, e così pronta al sacrificio. A un sacrificio che le costa la rinuncia al canto e alla parola e la costringe a una continua sofferenza fisica. Ella cerca la felicità nel mondo degli uomini e, quando si accorge che non può realizzare il suo sogno d’amore, diventa una magnanima dispensatrice di bene e d’affetto per colui che, senza saperlo, l’ha fatta tanto soffrire.

La Sirenetta per il suo modo di sentire, è veramente una creatura umana, appunto per questo Andersen ha immaginato per lei, come premio, come ricompensa, un’anima immortale. Una fiaba irreale per le vicende narrate, vicissitudini che sono fuori dalle nostre possibilità, ma sono reali per l’umanità dei personaggi e per i loro caratteri così vivi, così autentici, così veri. Basti andare con la mente alle scene in cui la Sirenetta pensa mestamente ai suoi cari: le sorelle che cantano un triste canto per averla perduta; il Re e la nonna che da lontano tendono il braccio sconsolati. Più che un particolare di una scena fiabesca, sembrerebbe una scena da figurarsi in un dramma, in una tragedia di quelle che creavano gli antichi Greci, tutti dominati dal sentimento di un destino doloroso, avverso che non si può vincere. Chi va a passeggiare lungo il mare che bagna Copenaghen può vedere su un grosso masso, accarezzato dall’onda che fluttua sommessa, una fanciulla di bronzo che guarda, seduta, lungo il lontano orizzonte. E’ il monumento alla Sirenetta, la soave protagonista dell’omonima fiaba.

Le fiabe Anderseniane hanno una grande ricchezza di motivi; improntati a una eccezionale immediatezza d’intenzione psicologica, si sviluppano in una narrazione sobria e limpida, inconfondibilmente ritmata, dove uomini e animali si esprimono in un mondo in cui è infranta ogni barriera tra realtà e fantasia. Scriveva Andersen: “io scelgo un tema per gli adulti e lo racconto ai bambini, tenendo presente che il padre e la madre ascoltano e bisogna farli riflettere un poco”.

Il vero carattere della Sirenetta è descritto da Andersen con dovizia di particolari, specialmente psicologici che di solito si riscontrano nei personaggi delle fiabe. L’autore ha voluto puntare alla ricerca delle emozioni e dei sentimenti del personaggio, creando una figura malinconica e sensibile, altruista e decisa, che nel corso della narrazione vediamo crescere e maturare. Una volta diventata persona umana la sua vita è un alternarsi di speranze e delusioni. Il principe, dal canto suo, la tratta come un trastullo, come un cucciolo a cui voler bene e la fa stare accanto a sé solo perché gli ricorda un’altra ragazza, quella che egli crede l’abbia salvato. Quando la Sirenetta scopre la vera identità della promessa sposa del principe sprofonda nella tristezza più cupa, e malgrado la sua angoscia augura ai due giovani ogni felicità, continuando a sorridere pur sapendo che allo spuntar del sole si trasformerà in spuma del mare. E poi quando le sorelle le mettono in mano il coltello con cui dovrà uccidere il giovane principe per salvarsi, la Sirenetta, raggiunge l’apice della sua umanità, gettando in mare il pugnale e affrontando così il suo crudele destino.

A differenza delle altre fiabe, che di solito si concludono con la famosa formula … “E vissero tutti felici e contenti”, nella Sirenetta siamo in presenza di un finale triste, sconvolgente, anche se intriso di profonda morale. In effetti la Sirenetta è solo apparentemente una fiaba, Andersen ha usato alcuni elementi del fiabesco come appiglio per narrare un’affascinante, ma di certo malinconica, storia d’amore.

Andersen impresse il proprio dolore su quei fogli di carta, la sua vivida sofferenza emotiva nella parole che rinarravano il triste fato della Sirenetta, perpetrando un finale dal distacco prostrante che innalzò a emblema imperituro di quel senso di profonda insoddisfazione che egli provava e di quel dolore che ne torturava l’animo.

La Sirenetta Ariel disegnata da Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Nel 1989 la Disney distribuì nei cinema di tutto il mondo “La Sirenetta”, il primo classico del cosiddetto “Rinascimento Disney”. Ispirato alla fiaba scritta da Andersen, il lungometraggio d’animazione mutò alcuni punti chiave della storia, donando alla protagonista, nel film battezzata con il nome di Ariel, che richiama lo spirito dell’aria di William Shakespeare, un lieto fine. Fortunatamente, permettetemi di scriverlo, sebbene la storia di Andersen sia assolutamente perfetta, un vero elogio alla sua fantasia creativa in grado di far riflettere sulla tragicità di una fiaba che mescola interpretazioni velate sulla realtà, il finale dell’opera è incredibilmente straziante. Un film che riadattasse il racconto restituendo alla Sirenetta un atto conclusivo sereno e felice fu un vero e proprio “dono” che la Disney offrì non soltanto alla sua protagonista ma a tutti i fan (come il sottoscritto) che amano la fiaba originale e che, pur rispettando il supremo volere dell’autore, provano un senso di profonda angoscia, memori di un finale dalla drammaticità devastante, e che grazie al lungometraggio Disney poteva adesso essere analizzato da una prospettiva tutta nuova.

“La Sirenetta” ebbe il merito di conferire nuova e preziosa linfa vitale alla Walt Disney, reduce da un periodo di magre consolazioni e modesti risultati di critica e di pubblico. Il film diretto da John Musker e Ron Clements fece da apripista al periodo di successi sfolgoranti che dureranno per tutti gli anni ’90: “La Sirenetta” fu a tutti gli effetti la “madre” che generò una luce nuova, chiara e raggiante che illuminerà la Disney per il successivo decennio.

Il film narra naturalmente la storia di Ariel, una sirena del mare, principessa degli abissi, figlia del Re Tritone.  Per disegnare il fisico slanciato e armonico della Sirenetta, gli animatori si ispirarono ad Alyssa Milano, famosissima in Italia come Phoebe nella serie tv “Streghe”. Ariel è una sirenetta di sedici anni dai folti capelli rossi, che nuota sul fondale marino insieme al dolce Flounders, un pesce color giallo e azzurro, e Sebastian, un granchio rosso, consigliere del padre e figura protettiva nei confronti della giovane. Ariel raccoglie spesso oggetti dispersi dagli umani in mare, ella è mossa da una profonda curiosità verso gli uomini, anche se il contatto tra le creature del mare e gli umani è assolutamente proibito dal regno da cui proviene. I canti musicali del film servirono per l’esposizione canora dei sentimenti dei protagonisti. Ariel canta i suoi desideri, ma anche i suoi sentimenti, poggiandosi su di uno scoglio e inarcando il proprio corpo all’indietro e verso l’alto, mentre la marea si scontra con la parete rocciosa: ella esprime il proprio volere di essere libera e intraprendere la vita che vorrebbe sulla terra insieme al suo amato. La protagonista anela a una libertà e canta tale volere in un modo che verrà, ad esempio, ripreso ne “Il gobbo di Notre-Dame”, quando Quasimodo canterà l’ardente desiderio di essere liberato dalla prigionia della cattedrale per uscire fuori. Le canzoni de “La Sirenetta” servirono altresì per tracciare l’amore che le creature del mare riservano al loro mondo nella celebre “In fondo al mar”, splendida melodia che traccia le meraviglie nella vita sul fondo del mare e le differenze rispetto ai pericoli del “mondo esterno.” “La Sirenetta” ebbe il grande merito di aver ripristinato le parti musicali come elementi essenziali e peculiari dei migliori classici Disney. Grazie alle proprie musiche il film vinse due premi Oscar, per la migliore colonna sonora e la migliore canzone, un qualcosa che si ripeterà più volte per le successive opere della Disney, che per le parti musicali impiegherà sempre sforzi massimi per garantire una resa sempre di altissimo livello.

Ne deriva un’immediata demarcazione adoperata nella storia della Sirenetta, ovvero quella tra il mondo degli abissi e quello al di sopra della superficie, ovvero quello degli umani. Se gli umani nutrono una curiosità prettamente scientifica verso ciò che è ignoto ed eseguono una ricerca per conoscere ciò che si cela tra gli abissi dell’oceano, Ariel, un essere per noi così unico e raro, così bello e incantato, desidera conoscere ciò che si trova al di là della superficie. Dal punto di vista degli spettatori è curiosa l’empatia che si sviluppa nei confronti della protagonista, una creatura “fantastica” che mira a voler diventare “normale”. Ariel, infatti, si innamora del principe Eric, un uomo che mira per la prima volta su di un’imbarcazione alla deriva e che salva da morte certa, portandolo fino alla riva e rincuorando il suo spirito dimesso cantando per lui. Eric non può vederla perché ha perso i sensi e conserva i suoi canti nel suo cuore e nella sua mente.

Se gli umani volessero nel profondo conoscere una realtà così magicamente possibile come quella in cui vive Ariel, ella, dal canto suo, desidera ardentemente diventare un’umana, abbracciare il nostro mondo e camminare con le sue gambe sulla superficie terrestre. Ne consegue una flebile interpretazione su come la conoscenza colpisca il sentimento ancor prima della razionalità, spingendo questi alle volte spiriti appartenenti a mondi opposti a volersi incontrare. L’avvicinamento tra Eric e Ariel è l’incontro tra due razze diversificate eppure così accomunate dal medesimo sentimentalismo che ci rende pressoché unici.

E’ curioso notare come l’incontro tra Ariel e Eric rimandi ai classici miti delle sirene cui facevo cenno inizialmente: Ariel emerge dalle acque verso una nave prossima ad affondare ma non è una creatura malvagia, pronta a uccidere i naufraghi. Ariel è una dama del mare d’impareggiabile bellezza e d’inconfondibile sensibilità emotiva. Il suo canto non è un’irresistibile manifestazione atta a stregare le sue prede, è invece un dolce conforto che ella riserva all’amato. Una diversità che cambia i classici approcci delle sirene dei miti rendendoli profondamente simili a quelli voluti da Andersen.

La sirenetta, pur di poter incontrare nuovamente l’uomo, stringe un patto con Ursula, la diabolica strega del mare, rappresentata nel film come una gigantesca piovra dal viso e dal tronco umano, che le dona le gambe privandola però della sua incantevole voce. Ariel dovrà farsi amare dal principe e dovrà riuscire a farsi dare un vero bacio poco prima che tramonti il sole al terzo giorno. In caso contrario sarà condannata a tramutarsi in un essere consumato, e unirsi ai tanti altri mutati in simili sembianze e ingannati dalla strega. Ursula è una piovra viscida dai tentacoli subdoli e pericolosi che sembrano rappresentare metaforicamente le brame di potere cui mira la strega del mare. Un essere in grado di catturare e assoggettare tutto ciò che lo circonda con l’oscurità delle proprie armi tentacolari. La strega del mare è un essere neutrale nell’opera di Andersen ma nell'adattamento cinematografico è l’antagonista principale della storia, dal riso sardonico e dalla fisicità corpulenta, uno dei cattivi più sinistri, e inquietanti mai realizzati dalla Disney.

Ariel incontra così Eric restando perennemente muta, non potendo comunicare con lui se non con i gesti e i suoi sguardi. Tra i due comincia a sbocciare un forte sentimento.

Ursula cova odio nei confronti della bella Ariel, e trasformandosi in umana, usufruisce della voce della Sirenetta per ingannare Eric, cancellandogli la memoria fino a convincerlo che la donna ad avergli salvato la vita sia stata lei. Eric sembrerebbe prossimo a innamorarsi della strega, condannando la povera Ariel a trasformarsi nuovamente in sirena.  Alla fine Ariel riuscirà a sconfiggere Ursula, e suo padre, mosso a compassione e colpito dall’amore provato dalla figlia, decide di trasformarla in umana. Eric, ricambiando l’amore di Ariel, la sposa a bordo della sua nave poco prima di partire verso l’orizzonte.

“La Sirenetta” fu un capolavoro animato che trattò splendidamente il tema del diverso e l’incontro tra due mondi attraverso un amore corrisposto e dal valore ineluttabile. Non solo il ritmo è cadenzato argutamente, e i personaggi sono caratterizzati a dovere, ma è lo sforzo nel ricreare un’animazione innovativa e dal dettaglio curatissimo che fece de “La Sirenetta” un classico di raffinata pregevolezza. Il tratto artistico con cui venne “dipinto” il mondo sottomarino fu una resa scenica di assoluta magnificenza che “immerse” gli spettatori tra i fondali di una realtà che avrebbero dovuto scoprire con tanta indiscrezione, nell’esatto modo in cui Ariel scopre lentamente il mondo che tanto desidera. Venne adoperato uno sforzo mastodontico per l’animazione, con l’elaborazione di oltre un milione di bolle ben visibili ogni qualvolta i personaggi parlano sott’acqua, ma è la luce la quintessenza della finezza e della ricercatezza nel ricreare la minuziosità del dettaglio scenico: come fosse un quadro di Caravaggio, non c’è dato vedere da che punto con precisione arriva il fascio di luce, lieve ma comunque abbastanza luminoso da rendere le profondità del mare ben visibili. I personaggi nuotano nei fondali, dove il buio dovrebbe essere preponderante, ma la luce seguita sempre a irrompere dall’alto, da più parti che possiamo soltanto immaginare. E nelle profondità sono i colori degli oggetti, della flora e della fauna marina a ravvivare l’ambientazione, come se le stesse creature del mare donassero vivezza e colore alle tavolozze artistiche del film. Nell’oscurità degli abissi gli esseri viventi sono i colori luminescenti capaci di esprimere la vitalità dell’esistenza in fondo al mar.

“La Sirenetta” della Disney, sebbene non conservi la drammaticità e l’impressione tragica del corso e del finale dell’opera letteraria, mantiene una decisa tensione emotiva e analizza con garbo e gentilezza un amore impossibile che diventa attraverso un percorso di rinunce, sofferenze e rischi, splendidamente possibile.

L’adattamento cinematografico della Walt Disney, oltre a poter essere naturalmente paragonabile a “La Sirenetta” di Hans Christian Andersen, poiché derivante dalla fiaba dello scrittore danese, può fungere da ultimo tassello del puzzle, e adempiere ad un completamento.

Personalmente immagino Ariel, viva e in salute, volgere il proprio sguardo sulla superficie dell’acqua rischiarata dal sorgere del sole mattutino, e in quei riflessi tra le onde, proprio in quell’istante, quando la brezza soffiando dolcemente le sposta i rossi capelli, ella riesce a rimirare il volto della Sirenetta di Andersen. Un viso che si delinea nei riflessi di un mare che trasfigura se stesso come fosse un portale su un’esistenza parallela. Entrambe nelle mie fantasie incontrano i rispettivi sguardi, e la Sirenetta, prossima a tramutarsi in spuma del mare può, per un solo e meraviglioso istante vedere “se stessa” felice e contenta, essendo riuscita a trovare l’amore che tanto aveva desiderato.

Poco prima di scomparire tra il movimento delle onde, la Sirenetta può avvertire il conforto che la “se stessa” di una realtà, poi non così distante, è riuscita a scorgere e vivere nell’amorevolezza terrena. Ariel può così anch’ella mirare la Sirenetta disfarsi in bolle, e comprendere quanto il dono che è riuscita a cogliere sia prezioso.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

Vi potrebbero interessare:

1

Correvano (mai verbo fu più azzeccato di questo) gli anni ’90… E che passo spedito avevano! Li ricordate? Personalmente li ho sempre considerati, reinterpretati, in maniera romanzata si intende, come un decennio unico nel suo genere, quasi prigioniero tra lo stile inimitabile degli anni’80 e il sentimento speranzoso di un domani imminente.  Il Duemila era praticamente alle porte, e giungeva preannunciandosi come un evento unico. Non capita poi così spesso di poter accogliere il cosiddetto “nuovo millennio”. Eppure, quegli anni ebbero la capacità di conservare un gusto dolce e appagante, forse dettato proprio dalle aspettative riguardanti un futuro che sembrava lentamente materializzarsi all’orizzonte. Per tutti gli anni ‘90 si guardava al futuro, a ciò che davvero poteva portare con sé il Duemila. I cinefili osservavano “Ritorno al futuro - parte II” e ne restavano incantati: tutto sembrava così all’avanguardia in quella Hill Valley del 2015, in cui Marty e Doc muovevano i loro passi.

Mentre annoto queste mie considerazioni, il calendario segna la data del 22 aprile del 2017. Sono già trascorsi due anni dal quel fatidico 21 ottobre 2015 e di macchine volanti, volopattini Pitbull e sentenze tributarie decretate in sole due ore di processo neanche l’ombra. E’ proprio così, gli avvocati non sono stati aboliti, caro Doc, e abbiamo ancora bisogno di strade nel nostro mondo. Se guardiamo al passato possiamo renderci conto che la realtà non è poi così cambiata da allora.

Fino a un certo punto, naturalmente… Però qualcosa è cambiato, dopotutto. Fiorello non porta più il codino e non inneggia ancora alla folla per intonare i versi de “La nebbia a gl'irti colli…” Non potrei mai dimenticare questo aneddoto. Potrà sembrare alquanto ironico per un lettore ma il primo ricordo che possiedo del supereroe DC Comics Flash è legato proprio a…Fiorello. Com’è possibile? - direte voi -. Avevo una VHS, in cui era registrato il primissimo episodio della serie classica di Flash. La registrazione era partita un po’ prima dell’inizio della trasmissione, e poco prima di Flash, Italia 1 trasmetteva Fiorello, intento, per l’appunto, a cantare: era la primavera del 1992. Quella vecchia VHS era una sorta di finestra sul passato per il pubblico italiano, in cui continuavano a essere registrate “prove” della programmazione televisiva di quel periodo: oltre  all’estroso showman che apriva lo spettacolo, cantando il proprio personalissimo adattamento canoro della poesia del Carducci, si poteva assistere a una serie di pubblicità che oggi definiremmo storiche: ricordate il celebre motivetto “E’ Sammontana, si sa…” che veniva intonato continuamente dai più giovani sulle spiagge in quella estate? O il “Ciribiribì” della Kodak?

Credo fosse una cosa naturale ritrovare in una videocassetta, in cui era registrato il primo episodio dedicato al supereroe più veloce del mondo, tracce di un passato cosi nostalgico; d’altronde Flash viaggia con estrema naturalezza attraverso le epoche, dal passato al futuro. Flash è un viaggiatore del tempo, come Marty e Doc, e in lui convoglia un malinconico passato e un fiducioso futuro. Se in quegli anni Novanta guardavi la serie TV di Flash, non potevi che ripensare a quanto in fretta potesse “correre” il presente, tramutarsi in un vissuto passato, e quanto l’aspirazione futura fosse essenziale allo scorrere della nostra vita. Flash dunque è tanto passato quanto futuro!

Il primo episodio di Flash venne trasmesso in Italia un sabato del 1992, e fu visto da oltre 4 milioni di spettatori, un risultato inaspettato per le reti Mediaset. “Flash” era reduce dalle influenze oscure di “Batman”, il film di Tim Burton. Lo stesso Danny Elfman, compositore del film sul cavaliere oscuro, curò la straordinaria colonna sonora del telefilm, e ne incise la sigla. Il primo episodio della serie si presentava a tutti gli effetti come un film TV, della durata di un’ora e mezza. John Wesley Shipp (vincitore di due Emmy Award come miglior attore) venne scelto come interprete di Barry Allen, un poliziotto della scientifica che, dopo essere stato colpito da un fulmine ed essere venuto a contatto con sostanze chimiche caricate elettricamente, diventa il velocista scarlatto Flash. Shipp fu il primo attore ad interpretare l’eroe DC Comics.

Amanda Pays è Tina McGee

 

All’inizio, Barry è terrorizzato dai suoi poteri e si rivolge alla Dottoressa Tina McGee (la splendida Amanda Pays) dello Star Labs, per sottoporsi ad alcuni test. L’evento che scatena il senso di giustizia e rivalsa nel cuore di Barry è il brutale assassinio del fratello Jay (un evidente riferimento a Jay Garrick, il primo Flash dei fumetti), ucciso da Nicholas Pike, leader di una colonia malavitosa di motociclisti che hanno messo sotto scacco la città. Barry decide di mettere i propri poteri al servizio della legge, utilizzando un passamontagna, dei guanti per non lasciare impronte, un costume rosso scarlatto fornitogli dalla stessa Tina, capace di resistere all’elevato attrito della sua velocità, e un simbolo in grado di terrorizzare i propri nemici: il fulmine. Nasce così Flash!

Per creare il costume di Flash furono spesi 100.000 dollari. Il materiale prescelto fu il lattice, e venne ideato da Robert Short e realizzato da Stan Winston. John Wesley Shipp aveva un fisico imponente che veniva maggiormente accentuato dal costume dell’eroe, in cui la muscolatura di Flash era scolpita su di esso, in modo da rendere l’idea che la stessa tuta si modellasse sul corpo e al medesimo modo si espandesse. Il costume è ispirato a quello del fumetto: è completamente rosso e ha tutta una serie di saette poste sulle braccia e sulla cintura, che danno l’idea della “scarica di un fulmine” in perpetuo divenire. La sola differenza sta nel colore degli stivali, che si scelse di mantenerli rossi, invece che dorati come li ha il Flash del fumetto. John Wesley Shipp ammise più volte la grande difficoltà nel recitare col costume indosso, poiché doveva sopportare una temperatura di ben 40°. Sul piano estetico, il costume di Flash appare ancora oggi visivamente straordinario, uno dei migliori prodotti mai visti sul piccolo e grande schermo.

  • Personaggi della serie

Flash estrapolò qualche elemento dalla sua controparte cartacea, cercando di differenziarsene per una maggiore trasposizione attinente alla realtà. Chiaramente una realtà fantascientifica, ma abbastanza diversa da quella del fumetto. L’amore profondo e indivisibile tra Barry e Iris qui viene trattato brevemente solo nel primo episodio. Iris, interpretata dalla giovane Paula Marshall, compare solo nel primissimo episodio della serie, ed è un’esperta di computer grafica, dai capelli mori, invece che una giornalista dalla rossa chioma. Lascerà Barry dal secondo episodio, proseguendo la sua carriera lontano da Central City. Separare Barry dal suo grande amore, nella trasposizione televisiva, fu una mossa errata secondo i più, eppure, il contrappunto romantico della serie fu perfettamente mantenuto, grazie al rapporto, splendidamente messo in scena, tra Barry e Tina, la dottoressa che accompagna Flash in tutte le sue avventure. Tra Barry e Tina nascerà un legame sempre più profondo, esaltato da un’attrazione ben percepibile, che si accrescerà sempre più nel corso della serie, basata sul classico “detto-non detto”. I due non lo ammetteranno mai realmente, e purtroppo il tempo inclemente non concederà il giusto finale a questa coppia degli anni ‘90. Barry e Tina condivideranno un bacio nel dodicesimo e nel quindicesimo episodio, poco prima che Barry torni indietro nel tempo. Tina è un personaggio presente nei fumetti, aiuta il velocista Wally a controllare il proprio potere, oltre ad essere stata la fidanzata di Flash.

Il migliore amico di Barry è Julio Mendez, suo collega alla scientifica. Julio, per chi segue la serie televisiva attuale, è “l’antenato” di Cisco Ramon. Un precursore, è vero, ma dallo stile inimitabile. Gran parte della comicità della serie è da ricercarsi nel talento comico di Alex Desert (interprete di Julio), dalle sue battute taglienti al tormentone della serie: presentare a Barry sempre ragazze dalle abitudini bizzarre e dai modi di fare inquietanti, che aggiungono un lato tragicomico alla vita sentimentale dell’eroe. La donna con cui il poliziotto intreccia una relazione passionale è la detective Megan Lockhart, un’investigatrice privata apparsa in tre episodi e interpretata dall’attrice Joyce Hyser. Altri caratteristi noti della serie sono l’irascibile tenente Garfield (Mike Genovese), e gli ironici poliziotti Bellows (Vito D’Ambrosio) e Murphy (Biff Manard). Barry caratterialmente è molto coraggioso, deciso ed eccellente sul lavoro; ha una fame insaziabile per via del suo metabolismo iper-accelerato (caratteristica del fumetto) ed è molto testardo.

Mark Hamill è il Trickster

 

  • Struttura degli episodi e Villan

Flash era una serie a carattere autoconclusivo, e ogni episodio era strutturato con un singolo caso che l’eroe avrebbe dovuto affrontare. Nonostante ciò, sono molteplici gli elementi che vengono ripresi nel corso della serie, e i personaggi che riappariranno, certificando una naturale continuità narrativa.

La galleria degli avversari di Flash è vasta e molto variegata: l’eroe nelle sue avventure dovrà affrontare casi più attinenti al contesto reale, come la mafia cittadina (Episodio 3), gangster molto potenti (Episodio 14), assassini vendicativi (Episodi 6 e 8), ma anche avversari di natura soprannaturale (Episodio 2), di concezione fumettistica (Episodio 13, 17, 19 e 22) e d’origine fantascientifica (Episodi 10, 18, 21 e 15 in cui Flash riuscirà a viaggiare nel futuro). Flash venne rappresentato come un supereroe “possibile” e “necessario”, calato in un realtà metropolitana la quale aveva estremamente bisogno di un guardiano che vegliasse sulla città. Per questo si decise di rendere Flash un supereroe in grado di alternarsi tra avventure fantasiose ad altre più attinenti alla criminalità che affligge il mondo reale. Sebbene non si riesca a includere l’avventura di Flash in un dato contesto narrativo univoco, la bellezza della serie è da ritrovarsi proprio nell’eroismo del supereroe. Flash può contare sull’aiuto di Tina, la sua fedele compagna, ma ha comunque la destrezza d’essere sempre preminente nelle proprie avventure, caratteristica che spesso viene messa a dura prova nella serie televisiva contemporanea di Flash, in cui l’eroe ha al seguito un intero team, oltre che numerosi altri velocisti a supportarlo. Tali grosse collaborazioni spesso “privano” il Barry Allen/Flash di Grant Gustin del suo eroismo. Nella serie degli anni ’90 il Flash di John Wesley Shipp è, invece, l’assoluto eroe della scena, e possiede sempre la capacità di risolvere egli stesso la situazione, coi propri poteri, il proprio coraggio e la propria intelligenza, senza l’intervento di terzi. Flash è la serie in cui Barry Allen, pur con le dovute difficoltà, riesce ad essere l’unico e vero eroe di Central City.

La nemesi di Flash è James Jessie, ovvero il Trickster, interpretato da un lunatico Mark Hamill (già interprete di Luke Skywalker in “Star Wars”), che comparirà nell’episodio “Il Trasformista” e nell’episodio finale “Lavaggio del cervello”.  Altri avversari tratti dai fumetti saranno: Capitan Gelo e Il signore degli specchi. Danny Bilson e Paul De Meo, i creatori della serie, dissero che per la premiere della seconda stagione avrebbero voluto far unire le forze proprio a questi tre avversari contro Flash. Alcuni episodi della prima stagione vennero sceneggiati da noti autori di fumetti.

La serie di Flash disseminò in diverse puntate i cosiddetti easter-egg, riferimenti nascosti al fumetto, una vera particolarità per quegli anni: ad esempio, Barry in un episodio si farà chiamare Professor Zoom, riferimento al celebre alter-ego dell’Anti-Flash. Un albergo di Central City avrà il nome de “Infantino Hotel” in riferimento a Carmine Infantino, primo disegnatore di Barry Allen. In una puntata, Barry passeggia col suo cane Eolo (riferimento al dio greco del vento), e cammina nei pressi di un cinema in cui sono ben visibili le locandine di “Superman” di Richard Donner con Christopher Reeve e “Batman” di Tim Burton. Per pochi secondi si possono ascoltare alcuni passi della colonna sonora del film eseguita da Danny Elfman.

Il Flash del 1990 è un eroe ottimista, ma a tratti furente e tormentato (per via della morte del fratello), che terrorizza i vili criminali della città prima di consegnarli alla polizia. In lui sono percepibili le scorie influenti del Batman di Michael Keaton. Come lo stesso cavaliere oscuro di Burton anche Flash viene spesso descritto come una presenza fosca, quasi incerta circa la sua vera esistenza. Una sorta di mito, leggenda metropolitana destinata ad avere sempre maggiore visibilità. Flash viene indicato dai criminali come un “demone rosso sangue” in grado di neutralizzare il male alla velocità della luce.

  • Scenografie e ambientazioni

Guardando “Flash” si nota, a livello scenografico, una sorta di “paradosso-temporale”: ciò a cui mi riferisco conferisce un’anima unica e inimitabile alla serie. La Central City di Flash sembra continuamente oscillare tra passato e presente. Si alternano così quartieri della città più moderni, in cui si muovono macchine di contemporanea produzione, ad altre periferie cittadine in cui il tempo sembra essersi fermato, e assistiamo a uomini che camminano sui marciapiedi con un look anni ’50 e macchine d’epoca che sfrecciano su nastri d’asfalto. Questa alternanza scenografica sembrò dar vita sul piccolo schermo ai disegni dei primi fumetti di Barry Allen, in cui l’eroe correva per le strade dell’America della prima metà degli anni ’50, creando, al contempo, anche una nuova identità cittadina più attinente a quella degli anni ’90 in cui si svolgeva la serie. Fiore all’occhiello della scenografia erano gli impressionanti murales che si stagliavano sui muri cittadini, dando agli sfondi in cui agiva il velocista, un effetto pittorico.

Persino l’abbigliamento di Tina venne scelto dalla costumista per rendere più evidente il gioco continuo della serie tra passato e futuro: Tina è una donna determinata e sul lavoro è alquanto autoritaria, ma ha un look casual che le conferisce un aspetto gentile e aggraziato; porta il camice e veste gonne sotto il ginocchio, indossa giubbini particolari, tipici degli anni ’40. Quando lo richiede l’occasione è solita vestire eleganti abiti da sera, assumendo così un aspetto decisamente più attraente e fascinoso.

  • Eredità della serie

John Wesley Shipp indossò la maschera di Flash per 22 volte. Il serial fu trasmesso negli Stati Uniti a un orario insolito, in cui doveva “scontrarsi” con le fasi finali del NBA e con la primissima stagione de “I Simpson”. Soltanto l’episodio pilota di Flash costò 6 milioni di dollari per la realizzazione di oltre 125 effetti speciali. I restanti 21 episodi constarono 1 milione e 600 mila dollari cadauno. I costi elevatissimi per la realizzazione degli effetti speciali (molti ancora oggi apprezzabili) indussero la produzione a interrompere la serie. Nonostante il grande rammarico di essere stata interrotta così bruscamente, Flash lasciò un’eredità significativa.

Il personaggio de l’Ombra della Notte, un antico vigilante che spalleggia Barry in due episodi, fu d’ispirazione per la concezione del Fantasma Grigio in “Batman the animated series”. Mark Hamill che interpretò il folle Trickster diventerà, dopo tale ruolo, il doppiatore ufficiale del Joker per tutti gli adattamenti animati e videoludici in cui compariva il personaggio. Nell’ultimo episodio di Flash, Trickster è spalleggiato da una donna innamorata di lui: Prank, interpretata da Corinne Bohrer. Prank, a mio giudizio, è la prima HARLEY QUINN. Trickster e Prank somigliano incredibilmente a Joker e Harley e al loro inusuale rapporto amoroso. Prank è una ragazza che finisce per restare affascinata, quasi ossessionata, da un criminale votato a un particolare stile di violenza: grottesco, scherzoso, clownesco, perpetrato con un’ironia folle e mezzi paradossali. La ragazza diviene la “compagna” ideale del Trickster, prima d’essere abbandonata quando l’uomo decide che è il momento di lasciarla; ma lei, nonostante l’affronto, continua a restare perdutamente fedele a quel criminale. Esattamente come verrà delineata le personalità di Harley Quinn in “Mad Love”. Lo scrittore Paul Dini potrà essersi ispirato all’attrice Arleen Sorkin per l’aspetto del personaggio di Harley, ma la storia e il peculiare rapporto con il Joker hanno raccolto certamente le influenze della serie di “Flash”, che ha pertanto generato, in modo del tutto inconsapevole, la nascita di una delle coppie dei fumetti più famose di tutti i tempi. Vi è inoltre un dialogo significativo scambiato tra Prank e Trickster durante l’episodio “The Trial of the Trickster”: Prank cerca di togliere la maschera a Flash ma il compagno la ferma, perché senza maschera per lui l’eroe non avrebbe alcuna importanza, sarebbe soltanto un uomo qualunque. Tipico ragionamento che il Joker esercita nei confronti della sua nemesi.

Oltre queste importantissime eredità, la serie classica di Flash viene omaggiata nella nuova serie dedicata al personaggio. John Wesley Shipp, nella versione del 2014, interpreta Henry Allen, il padre di Barry (Grant Gustin), e dalla fine della seconda stagione, torna ad essere Flash, interpretando Jay Garrick, il primo velocista scarlatto. Shipp viene così omaggiato interpretando un ruolo da mentore e guida, divenendo a tutti gli effetti il primo, vero Flash.

Anche Amanda Pays tornò a recitare nella serie, interpretando ancora la dottoressa Tina McGee e interagendo nuovamente con John Wesley Shipp: una meravigliosa rivisitazione nostalgica alla serie storica. Grande ritorno anche per Mark Hamill che interpreterà ancora Trickster e si scontrerà, oltre che col Flash di Gustin, proprio col Flash di Shipp. Molte delle immagini circa il passato di Trickster, mostrate nella serie, sono estratte proprio dalla serie classica.

Compariranno anche Alex Desert (ancora nel ruolo dell’agente Julio Mendez nel Flashpoint) e Vito D’Ambrosio nel ruolo del sindaco di Central City.

  • Conclusioni

Flash fu una grande serie, una serie magnifica, ben diretta e altrettanto ben recitata. Ancora oggi uno dei prodotti migliori mai realizzati nel panorama supereroico. L’unico appunto, se così si può dire, imputabile alla serie è da riscontrarsi nella semplicità di qualche episodio e nel suo discostarsi troppo dal climax del fumetto. Ma nella sua identità la serie di Flash ebbe un’anima unica, difficilmente paragonabile ad altri telefilm. Flash si ritagliò, a suo modo, una nutrita fetta nel panorama dei telefilm degli anni ’90, convogliando in sé il gusto per il passato e lo sguardo al futuro, verso quel Duemila che sarebbe giunto dopo dieci anni. Flash, purtroppo, non ebbe la fortuna di poter accompagnare i propri spettatori fino alla fine del secolo. La sua interruzione resta un grande rammarico: Flash fu una bella e malinconica “incompiuta”. L’eroe nel corso dell’intera serie fu sempre una “chimera” a cui i più scettici non credevano. Solo nell’ultimissimo episodio Flash si spoglierà del suo alone di mistero. I cittadini di Central City realizzeranno un cartello e lo porranno dinanzi all’entrata della città scrivendo: “Benvenuti a Central City, la casa di Flash”. E sarà lo stesso velocista scarlatto a roteare vorticosamente attorno a quella insegna. Una sorta di congedo nei confronti dei tanti fan della serie, che per un’ultima volta ancora potranno rimirare quella benevola lunga scia rossa.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: