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Recensione di ROGUE ONE: A STAR WARS STORY – Una “stellina” torna a brillare nella galassia lontana lontana

Era solo un dettaglio. Il particolare di una trama a cui non davo poi chissà quale peso perché fin troppo concentrato sugli sviluppi successivi, legati proprio a quel piccolo accenno che un film di quasi quarant’anni fa “recitava” per voce diretta dei personaggi a partire già dalle primissime sequenze. “Dove sono i piani che avete rubato?” -  domandava con rabbia una figura avvolta in una nera armatura, e il volto coperto da una maschera da cui fuoriusciva con ritmi regolari un angoscioso respiro. Su questa “minuzia” si pone il lavoro del 2016, dello spin-off “Rogue One”: come sono stati rubati i piani della Morte Nera? Quella stessa stazione spaziale che in Episodio IV possedeva la capacità di distruggere un intero pianeta con un solo colpo. Su quella sfumatura che Lucas, al tempo, ridusse astutamente a un semplice rimando, si perpetra l’esplorazione del regista Gareth Edwards, che attinge al passato mantenendo costantemente un occhio vigile sul presente e su quell’imminente “futuro” che sarà per l’appunto il lascito conclusivo che dovrà inevitabilmente recare in sé questo film: essere l’anello di congiunzione con l’intro de “Una nuova speranza”.

“Rogue one” è un’opera autoconclusiva, consapevole fin dalla propria concezione di avere un solo colpo in canna, e che dovrà mirare alle passioni più profonde dei fan con la mano ferma di un infallibile cecchino. Avrà a disposizione una sola pallottola, non potrà permettersi di sbagliare o addirittura adagiarsi sugli allori e sperare di raccogliere quanto ha seminato in un prossimo sequel. Dopotutto, il seguito di tale lungometraggio esiste già dal 1977. L’arte di questo primo spin-off dell’universo di “Guerre stellari” è fuggevole, un artificio destinato a nascere e a morire in poco più di due ore. Ma “Rogue one” non teme la parola “fine”. Anela alla propria conclusione, perché come i suoi stessi protagonisti vive per ciò che lascerà e non per quello che dovrà fare e rifare più e più volte. Questo primo “volume” antologico su “Star Wars” espande la mitologia creata da George Lucas, ma non la intacca affatto, vuole soltanto allargarla e mostrare nuovi orizzonti paralleli al filone principale della storia degli Skywalker.

“Rogue one” si regge sull’emotiva espressività di Felicity Jones, la Jyn Erso protagonista della pellicola, una ragazza dalla fronte ampia e dalle labbra carnose, che hanno tenuto fissi i miei occhi sul quel suo parlato e su tutto ciò che ha voluto comunicarmi dall’inizio alla fine della sua storia. Jyn è la figlia di Galen Erso, un prigioniero dell’Impero Galattico costretto a costruire la Morte Nera, l’arma che assoggetterà definitivamente l’universo al volere di Palpatine e spazzerà via i resti della ribellione. Il film nel suo sviluppo finalmente torna a quel viaggio esplorativo, tanto amato da George Lucas, quello, dove i pianeti di questo fantastico cosmo vengono mostrati con continuità, e ognuno di essi reca sempre nel suo habitat un qualcosa di unico, di “distintivo”; oserei definire questo qualcosa come una “natura identificativa”, tipica della flora fittizia di “Star Wars”. La lente si focalizza sul clima teso e intollerabile di una dittatura distopica, che colpisce e schiaccia  la gente comune, che non lascia adito ad alcuna scintilla che potrebbe innescare un anelito di libertà e di democrazia. E’ incredibile a dirsi, ma ciò che secondo me è gravemente mancato in Episodio VII, sequel della storia principale, è invece stato prontamente riportato in auge in uno spin-off a sé stante. In un seguito ambientato trent’anni dopo gli eventi de “Il ritorno dello Jedi” mi sarei volutamente aspettato di comprendere le dinamiche della Repubblica e il clima disteso di una pace ritrovata dopo anni di interminabili conflitti. A noi tutti non è stato permesso, poiché ne "Il risveglio della forza" siamo stati immediatamente calati in una realtà fatta di rimandi e strizzatine d’occhio, con evidenti strascichi di un tempo che sembrava essersi fermato, come se nulla fosse cambiato. Una scelta che ad altri potrà essere piaciuta ma che a me ha lasciato un retrogusto piuttosto amaro. “Rogue one”, invece, ci riporta in un mondo che, rammentando la cronologia all’interno della saga, sappiamo di conoscere, ma che guardiamo con un occhio diverso, avvertendo sensazioni che non credevamo di poter rapportare con quel periodo di guerra spaziale. Il cineasta omaggia il passato, invitando a partecipare il Bail Organa visto in Episodio II e III, padre adottivo di Leia e grande amico di Obi-Wan Kenobi, ricordato dallo stesso Bail come un grande guerriero durante le guerre dei cloni. Il rimando all’ormai anziano cavaliere Jedi fa invece da preludio al prossimo futuro in cui Obi-Wan riceverà la richiesta d’aiuto, quale unica “speranza” della principessa che nasconde in R2-D2 i piani appena rubati da Jyn e il suo gruppo. Edwards, pur divertendosi anch’esso a disseminare “easter egg”, non dimentica mai di tenere il timone della propria nave fermo sulla rotta prestabilita: quella della novità, dell’approccio diverso, e per me assolutamente ben accetto.

I personaggi sanno di essere degli eroi di passaggio e non eccedono in caratterizzazioni orchestrate ad arte per piacere allo spettatore, si limitano, invece, a rispettare i canoni del loro volere, e ci riescono appieno. Si battono per un ideale, un futuro che non potranno vedere ma lo fanno per "noi". Sanno di non poter essere amati come gli eroi presenti nel resto dell’epopea di Star Wars ma gettano comunque il cuore oltre l’ostacolo, battendosi per rubare quei piani che saranno il fulcro della prima vittoria dei ribelli sull’Impero. “Rogue One” è un film di guerra, quella sporca, logorante, combattuta nelle “trincee sabbiose”, in cui i veicoli tanto cari a noi fans abbracciano la magnificenza degli sbalorditivi effetti speciali degli ultimi anni. Gli Ala-X volano tra le stelle fronteggiando i caccia stellari in scene d’azione mozzafiato, mentre sulla terra i nostri eroi cadono uno ad uno chiudendo i propri sguardi su quell’arma che avrebbe garantito la fine di ogni libertà, ma che grazie ad essi non avrà vita lunga, poiché Jyn sarà la prima portatrice di quella “nuova speranza” che Obi-Wan e i ribelli ricercheranno in Luke e Leia.

Le forze oppositrici sono ancora quelle più comuni, su un fronte il bene sull’altro il male, ma l’impronta umana che il regista dedica alla costruzione della morte nera non può che destare ulteriore interesse. Il padre della nostra protagonista è un uomo costretto a costruire un’arma portatrice di morte, e proprio per questo ha lasciato una falla, un “tallone d’Achille” che può essere sfruttato se i piani finiranno in mano ai ribelli. Viene fuori un’attenta analisi a ciò che è stato fatto prima e durante la costruzione di questa stazione da battaglia, creata non soltanto dai seguaci dell'Impero, ma anche da uomini fatti schiavi e pertanto inevitabilmente sofferenti. L’amata figlia di Galen riuscirà a rubare i già citati piani, chiamati con il nome in codice di “Stellina”, il soprannome affettuoso con cui Galen chiamava un tempo la sua piccola bambina, prima che venisse strappato da lei e portato via dalla sua dimora. Il rapporto d’amore e quel senso di mancanza tra Jyn e Galen potrebbe venire reinterpretato, a mio giudizio, in un riadattamento di un possibile rapporto mai mostrato sullo schermo tra Anakin e sua figlia Leia. Vader, nella trilogia classica, concentrò gran parte delle proprie attenzioni sul figlio Luke, venendo a conoscenza dell’esistenza della figlia soltanto pochi istanti prima di spirare; chissà se invece Anakin fosse riemerso dall’oscurità tra le braccia della figlia… Avremmo forse assistito ad una scena simile a quella che vediamo alla morte di Galen, spentosi tra le braccia di Jyn?!

Il momento conclusivo è quello alimentato dal maggior pathos, in cui Jyn brilla proprio come una stella, lasciandosi andare in riva al mare stretta in un abbraccio di commiato con un altro ribelle che si è battuto fianco a fianco a lei. La morte sopraggiungerà su queste due anime: le anime di un eroe e un’eroina di cui si saprà ben poco negli annali storici di quella galassia, ma da oggi l’eco delle loro gesta riecheggerà nei cuori di noi spettatori che abbiamo assistito al loro sacrificio.

“Rogue One” è il film che riporta addirittura “in vita” la figura del Grand Moff Tarkin, interpretato da Peter Cushing, morto da circa ventidue anni. Un effetto speciale stupefacente che non può che lasciarci sbigottiti da una parte ma intimoriti dall’altra, suscitando l’inquietante interrogativo su cosa e fino a che punto si potrà spingere la tecnologia moderna, capace di sostituire completamente gli attori in carne ed ossa. Non posso che reputarlo però un omaggio straordinario all’attore che recitò nel primo “Guerre stellari”, sbarcato al cinema in ordine di produzione. Persino Carrie Fisher ritrova le proprie giovani fattezze nella scena finale, tornando ad essere la principessa Leila (o Leia se preferite) con indosso il bianco vestito dell’Episodio IV.

Darth Vader dipinto di di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Ma “Rogue One” verrà ricordato soprattutto perché è il film che dopo undici anni ha riportato sul grande schermo Darth Vader. La maestosità del personaggio cardine di “Star Wars” è plateale sin dal suo esordio in quest’ultima avventura: legato ad alcune apparecchiature e immerso nell’acqua temprante e rigeneratrice, con il corpo mutilato così come visto in Episodio III e il volto ferito e deturpato, velato soltanto dal vapore acqueo. Questa breve ma intensa scena è tratta da alcune tavole presenti nella letteratura a fumetti di “Star Wars”. Il suo respiro si ode sin da subito, per poi lasciare il posto al suo palesarsi nella sua interezza. Vader emerge dalla luce e avanza verso di noi con fare sinistro ma al contempo regale. Il prescelto dei Jedi e il signore oscuro dei Sith ritorna in un attacco battagliero finale, celato nel buio, quando il suo respiro fa da esordio al suo apparire, e l’accensione della sua rossa spada laser è il preludio di un epico combattimento che vedrà Vader, al massimo della potenza, fronteggiare un intero plotone di ribelli, che nulla potranno contro la sua cieca furia. La sola presenza di Vader, concentrata però in solo pochi minuti, accresce comunque a dismisura il valore emotivo del film in sé.

“Rogue One - A Star Wars story” mantiene quindi i principi secondo cui è stato creato: raccontare una storia; solo una e basta! Ma lo fa con un piglio tutto suo, con un proprio stile, ricercando un’originalità estetica, già partendo dai diversi titoli d’apertura. E’ un film che sa cosa vuole comunicare e non ha paura di farlo, non affidandosi continuamente al bieco fanservice. “Rogue One” ritrova il coraggio di osare, fonte inesauribile del successo di “Star Wars”; e lo fa con la sua protagonista, Jyn, che non sarà una luminosa stella come furono Anakin Skywalker/Darth Vader e Luke nelle passate trilogie, ma conquista comunque un posto d’onore nel cielo stellato della galassia lontana lontana pur restando soltanto una stellina, magari anche splendente e luminosa. Ma proprio perché così unica e rara sarà sempre facile scorgerla nel firmamento sconfinato: mi basterà solamente alzare lo sguardo per riconoscerla.

Voto: 8/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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1 pensiero su “Recensione di ROGUE ONE: A STAR WARS STORY – Una “stellina” torna a brillare nella galassia lontana lontana

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