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Era il settembre del 2011 quando nei cinema italiani campeggiava un cartonato promozionale, nel cui centro, a caratteri contenuti, vi era impresso un monito sinistro: “l’evoluzione diverrà rivoluzione”. Una Tagline accattivante, specie se combinata all’immagine che frastagliava dal basso e che finiva poi per occupare l’intero poster. Si trattava di Cesare, immortalato in una posa minacciosa, nell’attimo in cui era prossimo a sbattere con rabbia le nocche sul terreno. Si dipanava così il primo approccio visivo che il pubblico aveva con “L’alba del pianeta delle scimmie”, il primo capitolo di quella che sarebbe divenuta una delle trilogie più belle degli ultimi anni. Poco più di un lustro dopo quel primo, fatidico incontro che ho personalmente avuto io, ma credo così anche voi, con Cesare, la trilogia è giunta a compimento e l’ultimo tassello del puzzle ha trovato il suo posto prescelto su cui far combaciare le proprie scanalature e comporre la totalità del mosaico.

Scrivendo le mie sensazioni e il mio parere in merito a “The War – Il pianeta delle scimmie” non posso in alcun modo esimermi dal lasciar traspirare, in ognuna delle mie prossime parole, le emozioni provate dall’inizio alla fine della visione del film. Non vorrei limitarmi a dirvi se “The War” sia un buon o un pessimo film, né se a me, in maniera soggettiva, sia piaciuto o meno. Non sarebbe giusto e rispettoso nei confronti di un’opera che fa della complessità del proprio messaggio emotivo il fulcro del diletto dello spettatore. Per trattare di “The War” bisognerebbe anzitutto quantificare quanto riesca ad emozionare ognuno di noi, e solo in seguito dire se e quanto ci sia piaciuto. “The War – Il pianeta delle scimmie” è un’opera che va ben oltre una semplicistica dicotomia tra ciò che è bello e ciò che piace, perché risulta innegabile, anche per lo spettatore meno avvezzo ad apprezzare l’introspezione psicologica e caratteriale di un blockbster del genere, la quantità di sentimentalismo terso, riflessivo, tendente al lirismo che il film raggiunge e che riesce a rendere complementare al resto della saga. “The War” è un lungometraggio che induce all’analisi intima, essendo in grado di innescare un turbinio di sentimenti diversi in ognuno di noi. Il giudizio, di conseguenza, sarà ancor più soggettivo, poiché le scene introverse, quelle che dominano in silenzio, molti degli intensi minuti della pellicola, sono girate opportunamente per far indugiare ogni singolo spettatore a comprendere cosa il vedere quella determinata sequenza, stia generando in lui. “The War – Il pianeta delle scimmie” indaga quindi la bellezza riuscita di un film nella soggettività di ognuno di noi; del resto è ciò che avviene quando si fa dell’emozione analitica il moto dell’intera narrazione.

(Attenzione pericolo Spoiler!!!!)

  • Bugia scimmiesca

“The War” è una grande bugia. Dopotutto fu menzognera anche quella Tagline del film con cui aprivo il mio pezzo. Il terzo capitolo della saga fa sì che venga presentato come un film di fantascienza a carattere guerresco, che pone su due fronti opposti uomo e scimmie. Il che, sarebbe anche vero, se non fosse che la guerra non è che una dannazione cui Cesare e il suo popolo non possono sottrarsi pur desiderandolo con tutte le loro forze. Sono trascorsi alcuni inverni dal tradimento di Koba, lo scimpanzé che minò l’integrità della popolazione di Cesare mettendo in moto una reazione a catena che avrebbe portato allo scoppio della guerra. Cesare, stanco e affaticato dagli anni di stenua sopravvivenza, deve affrontare una nuova minaccia, rappresentata dal Colonnello McCullough (un despotico Woody Harrelson) a capo di un esercito votato alla distruzione delle Scimmie intelligenti. Durante un blitz notturno, il Colonnello uccide senza pietà la moglie e il figlio di Cesare, scatenando in lui un desiderio di vendetta.

Come scrivevo, “The War” è una grande fanfaluca, poiché se vi aspettate da questo momento un film di guerra, di costante azione travolgente e di cruente battaglie che condurranno allo sterminio della razza umana e alla nascita compiuta del pianeta delle scimmie, beh, vi sbagliate. Siete stati ingannati. Siamo stati ingannati. Già, e io direi anche: “Per fortuna!”. Ancora una volta il regista Matt Reeves fa della meditazione e della riflessione drammatica l’anima del suo film, estremamente comunicativo nei momenti in cui lascia che siano i gesti, gli atteggiamenti, gli sguardi e le movenze a dire più di quanto le parole potrebbero mai infondere significato a vocali e consonanti, a frasi e a interi periodi. Il lungo pellegrinaggio di Cesare, dalla sua dimora fino al centro militare in cui alberga il Colonnello, è l’ultima tappa di un ben più corposo viaggio iniziato in quel 2011, quando Cesare nasceva sotto i nostri occhi e veniva allevato tra le amorevoli cure di un padre umano. Quest’ultima traversata, compiuta per la maggior parte del tempo senza la colonia che a lui era così devota, e soltanto con la presenza del fraterno amico Maurice, Rocket, e una nuova, bizzarra conoscenza dal nome di Scimmia Cattiva, è lo step finale verso il raggiungimento della meta esistenziale di questo condottiero. Il popolo di Cesare, privato di un luogo sicuro in cui vivere, è costretto a spostarsi, a vagabondare senza una meta apparente quando l’eco del conflitto apocalittico fa da scorcio a tutto ciò che contempla il loro cammino. Un incedere progressivo e stoico, senza un mentore a dar senso al loro moto. Cesare li ha infatti lasciati per incamminarsi su una via da cui si aspetta di non tornare mai più.

  • Scimmie evolute, uomini regressi

Durante questa sua traversata avvenuta in pieno inverno, tra la coltre bianca nel terreno e la neve che fiocca giù copiosa, Cesare seguita ad essere alimentato dal suo odio. Lo spettro di Koba turba l’animo del protagonista, terrorizzato all’idea di diventare egli stesso colui che ha condannato le scimmie alla guerra. Durante tutto il film si avverte questo mutamento avvenuto nella psiche di Cesare, nato come eroe, guida, divenuto in seguito un capo e un difensore. L’aver abbandonato il suo popolo per inseguire ardenti voleri di vendetta sembrerebbe far pendere l’ago della bilancia verso una metamorfosi in ciò che fu la sua nemesi. Un fatale destino a cui Cesare scamperà ancora una volta grazie alla sua bontà di cuore, che tornerà a battere con la forza di un tempo anche grazie alla vicinanza di Nova, una piccola bambina scampata alla morte per merito di Maurice. Il rapporto di comunanza e comprensione tra Cesare e questo “cucciolo” di essere umano permette al protagonista di comprendere quanto l’uomo non debba necessariamente essere avviluppato da un odio profondo come quello nutrito da Koba, ma che potrebbe ancora esistere una integrazione, o per meglio dire, una tolleranza a debita distanza tra il popolo delle scimmie e ciò che resta della razza umana. E’ un viaggio purificatore quello adempiuto da Cesare. In “The War” le tematiche filosofiche ed esistenzialiste raggiungono vette poetiche di sublime e adamantina magnificenza. Le mirabili cure con cui Maurice alleva la dolce infante a cui darà il nome di Nova, (splendido omaggio al cult del 1968) e le toccanti sequenze in cui un gorilla ornerà il viso della piccola inserendo tra i suoi capelli un fiore rosa, toccano le corde del cuore fino a farle risuonare di una musica triste e malinconica.

E’ l’atto comunicativo tra due mondi che si stanno rovesciando a vicenda. Le scimmie evolute e dotate di fine intelletto e di parola sembrano elevarsi rispetto agli uomini la cui malattia contratta li sta regredendo, facendo loro perdere il dono più grande che la natura abbia mai elargito: la facoltà di parlare. La piccola Nova è muta, si esprime con il linguaggio dei segni imparato da Maurice, il quale invece sta cominciando a parlare fluentemente. Una contrapposizione che però, in questo caso, non erge le scimmie al di sopra degli uomini, anzi. Esse si pongono al pari livello della piccola bambina, come fossero due razze del tutto somiglianti e non solo imparentate come afferma la teoria dell’evoluzione. Qui avviene di fatto un’evoluzione al rovescio, ma come dicevo, che lascia intravedere un aspetto paritario.

Reeves fa delle sue scimmie creature complesse, dalla psicologia ricca e variegata ma anche per lo più buone e generose. Gli uomini, invece, sono figure nette e distinte, mai ambigue, o buone o cattive. Probabilmente il solo difetto del suo prodotto. Tuttavia, questa distinzione chiara, permette alle scimmie di rendersi compassionevoli e rispettose delle persone dolci e buone come la piccola Nova.

  • L’avete distrutta, maledetti per l’eternità, tutti!

Nel celebre explicit de “Il pianeta delle scimmie” del 1968, Charlton Heston urlava al cielo la rabbia e la frustrazione provata nel momento in cui comprendeva quanto la “bestia” uomo avesse arrecato morte al suo stesso fratello, condannando la Terra alla distruzione. Quasi cinquant’anni fa, ci era stato anticipato ciò che sarebbe successo in “The War”. Non sarebbero state le scimmie a condurre una vera e propria rivoluzione che avrebbe soverchiato la razza umana e piegata al proprio cospetto. Le scimmie, invero, ereditarono la terra. Furono gli uomini a distruggersi tra loro. Quello che veniva carpito nel classico del 1968, qui viene reso in modo tangibile in pellicola e avviene sotto i nostri occhi. La sagoma del Colonnello, despota folle e implacabile, che crede di guidare il suo esercito in una guerra santa per epurare la Terra dall’abominio dell’evoluzione scimmiesca e della regressione umana, (egli ordinerà l’assurda strage di ogni uomo che lentamente disimparerà a parlare) è la personificazione di ciò che condurrà gli uomini alla distruzione. Nel disperato tentativo di fermare il suo insano operato, la guerra che scoppierà tra gli uomini mieterà le restanti testimonianze della stirpe, di quella che un tempo fu la razza umana.

E’ questo il più grande inganno del film. Un inganno studiato ad arte fin dal principio, da quando fu scritto “l’evoluzione diverrà rivoluzione”. In “The war” la rivoluzione non avverrà perché come previsto non erano le scimmie a doverla condurre.  Le scimmie non si limitano ad essere spettatrici di questo conflitto, quanto vittime dell’agire dispotico del tiranno di turno. Verranno schiavizzate e con esse anche Cesare verrà deportato in un campo di concentramento, fino al momento in cui il protagonista troverà la sua personale vendetta col volere del destino.

  • La trilogia de “Il pianeta delle scimmie”

Questa saga reboot de “Il pianeta delle scimmie” si era prefissata l’obiettivo di raccontare una nuova storia, omaggiando quella che fu narrata un tempo. Questo inedito racconto è riuscito ad andare oltre le più rosee aspettative, imprimendo alla mitologia della saga una rinnovata linfa vitale, ancor più drammatica ed evocativa dell’originale. Gran merito della resa scenica di Cesare è di Andy Serkis, vero maestro in questa forma di arte attoriale e interpretativa. I tre capitoli possono essere visti come l’evoluzione psicologica e fisica del protagonista Cesare, un progressivo accrescimento spirituale e mentale che avviene attraverso il cambiamento dell’atmosfera e dell’azione stilistica avvenuto nei tre film. Il primo era un lungometraggio a carattere carcerario, in cui Cesare sperimentava una forma di schiavitù, di prigionia. Dalla sua genuflessione cominciò l’innalzamento. Il secondo capitolo, ancor più cupo, assunse i contorni del grande film fantascientifico e bellico. Cesare da ribelle divenne guida e voce di un popolo in un mondo post-apocalittico. In quest’ultimo capitolo, ancora un nuovo cambiamento condurrà il primate ad ascendere al proprio destino di messia di una nuova razza dominatrice del pianeta.

  • Cesare, condottiero e messia

“The War” è l’ascesa conclusiva di Cesare, paragonabile, a mio giudizio e con le proporzioni del caso, alla figura di Mosè. Come il profeta, anche Cesare deve guidare il suo popolo verso la salvezza, verso una nuova terra, scampando alla schiavitù, ad una nuova forma di prigionia in un campo di lavoro e di sterminio. Cesare per tutta la sua esistenza predicò pace, giustizia, pietà e rispetto. Incitò al combattimento soltanto se estremamente necessario, e si ricongiunse alla sua integrità morale e buonista sul finale. Non è un caso che verrà ferito a morte da un uomo da lui stesso risparmiato. Cesare non doveva morire in battaglia contro un acerrimo avversario, ma doveva invece essere sconfitto da colui che non meritava la sua clemenza, l’uomo crudele. Cesare non volle mai generalizzare e continuò ad essere un capo misericordioso, quella medesima misericordia che riacquistò per merito di un essere umano, questa volta, magnanimo: Nova.

Una volta raggiunta la mistica terra promessa, a Cesare non sarà concesso di poter ammirare cosa diventerà la stirpe da lui salvata. Come accadde a Mosè, anche a Cesare è impedito “l’accesso” al futuro del suo popolo, una volta divenuto forte e indipendente. Cesare, ferito e sopraffatto da una vita di dolore e resistenza, si spegnerà progressivamente, cadendo senza vita all’alba di un nuovo giorno, di una nuova era, che lui stesso ha garantito: l’alba del pianeta delle scimmie.

  • Conclusioni

“The War – Il pianeta delle scimmie” è il meraviglioso ultimo atto della trilogia di fantascienza migliore degli ultimi anni. Imponenti sequenze d’azione, spettacolari esplosioni e combattimenti adrenalinici per la sopravvivenza sono la scarlatta carta da regalo che Matt Reeves confeziona per celare al suo interno un dono di grande valore per gli amanti del genere. “The War” nel suo ritmo compassato è un elogio continuo alla riflessione umana e all’empatia. Un film che mi ha toccato davvero il cuore. Per tale ragione, in questi ultimi passi, continuo a dirvi che non dovrebbe essere limitato ad una mera valutazione critica, perché, per quanto ogni singolo fotogramma riesca ad emanare un mirabile valore emozionale andrebbe prima di tutto giudicato più che con la mente col cuore, per chi ha provato certe riflessioni solo grazie agli stimoli che ogni battito provocato dal film è riuscito a dettare.

Ma se proprio una recensione personale debba richiedere un giudizio numerico… allora il mio voto è senz’altro di 9 su 10.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

Potrebbe interessarvi il nostro articolo sul classico del 1968 "Il pianeta delle scimmie: una recensione in prima persona: viaggio in soggettività nella solitudine dell'ultimo rimasto". Potete leggerlo cliccando qui

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Il film di Arthur Penn, dal titolo “Il piccolo grande uomo”, girato nel 1970, innescò per certi versi una rivoluzione nel cinema western americano. In quel medesimo anno furono tre i film che eseguirono questa sorta di traslazione tematica che cambiò il modo in cui il western, inteso in senso classico, metteva in scena i nativi americani: “Il piccolo grande uomo”, “Soldato blu” e “Un uomo chiamato cavallo”. Con “Il piccolo grande uomo”, Penn realizzò un western inconsueto, avventuroso, notevolmente diverso dagli altri per longevità e varietà delle situazioni in cui il protagonista si trova a far fronte, e per tale ragione, un western diversificato, unico. “Il piccolo grande uomo” è il viaggio a ritroso di un uomo per solcare le reminiscenze più arcane rimaste impresse nei meandri più intensi dei suoi ricordi. E’ la ricostruzione narrata di una vita divisa tra la propria origine di uomo bianco e quel suo innato affetto e senso di appartenenza alla popolazione degli Indiani d’America, qui per la prima volta rappresentati non più come biechi selvaggi e violenti barbari, ma come effettivamente furono, nelle loro ammirevoli e curiose usanze, nelle loro bizzarre credenze e nei loro immutati valori.

La storia viene raccontata dal vecchio Jack Crabb (Dustin Hoffman con un pesantissimo trucco sul viso) in prima persona. Questi è giunto alla ragguardevole età di 121 anni, e si trova adesso a parlare della battaglia del Little Big Horn a un giornalista studioso del processo d’integrazione tra i nativi americani e i coloni. Jack Crabb è scampato assieme alla sorella Caroline a un’incursione indiana quando era ancora in tenera età. I due fratelli vengono rinvenuti nella prateria, in mezzo a ciò che resta dei carri arsi, da un indiano cheyenne di nome Ombra Silenziosa, che li sottrae a quell’inferno portandoseli al proprio accampamento.  La sorella durante la notte se la dà a gambe, mentre Jack rimane lì e così viene adottato dalla tribù, entrando nelle grazie di Cotenna di Bisonte, capo anziano e saggio sciamano. Per via della sua piccola statura, al contrario della sua grande intraprendenza, a Crabb viene dato il nome di “Piccolo Grande Uomo”. Tra lui e un suo coetaneo della tribù, di nome Orso Giovane, non corre buon sangue, ma nonostante questo, durante un attacco ad una tribù nemica, Jack gli salva la vita e così Orso Giovane rimane legato a lui da un vincolo di gratitudine. In seguito all’uccisione di donne e bambini del loro villaggio, ad opera dell’esercito degli Stati Uniti, i cheyenne entrano in guerra contro i bianchi. Allo scontro partecipa anche Jack il quale sta per essere sopraffatto, ma si salva per aver mostrato al soldato la sua carnagione bianca. Dal momento che è stato allevato dai pellerossa si stabilisce che il giovane debba essere educato come tutti gli altri della stessa sua razza, e quindi viene mandato presso un vecchio pastore protestante, fanatico assertore della mortificazione della vita sregolata, per raggiungere la salvezza dell’anima, nonostante la di lui moglie abbia avuto ed ha ancora innumerevoli relazioni fuori dal matrimonio.

In una strana occasione incontra la sorella, ma in principio non la riconosce, in quanto è avvezza a indossare abiti maschili ed è ora a capo di una banda di giustizieri. E’ proprio lei che gli insegna a maneggiare la pistola, anche con ottimi risultati. In veste di pistolero Jack fa amicizia con Wild Bill Hickok, una sorta di figura emblematica nella storia americana. Successivamente il nostro piccolo grande uomo diviene un commerciante e si unisce in matrimonio con Olga, una giovane svedese, ma subito dopo va in bancarotta. Inizia quindi a viaggiare e mentre sta per raggiungere il West, la sua diligenza subisce l’attacco dei pellerossa i quali gli portano via la moglie. Per ritrovarla Crabb visita i vari accampamenti e arriva anche ad arruolarsi nell’esercito. Durante un attacco a un villaggio indiano assiste alla morte del suo vecchio amico Ombra Silenziosa, ma ne salva la giovane figlia incinta, Raggio di Luna, e ne diventa il marito. E’ per lei che fa ritorno alla tribù di Cotenna di Bisonte, ormai vecchio e stanco e nel frattempo diventato pure cieco, che lo accoglie con grande gioia.  E’ lì che Jack rivede la moglie Olga, sposata ora con Orso Giovane, però fa finta di non riconoscerla.

Accade adesso che il generale Custer e il Settimo Cavalleggeri assaltano di sorpresa l’accampamento indiano trucidando donne e bambini, compresa la moglie di Crabb. Dal massacro soltanto Cotenna di Bisonte ne esce vivo. Così il piccolo grande uomo si arruola nuovamente nell’esercito statunitense, intenzionato a uccidere Custer, ma giunto lì per lì non ce la fa e desiste. Anzi il generale gli dà del fallito sia come bianco che come pellerossa. Ritorna quindi sulla strada e si dà all’alcool. Nel frattempo Custer è sempre più intenzionato ad annientare le tribù dei cheyenne e dei sioux. Jack fa ritorno nel reggimento del generale in qualità di guida. Lo convince così a cadere nell’imboscata degli indiani nella valle di Little Big Horn, che prendono di sorpresa il Settimo Cavalleggeri e lo massacrano. Durante lo scontro Crabb rimane ferito e quando Custer, in un delirio di follia sta per finirlo, sopraggiunge Orso Giovane, pagando così il suo vecchio debito nei confronti dell’amico. Nel prosieguo del film il protagonista incontra nuovamente Cotenna di Bisonte il quale comprende che malgrado la vittoria sul generale, gli sconfitti rimangono sempre i pellerossa. Il vecchio capo indiano a quel punto ringrazia il Creatore e invoca la sua fine. Ma la morte desiderata invece non arriva, constatando così l’inefficacia della magia, mentre sotto la pioggia che vien giù copiosa, parla delle sue nuove mogli al nipote adottivo.

La scena finale vede Jack Crabb che saluta il giornalista a cui ha narrato la sua incredibile vicenda e resta a rimembrare un mondo che ormai non esiste più.

Arthur Penn prende lo spunto dal romanzo di Thomas Berger e porta sul grande schermo la vita di Jack Crabb, interpretato magistralmente da Dustin Hoffman, che fin dalla sua tenera età si trova a vivere tra i pellerossa in seguito ad un attacco alla sua famiglia. Da quanto sopra esposto ci si rende conto che il lungometraggio di Penn non è un film western come tutti gli altri, in cui ci si aspetta il punto vitale della vicenda, ma è un western atipico.

Il primo approccio di Arthur Penn al cinema fu con un western dal titolo Furia selvaggia del 1958. Un film completamente diverso rispetto a “Il piccolo grande uomo”.  Se in quel film narrava le vicende di uno dei tanti personaggi leggendari del west, in questa pellicola sovverte i canoni, gli schemi, i dettami. Egli non intende soltanto riabilitare quell’universo che i suoi connazionali avevano eliminato quasi completamente, ma vuole perseguire un percorso in cui narra dell’America psicotica e incongruente nell’aspro passaggio dagli anni Sessanta ai Settanta.

La vita di Jack Crabb è costellata da avventure straordinarie, da ragguardevoli mutamenti nel proprio arco esistenziale che però non scalfiscono mai il suo spirito di adattamento. Egli attraversa con disinvoltura anni e anni di battaglie e di rinunce, di sacrifici e di privazioni, dalla sua formazione sotto la tutela del suo mentore, Cotenna di Bisonte, padre amorevole che si rivolge a lui chiamandolo sempre con l'appellativo di "figlio mio", alle decadi di conflitti tra i coloni americani e gli Indiani. Jack si muove così con naturalezza, alternandosi tra la realtà americana e quella indiana come fossero due facce esistenziali di una medaglia che spacca in una duplice fonte il suo cuore. L’ammirazione che nutre per il popolo degli uomini è un pretesto che serve d’ausilio a far emergere gli usi e i costumi del popolo degli indiani, che egli mira con ingenua curiosità. Loro erano devoti alla magia, fedeli alla religione e convinti che tutto ciò intorno a loro fosse vivo. Questo viene espletato meravigliosamente in una celebre sequenza in cui Cotenna di Bisonte, ferito e divenuto cieco, mostra la stessa quietudine di un tempo, ammettendo di essere stato ferito a un astratto canale mediante cui “la luce arriva fino al cuore”, e che d’ora in poi non vedrà più le figure. In quegli intensi frangenti, Cotenna esterna il credo del popolo degli uomini attraverso un monologo in cui viene esaltato il rispetto e l’amore che gli Indiani d’America nutrivano per le loro terre, le vasti praterie in cui abitavano, campeggiando coi loro Tepee.

La rilassatezza flemmatica con cui Chief Dan George interpretò questo saggio capo Indiano, e la spontaneità mediante cui espresse le aspettative mistiche del “pellerossa”, trasmettono un senso di assoluta saggezza. Una saggezza non dettata dal sapere scientifico del mondo civilizzato, ma una prerogativa di chi viveva a stretto contatto e nel pacifico rispetto della natura e del territorio, un valore terreno superiore a qualunque conflitto guerrafondaio.

“Il piccolo grande uomo” invitò il pubblico a una riflessione critica sul triste destino cui andarono incontro i nativi americani, questa volta interpretati come uomini e non più come feroci nemici. “Il piccolo grande uomo” è l’odissea personale di Jack Crabb, un portatore di storia inconfutata, che si conclude dov’era iniziata, quando egli continua a richiamare alla mente gli anni oramai andati.

A quasi cinquant’anni dalla sua uscita nelle sale “Il piccolo grande uomo” resta un film straordinario, mitico, che ha stretta corrispondenza con la realtà di un mondo ormai alla deriva.

Il film ha avuto nel 1970 una nomination all’Oscar come Miglior attore non protagonista a Chief Dan George. Sempre nel ’71 ha avuto una nomination al Golden Globe come Miglior attore non protagonista a Chief Dan George, mentre nel 1972 al Bafta Awards ha ottenuto una nomination come Miglior colonna sonora a John P. Hammond e una nomination come Miglior attore protagonista a Dustin Hoffman.

Voto: 8/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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The Mask disegnato da Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Sul fondo del mare, un sommozzatore scorge un antico bauletto incatenato. Quando prova a forzarlo, il bauletto si spezza e libera una maschera lignea di origine scandinava risalente al IV - V secolo, una raffigurazione del dio norvegese della notte, Loki. I racconti della mitologia arcana narrano che Odino bandì dal Valhalla il dio norvegese delle malefatte, in modo che per l’eternità non potesse più mettere piede sul suolo degli dei. Che Loki fosse stato bandito all’interno di quella maschera, se lo domanderà Stanley Ipkiss (Jim Carrey) quando, una notte, rinverrà il reperto.

Un interrogativo che mi ha sempre dato da pensare: come mai quella maschera si trovava in fondo al mare? Era stata abbandonata volutamente da qualcuno, in epoca antica, come una sorta di sepoltura, sperando che nessuno la rinvenisse mai?

Conoscete i Bronzi di Riace? La mia, ovviamente, è una domanda retorica, ma se malauguratamente non doveste essere a conoscenza dei due capolavori dell’arte greca, tenterò di colmare l’eventuale lacuna con una descrizione basica e fin troppo semplicistica per motivi di attinenza al tema del pezzo in questione. I Bronzi di Riace sono due statue bronzee risalenti al V secolo a.C. che ritraggono due guerrieri greci, pervenuti a noi in un eccezionale stato di conservazione. Queste due statue sono state notate la mattina del 16 agosto del 1972 a una profondità di circa 8 metri da un sub romano che nuotava a circa 200 metri dalla riva, nelle acque prospicenti l’abitato di Riace Marina, una ridente località in provincia di Reggio Calabria. Le statue dei due guerrieri sarebbero in seguito divenute famose con l’appellativo Bronzi di Riace. Per più di duemila anni, i guerrieri rimasero adagiati sul fondo del mare, coperti dalla sabbia che in un certo senso ne ha preservato l’usura del tempo e della salsedine. Fu in quella calda mattina che il destino decise di donare al mondo la testimonianza diretta dell’arte scultoria greca. La loro risalita sa di viaggio nel tempo: dalla lontana epopea greca, i Bronzi riemersero in un mondo moderno, anzi contemporaneo. Una delle teorie più fascinose tra quelle formulate, nel tentativo di dare una spiegazione sul perché i Bronzi si trovassero proprio lì e fossero stati abbandonati in mare, narra di una nave che li stava trasportando, e che, prossima all’affondamento, si vide costretta ad alleggerire il proprio carico gettando tra i marosi le due sculture. Da tempo ormai, una teoria del genere non faccio che richiamarla, con le dovute proporzioni e di certo non in maniera irriverente, come metro di paragone per le sequenze introduttive di “The Mask”.

Beh, che sia finzione o no, la maschera subì la medesima sorte dei bronzi, seppur per ragioni di certo differenti. La finta maschera di Loki emana un fascino del tutto particolare, così come la dinamica con cui “The Mask” inizia il proprio percorso narrativo. Quel misterioso ritrovamento in mare richiama alcuni dei rinvenimenti storici più importanti. In un’accezione analitica surreale piuttosto che storica, naturalmente. E’ come se tra le acque si celasse un’antica cultura in grado di rivelare i propri segreti nel mondo contemporaneo. Il fondale marino nasconde tra le sue dune sabbiose i misteri di un passato arcano che, in un racconto fantastico come “The Mask”, vengono racchiusi in un’antica opera dai poteri inimmaginabili. Il mare “offre” al protagonista la possibilità di riscattare un’esistenza scialba, un carattere dimesso e succube delle prepotenze altrui: la maschera libera la volontà dell’uomo che nasconde il proprio viso dietro essa.

“The Mask” è un film del 1994 e trae le proprie origini dal fumetto del 1989 pur discostandosi notevolmente dal tema dark stilizzato dell’opera cartacea. “The Mask” è una splendida commedia che amalgama la prorompente comicità in ascesa di Jim Carrey con la caratura di un film supereroico a carattere fumettistico. Stanley Ipkiss è un timido e riservato bancario, dal carattere generoso e dai modi beneducati, viene però ignorato dalle belle donne, vessato dall’arcigna padrona e vicina di casa, maltrattato dal capoufficio, e trattato con poco rispetto dagli estranei con cui si rivolge. Stanley ha un solo amico, il collega Charlie, e passa gran parte delle sue serate a casa in compagnia dell’adorato cagnolino Milo a guardare cartoni animati di cui è un grande appassionato. Stanley trova la maschera al termine di una serata disastrosa in cui viene respinto per un malinteso dal Coco Bongo, un locale in cui si esibisce Tina (Cameron Diaz al suo debutto cinematografico) una splendida ballerina e cantante di cui Stanley si è invaghito. Quando Stanley prova ad indossare per la prima volta la maschera, essa quasi gli si attacca al viso, terrorizzandolo per qualche istante. La maschera propaga un fascio di luce violaceo, tendente poi a stabilizzarsi su di un verde chiaro, il colore preminente con cui è stata dipinta. Tali avvisaglie luminescenti sembrano attirare l’uomo che, malgrado la paura iniziale, la indossa di nuovo ed essa si modella totalmente al suo viso trasformandolo in The Mask.

The Mask è dotato di poteri soprannaturali, e quando indossa la maschera, Stanley è praticamente invulnerabile, possiede l’abilità di materializzare oggetti dal nulla, di trasformare il proprio aspetto, e di compiere azioni che violano le leggi della fisica. The Mask ha uno stile nel vestire spiccatamente anni ’40, e il costume distintivo con cui il personaggio è entrato nell’immaginario collettivo lo vede indossare una giacca giallo ocra, così come un pantalone e un cappello fedora con una lunga piuma posta sul lato destro. Completa il tutto una cravatta con chiazze nere, somiglianti a macchie d’inchiostro su fondo bianco, da lui stesso definite come una sorta di “test di Rorschach”, legata a una bianca camicia, e un paio di ghette tra il nero e il bianco.

Una volta indossata la maschera, Stanley viene privato di ogni freno inibitore e scatena le proprie voglie di rivalsa su tutti coloro che hanno minato la sua autostima. The Mask comincia così a vendicarsi di tutti coloro che lo hanno disprezzato con “trucchi” di magia realizzati ad arte, approcci scherzosi e oggetti animati a carattere cartoonesco. Gli amori di Stanley prendono vita attraverso il potere della maschera che infonde in lui la capacità di compiere azioni straordinarie. Se i cartoni rappresentavano per lui la finestra su di un mondo affabulante, colmo di risate e di espressioni ironicamente estremizzate e stilizzate in aspetti caricaturali, così The Mask tramuta su se stesso quelle mimiche. Se Stanley ama il personaggio di Taz, il diavolo della Tasmania dei Looney Tunes, che possiede l’abilità di roteare su se stesso a velocità elevata, così The Mask si muove roteando a volte come una trottola impazzita, altre come un ciclone dal vortice turbinoso e inarrestabile. L’immagine di Taz è uno dei simbolismi del film e appare ben visibile, stampata su di un cuscino del divano della casa del protagonista. Al contempo, in una sequenza del film, Stanley osserva un personaggio dei cartoni che ha l’aspetto di un cane bipede, il quale esprime l’innamoramento verso una bella figura femminile, allungando il muso, abbaiando e battendo forte una sedia su un tavolo coperto da una bianca tovaglia. Così The Mask, quando vedrà nuovamente Tina esibirsi al Coco Bongo, esternerà l’attrazione che nutre per lei, cambiando il proprio viso in un lupo voglioso e scimmiottando il fare ironico di quel personaggio dei cartoni.

The Mask” è una commedia che volge la propria verve satirica al tema della “doppia personalità”. Stanley Ipkiss e The Mask sono una rivisitazione del romanzo “Lo strano caso del Dottor Jekyl e del signor Hyde”, in cui però l’alter-ego del protagonista non è un violento assassino, ma un esilarante dispensatore di umorismo e un incontenibile romantico, mosso da un sentimento d’amore incontrollato e senza remora.

La maschera rappresenta il punto in cui convergono le due personalità di Ipkiss, quella sopita e quella riemersa. La maschera, intesa in senso lato, cela il volto dell’uomo, garantendogli la possibilità di sentirsi libero dalla convenzione sociale comune poiché protetto dall’irriconoscibilità del proprio essere. In “The Mask” questo concetto viene utilizzato e amplificato per la creazione di un personaggio inimitabile. La maschera lascia così emergere le fantasie recondite di Stanley, quelle frenate dalla timidezza e dal timore. Egli così passa dall’essere uno “zero” a un vero e proprio “mito”, scatenandosi con Tina in un ballo senza freni al ritmo di “Hey Pachuco” di Royal Crown Revue, incantando, letteralmente, una sala gremita, e stregando, ancora letteralmente, una platea di musicisti che per lui compongono le arie predilette.

Se Stanley ama i cartoni animati mi è impossibile evitare di paragonare la scena in cui Stanley mira Tina, quando ella canta con indosso un vestito bianco di un argentato riflettente, a una delle più famose sequenze di “Chi ha incastrato Roger Rabbit”. Tina si configura così ai miei occhi in una provocante Jessica Rabbit, formosa e bella da togliere il fiato, e The Mask assume i contorni cartooneschi del goffo Roger, immaginando che in quella suddetta sequenza, ci fosse stato proprio il coniglio invece che il detective Eddie Valiant. The Mask, come Roger Rabbit, non può evitare di mostrare l’amore provato per la donna, quasi lasciando che il battito del suo cuore si materializzi con tale prorompenza da fuoriuscire quasi dal petto e seguitare a battere fin oltre la camicia.

La maschera attrae la donna che alla fine si innamorerà dell’uomo che dietro essa si nasconde. Ma la maschera di Loki non è prerogativa di Stanley: ecco che il film evidenzia la caratteristica più sinistra della maschera, quella che cambia in base all’uomo che la indossa, trasformando l’antagonista del film, Dorian, in un mostro senza scrupoli.

Nel personaggio di The Mask è riscontrabile un profondo senso artistico. The Mask ama esternare la propria verve sarcastica con la magia di un gesto che permette la creazione di un oggetto tanto comico quanto poco pericoloso. The Mask è ciò che poteva essere il Joker se non fosse stato un sadico assassino, è la personalità che il Dottor Bruce Banner avrebbe preferito per se stesso se avesse potuto scegliere la trasformazione caratteriale del proprio alter-ego Hulk, ed è altresì la personificazione di una comicità notevolmente meno volgare e fracassona che avrebbe potuto avere Ace Ventura, l’altro celebre personaggio di Jim Carrey degli anni ’90. The Mask è un Ace Ventura ugualmente senza freni, ma più malinconicamente romantico e artisticamente geniale di quanto sarebbe stato l’acchiappa-animali. Già all’inizio della propria carriera, Carrey aveva trovato con The Mask un ruolo di pregevole e inarrestabile valore nel panorama comico e fantastico.

The Mask dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Perché The Mask possiede il potere di coinvolgere nelle proprie magie tutti coloro che lo osservano e ne scrutano i movimenti, come accadrà ai poliziotti di Kallaway, che si troveranno inconsapevolmente a ballare tra le strade di Central Park a ritmo di “Cuban Pete” in una delle scene più belle dell’intero film. E alla fine il potere di The Mask abbatterà persino i confini della camera da presa, e la sua magia arriverà a conquistare il pubblico e tutti coloro che seguivano le sue gesta sin dall’inizio.

“The Mask” è un film meraviglioso, una delle commedie più belle e originali degli anni ’90. Una trasposizione che conserva il carattere sognante di un fumetto supereroico, da cui trae però soltanto alcuni degli aspetti più classici, aggiungendo ad essi un approccio irriverente. The Mask è arte sequenziale pigmentata e soave, esilarante e dolcissima: un mix praticamente perfetto per un cult “sfumeggiante”.

Voto: 8/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Robocop - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Le opere di maggior successo di Paul Verhoeven sono ritratti freddi e amari, dove ricorre il tema della violenza, della realtà fantascientifica e dell’erotismo. Se “Basic Instict” è universalmente noto per appartenere all’ultimo dei generi appena citati, “Atto di forza” e “Robocop” sono le sue opere di maggior successo legate invece al filone fantascientifico. Verhoeven scelse come soggetto per il suo secondo film hollywoodiano una storia dalla duplice dimensione temporale. Ripercorrendo i canoni espositivi del noir anni ’50 riportò in auge la figura del solitario giustiziere, calandolo però in un contesto futuristico e capitalista. L’ambientazione prescelta è quella della città di Detroit, in un imprecisato futuro distopico in cui il progresso tecnologico è centrale nella vita quotidiana tanto nel contesto casalingo come in quello lavorativo. Persino l’aspetto urbano della città subisce le innovazioni estetiche del periodo, tanto che Detroit viene divisa in “Vecchia” e “Nuova”. I due fronti cittadini appaiono astrattamente demarcati da un confine evidente nell’estetica dell’architettura urbana, sfarzosa e fatiscente nella città nuova, malmessa e sorpassata nella vecchia, soverchiata dalla criminalità organizzata, la quale trova terreno fertile per svilupparsi. La potentissima multinazionale denominata OCP vuole demolire la "Vecchia Detroit" per edificare Delta City, un’utopistica megalopoli. Tuttavia, per poter dare il via definitivo al progetto è necessario eliminare il crimine debordante della Vecchia Detroit. Per tale ragione, Bob Morton, vicepresidente del Comitato della Sicurezza della OCP, sta lavorando in gran segreto al progetto “Robocop”, la creazione meccanica di un cyborg infaticabile che possa vegliare in sicurezza sulla città.

“Robocop” è la tragica storia di Alex Murphy (Peter Weller). Alex è uno sbirro vecchio stampo, metodista nelle scelte, impetuoso nell’agire e ferreo nella sua incorruttibile volontà morale. Murphy, in un agglomerato sociale orrido e corrotto, è probabilmente il solo personaggio privo di compromessi. Un uomo integerrimo, con un profondo senso di giustizia, che discerne il bene dal male, ma non riesce a contemplare ombre o grigiori nel proprio disegno etico: non esiste la tentazione del male per lui, ciò che è criminale viene definito “spazzatura”. La sua vita imbocca, in una triste mattina, un viale oscuro e decisamente impercorribile. Una via da cui non si può più tornare indietro: la morte. Nel tentativo di sedare le attività criminali di una banda di efferati assassini, Murphy viene barbaramente ucciso. I suoi resti inermi vengono trasportati in ospedale ma i suoi occhi, sbarrati e immobilizzati nel vuoto, continuano a richiamare alla mente l’immagine della propria morte. Murphy si spegnerà su quel letto d’ospedale con la costante reminiscenza del suo trapasso e del momento esatto in cui il proiettile del suo carnefice è stato “scoccato” dal grilletto senza alcuna clemenza.

La salma di Alex Murphy non ottiene però degna sepoltura. Egli stesso, prima di arruolarsi, aveva firmato un contratto che prevedeva la disposizione del suo corpo alla OCP. Bob Morton decide così di assemblare Robocop coi resti del poliziotto caduto. E’ una lunga ripresa in soggettività quella che Paul Verhoeven adopera per immortalare i frangenti in cui Robocop viene, nel corso dei successivi mesi, costruito; percepiamo la nascita del cyborg attraverso i suoi occhi e viviamo il destino post-morte della coscienza di Alex, mediante le sue palpebre dischiuse. La prima immagine di Robocop, una volta completato, ci viene fornita da una telecamera che riflette la ripresa su uno schermo posto alla sinistra dell’inquadratura, che mostra la maschera protettrice laminata in Kevlar del cyborg. Robocop giunge improvvisamente nella stazione di polizia pochi minuti dopo. Un’ombra argentata si dipana dietro una sfilza di vetrate retinate. La sagoma gigantesca di Robocop viene annunciata da alcuni estratti musicali inquietanti, cadenzati dal rumore dei suoi passi, lenti e pesanti, quando poggia gli arti inferiori sul terreno. L’intero reparto di polizia si mobilita per scrutare la figura robotica, nel mentre Robocop, il cui cervello umano è stato integrato con un sistema informatico, espleta i suoi obiettivi:

1) Mantenere l’ordine pubblico totale

2) Proteggere gli innocenti

3) Far rispettare la legge.

Robocop, in poche settimane, comincia a ripulire la vecchia Detroit dal crimine, seminando il panico tra la delinquenza cittadina per i suoi modi risolutivi e spietati. Robocop annienta alcune fonti della criminalità organizzata, e i cittadini cominciano a considerarlo come un eroe.

“Robocop”, specie nella prima parte dell’opera, a prima vista, sembra rivelare solo alcune delle molteplici tematiche che abbiamo imparato a rinvenire nel cinema di fantascienza. Mi riferisco a quegli argomenti nascosti sotto l’involucro superficiale di un tema reso esteriormente preminente. Un’osservazione sommaria ci indurrebbe a pensare che “Robocop” sia una rivisitazione, in chiave fantascientifica, di un vigilante. La figura del supereroe, qui reso sotto-forma di cyborg tecnologico indistruttibile, in effetti è un fondamento alquanto basilare del film. “Robocop” è la storia di un uomo coraggioso trasformato in una macchina giustiziera. Tutto ciò, però, non è che la punta di un iceberg. Occorre dunque immergersi in quelle acque gelide e cristalline per vedere cosa si nasconde sotto il fluttuare dei marosi. Un’osservazione più attenta e approfondita del film ci mostrerà tratti sottili e intriganti delle peculiarità di un Noir del tutto particolare.

“Robocop” è una storia di vita e di morte.  Due antitesi inglobate in un duplice inganno. La lenta e insostenibile agonia di Alex Murphy che conduce alla sua estenuante morte avviene secondo un processo conclusivo di straziante resistenza. Sembrerebbe ai nostri occhi che il protagonista non riesca a morire e perduri a resistere, rimanendo come immobilizzato in un limbo ascetico che si pone tra la vita e la morte. Poco prima di spirare, egli seguita a rimirare il volto della moglie, a rammentare i ricordi del figlio, e gli istanti in cui giocava con lui ai banditi del west, e infine rivive ancora e ancora l’immagine dei suoi assalitori. Quando la camera si pone in soggettività, gli occhi di Murphy si aprono nuovamente al mondo, come in una rinascita; eppure egli non conserva alcun ricordo né un barlume di conoscenza su ciò che è stato.

Alex Murphy risorge come Robocop, e ritorna alla vita in uno stato apatico e “meccanico”. Una sera, quando il cyborg è a riposo, la sua attività cerebrale indugia inaspettatamente nella sfera onirica: Robocop sogna. Materializza nei suoi ricordi il proprio brutale omicidio. Violenti flashback, come dardi acuminati, lo trafiggono al viso, e il cyborg reagisce svegliandosi e tornando prepotentemente in pattuglia, convinto che in qualche posto sperduto della città si stia consumando l’omicidio che ha vissuto. E’ il colpo di genio dell’opera di Paul Verhoeven: l’uomo intrappolato nella macchina. Alex Murphy giace così sospeso in un’incredula dimensione angosciante, nella quale può richiamare i ricordi della sua vita precedente, ma non può comprendere in modo chiaro che siano suoi. Un dramma esistenziale che pone “Robocop” nella cerchia dei film di fantascienza votati all’analisi filosofica del rapporto uomo-macchina e del rapporto vita, morte e resurrezione.

In tutto questo soltanto la giovane Ann Lewis (Nancy Allen), una poliziotta amica e compagna di pattuglie di Murphy, comprende cosa sta accadendo al cyborg. Ella osserva come Robocop, ogni qual volta sta per deporre la sua arma, esegue un gesto istintivo: rotea la pistola più volte. Era il medesimo gesto che Alex faceva per compiacere il figlio. La sfera inconscia tende a manifestarsi nell’agire del cyborg, il quale, lentamente, viene influenzato dai suoi tratti gestuali di umano. Durante una ricognizione, Robocop si imbatte in uno dei suoi carnefici, il quale lo riconosce da un’altra frase ripetuta istintivamente dal cyborg: “vivo o morto tu verrai con me”. A quel punto, l’omicida esterna la propria frustrazione, affermando di conoscere chi si celi sotto la corazzata di Robocop e che non può essere vivo poiché è stato ucciso. Robocop, memorizzando l’identità dell’assalitore, risale agli omicidi per i quali lui e il resto della squadra sono imputati e scopre, per la prima volta, l’identità di Alex Murphy. I ricordi della sua vita precedente continuano a ripresentarsi ciclicamente, soprattutto quando Robocop si reca nella sua abitazione, oramai abbandonata. Percorrendo le varie stanze, egli attinge ai ricordi della sua mente senza tuttavia riuscire a carpirli. E’ un dramma difficilmente comprensibile ma che piega le sicurezze metodologiche della macchina lasciando trasbordare le ansie e le paure dell’uomo che vive sopito al suo interno. Alex si configura, così, come un personaggio attaccato visceralmente alla vita, ai suoi beni affettivi e ai suoi alti valori, così devoto al bene da riuscire ad aggirare la morte e tornare alla vita, senza trascendere le reminiscenze emotive ed effettive. “Robocop” è un noir traslato in un avvenire distorto, scevro dalla consueta proliferazione delle riflessioni intime del protagonista. La pellicola è, bensì, un genere rivisitato, la cui investigazione è rivolta alla scoperta della propria identità umana. A questa indagine ne segue una successiva, quella in cui il “guardingo” protagonista si pone alla ricerca del suo acerrimo rivale. Il male in "Robocop" avviluppa anche i tutori della legge. Devastante, a tal proposito, la sequenza in cui le forze di polizia aprono il fuoco su un Robocop schiacciato dai proiettili di quei nemici che un tempo dovevano essere suoi alleati. In quegli istanti si comprende quanto Robocop sia divenuto il solo ad agognare ancora quel senso di giustizia inattaccabile.

“Robocop” è un film crudo, estremamente violento, a tratti sconvolgente, valorizzato da un montaggio eccellente e da scene d’azione nette e incisive. Il lungometraggio è ritmato da sequenze di comicità amara, con un feroce cinismo perpetrato dal regista per estremizzare le fonti di informazione, i mass-media e le pubblicità futuristiche con parodie caricaturali. “Robocop” è un film di fantascienza in cui la giustizia è una fiamma prossima a consumare i resti liquefatti della candela su cui può riuscire ad ardere ancora per poco. Spetterà a Robocop l’arduo compito di eliminare i suoi assassini. “Robocop” è l’ascesa di un punitore, che torna dall’aldilà per vendicare la sua fine: “Robocop” è un dipinto dai caratteri vendicativi.

Il trapasso e la morte vengono onorati nel film tramite un simbolismo religioso velato ma non indifferente. In alcuni momenti la figura di Alex Murphy viene come rivisitata nella figura del Cristo risorto. La dipartita e la conseguente resurrezione del protagonista rimandano ai momenti più evocativi della mistica esistenza di Gesù. In una scena, Robocop sembra che cammini sull’acqua quando si fa strada tra le macerie dell’acciaieria e avanza su di un pantano acquitrinoso. Poco dopo, il cyborg viene trafitto da una lancia, in un rimando alla mitica lancia del destino che secondo le fonti religiose trafisse il costato di Cristo. Religione e fantascienza incrociano i rispettivi sguardi come fossero posti dinanzi a uno schermo i cui volti appaiono sovrapponibili.

Compiuta la sua crudele vendetta e ristabilito l’ordine pubblico, Robocop può ammettere con piena consapevolezza di essere Alex Murphy. L’uomo riprende coscienza di sé e del suo essere pur restando isolato in un corpo cibernetico, non più suo.

E’ il duplice inganno, quello che d’ora in poi Robocop patirà: vivere un’esistenza in cui vita e morte sono allegoria di una medesima menzogna. Una bubbola paragonabile ai suoi ricordi: può sentirli in lui ma non può riviverli.

Voto: 9/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Attenderei ancora pazientemente per qualche minuto. Aspetterei nella speranza di poterlo rivedere un’ultima volta, seduto comodamente su di una poltrona con un aspetto sinistro, quasi vampiresco, prossimo a voltarsi lentamente verso la camera e sussurrare con toni di voce inquietanti un flebile: “badate…”. Se avete amato il Bela Lugosi di “Ed Wood” non potete non rammentare questa celebre battuta proferita dal personaggio di Martin Landau. Era il 1994, per la regia di un Tim Burton in piena verve ispiratrice, Martin Landau ritraeva su di sé i lineamenti marcati di Bela Lugosi in un film girato appositamente con la pregevolezza univoca di un vecchio stampo, e con l’approccio stilistico, raffinato e compassato, di una produzione in bianco e nero.

Quella di Landau fu un’interpretazione straordinaria, coinvolgente e decisamente irresistibile. La maschera rugosa, piegata da una estenua sofferenza, di un attore oramai incamminatosi sul viale del tramonto e a maggior ragione oppresso dai ricordi di una gloria passata, viveva con fierezza sul volto di Landau. Ed egli conferiva valore espressivo, quasi tentava di proferire parola astratta e inascoltabile quando imprimeva volontà a una gestualità studiata delle mani, le stesse che con movimenti combinati richiamavano le arti ipnotiche del vampiro nato dalla penna di Bram Stoker.

Martin Landau lo interpretò così Bela Lugosi, come un attore che non riuscì mai a strapparsi di dosso il mantello ottenebrato del Conte. Seguitò per tutta la vita a indossarlo con malinconica fierezza, fornendoci un ritratto tragico ma al contempo adorabilmente grottesco di un’icona del cinema dell’orrore.

Nato a Brooklyn, il 20 giugno del 1928, Landau cominciò la sua carriera nella recitazione nel 1955 quando, insieme a duemila aspiranti, tentò le audizioni per entrare all’Actors studio. Solo due candidati riuscirono a superare le audizioni: lui e un giovane Steve McQueen. Da quel giorno iniziò il viaggio nel mondo della settima arte di Martin Landau. Una carriera che lo vede districarsi tra cinema, televisione e teatro. Una delle sue primissime interpretazioni sul piccolo schermo risale al 1958, quando comparve in un episodio della prima stagione della serie culto “Ai confini della realtà”. Nel 1959, dopo una parte in “38° parallelo: missione compiuta”, ottiene il ruolo di Leonard in uno dei capolavori di Alfred Hitchcock: “Intrigo internazionale”. Nel 1963 è nuovamente coinvolto in una produzione kolossal: “Cleopatra”, film per cui interpreta la parte di Rufio.

In televisione, nel corso dei decenni, sono molteplici le incisive e caratterizzanti prove dell’attore: a tal proposito, vogliamo ricordare un episodio della serie televisiva “Colombo” in cui Martin Landau interpreta due assassini. Due gemelli che mettono in seria difficoltà il geniale tenente, che in un avvincente episodio, dovrà faticare fino alla fine per capire chi dei due sia veramente coinvolto nell’omicidio. In televisione la sua apparizione più famosa resta però quella nel telefilm “Spazio 1999” serie tv di fantascienza a cui prese parte per 48 episodi interpretando il protagonista John Koenig. Landau continuerà sempre a lavorare con discreti ritmi, reciterà nel film di "X-Files", e si dedicherà anche al doppiaggio, tornando nuovamente a lavorare per Tim Burton in "Frankenweenie".

Martin Landau venne candidato per tre volte al premio Oscar: nel 1989 per “Tucker, un uomo e il suo sogno”, nel 1990 per “Crimini e misfatti” e nel 1995 quando lo vinse per “Ed Wood”.

Landau fu altresì un illustre maestro di recitazione. Vantava una maestosa presenza scenica e un'eccezionale mimica facciale.

Oggi, dopo il suo addio, rivedere le scene finali di “Ed Wood” in cui il suo sofferente Bela Lugosi si soffermava qualche istante, una volta fuoriuscito dalla sua dimora, a contemplare la bellezza e la grazia di un fiore sbocciato, risulta ancora più toccante. Dovremmo ricordarlo per sempre così, con quella sua calma e quella sua sensibilità artistica.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Marty e Doc disegnati da Erminia A. Giordano per CineHunters

Immagina…uh…che questa linea rappresenti il tempo”: è una citazione estrapolata dalla scena in cui Doc Brown illustra a Marty il paradosso generato dal loro ultimo viaggio nel tempo. La suddetta “linea” viene tracciata dallo scienziato su una lavagna malconcia e impolverata. Ancor più della successiva disamina scientifica sulla mutevolezza dell’arco temporale, mi ha sempre catturato quel suo “uh”, quell’intercalare fonetico con cui “dimezza” l’espressione antecedente e quella successiva. Non saprei dire il perché, ma si tratta di uno di quei piccoli estratti carpiti durante la trilogia e ricordati con piacere. Mi accade sovente coi film che più amo, e mi rivolgo a voi invogliandovi a rammentare quei piccoli elementi sparsi sulla scena e che ricordate con piacere quando ripensate ai vostri film preferiti. Capita anche a voi di ricordare dettagli di contorno? Toni di voce, cadenze strane nel modo di porsi da parte dei personaggi, gestualità particolari e perché no, anche i motivi di alcuni passi della colonna sonora. In quel banalissimo “uh”, Dario Penne, il doppiatore di Christopher Lloyd, riuscì a conferire un significato interpretativo, un atto comunicativo ansioso. Doc in quel frangente stava raccogliendo le energie residue per esplicare a Marty, in una lingua facilmente comprensibile, il cambiamento del tempo. La bellezza della trilogia di “Ritorno al futuro” sta proprio nella semplicità con cui tratta la complessità. Fantasticare su cose scientificamente possibili non è mai stato così piacevole. Merito di una regia, quella di Zemeckis, e di un copione, quello di Bob Gale, in grado di semplificare quello che scientificamente parrebbe impossibile, e di rendere facilmente concepibile la stravaganza paradossale dell’invivibile. Così facendo persino un sospiro può cogliere una valenza traducibile in parole o riconducibile a uno stato d’animo. A seguito di quella frase, Doc imprime l’essenza ineffabile della scorrevolezza del tempo sullo spazio circoscritto di una lavagna. La linea si fa portatrice di alcune date molto importanti: il 1985 reale, il 1985 alternativo in cui la linea viene per l’appunto deviata in una successiva tangente, e il prossimo 2015 da cui cominciò il paradosso del tempo. E’ tutto scritto lì, l’oscillazione tra il passato, il presente e il futuro giace astrattamente, come una semplicistica somma di numeri, su un segmento sottile come la lama di un rasoio. E pensare che la stessa trilogia nacque su di una lavagna…

 

  • All’origine di “Ritorno al futuro”

Mi domando, a tal proposito, se anche Robert Zemeckis, Steven Spielberg e Bob Gale, ogni qualvolta proponevano le loro ingegnose idee in merito al progetto “Ritorno al futuro” su quella vecchia ardesia, sospirassero, magari proprio con un verso similmente paragonabile a quel “uh”. Gli abbozzi embrionali di “Ritorno al futuro” vennero fuori, come schizzi su di un foglio di carta consunto, con “il metodo della lavagna”. Ogni brillante supposizione dei due artisti veniva fissata sulla bianca parete scrittoria. Erano tanti elementi in trepidante attesa del necessario amalgama. Lo immagino così Robert, intento a proporre l’idea di un Marty tornato indietro nel tempo, ad imbattersi in un padre imbranato e in una madre bella e ribelle. E poco prima di avanzare la successiva intuizione, quel “uh” cadenzava il ritmo di queste menti creative, li aiutava a riordinare il fluire dei loro pensieri, per poi modellare nuovamente la loro immaginifica linea del tempo che sarebbe stata tracciata e avrebbe garantito il passaggio e il ritorno tra il 1955, il 1985, il 1885 e il 2015.

“Ritorno al futuro” è rivedibile, metaforicamente, come una lavagna su cui avventura e fantascienza tracciarono una linea illimitata. Il destino viene così delineato con un gesso bianco, mosso dalla mano del fato. E’ però un fato suscettibile al cambiamento quello retto e disegnato dalla mano della fatalità. Su quella linea, infatti, accade l’imprevisto: la comparsa di una DeLorean, una macchina del tempo che scorrazza avanti e indietro tra le ere del mondo. La sbalorditiva invenzione di Doc Brown può aiutare a risolvere uno dei due grandi misteri dell’universo, ma al contempo sarà fonte di grossi pericoli.

  • Personaggi da amare

Personalmente conobbi Marty e Doc quando ero un bambino, e ancora oggi loro sono due dei miei più cari amici…

L’intuizione decisiva alla base del successo della trilogia di “Ritorno al futuro”, le fondamenta solide in grado di reggere il peso di un apprezzamento neppure minimamente scalfito a distanza di più di 25 anni dalla prima visione, sono tutte riscontrabili nella grandezza caratterizzante dei protagonisti. Tra Marty ed Emmett (chiamato proprio dal giovane affettuosamente “Doc”) vige una bizzarra quanto profonda amicizia la cui nascita non viene mai raccontata. Cosa spinge uno studente che coltiva la passione per la musica a passare gran parte delle proprie giornate con un vivace e incontenibile scienziato, isolato dal resto dei cittadini di Hill Valley per i suoi modi eccentrici? Non conosciamo la risposta, ma comprendiamo subito come Marty ammiri l’arguzia di Emmett e che si diverta a condividere il proprio tempo con il suo caro amico e il suo cagnolone Einstein. Marty e Doc hanno personalità diverse, ricche di variegate sfaccettature che impariamo a conoscere e apprezzare come fossero dei nostri amici. Marty è un ragazzo sveglio, intraprendente e coraggioso; Doc è geniale, scaltro, poco avvezzo alle interazioni sociale ma estremamente simpatico nella propria stravaganza. Le interpretazioni trascinanti, coinvolgenti e mitiche di Michael J. Fox e Christopher Lloyd sono il fiore all’occhiello della saga. La mimica facciale di Lloyd e la sua espressività esilarante e apparentemente illimitata resero il personaggio di Doc inimitabile e riconducibile soltanto all’estetica di Christopher e quel suo “Grande Giove”, impronunciabile da nessun altro che non sia, ai nostri occhi, sempre e soltanto lui. Il coraggio di Marty, reso tangibile dalla tenacia di Michael, era così ammirevole da poter dimostrare ancora oggi nella vita reale quanto quei connotati coraggiosi del suo personaggio più famoso fossero veri e non soltanto fluiti dal talento interpretativo dell’attore, impegnato da anni in una estenuante lotta col Morbo di Parkinson. Marty e Doc sono una coppia del cinema che esalta l’importanza dell’amicizia vera, sincera, del rispetto e dell’affetto reciproco.

A Marty e Doc si uniscono personaggi di spessore, amati e scherzosamente odiati in egual misura, dall’adorabile papà George McFly alla bellissima madre Lorraine, dal perfido nemico di ogni epoca Biff Tannen all’irascibile Strickland, dalla dolce Jennifer, la ragazza di Marty, fino ai compagni “canini” di Doc, Copernico e Einstein che fino all’arrivo di Clara, la futura moglie di Emmett, furono per lo scienziato la compagnia più cara.

 

  • Un intreccio continuo tra storia e fantasia

“Ritorno al futuro” consta di intrecci incessanti, ambientati tutti in un arco temporale alquanto vasto, nella città di Hill Valley. Ogni singola mossa, messa in atto dai protagonisti durante i loro viaggi nel tempo, porterà a una conseguenza. Come in una partita a scacchi, Marty e Doc si trovano ad essere pedoni semoventi su di una scacchiera, le cui mosse determineranno un cambiamento nell’ordine della partita. Sono molteplici i rimandi e le autocitazioni disseminate nel corso della saga. Marty e Doc assistono agli albori della loro amata città e alla cerimonia inaugurale della famosa torre dell’orologio sita nel centro cittadino durante la fine dell’800, rivivono gli anni ’50, il futuristico 2015 e persino l’attimo presente generato da una falla nel continuum tempo spazio. In tutto questo Marty riscopre il passato della propria famiglia e il futuro che lo attende in un intrigante gioco tra storia e fantasia e dove il colpo di scena appare come un deus ex macchina che improvvisamente scioglie il nodo ingarbugliato della situazione.

  • La genialità al servizio della semplicità

La macchina del tempo in “Ritorno al futuro” non ha l’aspetto di una cabina telefonica azzurra nel cui interno lo spazio si dilata, e non è neppure una pittoresca invenzione monoposto di George Wells, bensì è un'automobile. Una bella automobile. La più evocativa delle creazioni di John DeLorean diviene il primo elemento scenografico in cui la meraviglia di “Ritorno al futuro” viene concretizzata in un qualcosa di abitudinario. Viaggiare nel tempo è apparentemente così semplice da poter essere fatto salendo su un’auto e sfrecciando via a tutta velocità. Nulla di esageratamente composito ed eterogeneo: la macchina del tempo è un’auto, una vettura opportunamente modificata, ma niente che non si possa comprendere in qualche minuto grazie alle importanti delucidazioni di Doc. La DeLorean viene (inizialmente) alimentata dal plutonio; al suo interno, si trova luminoso il flusso canalizzatore… intento naturalmente a flussare, il quale permette il viaggio nel tempo. Un sistema computerizzato posto sul cruscotto regolarizza le date che il viaggiatore del tempo desidera visitare. Passato, presente e futuro sono a portata di clic. E’ la genialità, l’arte di “Ritorno al futuro”: l’impossibilità dell’assurdo viene contenuta in piccolo comando computerizzato.

Marty e Doc disegnati da Erminia A. Giordano per CineHunters

Ciò che astrattamente immaginavamo in quella linea retta, in cui defluiva il tempo, qui viene inglobato in una semplice tastiera. La fantascienza di “Ritorno al futuro” è questa: stupire con ingenuità, incantare con semplicità. Il pregio vincolante della saga è trattare una trama articolata e renderla così comprensibile e perfetta senza incappare in incongruenze alcune. Il viaggio nel tempo è selezionabile come un numero telefonico ma attenzione, cari viaggiatori, non tutto ciò che appare così scontato è, in verità, immune da difficoltà inimmaginabili. E Marty aiuterà il proprio pubblico a comprendere questa importante lezione, inaugurando, col suo primo viaggio, un’avventura dal ritmo al cardiopalma. “Ritorno al futuro” ci conduce a scuola, in una meravigliosa lezione sull’esaltazione del valore del tempo nella vita dell’uomo.

 

  • L’analisi del tempo: tra passato, presente e futuro

Nella sequenza introduttiva del primo capitolo, una sfilza di orologi, diversi tra loro per modello e meccanismo, dominano l’ingresso della casa di Emmett. Il loro continuo ticchettio farebbe rabbrividire il povero Capitan Uncino, così impaurito dall’idea di poter sentire costantemente il tempo che scorre via. Ma in “Ritorno al futuro” il suono degli ingranaggi di un orologio è essenziale, e viene quasi esaltato in quanto motore pulsante e testimonianza della presenza di un tempo in continuo mutamento. Lo stesso “Ritorno al futuro” è un grande orologio, i cui meccanismi si intersecano tra loro con precisa minuziosità, fino a permettere alle lancette di muoversi in senso orario e inverso.

Il tempo in “Ritorno al futuro” viene pertanto celebrato in più modi: si guarda al passato con curiosità, eppure non con malinconia. Riflettete, le sequenze in cui Marty vive una incredibile settimana “intrappolato” nel 1955 non contengono alcun accenno nostalgico a un'epoca, precedentemente non vissuta dal protagonista. Il passato viene invece osservato con una certa indiscrezione. Un’invadenza dettata dalla volontà di conoscere lo stile di vita di quegli anni, e che finisce inevitabilmente per coinvolgere gli spettatori nel viaggio di Marty McFly. Una traversata a cui si combina un’analisi in grado di suscitare la curiosità degli spettatori e dell’immagine che loro stessi posseggono dei genitori. In “Ritorno al futuro” Marty riabbraccia nel 1955 i suoi genitori, giovani e molto diversi da come li avrebbe mai immaginati, e tale rappresentazione esalta l’indole curiosa degli ammiratori del film che finiscono per immaginarsi al posto di Marty a scrutare con aria critica com’erano “mamma” e “papà” ai tempi della giovinezza.

“Ritorno al futuro” nasconde, dietro la fatiscente patina di blockbuster, i caratteri della sofisticata commedia fantascientifica, e tributa il tempo passato osservandolo e vivendolo con gli occhi intrigati e lo spirito audace di un giovane eroe che si troverà, suo malgrado, a mutare in positivo alcuni aspetti del nostro tempo.

Il viaggio nel futuro, il 2015 che per noi oggi non è che un passato “vecchio” di due anni, costituiva nel 1985 una meta orientativa, un futuro snocciolatosi trent’anni dopo gli eventi in cui è ambientato il primo film e che potesse essere fantasticamente immaginato come un futuro roseo. Un avvenire particolareggiato, in cui non abbiamo affatto bisogno di strade per muoverci visto che i veicoli sono stati opportunamente aereotrasformati in vetture ad alta quota. Il futuro viene così celebrato nella saga come una destinazione agognata, in cui Marty ripone le sue speranze sulla vita che desidera e su una carriera che potrebbe frantumarsi sul nascere per via di un incidente d’auto. E’ questo il grande monito che analizza “Ritorno al futuro” in merito al credo sull’avvenire: la possibilità che ciò che più aneliamo non possa verificarsi. Occorre però rammentare che il futuro, come il tempo stesso, non è scritto, è in perpetuo mutamento come testimoniano le fotografie o i ricordi materiali che Marty e Doc recuperano tra passato e futuro durante le loro peregrinazioni epocali, e che cambiano non appena il giusto ordine delle cose rinviene e la linea temporale viene ripristinata.

E’ l’insegnamento più caro che Doc tramanda al suo allievo prediletto, Marty, quello che sono le nostre scelte di oggi a plasmare il nostro domani. Ecco che quel titolo assume un valore molto più profondo di quanto si creda: quel “ritorno”, quel completo “ritorno al futuro” non invoca soltanto la necessità di tornare “al futuro” per sfuggire a un passato in cui Marty e Doc restano intrappolati, ma è un’esortazione al “ritorno” a casa, più che al futuro, un ritorno al presente. Il loro presente. Un presente che, ragionando quadrimensionalmente, diviene per l’appunto un “ritorno al futuro”, se i personaggi si trovano nel passato. E’ il momento presente quello che andrebbe realmente vissuto, la bellezza infinitesimale dell’attimo, la meraviglia di un’emozione ciò che rende un secondo eterno.

Il tempo è una finestra su una realtà esistenziale, fonte di pericoli, di paradossi temporali che potrebbero causare la distruzione del continuum-tempo-spazio ma che, alla fine, nel vecchio west, porta Doc a scoprire per la prima volta l’amore e a comprendere che in fin dei conti, la paura che nutriva verso il potere della DeLorean era forse ingiustificata.

E’ questo che lo condurrà a costruire una nuova macchina del tempo, a concludere il suo viaggio con l’amico fraterno Marty nel medesimo modo in cui era cominciato. Ritornando al futuro? No, perché ci è già stato!

Su quella lavagna, nel suo dibattere scientificamente, nel suo parlare amichevolmente e persino in quel suo ciarlare tra sé e sé, Doc ha tenuto la più importante lezione della sua vita: spiegarci come il destino non possa essere già scritto. Possa sì essere cambiato, dal pronto utilizzo di una DeLorean e indirizzato dal nostro io del passato e del futuro, disperso chissà dove tra le ere della storia, ma mai e poi mai potrà essere già predeterminato. Se quella lavagna rappresentasse la quintessenza astratta del fato, e quella retta proprio lo scorrere del tempo, potremmo prendere il gesso e tratteggiarci su i passi della nostra vita e le nostre prossime decisioni, ben consapevoli che a scrivere la nostra storia saremo noi: perché il destino non è affatto già scritto. Casualità e paradossi permettendo!

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Era il 1985 quando Dustin Hoffman tornava a interpretare Willy Loman per la trasposizione televisiva di “Morte di un commesso viaggiatore”, capolavoro di Arthur Miller qui riadattato per la regia di Volker Schlöndorff. Proprio cosi, Hoffman tornava, perché aveva già vestito i difficili e angoscianti panni di Loman, un commesso viaggiatore, nel prestigioso teatro di Broadway.

Il testo drammaturgico di Miller, destinato a diventare una pietra miliare del teatro americano del dopoguerra, vide per la prima volta la luce nel 1949. Come per tutte le opere dell’autore statunitense, anche e soprattutto qui, viene posta l’attenzione sull’uomo comune e sulla vita di ogni giorno, caratterizzata da timori, paure, debolezze ma anche da tante speranze e aspettative. In Willy Loman infatti è facile riconoscere l’uomo comune che per tutta la vita si è sacrificato svolgendo con la massima dedizione il proprio lavoro, nella speranza di lasciare ai propri figli un futuro brillante.

Le sue sicurezze crolleranno quando arriverà la consapevolezza, perentoria e devastante, di non essere riuscito a costruire nulla: al fallimento professionale si unisce il disprezzo da parte dei figli che tuttavia non coinciderà con il loro odio. E' proprio questo uno degli elementi più significativi introdotti da Miller. In una vicenda prevedibile egli aggiunge un elemento nuovo: il figlio incolpa il padre di averlo illuso, avendogli egli stesso suggerito, sempre erroneamente, di essere destinato a mete ambiziose, raggiungibili senza sforzo alcuno. Un'illusione che finì per condizionare il figlio. Nonostante queste menzogne, l'erede, al termine di una brutale lite verbale, ammetterà di non odiare il padre. E' questo sentimento di perdono che fa scattare in Loman l'intenzione di porre fine alla sua vita per salvaguardare il futuro dei suoi figli.

"Morte di un commesso viaggiatore" è un’opera teatrale prestata, in questo caso, alla televisione (e al cinema considerando che in Europa usci nelle sale cinematografiche) ma che non perde quasi nulla del suo fascino originale. Lo scenografo Tony Walton sin da subito ci presenta infatti un ambiente casalingo semplice ma a tratti cupo e malinconico che perfettamente si abbina al dramma originale, con una regia, quella di Schlöndorff, che evita inquadrature complesse e articolate per lasciare il giusto spazio ai personaggi e per focalizzarsi al meglio sull’interpretazione degli attori, proprio per mantenere quanto più possibile una visione di carattere più teatrale che televisiva.

L’assoluto spessore del film lo si trova nelle interpretazioni degli attori: Hoffman, qui sottoposto a un pesante trucco d’invecchiamento, offre una performance straordinaria, coinvolgente e da manuale. Gli viene data ampia libertà di movimento, così da poter spaziare da un angolo all’altro della casa catturando lo spettatore con la gestualità e la sua categorica presenza scenica; l’attore, in quel periodo reduce dagli enormi successi cinematografici di “Kramer contro Kramer” e “Tootsie”, si cimenta in una caratterizzante interpretazione prettamente di stampo teatrale. Hoffman, aiutato anche da un grande John Malkovich, è capace di mostrare ogni sfumatura di fierezza e di orgoglio del personaggio come anche il sentimento di disperazione e di angoscia che attanaglia Loman nel tragico finale.

Il sacrificio vedibile nell'ultimo atto testimonierà che il valore della vita di un uomo non sarà mai riconducibile soltanto alla sua riuscita sociale. La sua morte volontaria non è più la resa di un debole che non è riuscito a imporsi in un mondo che premia soltanto i forti, ma si configura come una estrema rivendicazione di dignità, mediante la quale il protagonista, che ha sempre subito sommessamente ogni forma di angheria credendo che fosse il prezzo da pagare per il raggiungimento di uno stato sociale consono, si ribella a questa situazione, ritrovando la propria identità di uomo. Con il suo suicidio, il commesso viaggiatore garantisce alla sua famiglia i ventimila dollari dell'assicurazione, una somma di denaro con cui può congedarsi e lasciar vivere i suoi cari in condizioni decorose.

Miller con questo suo dramma esistenziale tocca le corde più profonde della riflessione emotiva e sociale.

Per questo suo lavoro, Hoffman ricevette l’Emmy Award come miglior attore protagonista.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Il Superman di Christopher Reeve disegnato da Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Tra le pagine di un fumetto i supereroi videro la luce e conobbero la vivezza cromatica di una vita immaginaria. Clark Kent, Bruce Wayne, Diana Prince, Jay Garrick, le identità segrete dei più famosi eroi del mondo nacquero sulla carta, grazie al tocco di una matita. In quel tempo, sfogliando le pagine di un fumetto, i lettori di tutto il mondo potevano venire a contatto con i loro supereroi preferiti, scoprire i segreti, apprezzare i valori d’altruismo, generosi di uno spirito forte e magnanimo, nato per imporsi sui maligni e poggiare il proprio mantello come uno scudo protettivo, impenetrabile, sui corpi degli indifesi e dei meritevoli. I supereroi nacquero e vissero per svariati lustri tra le pagine fino a che, un giorno, balzarono via, fuoriuscirono dalla carta e conobbero la pellicola. Tutto, d'un tratto, cambiò. Si capì quel giorno, quando Superman volò sul grande schermo, che i supereroi potevano vivere in un altro spazio, ed ottenere il medesimo successo.

Oggi l’avventura supereroica è un’usanza abituale che trascende il formato cartaceo, un appuntamento consueto che trova nel cinema, ancor più che nei fumetti, terreno fertile per attecchire e fortificare l’amore dei fan. Questi ultimi anni sono stati quelli in cui il cinema supereroico è riuscito a ritagliarsi una porzione di spazio nelle scelte dei grandi produttori hollywoodiani. Ciò che oggi è una prassi consolidata, nota con un nome appositamente scelto come “Cinecomics”, un tempo non era una produzione così scontata. Trasporre un supereroe al cinema agli albori del genere era di certo un’impresa ben più complessa. Un’impresa, per l’appunto, cui solo un eroe poteva trarne un vasto successo. Un compito che doveva spettare al precursore, al più luminoso simbolo di speranza: Superman, l’antesignano eroe della storia dei fumetti, prossimo a divenire il primo supereroe ad apparire sul grande schermo in un'importante e costosa produzione.

In principio, al culmine di questo grande viaggio, Superman pativa una forma di cecità assoluta. Lui, il più potente tra gli eroi, colui che poteva scrutare ciò che appariva celato alla semplice vista umana, era cieco e impossibilitato a vedere quello che l’orizzonte gli riservava. Non conosceva casi precedenti al suo, sebbene il Batman interpretato dal mitico Adam West avesse già calcato il suolo del cinema qualche anno prima. In quel caso, però, si trattava di una produzione differente, per certi versi iconica, ma ironica e molto meno ambiziosa.

Superman doveva avanzare verso il percorso dell’approdo alla settima arte senza poter contare su esempi già in precedenza verificatisi. Sulla sua figura, avvolta da un rosso mantello, gravava il peso d’inaugurare un genere. Quali spalle, se non quelle dell’uomo d’acciaio, potevano reggere tale arduo battesimo?

Così, Superman recuperò la sua vista prodigiosa e, sebbene non riuscisse a scrutare ciò che il futuro gli avrebbe riservato, avanzò con coraggio per aprire la strada ai suoi successori. Un po’ come accadde nel mondo del fumetto quando, sulla copertina di un albo, sollevò in aria un’auto con a bordo una banda di malfattori. In quel caso, egli fu il primo supereroe a comparire su carta stampata. Con l’ardore di chi è animato dalla fiamma della giustizia, Superman varcò i limiti del grande schermo e da opera cartacea divenne arte filmica.

Ad indicare la via all’ultimo figlio di Krypton fu Richard Donner, il regista del film, che immortalò su camera la forza e il volo del supereroe per antonomasia. “Superman” del 1978 fu il padre dei film sui supereroi, il capostipite di un nuovo modo di narrare il cinema fantastico. In “Superman” sono riscontrabili, per la prima volta, quei classici espedienti narrativi che verranno adoperati in tutte le successive trasposizioni di genere. E’ ben apprezzabile in “Superman” un’esemplare linearità. Il film scorre secondo un'accurata organizzazione. Esso è strutturato, diviso, in celle che compongono lo sviluppo della storia. Dalla fanciullezza alla giovinezza dell’eroe, la prima "cella", si passa alla sua maturità, giungendo alla sua ascesa come supereroe, proseguendo verso il suo incontro con la donna amata e terminando con lo scontro con l’acerrimo rivale. Tutti metodi perpetuati per la prima volta e con tale maestria da venire presi come esempio da seguire.

“Superman” fu altresì il principale kolossal supereroico a fregiarsi di un cast stellare, consuetudine tipica delle lavorazioni contemporanee: a impersonare il padre biologico di Kal-El fu, infatti, Marlon Brando e a vestire i panni del genio criminale di Lex Luthor fu invece Gene Hackman. Inoltre, per la parte del padre adottivo del giovane Clark venne scelto Glenn Ford. Tuttavia, non venne mantenuta la medesima metodologia di scelta per scritturare l’attore per il ruolo più importante: quello di Superman. Donner voleva, per l’appunto, un interprete sconosciuto, in modo che il pubblico, osservando l’agire dell’attore, non lo rammentasse in qualche altro film e lo paragonasse a nessun altro ruolo. A dar vita al supereroe fu Christopher Reeve che, a seguito dell'immensa prova e dell’incredibile somiglianza in merito ai connotati fisici e alle sfumature caratteriali del ruolo conosciuto, venne considerato all’unanimità più che un interprete di Superman, il vero Superman. Per tale ragione, Donner era solito affermare Christopher Reeve non interpretava Superman, era Superman”.

“Superman” narra la storia dell’ultima testimonianza vivente di una stirpe aliena. Sul pianeta Krypton, lo scienziato Jor-El tiene un disperato colloquio con le autorità di spicco del pianeta, informandole che, secondo i suoi studi, il pianeta è destinato all’autodistruzione. Jor-El esorta i governati ad abbandonare il pianeta ma gli altri scienziati obiettano che Krypton sta solamente cambiando la propria orbita. Il parere allarmista di Jor-El viene pertanto accantonato. Il grande scienziato, però, sa che ciò che afferma è vero e sebbene sia condannato a restare sul pianeta decide con la propria consorte Lara di salvare il loro unico figlio appena nato, Kal-El.  Il giorno previsto da Jor-El giunge come un’infausta apocalisse e in quella notte drammatica, il suolo comincia a franare sotto i piedi dei Kryptoniani. Poco prima che il culmine del disastro possa risucchiare la casata degli El, Jor-El e Lara depongono il loro bambino a bordo di una piccola astronave, indirizzando il suo corso, mediante il pilota automatico, verso la Terra. L’astronave parte per la rotta stabilita quando il pianeta implode.

Ciò che è assolutamente toccante nella sequenza introduttiva di “Superman” è il legame inscenato a parole e perdurato sebbene il distacco dello spazio profondo separi il figlio vivo dai genitori scomparsi. Poco prima di lasciarlo andare, il padre si commiata dal figlio declamando un toccante elogio amorevole nei confronti della propria prole. Secondo il parere di Jor-El, il padre diverrà figlio e il figlio diverrà padre, come se l’ultimo pensiero dello scienziato fosse destinato alla grandezza che compirà sulla Terrà il proprio figlio, una volta raggiunta l’età adulta, quella di un futuro padre. La meraviglia dell’affetto paterno trova la propria sublimazione durante il lungo viaggio che Kal-El compie addormentato e cullato all’interno dell’astronave. La voce del padre, replicata mediante una registrazione infinita, espone quelle che saranno le glorie del piccolo infante, vale a dire tutti i poteri che Superman, in quanto Kryptoniano, erediterà una volta raggiunta la Terra. A questo va aggiunto un lungo excursus storico narrato dalla voce paterna sulla storia del pianeta d’origine di Superman e di ciò che fu la sua provenienza. E’ come se il papà volesse accompagnarlo in ogni suo attimo, durante un viaggio lungo anni e anni in cui il piccolo comincia anche a crescere, sonnecchiando. Il padre “aggira” l’ostacolo della morte, restando vicino al figlio durante la sua traversata verso la salvezza.

Una volta raggiunta la Terra, il piccino viene scoperto dai coniugi Kent, da sempre desiderosi di avere un bambino. Appena arrivato sul pianeta, come previsto dal padre biologico, il piccolo, a cui i nuovi genitori daranno il nome di Clark, mostra le sue abilità superumane. In quanto ultimo discendente di Krypton, Clark è dotato delle medesime qualità straordinarie e, una volta venuto a contatto con il sole della Terra, egli acquisisce i suoi poteri, che imparerà a padroneggiare con maestria. Egli è più veloce di un treno in corsa, è dotato di una forza sovrumana, un udito sviluppato all’inverosimile, può vedere attraverso gli oggetti, rilasciare un raggio termico dai suoi occhi, soffiare onde gelide e compiere salti prodigiosi. Clark è inoltre invulnerabile e apparentemente immortale, incapace di ferirsi, di ammalarsi e di provare dolore fisico: Superman è una sorta di dio sceso tra gli uomini.

A seguito della morte dell’adorato padre adottivo, Clark, tormentato dagli enigmi irrisolti circa la sua esistenza, scopre un cristallo verde e luminoso che lo guida fino all’Antartide. Una volta lanciato il cristallo sulla calotta, esso fa sorgere la Fortezza della Solitudine, una costruzione cristallina che replica la struttura architettonica del pianeta Krypton. Al suo interno, Clark rinviene dei cristalli in cui sono conservati i dati storici e culturali relativi al suo pianeta e, di conseguenza, alla sua origine.

Clark scopre così la sua vera discendenza e avrà modo di parlare con l’ologramma del padre Jor-El, il quale lo istruirà su ciò che dovrà essere. Quando compirà il proprio percorso formativo, Clark indosserà il costume della propria casata, con il simbolo di una grande “S” stampata sul petto, idioma Kryptoniano della speranza. Clark conclude la propria ascesa imparando l’ultimo e più prodigioso dei suoi poteri: la facoltà di poter volare.

Clark è pronto a divenire un paladino e a stabilirsi nella città di Metropolis, dopo essere diventato un giornalista al servizio dell’informazione presso il Daily Planet.

“Superman” è un’opera ordinata e scorrevole che ha saputo combinare sapientemente l’azione con l’ironia, l’avventura con l’emozione, la filosofia del personaggio con la sua verve più votata all’eroismo. In “Superman” si analizza per la prima volta la duplice identità uomo-eroe. Questa analisi meticolosa viene adempiuta per mezzo di una realistica interpretazione da parte del compianto Christopher Reeve che fece dell’uomo d’acciaio un ritratto naturale e umano, tanto schietto da avere la parvenza d’esser vero.

Nella sua prima apparizione pubblica, Superman vola con le braccia spianate e rivolte verso l’alto. Una salita scenica dalla terra al cielo, compiuta per raccogliere tra le sue braccia il corpo dell’amata Lois Lane, vittima di un incidente in elicottero che le stava costando la vita. Superman la regge per poi proseguire il suo volo con flemmatica assuefazione a ciò che ha dell’incredibile. Con tale calma, Superman allunga il suo braccio e afferra, in caduta vertiginosa, l’elicottero, fermandolo come fosse piuma al vento accolta tra le dita. In una tale naturalezza è riscontrabile la grandiosità del Superman di Christopher Reeve. Egli compie l’impossibile con la semplicità di chi riesce a dimostrare che tutto ciò sembra davvero possibile. Superman personifica il miracolo, e lo materializza dal vivo come fosse un’ovvietà.

Superman si innamora, istantaneamente, della reporter Lois Lane, la quale ricambia le sue attenzioni. L’amore che si sviluppa tra il supereroe e la giovane donna è un sentimento che assume un valore ancestrale nella sequenza in cui l'ultimo figlio di Krypton invita Lois a volare con lui. Quando Clark invoglia Lois a volteggiare su di una Metropolis addormentata, reggendola con le sue braccia, la donna corteggiata non comprende la vera identità dell’uomo che la sospinge nell’atto di librare. Nella rinomata sequenza in cui l’eroe dalla grande S, “cristallizzata” su uno sfondo azzurro come il cielo, invita Lois a volare, la meraviglia vissuta in quegli intensi momenti, in cui i due volavano a pochi metri dalla superficie del mare per poi giungere su in alto e disperdersi tra nuvole d’effimera consistenza, viene espressa dalle riflessioni intime della donna. Pensieri divenuti parole inespresse vocalmente. Superman, sebbene abbia un udito incredibile, non può sentire cosa Lois stia dicendo realmente. I pensieri della donna, sussurrati, vengono confessati agli spettatori, che divengono così i custodi delle sue sensazioni.

Superman dona alla donna amata la possibilità di sentire sulla propria pelle il tocco del vento, di contemplare la propria immagine riflessa nello specchio d’acqua nel mentre resta sospesa nel vuoto, con le braccia distese su di un letto di nuvole. Superman condivide con lei il suo potere più bello e lo fa per far sì che ella capisca cosa si possa sentire ad essere come lui: questo volo su nel cielo rappresenta l’avvicendamento tra due essenze vitali, riscontrabili nella presa di una mano e nel volo di un corpo. E’ l’essenza vitale della fantasia che permette di spiccare il volo e l’evento della realtà, oramai modificata dall’arrivo di Superman.

Lois ammira il grande Superman ma interagisce con riservatezza con Clark Kent. Un paradosso ben più profondo della semplicistica visione che vede Lois amare l’eroe misterioso e non l’uomo che le sta accanto. Reeve colse ogni sfaccettatura del personaggio, incarnando a dovere la controparte del supereroe, ovvero Clark Kent, mansueto e goffo giornalista che corteggia Lois Lane, innamorata però solamente di Superman e incapace di notare ciò che Clark cela sotto i suoi ingombranti occhiali.

Nel suo travestimento da umano, Superman espone pubblicamente il suo grande senso critico alla razza umana. Non me ne voglia Quentin Tarantino, ma per quanto affascinante la sua teoria sulla filosofia di Superman, espletata nel monologo finale di “Kill Bill Vol 2”, non posso condividerla totalmente. E’ vero che Superman è un eroe unico, poiché nato con le sue speciali capacità. Credo però che la sua controparte Clark Kent, con quel suo studiato camuffamento, più che rappresentare gli uomini codardi, inetti e incapaci di credere in se stessi, si faccia in verità beffa di chi gli sta accanto. Egli esprime in quel travestimento un’altra critica alla razza umana: la caratteristica deplorevole delle persone di essere superficiali. Superman sa che non lo riconosceranno, seppur usufruisca di un travestimento di poco conto, perché è nella natura umana ignorare il più debole, colui che appare “indifeso”. Clark non sembra, agli occhi di chi lo osserva quotidianamente, meritevole d’essere apprezzato, o ancor di più, conosciuto. Superman con Clark Kent assume le sembianze dell’uomo dimesso, schiacciato dai prepotenti, e sono proprio gli indifesi le persone che Superman difende col suo volere. Nella sua metamorfosi per mischiarsi agli uomini Superman diviene quel tipo di persona bisognosa del suo stesso aiuto. Inoltre, Superman sa che le persone badano soltanto alle apparenze e per tale ragione si beffa della loro arguzia: nessuno scruta a sufficienza il volto di Clark, nessuno apprezza quei suoi modi pacati, indagando la personalità del giornalista per vagliare se davvero nasconda ben più di quanto lasci intravedere. Nessuno dà peso a chi non si pone al centro della scena. Clark Kent, nel proprio isolamento, denuncia la superficialità dell’uomo generalista, incapace di avvicinare il prossimo, l’essere umano ipocrita, che predica uguaglianza e poi svilisce chi si dimostra educato e rispettoso. Nella propria contrapposizione, Superman si erge sugli uomini, ma al contempo si china per mimetizzarsi tra essi, cosciente dell’indifferenza che alberga nell’animo dei terrestri. Una delusione che avverte anche negli occhi della sua amata, fin quando ella non scoprirà, con stupore, che Superman e Clark non sono altro che la stessa persona.

Nel film sull’eroe dalla grande “S” sono raccontate e mostrate le imprese portentose di Superman: sequenze entrate nell’immaginario collettivo per chi ha amato il lungometraggio sul primo eroe DC Comics. Superman emana gloria e orgogliosa potenza durante il suo volo per deviare alcuni missili nucleari comandati dal malvagio Lex Luthor, come anche nel mentre ripara un binario ferroviario sostituendosi ad esso quando un treno procede sulle rotaie e “cammina” su di lui restandone indenne, e altresì quando scava, fino a calarsi nel sottosuolo terrestre per sollevare, con la sua forza pressoché illimitata, l’infuocata crosta di San Andreas. Scene realizzate con un uso sorprendente degli effetti speciali, che valsero il premio Oscar.

Superman compie queste gesta trasmettendo l’unicità del suo essere ma dando sempre l’idea di mantenere un atteggiamento umano. Il Superman di Reeve è un dio fatto uomo. Egli non fa sfoggio dei suoi poteri, li mette al servizio del bene universale, e lo fa con grazia, con quell’aura spontanea di un protettore. Il Superman di Reeve è il Superman della Golden Age, ma, seppur dotato di una possanza impareggiabile, egli si pone a un livello pari all’uomo. La semplicità con cui Superman attua le sue meraviglie fa intravedere come sotto l’invulnerabile alieno si nasconda lo spirito di un’umanità benevola. E’ questa la grandezza di Christopher Reeve, l’essere stato un dio con l’aspetto e il temperamento di un mortale, aver dato l’illusione che una persona simile a noi in tutto e per tutto potesse soverchiare qualunque legge fisica, aver inscenato la menzogna più arguta: farci credere che un uomo possa volare.

E lo ha fatto con disinvoltura, e genuinità. Il Superman di Reeve è fatto di purezza ottimistica. E’ questo ciò che rende Reeve il vero Superman, l’essere riuscito a cogliere l’essenza del personaggio: l’onnipotenza genuflessa volutamente al servizio di un ideale. Un ideale agognato e raggiunto per mezzo di un comportamento autentico.

Vi sono però due momenti nel film in cui l’invulnerabile Superman subisce l’arrendevolezza del fato umano, ed egli stesso intuisce, così, la propria somiglianza con la razza umana.  Negli attimi in cui avverte il dolore luttuoso della perdita di Lois, e nei momenti in cui si imbatterà nella Kryptonite, mortale residuato minerale del suo pianeta d’origine, Superman sperimenterà la mestizià dell'umana essenza. Nel secondo caso, Superman patirà per la prima volta un lancinante dolore fisico: va sottolineato che nel film del 1978, fino a quel momento, Superman credeva d’essere immortale. Vivere una vita senza la consapevolezza di ciò che possa arrecare del male è una particolarità che l’uomo comune non può in alcun modo conoscere. Superman, invece, comprenderà che anche lui potrà essere soggetto alla morte, come ogni altro essere vivente. Un dolore fisico destinato ad accomunarsi al dolore del cuore quando egli assisterà alla dipartita della sua amata. Un’agonia così straziante da necessitare l’ultimo prodigio del figlio di Krypton: il viaggio a ritroso nel tempo per sventare la catastrofe.

“Superman” perpetua con elementarità didascalica un’analisi all’animo umano di un uomo incarnatosi nel corpo e nello spirito di un dio. Un uomo che possiede la capacità di volare. E Superman volerà anche al termine della pellicola, quando, al sorgere del sole, l'Uomo d'Acciaio volerà verso la volta celeste a ricevere il caldo abbraccio di quei raggi.

E proseguirà il suo volo tra le disseminate stelle, sorridendo verso la camera: l’ultima espressione candida e solenne di una schiettezza umana.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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E’ la notte di Halloween. DJ è un ragazzino timido e introverso che vive difronte alla villetta del signor Nebbercracker, un anziano, inquietante e aggressivo tizio che scaccia chiunque tenti anche solo di avvicinarsi alla sua abitazione. Un pomeriggio DJ inizia a giocherellare con la palla per strada assieme a Timballo, il suo migliore amico, ma un colpo male assortito alla sfera la fa rotolare proprio verso la proprietà dell’isterico signore. DJ tenta di recuperare la palla prima che l’uomo varchi la soglia della sua porta ma non fa in tempo; furibondo, il vecchio fuoriesce dalla sua abitazione, inseguendo con fare intimidatorio il povero DJ, per poi fermarsi di colpo e accasciarsi al suolo, stroncato da un infarto. L’ambulanza sopraggiunge pochi minuti dopo facendosi carico del corpo inerme dell’uomo. Le rotelle della barella incespicano sulle ruvide erbette del prato che sembrano trattenere le membra inermi del proprietario per non farli andare via. Gli infermieri riescono comunque a caricare la barella sull’autovettura e si dirigono, a sirene spente, verso l’ospedale. DJ ritorna a casa, oppresso dai sensi di colpa quand’ecco che la fornace sita all’interno della casa dirimpetto si accende da sola e dal camino cominciano ad affiorare spire di fumo.

Per scoprire cosa stia succedendo DJ e Timballo si recano nella proprietà dell’anziano e questa improvvisamente si anima e tenta di divorare Timballo. Terrorizzati, i due fuggono via, rifugiandosi in casa di DJ. L’indomani i due salvano Jenny, un’ignara ragazzina dai capelli rossi legati in due lunghe trecce e dalle gote lentigginose, che stava per recarsi sul suolo maledetto per vendere dolcetti porta a porta. DJ, Timballo e Jenny, decisi a distruggere la casa poiché convinti che sia stata posseduta dallo spirito del vecchio, riescono ad introdursi all’interno del fabbricato in un momento in cui esso si è "addormentato". Muovendosi silenziosamente tra i corridoi della casa, i bambini notano una stanza posta nella cantina dell’abitazione. La camera, somigliante a un mausoleo, conserva i resti della moglie di Nebbercracker racchiusi in una gabbia e ricoperti di cemento. La tomba è adornata di candele e fotografie che ritraggono un giovane Nebbercracker stretto tra le braccia di una donna corpulenta. I tre, convinti che l’uomo abbia ucciso la moglie, abbandonano la villetta per imbattersi, una volta fuori, proprio in Nebbercracker, sopravvissuto all’attacco cardiaco e dimesso dall’ospedale.

  • Il commento

Il bisogno dell’uomo di rifugiarsi all’interno di uno spazio delimitato e cinto da mura salde e sicure è stato da sempre al centro della sua evoluzione. Soffermatevi a pensare a quando, nel nostro parlare comune, ci riferiamo agli avi più antichi con l’epiteto, alquanto riduttivo, di “uomini delle caverne”. Parliamo in tal modo per far leva sull’abitudine che avevano i “cavernicoli” ovvero quell’uso di rintanarsi in caverne nascoste in cui poter trovare riparo dalle fatali attenzioni dei predatori. Le caverne erano le prime “abitazioni”, scavate con mezzi di fortuna, dagli uomini. La casa, concepita come residenza di un vero e proprio nucleo famigliare nacque sin dal IV secolo a.C. La “casa” come oggi la conosciamo è un ambiente sicuro e confortevole, in cui viviamo quotidianamente con le persone che più amiamo e circondati dai nostri effetti più cari. Pur essendosi evoluta esteticamente nel corso degli anni a seconda delle preferenze stilistiche e architettoniche del tempo, essa continua a rispecchiare totalmente l’ideologia primaria per cui nacque: quella di proteggere gli uomini dai pericoli del mondo esterno. Sin dal medioevo cominciarono a prender piede credenze e leggende che riportavano l’esistenza di case stregate.

Tali miti popolari traevano origine dal timore che un’abitazione, concepita come luogo atto a conferire assoluta sicurezza a chi viveva al suo interno, potesse invece nascondere un grande pericolo, e su queste recondite paure fiorivano i racconti di case infestate dai fantasmi. Raramente in codeste storie si trovavano però racconti del terrore in cui il vero male era rappresentato dalla casa stessa e non da un’entità che viveva al suo interno. Su questa particolarità ha inizio il nostro viaggio in “Monster House”.

La pellicola d’animazione porta la firma di Gel Kenan, e fu il secondo film dopo “Polar Express” ad essere stato interamente girato con la tecnica della “cattura del movimento” ossia la registrazione delle movenze e della gestualità del corpo umano rielaborate in animazione digitale. I personaggi animati traggono così totalmente le espressioni e le interpretazioni dagli attori stessi che li impersonano, garantendo alla resa scenica un realismo impeccabile.  Il lungometraggio (candidato all’Oscar come miglior film d’animazione) è un horror dai toni brillanti nella prima parte, e dai caratteri macabri nel secondo tempo. “Monster House” è un teen-movie adatto però anche a un pubblico adulto, e riesce a trattare con garbo il tema dell’adolescenza. La storia si snocciola secondo il punto di vista dei tre giovani, maggiormente aperti al “sogno” e alla possibilità che esista il “fantastico” rispetto a una mente adulta, ristretta e meno propensa ad accettare l’impossibile. I bambini vengono pertanto trattati con il rispetto che dovrebbe essergli sempre garantito, poiché scopritori e successivamente depositari di una realtà atroce come quella che scopriranno nei meandri della mostruosa abitazione. Tra i tre protagonisti e l’apparente antagonista Nebbercracker sembra intercorrere una sorta di scontro generazionale tra la giovinezza di una vita spensierata e l’anzianità di una vita ormai indirizzata sulla rassegnazione. Niente di più falso! L’essere adolescenti non equivale a non vivere di timori e a gongolare nella letizia così come la vecchiaia non è necessariamente metafora di una quiete arrendevole. I tre personaggi principali nel loro rapportarsi con Nebbercracker avvicinano le proprie paure alle frustrazioni di un vecchietto tristo e sofferente ma comunque speranzoso di potersi liberare di un tormento che lo attanaglia oramai da troppi anni. Ed è qui da ricercarsi la chiave di volta per la comprensione dell’opera, il colpo di scena del film che costituisce il rovesciamento della medaglia: Nebbercracker non è l’antagonista di “Monster House” quanto la grande vittima della storia stessa. Quando l’anziano viene dimesso dall’ospedale, oramai stanco e sopraffatto definitivamente da una vita di stenti e di rinunce confessa tutta la verità ai tre ragazzini.

Quasi mezzo secolo prima, un giovane Nebbercracker aveva assistito ad uno spettacolo circense in cui Constance, una donna corpulenta e dalla ragguardevole altezza, era la gigantessa dello spettacolo. Ella veniva schernita dal pubblico per la sua massiccia corporatura, mentre tra tutti Nebbercracker rimase incantato dalla sua spontaneità, innamorandosi ben presto di lei. Decise così di rapirla e portarla via con sé. Constance ricambiò l’amore dell’uomo e acconsentì a sposarlo. I due coniugi comprarono un terreno in cui l’uomo gettò le basi per la costruzione della loro futura casa. Constance era una donna molto possessiva e non voleva che nessuno osasse avvicinarsi a quella che doveva divenire la sua dimora. Particolarità del caso è da considerare il fatto che Constance viveva in una gabbia e a causa del circo, non ebbe mai il piacere di crescere in un ambiente consono e amorevole. La donna crebbe probabilmente vagabondando da una città all’altra senza un posto a cui appartenere. L’idea di poter avere una casa di sua proprietà fece scattare nella donna un insano istinto protettivo. Nel giorno di Halloween, Constance venne presa di mira da un gruppo di ragazzini che passavano di lì.  Nel tentativo di aggredirli cadde accidentalmente nel baratro in cui erano state gettate le fondamenta della casa, venendo ricoperta dal cemento. Constance morì sul colpo lasciando nello sconforto e nella solitudine il pover’uomo. Terminata la costruzione della casa Nebbercracker si rese conto che lo spirito della defunta consorte era diventato tutt’uno con l’abitazione.

Scopriamo così che il comportamento violento e antisociale di Nebbercracker aveva il solo scopo di proteggere i ragazzini dall'odio che la casa prova verso di essi. Nebbercracker, per 45 anni, passò ogni istante della sua vita a prendere le dovute precauzioni per salvaguardare la vita di ogni ignaro passante. Da antagonista il personaggio dell’uomo viene tramutato in un drammatico antieroe.

In “Monster House” è il prezzo di una vita di stenti a costar carissimo. Il silenzio protettivo di un uomo costa la privazione da ogni altra forma di felicità. Per Nebbercracker quella che desiderava erigere come confortevole dimora diviene un’opprimente prigione di massima sicurezza. Constance, senza rendersene conto, incatenò l’uomo che la liberò dalla sua prigionia.

La gioventù dei protagonisti giunge come un sole luminoso che fa breccia tra le nuvole ancora cariche di pioggia, e le schiarisce al termine di un’inclemente tempesta. I ragazzini salvano l’anziano da un triste destino e con esso distruggono quella abitazione maledetta, gettando così le basi per il proseguimento di una vita quieta. Non è mai troppo tardi per ricominciare.

Il finale testimonia questa liberazione quando l’anima di Constance si concede un ineffabile passo di danza, tenendosi per mano con l’amato, poco prima di librare via e dissolversi nel cielo. Una libertà vivida come la brezza.

Voto: 7/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Dopo Alberto Sordi ci fu Paolo Villaggio. Quando Sordi appese il suo mantello nell’appendi-cappotti del camerino, questo venne raccolto da una figura tozza e panciuta, che fece di quel mantello, dall’univoco simbolismo della cultura media italica, un abito su misura. Non un abito qualunque, quanto invece, un capo d’abbigliamento distintivo, sulla cui sommità svettava, senza tante pretese, un basco di color nero. Villaggio raccoglieva l’eredità di Sordi, la prima “maschera” italiana in grado di conservare su quell’espressività camuffata, dalle parvenze di un mutevole test di Rorschach, i vizi e i difetti dell’italiano medio. Così venne definito più volte. “Medio”, un termine, per certi versi, dispregiativo che personalmente non ho mai apprezzato. Preferirei utilizzare l’etichetta di “italiano comune”, nel senso di “in generale”, una figura astratta ma ugualmente totale, capace di cogliere le sfumature abitudinarie di ogni singolo italiano. Sordi fece dell’usanza nostrana una beffa, una maschera giovanile e spensierata, critica e severa, necessaria per mettere a nudo le ipocrisie e i difetti dell’uomo abituale. Villaggio, invece, raccolse la maschera e la modellò in tutt’altri ritratti espressivi: goliardici, graffianti, in modo da generare nel suo pubblico una risata di getto, schietta, ma al contempo amara e tragicomica, e per tale ragione profondamente riflessiva.

Paolo Villaggio con il personaggio del Ragionier Fantozzi si erse a simbolo del cinema italiano e a personaggio universale ed empatico del pubblico generalista e non solo. Le gesta sfortunate del povero e inetto ragioniere spopolarono dapprima in letteratura e in seguito al cinema. Villaggio ne fece un emblema della sopravvivenza quotidiana, della resistenza alla vessazione da parte di colleghi ben più autoritari, di direttori egoisti e viziati dal tempo, da una vita di lussi e agiatezze che Fantozzi poteva soltanto sognare; Fantozzi fu un monito eretto a stendardo della vita dell’italiano comune alle prese con il lavoro, la famiglia, lo svago più classico e la passione calcistica. Fantozzi era nato dai vizi turpi dell’italiano che plasmò in orgogliosi vezzi.

Ciò che vale la pena rammentare è che Fantozzi è un personaggio tragico. Concepito sin dagli albori come protagonista-caratterista della tragicità della vita in una visione pessimistica dell’esistenza. Fantozzi è vittima incapace di reagire ai soprusi dei potenti ma anche alle sventure del fato, il quale lo sceglie come martire prediletto. Un destino beffardo aleggia come una spada di Damocle sulla testa di Fantozzi, pronta a cadere quando meno se lo aspetta o quando, possibilmente, non vorrebbe che accadesse, similmente alla medesima spada reale che Fantozzi tiene fissata al muro in posizione orizzontale, sopra il letto nei primissimi due episodi della saga di “Fantozzi”. Un simbolismo sinistro che giace sospeso nel vuoto. La tragicità della vita Fantozziana è però incanalata su rotte interpretative farsesche. Spesso i conoscenti confondono il nome di Fantozzi, chiamandolo "Fantocci". Del resto Fantozzi non è che un fantoccio, una marionetta inanimata e priva di vergogne per i superiori che ne muovono i fili incuranti dei suoi voleri.

Ed è qui che diviene ben visibile la maschera comica del teatro di Fantozzi, quella in cui il riso viene attuato sebbene la situazione sia intrinsecamente drammatica e penosa. Un sorriso intimamente sentito va a scemarsi in una smorfia amara sul nostro viso.

Fantozzi fa ridere nel momento in cui soffre o viene umiliato ma non per questo viene deriso. Guardando Fantozzi ridiamo con lui, MAI di lui. E lo facciamo perché ci ritroviamo nelle sue monotonie di routine o nelle sue avventurose scampagnate di fine settimana per sperare in qualche diletto.

Una delizia vacanziera che potrebbe essere rovinata dall’arrivo dell’immancabile nuvoletta, allegoria della sfortuna temporale che si abbatte sui poveri cittadini quando organizzano una gita al mare o una giornata da passare in montagna.

La struttura dei film di Fantozzi è volutamente organizzata in “episodi”, che rendono ancor più partecipe il pubblico che osserva il film sul ragioniere più famoso d’Italia come fosse lo scorrere di giornate reali e veramente vissute. Fantozzi non ha una trama quanto una raccolta di esperienze di vita.  Fantozzi si fa strada giornalmente tra impervie difficoltà in ambito famigliare, con la sciatta moglie Pina e la figlia Mariangela, di sgradevole aspetto, e in ambito lavorativo, in cui viene maltrattato dagli arcigni direttori di turno, e dall’amico-nemico, il geometra Calboni, da sempre in competizione con lui per arrivare al cuore della signorina Silvani, donna rozza, volgare e prosaica che per Fantozzi rappresenta il massimo a cui lui possa ambire. Fantozzi ha un temperamento succube, sommesso dinanzi alle prepotenze dei terzi. Egli è persino incapace di respingere gli inviti del suo grande amico, il ragionieri Filini, il quale lo trascina nelle più difficoltose organizzazioni di svago. Da qui seguono sequenze entrate nell’immaginario collettivo che hanno fatto la storia della grande commedia all’italiana: dalla mitica partita a calcetto tra scapoli e ammogliati alla battuta di pesca, dalla famosa giornata di caccia alla partita a Tennis, fino a giungere al cenone di Capodanno. Fantozzi è un personaggio talmente di spicco da prestare il proprio nome al vocabolario della lingua italiana. Il termine fantozziano viene tutt’oggi usato per indicare una personalità succube o una situazione irreale e tragicomica. Quell’uso sconnesso del congiuntivo, adoperato da tutti i personaggi dell’universo fantozziano, viene ironicamente usato nel parlare colloquiale amichevole per accentuare la tendenza comica dell’espressione. Capita spesso di udir persone che incitano l’interlocutore al grido di “Vadi, vadi!” invece del consueto “vada!”.

Ma il genio ironico della saga di Fantozzi è da trovarsi nel modo in cui rappresenta la prepotenza dei dirigenti. Solitamente tutti con una passione esagerata rivolta verso le più disparate attività che finiscono per coinvolgere i poveri impiegati. Oltre al Semenzara, e al Visconte Cobram, due sono stati i superiori di Fantozzi in grado di ritagliarsi uno spazio leggendario all’interno della saga: Catellani e Riccardelli.

Il primo appassionato di biliardo, il secondo cinefilo incallito e amante del cinema espressionista tedesco. Perché cito in particolare questi due “antagonisti”? Perché sono gli unici due superiori che hanno acceso la scintilla della ribellione nel cuore di Fantozzi. Una fiammella di consistenza flebile, prossima a spegnersi, considerando il fatto che è impossibile per qualunque fuoco ardere nel cuore di chi soffre di una sudditanza psicologica così acuta come quella che alberga in Fantozzi. Quella fiamma, però, per quanto debole riuscì comunque ad ardere.

E’ specialmente per tale ragione che i primi due Fantozzi vengono ancora oggi considerati irraggiungibili e pietre miliari della saga. Perché nei primi due film, Fantozzi possedeva la forza di ribellarsi. Non accettò le deprimenti offese di Catellani, quando quest’ultimo seguitava a offenderlo con uno spiacevole epiteto, e in egual modo, Fantozzi non accetterà di subire le ingiurie di Riccardelli, all’ennesima proiezione della “Corazzata Kotionki”.

Un senso di rivalsa destinato ad affievolirsi ben presto, ma che perdura come testimonianza del primo Fantozzi, quello più meritevole d’essere ricordato. Fantozzi era l’eroe di cui l’italiano aveva davvero bisogno. Un uomo comune, o se preferite, proprio quell’italiano medio, che potesse soverchiare, seppur per breve tempo, i prepotenti. Fantozzi a suo modo ha rappresentato anche la sudditanza del credo ribelle. Una credenza attendista. Fantozzi sperò, infatti, per tutta la vita che qualcosa potesse cambiare, dimenticando che lui stesso, due volte, tentò di cambiare il triste corso degli eventi. Sconfiggendo a biliardo Catellani, e calcando il palcoscenico dove avvenne la proiezione della Corazzata, quando urlò ai presenti il suo profondo giudizio estetico. In quelle occasioni, in quei precisi istanti, era accaduto il miracolo: Il buono a nulla, l’inetto era diventato qualcuno. Un particolare qualunquista, quintessenza della nullità, in grado di adempiere al ricordo eterno, nel cuore di ogni italiano comune.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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