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Fantozzi – Un servilismo con un barlume di ribellione

Dopo Alberto Sordi ci fu Paolo Villaggio. Quando Sordi appese il suo mantello nell’appendi-cappotti del camerino, questo venne raccolto da una figura tozza e panciuta, che fece di quel mantello, dall’univoco simbolismo della cultura media italica, un abito su misura. Non un abito qualunque, quanto invece, un capo d’abbigliamento distintivo, sulla cui sommità svettava, senza tante pretese, un basco di color nero. Villaggio raccoglieva l’eredità di Sordi, la prima “maschera” italiana in grado di conservare su quell’espressività camuffata, dalle parvenze di un mutevole test di Rorschach, i vizi e i difetti dell’italiano medio. Così venne definito più volte. “Medio”, un termine, per certi versi, dispregiativo che personalmente non ho mai apprezzato. Preferirei utilizzare l’etichetta di “italiano comune”, nel senso di “in generale”, una figura astratta ma ugualmente totale, capace di cogliere le sfumature abitudinarie di ogni singolo italiano. Sordi fece dell’usanza nostrana una beffa, una maschera giovanile e spensierata, critica e severa, necessaria per mettere a nudo le ipocrisie e i difetti dell’uomo abituale. Villaggio, invece, raccolse la maschera e la modellò in tutt’altri ritratti espressivi: goliardici, graffianti, in modo da generare nel suo pubblico una risata di getto, schietta, ma al contempo amara e tragicomica, e per tale ragione profondamente riflessiva.

Paolo Villaggio con il personaggio del Ragionier Fantozzi si erse a simbolo del cinema italiano e a personaggio universale ed empatico del pubblico generalista e non solo. Le gesta sfortunate del povero e inetto ragioniere spopolarono dapprima in letteratura e in seguito al cinema. Villaggio ne fece un emblema della sopravvivenza quotidiana, della resistenza alla vessazione da parte di colleghi ben più autoritari, di direttori egoisti e viziati dal tempo, da una vita di lussi e agiatezze che Fantozzi poteva soltanto sognare; Fantozzi fu un monito eretto a stendardo della vita dell’italiano comune alle prese con il lavoro, la famiglia, lo svago più classico e la passione calcistica. Fantozzi era nato dai vizi turpi dell’italiano che plasmò in orgogliosi vezzi.

Ciò che vale la pena rammentare è che Fantozzi è un personaggio tragico. Concepito sin dagli albori come protagonista-caratterista della tragicità della vita in una visione pessimistica dell’esistenza. Fantozzi è vittima incapace di reagire ai soprusi dei potenti ma anche alle sventure del fato, il quale lo sceglie come martire prediletto. Un destino beffardo aleggia come una spada di Damocle sulla testa di Fantozzi, pronta a cadere quando meno se lo aspetta o quando, possibilmente, non vorrebbe che accadesse, similmente alla medesima spada reale che Fantozzi tiene fissata al muro in posizione orizzontale, sopra il letto nei primissimi due episodi della saga di “Fantozzi”. Un simbolismo sinistro che giace sospeso nel vuoto. La tragicità della vita Fantozziana è però incanalata su rotte interpretative farsesche. Spesso i conoscenti confondono il nome di Fantozzi, chiamandolo "Fantocci". Del resto Fantozzi non è che un fantoccio, una marionetta inanimata e priva di vergogne per i superiori che ne muovono i fili incuranti dei suoi voleri.

Ed è qui che diviene ben visibile la maschera comica del teatro di Fantozzi, quella in cui il riso viene attuato sebbene la situazione sia intrinsecamente drammatica e penosa. Un sorriso intimamente sentito va a scemarsi in una smorfia amara sul nostro viso.

Fantozzi fa ridere nel momento in cui soffre o viene umiliato ma non per questo viene deriso. Guardando Fantozzi ridiamo con lui, MAI di lui. E lo facciamo perché ci ritroviamo nelle sue monotonie di routine o nelle sue avventurose scampagnate di fine settimana per sperare in qualche diletto.

Una delizia vacanziera che potrebbe essere rovinata dall’arrivo dell’immancabile nuvoletta, allegoria della sfortuna temporale che si abbatte sui poveri cittadini quando organizzano una gita al mare o una giornata da passare in montagna.

La struttura dei film di Fantozzi è volutamente organizzata in “episodi”, che rendono ancor più partecipe il pubblico che osserva il film sul ragioniere più famoso d’Italia come fosse lo scorrere di giornate reali e veramente vissute. Fantozzi non ha una trama quanto una raccolta di esperienze di vita.  Fantozzi si fa strada giornalmente tra impervie difficoltà in ambito famigliare, con la sciatta moglie Pina e la figlia Mariangela, di sgradevole aspetto, e in ambito lavorativo, in cui viene maltrattato dagli arcigni direttori di turno, e dall’amico-nemico, il geometra Calboni, da sempre in competizione con lui per arrivare al cuore della signorina Silvani, donna rozza, volgare e prosaica che per Fantozzi rappresenta il massimo a cui lui possa ambire. Fantozzi ha un temperamento succube, sommesso dinanzi alle prepotenze dei terzi. Egli è persino incapace di respingere gli inviti del suo grande amico, il ragionieri Filini, il quale lo trascina nelle più difficoltose organizzazioni di svago. Da qui seguono sequenze entrate nell’immaginario collettivo che hanno fatto la storia della grande commedia all’italiana: dalla mitica partita a calcetto tra scapoli e ammogliati alla battuta di pesca, dalla famosa giornata di caccia alla partita a Tennis, fino a giungere al cenone di Capodanno. Fantozzi è un personaggio talmente di spicco da prestare il proprio nome al vocabolario della lingua italiana. Il termine fantozziano viene tutt’oggi usato per indicare una personalità succube o una situazione irreale e tragicomica. Quell’uso sconnesso del congiuntivo, adoperato da tutti i personaggi dell’universo fantozziano, viene ironicamente usato nel parlare colloquiale amichevole per accentuare la tendenza comica dell’espressione. Capita spesso di udir persone che incitano l’interlocutore al grido di “Vadi, vadi!” invece del consueto “vada!”.

Ma il genio ironico della saga di Fantozzi è da trovarsi nel modo in cui rappresenta la prepotenza dei dirigenti. Solitamente tutti con una passione esagerata rivolta verso le più disparate attività che finiscono per coinvolgere i poveri impiegati. Oltre al Semenzara, e al Visconte Cobram, due sono stati i superiori di Fantozzi in grado di ritagliarsi uno spazio leggendario all’interno della saga: Catellani e Riccardelli.

Il primo appassionato di biliardo, il secondo cinefilo incallito e amante del cinema espressionista tedesco. Perché cito in particolare questi due “antagonisti”? Perché sono gli unici due superiori che hanno acceso la scintilla della ribellione nel cuore di Fantozzi. Una fiammella di consistenza flebile, prossima a spegnersi, considerando il fatto che è impossibile per qualunque fuoco ardere nel cuore di chi soffre di una sudditanza psicologica così acuta come quella che alberga in Fantozzi. Quella fiamma, però, per quanto debole riuscì comunque ad ardere.

E’ specialmente per tale ragione che i primi due Fantozzi vengono ancora oggi considerati irraggiungibili e pietre miliari della saga. Perché nei primi due film, Fantozzi possedeva la forza di ribellarsi. Non accettò le deprimenti offese di Catellani, quando quest’ultimo seguitava a offenderlo con uno spiacevole epiteto, e in egual modo, Fantozzi non accetterà di subire le ingiurie di Riccardelli, all’ennesima proiezione della “Corazzata Kotionki”.

Un senso di rivalsa destinato ad affievolirsi ben presto, ma che perdura come testimonianza del primo Fantozzi, quello più meritevole d’essere ricordato. Fantozzi era l’eroe di cui l’italiano aveva davvero bisogno. Un uomo comune, o se preferite, proprio quell’italiano medio, che potesse soverchiare, seppur per breve tempo, i prepotenti. Fantozzi a suo modo ha rappresentato anche la sudditanza del credo ribelle. Una credenza attendista. Fantozzi sperò, infatti, per tutta la vita che qualcosa potesse cambiare, dimenticando che lui stesso, due volte, tentò di cambiare il triste corso degli eventi. Sconfiggendo a biliardo Catellani, e calcando il palcoscenico dove avvenne la proiezione della Corazzata, quando urlò ai presenti il suo profondo giudizio estetico. In quelle occasioni, in quei precisi istanti, era accaduto il miracolo: Il buono a nulla, l’inetto era diventato qualcuno. Un particolare qualunquista, quintessenza della nullità, in grado di adempiere al ricordo eterno, nel cuore di ogni italiano comune.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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