
Non dev’essere stato per nulla semplice accogliere il successo di “Titanic”. Sì, avete capito bene, ma non fraintendete le mie parole. Non vorrei di certo farvi credere che l’universale plauso della critica e la reazione entusiastica del pubblico all’uscita del Kolossal, basato sul tragico destino del transatlantico, non fossero stati accolti con gioia dal regista James Cameron. E’ solo che, e di questo ne sono, tutto sommato, sicuro, non dev’essere stato facile concentrarsi sul… “dopo”. Cosa fare a seguito di un tale successo? “Quale progetto potrà mai rivelarsi un degno successore di ciò che mi sono lasciato alle spalle?” Se lo sarà domandato con ragionevole timore il grande cineasta statunitense che con “Titanic” aveva compiuto una doppia impresa, e senza precedenti: fare uscire nelle sale il film di maggiore incasso della storia del cinema e condurre alla notte degli Oscar il primo lungometraggio in grado di eguagliare “Ben-Hur”. L’ultimo lavoro di Cameron era diventato al contempo il film più famoso di tutti i tempi e la pellicola più premiata di sempre. E “Titanic” rimase, per l’appunto, il suo ultimo lavoro. In quanto regista perfezionista, dalla cura minuziosa del dettaglio scenico, Cameron si concesse una pausa che solo i veri artisti possono permettersi, una sosta lunga più di due lustri nella quale partorì delle nuove annotazioni riguardanti il suo prossimo lavoro. Cameron volle nuovamente sperimentare fin dove potesse spingersi il cinema contemporaneo e lanciò il proprio guanto di sfida al settore degli effetti speciali e degli effetti visivi. Desiderava portarli al massimo grado realizzativo possibile. La singolar tenzone tra Cameron ed il Cinema 3D era ormai cominciata. Nacque così il progetto “Avatar”.
“Avatar” venne concepito da Cameron come un’esperienza visiva in grado di sfruttare ogni minuzia del formato stereoscopico del cinema moderno. Con “Avatar” Cameron volle tramutare il grande schermo cinematografico in una sorta di portale extra-dimensionale, aperto su di un mondo variegato; una radura verde e rigogliosa, popolata da flore lussureggianti e faune ricreate secondo accurati adattamenti, frutto della fantasia autoriale. “Avatar” permise l’ingresso verso Pandora, un luogo unico, difficilmente perscrutabile in tutta sicurezza. Poterlo esplorare è un privilegio che potremo vivere appieno solo attraverso il supporto del nostro Avatar.
E così cominciamo a scoprire i vividi misteri di questo mondo “diventando gli occhi” del protagonista Jake Sully (Sam Worthington), un marine invalido, costretto a muoversi mediante l’ausilio di una sedia a rotelle che approda su Pandora come membro di un’equipe di ricerca. Il protagonista ignora qualunque dettaglio su ciò che lo attende quando s’imbatte nell’Avatar creato, sorretto dal suo esatto codice genetico. Gli Avatar sono delle riproduzioni di corpi degli autoctoni del pianeta nati dall’unione di geni umani e geni Na'vi, privi di volontà propria. Attraverso il collegamento, tramite un’interfaccia psichica, gli uomini possono abbandonare mentalmente il proprio corpo umano e trasferire, temporaneamente, la propria coscienza nell’Avatar. Così facendo il corpo dell’Avatar viene a essere animato dalla mente dell’uomo che può a questo punto aggirarsi su pandora con l’aspetto di un Na’vi.
I Na’vi sono creature dalla pelle bluastra e alti circa due metri e mezzo. Oltre al particolare colore della loro epidermide, balza subito all’attenzione la vivezza dei loro grandi occhi lucenti come biglie colorate che ne ornano il viso. L’importanza di guardarsi vicendevolmente e di osservare attraverso i rispettivi sguardi ciò che viene esteriormente mostrato dai corpi, ma soprattutto ciò che giace sopito all’interno dell’animo, è una delle digressioni più fascinose che il film svolge. Anche in “Avatar” gli occhi assumono il valore dello specchio dell’anima, in cui solo chi desidera mirare nel più profondo può contemplare.
Quando Jake trasferisce per la prima volta la sua coscienza nell’Avatar, avviene una rinascita fisica e mentale. Al risveglio nel suo nuovo corpo, Jake può finalmente riassaporare l’ebrezza euforica di poter camminare. E lo fa con difficoltà, come un bambino che apprende istintivamente a deambulare. E’ una fuga liberatoria la sua, quando corre per sentire il vento sfiorargli il viso.
Jake può conseguentemente ispezionare Pandora prima d’incappare in un Thanator, un feroce e gigantesco predatore, che tenta di ucciderlo. Fuggendo via per sottrarsi alla morte, Jake si addentra nei meandri sconosciuti di Pandora. Lungo il suo tortuoso peregrinare, incontra Neytiri (interpretata da Zoé Saldaña), una guerriera Na'vi, principessa degli Omaticaya. Neytiri ha già avuto interazioni con altre persone della nostra razza, che lei chiama “popolo del cielo”, e conosce la lingua degli umani. Jake viene accolto con rispetto, ma anche con timore dal clan. Questo stesso decide di far conoscere al marine gli usi e i costumi della popolazione e i segreti sull’esistenza delle creature di Pandora. E’ un incontro incomparabile tra due mondi: così intimamente impareggiabili perché basati su una profonda diversità; Jake, “il diverso”, umano nell’anima, ma “indigeno” nell’aspetto, si rapporta con Neytiri, anch’essa “diversa” esteriormente e intimamente da lui. Jake è diverso da ogni altro personaggio, sia esso umano o alieno. E’ diverso dai suoi colleghi scienziati perché non conosce nulla di ciò che si appresterà a osservare e pertanto la sua interazione con loro è dettata, più che altro, da istinti spontanei ed emozionali. E’ diverso dagli altri soldati perché è impossibilitato a combattere come loro, data la sua disabilità. E’ diverso dal popolo del cielo dato che si innamorerà del popolo dei Na’vi, ma è anche diverso da questi esseri perché può rapportarsi a loro solo col suo Avatar. E’ questo che rappresenta realmente l’avatar, la possibilità di poter abbandonare un mondo per vivere una realtà tanto avvincente. La più grande metamorfosi che il film compie è nel suo personaggio centrale. Egli non viene soltanto a contatto con una nuova realtà, scopre in particolare un nuovo modo di poter vivere.
In questa apparente diversificazione emergono le meraviglie dell’inesplorato, di una cultura perfettamente concepibile e riprodotta con una tale naturalezza da far sì che il film perpetri una sorta d’indagine documentaristica su una popolazione credibile. “Avatar”, visto il modo esaustivo con cui riesce a descrivere i segreti di un popolo e di un pianeta frutto della fantasia, potrebbe altresì essere riletto come un lungometraggio educativo sul rispetto delle creature a noi sconosciute, e la salvaguardia ambientale di un paradiso fantascientifico.
“Avatar” permette d’attraversare lo specchio dell’immaginifico, in cui il sogno si tramuta in realtà e quest’ultima diviene, a seguito di un rovesciamento delle parti, una visione onirica di blanda consistenza. Viene espressa questa singolarità nel rapporto tra la mente sveglia e quella dormiente: quando Jake è vigile può comandare il suo Avatar e addentrarsi in quel sogno, quando invece si addormenta, il momento in cui potrebbe sognare, la sua coscienza torna nel suo corpo umano, in una realtà alienante. Pandora è il sogno e il centro operativo della gente del cielo, l’incubo.
Nella sua permanenza su Pandora Jake si innamora perdutamente di Neytiri la quale ammette di ricambiare i suoi sentimenti. Se in “Titanic” Cameron era riuscito a farci visceralmente appassionare a una tragica storia d’amore tra una nobildonna e uno squattrinato, in “Avatar” riesce a raccontare, nei panni di un antico cantore, un amore appena sbocciato tra un umano e un’aliena dai lineamenti spiccatamente femminili. Un amore dal significato profondo che non può esser delimitato dai confini interraziali.
“Avatar” riesce a snocciolare una cultura aliena, indagando con discrezione la religiosità di un popolo, la lingua di un’etnia extra-terreste e la comunanza empatica che i Na’vi nutrono nei confronti delle altre creature senzienti di Pandora. Vige, infatti, nell’immaginario del film, un legame biochimico tra le appendici neurali delle trecce dei Na'vi e le radici di ogni albero, che li unisce come fossero sinapsi. Così essi possono sentire l’energia vitale che scorre nelle creature e accomunarsi ad essere. “Avatar” è il viaggio di un uomo alla scoperta di un’ignota meraviglia, fondata sulla comprensione empatica e sulla concretezza di un’emozione.
In “Avatar” Cameron ripropone uno dei temi a lui più cari, quello della tecnologia e del suo incontrollabile sviluppo, il quale, viene spesso sfruttato dall’uomo per scopi poco ortodossi. “Avatar” rivisita il colonialismo, l’uomo che costringe i nativi ad espatriare, a fuggire via e abbandonare le proprie terre, divenute prede di conquista. I malvagi nei film di Cameron sono spesso personaggi detestabili, mossi da un insano desiderio di oscura rivalsa, impossibili da poter essere compresi e compatiti. In “Avatar” assurge a ruolo d’antagonista Stephen Lang, col ruolo del Colonnello Miles Quaritch.
Le tecniche battagliere primordiali (i Na’vi combattono muniti di frecce e lance, tanto da ricordare i nativi americani) degli autoctoni contro le avanguardie belliche degli uomini non possono nulla. Ma sarà Jake, fianco a fianco a Neytiri, a riunire ogni clan di Pandora ed esortarlo a combattere, riuscendo a scatenare persino i poteri selvaggi della fauna del pianeta. La natura, infine, prevarrà sulla furia militare dell’uomo. Il personaggio di Jake muta così in un “traditore”, non della razza umana nella sua totalità, ma solamente della gente del cielo, e di tutti coloro che volevano conquistare un tesoro terreno, che non poteva, in alcun modo, appartenere loro. Jake si spoglia così del suo passato da umano per divenire a tutti gli effetti un Na’vi.
“Pochaontas” e “Balla coi lupi” sono solo alcuni dei titoli a cui Cameron può essersi ispirato. E’ proprio questo suo basarsi su dei topos narrativi già consolidati e amalgamarli in una storia dal fascino penetrante che rende Cameron un vero autore. Egli non reinventa nulla per quel che concerne la trama dell’opera, ma è questo suo reinterpretare dei temi ricorrenti e farli propri a rendere “Avatar” un film con una trama intrigante. Come accaduto in “Titanic” anche in “Avatar” Cameron non mette su una storia complessa, intensamente articolata, bensì basa la profondità di molteplici tematiche narrative sulla semplicità. Ed è proprio nell’essenziale franchezza di comprensione che si celano le plurime riflessioni di questo racconto visivo.
Quando nel dicembre del 2009 “Avatar” venne distribuito nelle sale, un’imponente campagna pubblicitaria si innalzò attorno all’uscita del film. Costato 237 milioni di dollari, “Avatar” fu il primo film della storia del cinema a raggiungere la cifra record dei due miliardi e settecento milioni di dollari d’incasso. Cameron era riuscito nell’impossibile: superare se stesso. Alla 82^ cerimonia dei premi Oscar, l’ultima fatica del regista verrà premiata con tre statuette su 9 candidature.
Con le dovute differenze, “Avatar” regalò un’avventura rigenerante al cinema contemporaneo, restituendo quell’incantato effetto stupefacente che per la prima volta, verso la fine dell’Ottocento, regalarono i fratelli Lumière. Spero riteniate il mio commento come un astratto accostamento. Ripeto, con le dovute differenze sostanziali, “Avatar” rammentò come la settima arte possa render vivibile l’illusione più recondita, ciò che per primi permisero di fare gli inventori della “visione cinematografica”. “Avatar” nacque volutamente per lasciare di stucco i propri spettatori mediante una mistificazione dell’arte visiva, ciò che si prefisse di fare il cinema sin dagli albori dell’arte di Meliés: meravigliare il proprio pubblico.
In “Titanic” Jack e Rose esprimevano sentimentalmente il loro amore con lo sfiorarsi le mani, in “Avatar” il legame indissolubile tra Jake e Neytiri viene simboleggiato dalla virtù empirea dei loro sguardi corrisposti. Il dono della vista è ciò che di più caro “Avatar” vuol comunicare. Badate, non l’astratto senso del vedere, ma una visione intesa come sentirsi reciprocamente l’un l’altra. E’ ciò che avviene tra Jake e Neytiri. Se lo ripetono costantemente quando proferiscono le tre parole: “io ti vedo”. Nel finale, quando Jake sembra soccombere in battaglia e il suo corpo umano si risveglia, egli viene salvato da Neytiri. Ella regge il suo corpo tra le braccia. In questa scena quel “io ti vedo” raggiunge un valore ineluttabile, quando Neytiri osserva l’umanità di Jake nell’esatto modo in cui mirava l’aspetto del suo Avatar, poiché è nell’immensità degli spiriti che essi riescono a contemplare realmente se stessi. La nostra epidermide, che sia bianca, scura o bluastra come per il popolo dei Na’vi, è soltanto l’esteriorità capace di nascondere ciò che solo in pochi possono realmente vedere.
Nell’ultima sequenza l’importanza degli occhi raggiunge il proprio culmine artistico: Jake abbandona definitivamente il suo corpo trasferendo la propria coscienza nel suo Avatar. Neytiri, durante il rituale, poco prima del risveglio dell’amato, lascia impresso sulle sue palpebre chiuse un bacio.
Quando gli occhi si dischiuderanno, il sogno sarà eterno e l’illusione diverrà realtà.
Voto: 9/10
Autore: Emilio Giordano
Redazione: CineHunters
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