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Speciali televisivi – Recensione “Death Note”: un film originale Netflix – Non fate come “L”

Il film di “Death Note”, disponibile dal 25 agosto sulla piattaforma online di Netflix, sembra caduto dal cielo in un giorno di pioggia, come fosse presagito dal temporale e trasportato dalla tempesta. Si è posato a terra, come un libro raggiunto dall’incedere dell’acquazzone, a seguito di un susseguirsi di fulmini accecanti e fragorosi. Questo nuovo adattamento giace lì, in attesa di essere trovato da uno sventurato spettatore pronto a sfidare impavido la sorte, incurante del pericolo, e a selezionare l’opzione “riproduci”.

“Death Note” somiglia all’opera originale da cui trae ispirazione soltanto per il nome che porta. A tal proposito dobbiamo tenere a mente un monito alquanto rilevante: somigliare, a volte, può essere sinonimo di “ingannare”. Imbrogliare nel senso di richiamare le fattezze di un qualcosa che amiamo. “Death Note” vuole infatti sedurre gli spettatori con il marchio a cui è devoto, o per riprendere quanto dicevo, a cui somiglia. Il lungometraggio si pavoneggia in maniera fraudolenta, creando l’aspettativa di rivisitare la storia di “Death Note” per poi dimostrare di averla solamente scimmiottata. Conseguentemente, questo nuovo lungometraggio sembra un libro dei morti precipitato dal mondo degli dei dell’oltretomba per essere “afferrato” dai poveri mortali. Purtroppo però, il libro dei morti offerto in tal caso non è che un libretto usurato, deturpato da scritte caotiche, dalle cui pagine si generano chiavi di rilettura deprecabili che distruggono la mitologia narrativa da cui attingono le idee.

“Death Note” si pone sulla corsia delle rappresentazioni nuove, che riscrivono le storie a cui si ispirano per poterle raccontare con un piglio diverso, perlomeno nelle volontà. Riuscire a racchiudere l’avvincente sfida intellettiva tra Light Yagami ed “L” in appena un’ora e quaranta minuti è altamente improbabile, a meno che la sceneggiatura non sia stata curata, mi si passi il paragone, dal grande astigiano, da quel Vittorio Alfieri, celebre altresì per le sue straordinarie doti di sintesi. Ma il film non si pone minimamente il problema di riassumere, poiché aggira con furbizia l’ostacolo, svolgendo il tutto con la semplicità obbligata di chi parte con la rassegnazione stampata in volto.

Il manga e l’anime di “Death Note”, cui vorrei dedicare personalmente un’analisi maggiormente corposa e approfondita in un articolo dedicato ad hoc, è stato uno dei prodotti di maggior successo degli ultimi anni, per merito di una narrazione rivoluzionaria, per certi versi atipica, innovativa e dal ritmo incalzante. Le caratteristiche soprannaturali, l’investigazione arguta, strutturata secondo un’astratta partita a scacchi tra il detective e l’assassino, la sfera religiosa di un dio mistificato, punitore e giustiziere quale poteva essere il venerato Kira, e un’analisi, per nulla banale, sul concetto di etica e morale nella società contemporanea, furono elementi, amalgamati  tra loro con un taglio diretto e un’impronta scrittoria avvincente, che fecero di “Death Note” una storia di infinita bellezza e di pregevole fattura.

E’ sottinteso quanto il film di produzione statunitense parta in netto svantaggio se paragonato alla sua madre-opera. Separare l’originale dalla sua eredità è, però, pressoché impossibile per l’ovvia ragione che senza l’originale non esisterebbe il solo tentativo di copia. Comparare la rivisitazione all’anime, se fatto in termini equivalenti, sia pure opportuni e non pretestuosi, costituisce la formula per potersi fare un’idea concreta su di una elaborazione nuova. Di fatto, “i remake” o gli adattamenti innovativi, pur cambiando alle volte i passi fondamentali della storia originale, hanno la sola possibilità di poter offrire una rappresentazione diversificata e, per certi versi, anche incuriosire da un nuovo punto di vista. Resta il fatto che non è questo il caso! “Death Note” non apporta alcuna modifica interessante alla storia che desidera raccontare. Qualunque novità introdotta dalla pellicola finisce per snaturare l’animosità dei personaggi, e per sviscerare la profondità delle tematiche originali per soverchiarle con delle deliranti riletture. “Death Note” di Netflix è una copia sbiadita ed esecrabile, realizzata con le metodologie di lavoro che rimandano ai più beceri film fan-made, e scritta con uno stile nei dialoghi tratto dalla più innaturale e meno canonica delle fan-fiction.

Nel mentre osserviamo gli attori recitare piattamente le loro scialbe battute, sorge spontaneo interrogarsi in merito a quali canoni fisici e quali doti interpretative siano state prese a modello nel ricercare la scelta degli interpreti per abbinarli ai personaggi. Il cast è così composto: Nat Wolff è Light, Margaret Qualley è Mia (Misa), Lakeith Stanfield “L” e Willem Dafoe lo Shinigami Ryuk. A Nat Wolff è spettato il gravoso e impegnativo compito di dare le fattezze americane a un giovane Light, una missione fallita nel peggiore dei modi. Wolff dà l’impressione di non avere la minima idea di chi stia interpretando, o di cosa stia facendo; ogni suo gesto, ogni sua irritante espressione trasmettono la sensazione che Wolff non abbia mai letto un singolo passo di “Death Note”, né abbia mai visto la trasposizione anime. Di fatto, il Light di Wolff è quanto di più imbarazzante potesse venire fuori da una reinterpretazione del personaggio, che perde ogni sfaccettatura oscura e d’aspirazione dittatoriale della sua controparte originale.

Questo Light non ha né il tempo né la possibilità di poter mostrare un progressivo declino e deterioramento della sua psiche ottenebrata dal potere del quaderno della morte, che lo porterà ad ergersi dapprima a divinità giustiziera e, in seguito, a perdere totalmente il discernimento tra giustizia e vendetta, tra la sua folle concezione di “morti opportune” e “morti errate”. Il Light di Wolff è un ragazzo che gioca col destino degli uomini per puro diletto, come un assassino scevro da scopi superiori che ne annebbiano la mente. Egli agisce, spalleggiato da una Mia amorale e meschina, come se il tutto fosse un gioco adolescenziale privo di conseguenze e perpetrato da una coppia malata di un amore infausto che si accresce al sol pensiero di sterminare “i reietti” spogliatisi di qualunque umanità, coloro che, per giudizio di “Kira”, non meritano di vivere.

Light non mostra neppure un barlume della sagace e perfida arguzia del personaggio originale, di quel suo intelletto progressivamente metamorfizzato dalla causa immorale cui vuole adempiere. Questa sua mancanza fa crollare le già pericolanti fondamenta del film, che perde uno degli elementi essenziali della storia di “Death Note”: la sfida d’intelligenza tra il “protagonista” malvagio e “l’antagonista” buono. Non vi è neppure un accenno alla “partita” che “ELLE” e Light giocano a debita distanza, una sfida fatta di mosse e contromosse per ingabbiare l’avversario e per sfuggire alla di lui presa.

“ELLE” di Lakeith Stanfield è un giovane detective emotivamente instabile, agitato e nervoso, dal prodigioso ragionamento deduttivo e dall’indole intuitiva solamente abbozzata in alcuni frangenti. Stanfield, per lo meno, ha il merito di elevarsi dalla ridicola interpretazione di Wolff, e nonostante egli non abbia che nulla della somiglianza col suo personaggio, dimostra comunque di aver studiato il ruolo, di aver catturato una parte sufficiente delle rispettive movenze. Ma anche lui è vittima di una sceneggiatura carente e lacunosa.

“ELLE” è praticamente inutile nel film, la sua presenza e il suo genio investigativo risultano superflui, persino pleonastici nella conclusione della storia. Rendere un personaggio come “L” inefficace è la peggiore sconfitta del film, che dimostra di aver perso totalmente l’intento, il proposito, la “bussola” e il conseguente senso dell’orientamento nel trasporre una storia riadattata senza alcun filo logico.

Tra i membri di questo cast, spicca certamente il nome di Willem Dafoe, il cui volto diabolico si presta perfettamente nelle intenzioni a quello del dio della morte. Peccato però che Dafoe finisca prigioniero di una maschera in CGI intrappolata in una resa estetica fermatasi a metà tra il voler impressionare e il voler far ridere con quel paio di occhi tondeggianti e strabuzzanti.

“Death Note” è uno schizzo primordiale e informe, ma non è soltanto una cocente delusione per ogni appassionato, è anche un pessimo film se preso in solitaria, privo di mordente e di uno sviluppo accattivante e moralistico. Lascia esterrefatti il pressappochismo con cui è stata raccontata una tale riedizione amorfa. Un lungometraggio nato male e conclusosi ancora peggio. Viene da chiedersi, se le premesse hanno portato a un così deprimente sviluppo, cosa abbia spinto la produzione a terminare il progetto e a rendere disponibile una trasposizione di così basso livello artistico. “Death Note” pare un lungometraggio scomposto, montato da un gran numero di scene che paiono slegate tra loro, in altre parole, un ‘opera sprovvista di alcun frammento di anima.

In conclusione, se avrete il malaugurato desiderio di vedere questo prodotto, permettetemi un suggerimento: mettetevi comodi sulla vostra poltrona. Sprofondate in essa come avreste fatto al termine di una interminabile giornata. Mi raccomando, NON rannicchiatevi su voi stessi, NON arcuate leggermente la schiena e, soprattutto, NON sedetevi poggiando il peso del vostro corpo sulle gambe reclinate a metà. In altre parole, NON SEDETEVI COME IL VERO “L”. Non guardate “Death Note”, il nuovo film originale Netflix, portando l’acume del vostro intelletto al massimo, credetemi, ne risentireste. Facciate in modo che diminuisca del 40%. E’ preferibile, di fatto, approcciarsi al film con una certa calma e un altrettanto distacco emotivo, onde evitare spiacevoli contraccolpi. Circondatevi di dolci soltanto per soddisfare le vostre piccole golosità, e distraetevi spesso: credetemi, ce ne sarà davvero bisogno.

Voto: 3/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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