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Valerian e Laureline disegnati da Erminia A. Giordano per CineHunters

 

In un passato imprecisato, un’antica civiltà aliena vive in pace e prosperità sulle rive di una spiaggia bagnata da acque limpide, contornata da bianche sponde e sabbia tenue e liscia al solo guardarla. Le eteree creature d’aspetto umanoide albergano vicino al mare, all’interno di graziose dimore ricavate da grosse conchiglie rosee. Questi cerei alieni raccolgono, come dono offerto loro dal mare, delle perle fatiscenti, le quali contengono enormi quantità di energia. Tali perle possono essere replicate fino a centinaia di altrettanti esemplari da alcuni animaletti indigeni dopo averne fagocitata una soltanto. Ogni qualvolta l’animaletto rilascia dalla sua epidermide i multipli di quelle bellissime perle, le creature donano le stesse alla terra, in un simbiotico scambio tra gli esseri viventi e il pianeta che li ospita. Un giorno, inaspettatamente, una misteriosa guerra combattuta nello spazio tra gli uomini finisce per annientare il pianeta natale di quella stirpe, e i pochi sopravvissuti riescono a mettersi in fuga per scampare alla morte.

Anno domini 2170. Valerian e Laureline, agenti speciali spazio-temporali del governo dei territori umani (che hanno i volti di Dane DeHaan e Cara Delevingne), sono in missione nella città intergalattica chiamata Alpha, una titanica metropoli in continua espansione la cui popolazione è composta da migliaia di specie diverse che provengono da ogni parte dell’universo. I 17 milioni di abitanti di Alpha hanno unito i loro talenti, le loro tecnologie e le loro risorse per migliorare le condizioni di vita di tutte le specie. Valerian e Laureline, interrompendo uno scambio clandestino tra alcune razze imprecisate, recuperano l’oggetto del contenzioso, ovvero l’animaletto di quel pianeta che abbiamo conosciuto al principio, ultimo esempio rimasto in vita di una così rara specie. Quella che doveva essere una semplice missione di recuperò, si rivelerà il primo passo di una fiabesca avventura. Valerian e Laureline inizieranno di lì a breve a svelare i molteplici segreti che si nascondono attorno alla distruzione del pianeta Mul e all’estinzione della razza aliena su cui verte un doloroso segreto militare destinato ad essere portato alla luce.

Raccogliere tra le mani le figure di Valerian e Laureline, tirandole via dalle pagine di un fumetto, e imprimerle su di una pellicola, renderle vivide, tangibili come uomo e donna, e trasporre il loro mondo colorato e luminescente, era un progetto ambizioso per Luc Besson. Un volere che aveva attratto già da tempo i suoi desideri e che stimolò le sue aspirazioni artistiche, facendole eccedere forse nella bramosia del vanaglorioso. Besson osservava il sole, mentre restava prigioniero nel suo fitto labirinto artistico. L’uscita era smarrita tra la moltitudine di cunicoli, o forse sbarrata dall’intenzione di non voler tornare indietro e abbandonare le proprie aspirazioni. Besson voleva fuoriuscire dal dedalo creativo volando via verso una meta lontana e ardua da raggiungere.

Come Icaro così Besson indossò le sue ali e si librò nel cielo, sedotto dai caldi raggi di un sole sfavillante, allegoria di una meta agognata e spesso sconsigliata perché proibitiva. Icaro, quando volle spingersi oltre i propri limiti, pagò un prezzo carissimo alla sua intraprendenza. Le sue ali di cera si sciolsero come neve al rischiarare del sole mattutino, ed egli precipitò al suolo perdendo la vita. Un monito che affonda l’atavico insegnamento nella mitologia greca, e che viene reinterpretato tutt’oggi come arguta e timorosa metafora per l’uomo, quando egli non dovrebbe spingersi oltre i propri limiti. Ma chi è che impone i suddetti limiti? Chi traccia il confine massimo? Il margine estremo da non dover essere superato viene intimato dal singolo talento, dalla capacità, dalla fortuna e dal mezzo impiegato per raggiungerlo. Ma tutti questi fattori possono essere soverchiati dalla perseveranza, dalla forza di volontà e dalla fiducia nelle proprie possibilità. Quando Luc Besson concepì il suo “Valerian” innalzò il volto verso il cielo e mirò quel sole tanto distante ma che sentiva particolarmente vicino, e lo reinterpretò come destinazione di un esaustivo lavoro. La brama del cineasta era quella di poter girare un’opera che raggiungesse le vette più estreme del cinema fantascientifico coi potenti mezzi del digitale moderno. Siamo certi che chi vola vicino al sole finisca poi necessariamente per bruciarsi? Besson aveva anch’egli indosso delle ali di cera?

“Valerian e la città dei mille pianeti” è un tripudio di colori che scintillano come torce accese e fiaccole ardenti di fuochi rossi e gialli. E’ uno spettacolo invitante che invoglia a prendere posto e ad accomodarsi in platea. “Valerian” è un’opera futuristica che inizia in un luminoso buio quale può essere l’oscurità dello spazio, fiocamente rilucente di alcune stelle che sostano in lontananza. “Valerian e la città dei mille pianeti” è cinema fatto con l’amore illimitato di un artista, che crea il proprio spettacolo rivelandone le magnificenze un po’ alla volta. Come fossimo a teatro, il sipario si apre e si arresta per qualche istante, lasciando al proprio pubblico una visuale ferma a metà, un palcoscenico in cui l’universo comincia a mostrarsi con l’ausilio di un brano musicale. Dopo un briciolo d’attesa, il sipario si spalanca e la visuale occupa così l’intero schermo. “Valerian” volge il proprio occhio contemplativo ad un futuro inesplorato, ma possiede un’introduzione devota agli stili classici dei film di fantascienza. “Valerian” è un’opera che accentua la bellezza di ogni singola immagine. Si tratta di sequenze rapide e il cui scorrere è tendenzialmente privo di sosta, in cui i lustri, i secoli e le migliaia di anni scorrono in una progressione sontuosa, dove un’accattivante sfilata di creature fantastiche che interagiscono con gli umani, si presentano loro con un susseguirsi di strette di mano. E’ una storia di conoscenza, d’integrazione, di rispetto verso ogni esistenza culturale quella che Besson ci mostra.

Besson conferisce contorno e spessore a un sogno che ha preso vita, il medesimo che viveva ad occhi aperti quando non era che un bambino e si lasciava trasportare dalle letture del fumetto “Valerian et Laureline”. Questo è l’atto d’amore di un ammiratore incondizionato che in quella città dai mille pianeti ha scoperto il proprio spazio paradisiaco, languido e ineluttabile e ha deciso di donargli la consistenza ammirabile di un bellissimo miraggio illusorio e fantastico.

I vostri occhiali 3D (esperienza questa assolutamente consigliata) fungeranno per voi da visore meta-cinematografico, una sorta di finestra spalancata verso un nuovo mondo, la cui realtà visibile ad occhio nudo può esser sostituita da un’altra diversa e intellegibile e che si sovrappone alla prima similmente a quella che i protagonisti vedono e vivono durante la loro prima missione. Il mercato di Alpha è strutturato in una duplice realtà: quella visibile con gli occhi e quella visibile con la tecnologia avveniristica che permette l’osservazione di un mondo diversificato che si manifesta parallelamente a quello scrutabile soltanto con gli occhi. In tal modo è interpretabile il lungometraggio di Besson, come una fantastica visione dalla doppia natura che oscilla dalla realtà filmabile alla meraviglia dell’ignoto reso percepibile attraverso un meticoloso lavoro grafico e pertanto estetico.

In questa fantascientifica avventura Valerian e Laureline sono due giovani innamorati che vivono il loro lavoro analogamente con la loro vita sentimentale. Entrambi molto ben caratterizzati hanno personalità carismatiche e oppositrici. Valerian è arrogante, sfacciato, sprezzante e sbruffone, Laureline è invece forte, indipendente, sentimentale e fedele. Valerian e Laureline incarnano i tradizionali poli opposti che finiscono per attrarsi nelle reciproche diversità. Essi tendono così a cercarsi e ricercarsi ogni qualvolta finiscono per restare separati. L’intera avventura è una luna di miele compiuta nel cosmo.

A tal proposito Valerian ha chiesto a Laureline la sua mano. Ella, in uno dei loro dialoghi derisori, ha domandato se lui fosse a conoscenza del fatto che la luna di miele si consuma dopo il matrimonio, ricevendo un’impacciata risposta da parte di Valerian. In un certo senso, i due riescono a capovolgere le previsioni e a compiere questo viaggio ancor prima del reale sposalizio. In tal modo, ammettendo che la risposta di Laureline alla richiesta di Valerian di averla in moglie fosse stata positivamente sottintesa, il loro viaggio si configura come un’intrepida luna di miele adempiuta tra i pericoli di un mondo splendido quanto rischioso.

“Valerian e la città dei mille pianeti” è una discesa tra gli abissi di un mondo sconosciuto. In questa estenuante caduta verso la “zona morta” la storia perpetua un’indagine sull’identità del protagonista. Il concetto d’identità personale assume un valore ineludibile, inscenato nell’aspetto e nel potere dell’aliena interpretata da Rihanna, la cui abilità è quella di assumere centinaia di apparenze diverse fuggendo però l’univoca identità del proprio essere.

Tale mutaforma riveste il ruolo dell’artista sofferente, dell’interprete camaleontica e dai mille volti, che le impediscono d’essere riconosciuta dagli altri per come è realmente. Ella, quando perirà, svanirà come sabbia smossa dal vento, testimoniando l’ineffabilità di un’anima priva di una precisata categoria esistenziale per colpa dei crudeli che hanno approfittato delle sue abilità prodigiose per deprecabili fini.

Da questo momento in poi, Valerian trarrà un importante insegnamento, e dovrà far fronte alla sua identità personale di uomo, spogliarsi delle regole imposte dal suo rango di maggiore e compiere ciò che è giusto, riacquistando la sua identità di eroe messo al servizio, non soltanto dell’umanità, ma anche di ogni razza aliena che nell’unità della metropoli Alpha ha trovato la globale serenità. Il viaggio porta i due protagonisti a imbattersi nei sopravvissuti del pianeta Mul, in attesa di riottenere l’animaletto e la perla che Valerian e Laureline hanno con loro. Quella di Valerian è una maturazione mentale e psicologica, coronata dall’affetto e dalle parole di Laureline che lo esorta ad allontanare i ferrei e dogmatici precetti militareschi e abbracciare l’empatia provata nei confronti di questi esseri dalla pelle biancastra.

Ella lo invita ad immedesimarsi nel regnante di questa popolazione che ha perduto la sua stessa gente. Nel loro carattere così diverso Valerian e Laureline tendono a completarsi a vicenda e ad aiutarsi a comprendere quanto dovevano scoprire all’adempimento della loro missione. Valerian custodisce e protegge, inoltre, nel suo intimo l’anima della principessa dei Mul, e non è un caso che da essa venga privato solo quando egli porterà la libertà al popolo sopravvissuto.

Quella di “Valerian e la città dei mille pianeti” è una similitudine sull’esistenza, una ricerca sull’amore più puro, quello provato nell’atto del perdono. “Valerian e la città dei mille pianeti”, nelle sue scenografie maestose, nei suoi effetti speciali stupefacenti e nei suoi inseguimenti votati all’azione più incalzante, rilascia un messaggio profondo, quello che anche dopo la tragedia di un’infausta guerra può esserci sempre lo spazio per ricostruire quanto è stato distrutto, per erigere una nuova società dalle macerie, in una collaborazione che verte sull’uguaglianza di ogni tipo di razza, sia essa umana o aliena.

Besson con la sua creatura “Valerian e la città dei mille pianeti” ha centrato l’obiettivo, realizzare una trasposizione graficamente monumentale di una delle storie che aveva amato di più. Una meta, quella di Besson, che non ricercava tanto il successo generale quanto il successo personale, quello di poter dare vita ad una fantasia letta e immaginata, per cui non avrebbe badato a spese. “Valerian e la città dei mille pianeti” è un’opera genuina, intrisa di bontà e terso romanticismo. Besson, suo malgrado, ha trasmesso un’importante lezione: in un volo pindarico come il suo, il sole può non essere il solo pericolo da dover affrontare. L’empio parere del pubblico generale, feroce come un’aquila affamata, può ghermire colui che libra sospeso e divorarlo senza pietà.  “Valerian e la città dei mille pianeti” ha spaccato a metà il parere critico, ed è stato oggetto di scherno, da parte di detrattori famelici, ben più di quanto meritasse, forse per essere stato erroneamente presentato come un successore del visionario “Avatar” di James Cameron.

“Valerian” non si fregia di una narrazione articolata, e non pretende di culminare nell’epicità della più coraggiosa tra le space-opera, gioca sulla semplicità per ricordare ai propri spettatori come si possa sognare con l’autenticità di una manipolata magia visiva.

Oggettivamente la creatura di Besson non vanta il fascinoso approfondimento culturale di “Avatar”, ed è preda di una trama semplice, il che non è conseguentemente un male, raccontata con difficoltà per via di una sceneggiatura strutturata con dialoghi carenti e a volte sempliciotti. Tuttavia, trovo personalmente che i pregi di questo film divertente e sincero, superino i naturali difetti. L’opera di Besson non avrà purtroppo ottenuto il successo che forse sperava, ma resta ugualmente un film meritevole d’essere apprezzato con equilibrio e con uno spirito romantico necessario per attenuare la severità di certi giudizi esagerati.

Nell’ultima scena, Valerian e Laureline, rimasti ormai soli a bordo di una navicella che naviga silenziosa su di un oceano qual è il firmamento sconfinato, possono suggellare il loro futuro matrimonio scambiandosi un appassionante bacio. La loro prima e più importante luna di miele è finita al culmine del loro progressivo innamoramento.

La luce dell’universo si incupisce fino ad ottenebrare la totalità della visione. Sul lato destro compare la dedica di un figlio “a mio padre…”. Besson, che paragono ancora un’ultima volta alla figura mitologica di Icaro, raggiunge il sole e il traguardo che si era prefissato, vale a dire realizzare il sogno di un bambino: dar nuova vita ai propri eroi. Il messaggio finale è la malinconica dedica a un genitore. Besson è stato sospinto nel volo da suo padre, no, non certo da Dedalo, ma dal suo vero padre, colui che gli ha fornito delle ali salde e sicure, non di cera, quando gli fece leggere quel suo primo fumetto che tanto lo coinvolse e lo aiutò a sollevarsi da terra. Besson ha toccato davvero quel sole, riportando soltanto qualche lieve bruciatura, poiché è rimasto fedele a se stesso, al bambino che fu.

L’amore spassionato che viene rilasciato nell’arte e che in questo caso si può percepire osservando “Valerian e la città dei mille pianeti” è il collante che tiene ben ferme le ali alla schiena di ogni sognatore.

Persino la cera faticherebbe a sciogliersi se miscelata alla forza dirompente, inestinguibile dell’amore per la creatività.

Voto: 7,5/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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“Il Pranzo di Babette” è un film del 1987, sceneggiato e diretto da Gabriel Axel, con una grandissima Stéphane Audran come protagonista. Il film è tratto dall’omonimo racconto di Karen Blixen.

Verso la fine dell’Ottocento in un minuscolo villaggio in terra danese vivono due anziane sorelle di nome Martina e Philippa, figlie di un pastore protestante, decano e guida spirituale del luogo. Dopo la dipartita del genitore le due sorelle hanno avuto in eredità la cura della locale comunità religiosa e di conseguenza hanno dovuto continuare a respingere ogni proposta di matrimonio che si presentava loro, perseguendo una vita parca e semplice, spesa sempre a beneficio dei più bisognosi.

Un giorno bussa alla loro porta Babette Hersant, fuggita da Parigi per motivi politici, in quanto il generale Galliffet le aveva fatto uccidere il figlio e il marito. Babette viene accolta dalle anziane donne grazie alla lettera di Achille Papin, un vecchio corteggiatore di una delle due, e questa per sdebitarsi prende servizio da loro come domestica oltre che aiutarle nelle attività a sostegno dei poveri.

Una vincita di diecimila franchi alla lotteria sarà l’occasione per preparare un pranzo alla memoria del pastore, padre delle due signorine, nel centenario della sua nascita. Martina e Fhilippa pur se lusingate dall’idea di Babette, vedono il pranzo come una minaccia alla loro vita tranquilla all’insegna della solidarietà. Ma per Babette invece sarà l’occasione per insegnare agli abitanti della comunità l’importanza di non tralasciare i piaceri della vita.

“Il pranzo di Babette” è un film ben fatto in ogni sua parte, un film che riempie il cuore e soddisfa i sensi. A differenza degli altri film sul cibo non incarna per nulla l’intento d’abbuffarsi e vivere il tutto con voluttà e leggerezza. La voce narrante è come se inducesse lo spettatore a visitare le pagine di un libro, inteso come un’intima confessione, catapultandolo nel contesto di una piccola comunità dove sembra che il tempo si sia fermato. “Il Pranzo di Babette” è un film gioioso, sensibile, spesso anche divertente. I dialoghi centrano sempre il punto e anche il non detto reca in sé un supporto emotivo di grande spessore. Il punto d’arrivo del pranzo di Babette non è solamente l’appagamento dei sensi, anzi tutt’altro. Al di là della vicenda narrata c’è quasi una fiaba sulla vita nei piccoli centri, sul passato, sul presente e sul futuro, ma soprattutto sulla religione, intesa come servizio agli altri, ai più deboli, agli esclusi, ai sofferenti.

Il film va assaporato portata dopo portata, squisitezza dopo squisitezza. Come un lauto pasto di celestiale bontà, l’opera appaga con il sapore della generosità che la cuoca riversa nella propria cucina, ergendola ad una forma d’arte nata per donare un momento di letizia alle persone a lei più care. Il personaggio di Babette costituisce il rinnovamento, un vento nuovo che spira per migliorare la condizione del singolo ma anche della comunità. E’ una sorta di parabola che corre per tutta la pellicola e che partendo dalla ricerca del piacere dello spirito finisce poi per approdare a quello che rappresenta una pietanza preparata con sapiente maestria. Pranzare diviene un momento di comunanza che avvicina i commensali con la soddisfazione goduriosa dei sensi e delle emozioni.

“Il pranzo di Babette” è un film sulla bellezza, sull’arte, sul talento e sulla fede, che non deve per forza essere bigotta e perentoria, sull’amore come servizio, aspettativa, rinuncia, sull’importanza dell’appagamento dell’uomo, sulle innumerevoli opportunità che la vita può riservarci anche in un luogo lontano, desolato, sperduto in terra di Danimarca in cui la storia si dipana.

La regia di Gabriel Axel regala grazia e poesia e ci sorprende per una messa in scena snella e ponderata, con una macchina da presa posta sempre ad una giusta distanza e un direttore della fotografia come Henning Kristiansen che con le sue riprese dai colori soffusi e ben dosati rende il giusto merito sia al panorama danese che ai volti attenti ed espressivi di un cast sempre all’altezza della situazione.

“Il pranzo di Babette” è un film intriso di un profondo senso religioso, pervaso da una toccante ma soave mestizia, resa vivida da improvvisi spunti d’ironia, incastonato in una fantastica scenografia naturale, impreziosita da una recitazione impeccabile, e da una regia che lascia trasparire in ogni singola inquadratura grazia, leggerezza, ingenuità.

Il film ottenne nel 1988 il Premio Oscar come Miglior film staniero e nel 1989 una Nomination al Golden Globe come Miglior film straniero. Sempre nello stesso anno, si aggiudicò il Premio Bafta come Miglior film straniero e ottenne ben cinque Nomination. Al Festival di Cannes venne assegnata una Menzione speciale della giuria ecumenica a Gabriel Axel e una Nomination Un Certain Regard sempre a Gabriel Axel. Premio Robert: Miglior attrice protagonista a Stéphane Audran. Natro d’argento: Migliore attrice straniera a Stéphane Audran. Kansas City Film Critics Awards: Miglior film straniero.

Voto: 8/10

Redazione: CineHunters

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Christopher Reeve non si limitava soltanto ad indossare dei grossi occhiali che contornavano gran parte del viso, ma trasformava abilmente il proprio aspetto con l’ausilio di un leggero ma efficace trucco, assieme ad una pettinatura che gli copriva parte della fronte. A differenza di ciò che in futuro faranno i suoi successori, Reeve, quando interpretava Clark Kent, cambiava anche modo di recitare, anteponendo al suo atteggiarsi sicuro, un’andatura dinoccolata, una gestualità buffa e un parlare timido e impacciato. Richard Donner, il regista dei primi due film che ebbero Reeve come protagonista, diceva spesso che l’attore interpretava un ruolo nel ruolo. La rappresentazione del dualismo Kent/Superman offerta da Reeve si sposa magnificamente con il commento che Umberto Eco fa nel suo saggio “Apocalittici e integrati” all’iconico personaggio nato dalla penna di Jerry Siegel e dalla matita di Joe Shuster. Superman è l’aspirazione a cui noi tutti aneliamo, Clark, invece, è per l’ultimo figlio di Krypton il suo desiderio di normalità e di integrazione in un mondo che inizialmente non gli appartiene.

Un’interpretazione così affascinante del personaggio fa leva sulla necessaria diversità che dev’essere mostrata tra le due personalità dell’eroe. Questa differenza mai (secondo il mio modesto parere) è stata realizzata sul grande e piccolo schermo, se non nella figura di Christopher Reeve. L’unico ad aver catturato i tratti gentili e garbati di un timido Clark, il solo ad aver ostentato con profonda naturalezza, l’onnipotenza del primo eroe dei fumetti.

Risale al 1973 l’inizio dell’amicizia tra Reeve e Robin Williams, quando entrambi studiavano alla Juilliard School. I due, tra gli studenti più meritevoli e apprezzati nell’ambito della recitazione dell’intero istituto, stringeranno un rapporto di sincera e leale amicizia, arrivando a fare una promessa: chiunque dei due avesse ottenuto fama e successo, avrebbe aiutato l’altro, se questi si fosse trovato in difficoltà economica.

Nel '77 fu portata all’attenzione di Reeve la notizia che si svolgevano dei provini per il ruolo di Superman. La lavorazione della pellicola stava catturando la curiosità dei critici per la presenza di due stelle del cinema come Marlon Brando e Gene Hackman. L’attore nativo di New York, fino a quel momento sconosciuto, aveva avuto una prima esperienza a teatro in un’opera dal titolo “A Metter of Gravity”, venendo scelto, dopo un’audizione, direttamente da Katherine Hepburn che lo volle nel ruolo di suo nipote. La foto di Reeve e il suo breve curriculum vennero spediti a Lynn Stalmaster, il direttore del casting, che mise inizialmente l’immagine dell’attore tra coloro che dovevano essere scartati. Una più accurata riflessione, che coinvolse anche il regista, portò a rivalutare la scelta e si decise di contattare il giovane Reeve per un breve incontro che si svolse allo Sherry Netherland hotel. Quando Reeve arrivò, il cineasta e la produttrice Ilya Salkind, rimasero impressionati dalla somiglianza e dal richiamo fisico che l’attore emanava. Decisero cosi di consegnarli un copione di 300 pagine e di invitarlo all’audizione. Reeve credeva di non avere molte possibilità ma quando salì sul piccolo palcoscenico utilizzato per i provini, la sua altezza (193 cm) e l’imponenza che trasmetteva unita al modo di porsi convinsero immediatamente Donner, che di lui finirà per dire “E’ Superman, l’abbiamo trovato!” Il resto, come spesso si dice, è storia nota. Il film sull’eroe DC Comics sarà acclamato dal pubblico e dalla critica conquistando anche ai premi Oscar una statuetta nella categoria dei migliori effetti speciali.

Dopo un successo cosi planetario, la realizzazione di un sequel fu un processo del tutto conseguenziale e più che scontato, tenendo presente che molte delle scene del secondo film furono girate nello stesso periodo di lavorazione del primo. “Superman II” uscirà nel 1980 e sarà uno dei pochi casi dove un seguito batterà addirittura “l’originale”, sia in chiave economica che critica. E’ il periodo d’oro di Christopher Reeve che accoglierà il successo e la gloria insieme all’amico di un tempo, Robin Williams, anche lui ormai una stella affermata e pronta ad illuminare le platee e le sale cinematografiche. La figura di Reeve comincerà ad essere indissolubilmente legata a quella dell’Uomo d’acciaio. Reeve tornerà ad indossare il mantello rosso in altri due film, qualitativamente inferiori ai primi due, ma sorretti senza dubbio dalla sue sempre ottime performance. Nel terzo, in particolare, lo vediamo dilettarsi in una duplice versione dell’eroe: una burbera e vendicativa pronta irrimediabilmente a scontrarsi contro l’animo buono e altruista dell'"umano" Clark.

In quegli anni Reeve saprà spaziare abilmente anche in altre pellicole, dimostrando una versatilità che avrebbe fatto di lui un attore completo, capace di calarsi nei ruoli più disparati. Lo vediamo, infatti, nei panni del protagonista Jonatahan Fischer nell’acclamato “Street Smart” al fianco di Morgan Freeman, e in quelli di Jack Lewis nel capolavoro “Quel che resta del giorno” accanto ad Anthony Hopkins e Emma Thompson. L’anno precedente, nel 1992, è tra gli straordinari protagonisti dell’esilarante commedia “Rumori fuori scena” film che porta sullo schermo l’opera di Michael Frayn, appartenente al genere del Teatro nel teatro.

Tre anni dopo, Il 27 maggio 1995, nel corso di una gara a cavallo a Charlottesville, Christopher Reeve cade brutalmente da cavallo, riportando lo spostamento di due vertebre cervicali. Reeve rimase paralizzato dal collo in giù perdendo l’uso di tutti gli arti. Da allora e per tutto il resto della sua vita rimarrà costretto a vivere su una sedia a rotelle e collegato a un respiratore artificiale. Quando la notizia si spargerà, accorrerà all’ospedale anche il suo fraterno amico, Robin Williams. Erano arrivati entrambi al successo, ma quel patto di un tempo, dettato dai più puri sentimenti di amicizia stava per concretizzarsi in uno scenario purtroppo ancor più drammatico di quello che poteva essere rappresentato dalla difficoltà economica: Robin Williams coprirà gran parte delle spese per garantire all’amico l’uso di una macchina che gli permetta di vivere il più possibile.

Superman disegno di Erminia A. Giordano

 

Il destino fece una violenta breccia rompendo lo specchio tra la finzione e la verità e distruggendo l’immaginario confine che separa il sogno del cinema con la dura realtà. Il fato così crudele spianò la strada a un esito beffardo e intollerabile. Reeve, che con tale spontaneità era riuscito ad incarnare le fattezze dell’uomo d’acciaio, venne prostrato e immobilizzato da una Kryptonite dilaniante che volle ricordare con estrema crudezza quanto la fantasia possa essere, a volte, spazzata via dall’asprezza della fatalità. L’uomo non era più un “Superuomo”, non era davvero invulnerabile come poteva così tangibilmente sembrare su quel nastro di pellicola. Il suo corpo non era realmente d’acciaio e le sue ossa furono pertanto come frantumate dalla violenza di un imprevedibile e maledetto incidente. La sua forza corporale era venuta meno, le sue gambe avevano ceduto: Superman non poteva più volare su nel cielo. L’imprevedibilità aveva annientato la sicura affidabilità di un sogno, il medesimo che a noi spettatori ci aveva oniricamente illuso che quell’attore fosse ben più di un interprete, ma un vero supereroe dalla robustezza inviolabile.

Dopo l’incidente, Christopher Reeve sarà in prima linea nella lotta sui diritti dei disabili e sulla ricerca per le cellule staminali. Se il suo corpo aveva ceduto, il suo cuore continuò invece a lottare. Con quella sua coraggiosa resistenza stava dimostrando quanto i canoni di quel personaggio continuavano ad appartenergli. Reeve si elevò così ad eroe imbattibile, a un simbolo di ricerca costante di felicità, del superamento di ogni forma di afflizione fisica ma soprattutto mentale. Nel 1998, nonostante le sue condizioni, Reeve offrirà una prova di assoluto spessore nel film per la televisione “La finestra sul cortile”, remake del capolavoro di Alfred Hitchcock, dove, nonostante la suspense registica non sarà paragonabile a quella del Maestro, la prova del protagonista verrà comunque elogiata universalmente fino a fargli ottenere una nomination al Golden Globe come Miglior attore. Tra il 1998 e il 2003 scriverà due libri, in cui racconterà la sua esperienza e il suo stato d’animo, cercando di incoraggiare chi sta vivendo situazioni analoghe e trasmettendo la sua voglia di vivere. Nel 2003 e nel 2004 sarà sul set della serie “Smallville” adattamento televisivo delle origini di Superman.

Il 10 ottobre del 2004, a soli 52 anni, si spegne al Norther Westchester Medical Center di New York lasciando la moglie Dana, il figlio Will, e i figli Matthew e Alexandra avuti da un precedente matrimonio con Gea Exton.

Quel giorno, il Superman di intere generazioni, smise di volare, col cuore e con la mente, per sempre.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

Potete leggere il nostro articolo "Superman - Credere che un uomo possa volare" cliccando qui.

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Batman ritratto da Erminia A. Giordano per CineHunters

Batman venne concepito da un’idea di un artista, tale Bob Kane. Agli stadi embrionali non era che un’immagine fetale, abbozzata, che fiorì nella fantasia fino al giorno in cui l’ora di venire al mondo giunse. La matita e i colori veicolarono la sua nascita come ostetriche e permisero il parto di questa creatura che conobbe la vita su di un foglio di carta, nel momento esatto in cui quella matita finì d’imprimere il suo ultimo tratto. Quel primo disegno andava considerato come un infante che aveva aperto per la prima volta gli occhi al mondo, ancora ben diverso dall’aspetto che assumerà quando maturerà nello sviluppo che i suoi genitori creativi infonderanno in lui. Il primo ritratto di Batman fu uno schizzo delineato con il desiderio di dare essenza ad un supereroe non ancora chiaro e cristallizzato con limpidezza nelle forme e nel costume. Solo un simbolo era evidente sin dal principio: quello di un grosso pipistrello che l’eroe avrebbe dovuto portare sul petto come fosse un emblema. Era Batman, che in quella sua iniziale raffigurazione lasciava echeggiare il suo primo pianto, come fosse venuto al mondo al cospetto dei propri creatori. Bob Kane e Bill Finger lo perfezionarono nelle settimane a venire e gli conferirono il dono della parola, racchiusa in nuvole d’inchiostro. Era il 1939. Ma Batman reificò nel pensiero di Kane ancor prima, essendo stato ispirato da un’immagine anch’essa stampata su carta e risalente addirittura a secoli e secoli antecedenti la data del periodo. Erano i disegni curati a mano da Leonardo da Vinci e rappresentanti il Grande Nibbio, la macchina volante progettata dal Genio tra la fine del 1400 e l’inizio del 1500. Gli appunti didascalici e le illustrazioni del Grande Nibbio furono raccolti dal da Vinci nel Codice sul volo degli Uccelli. Leonardo, che sempre cercò di creare una macchina che potesse replicare il volo degli uccelli e renderlo possibile per l’uomo, realizzò una versione della suddetta idea che mimasse una sorta di volo in planato. L’apertura alare del marchingegno attirò l’attenzione del fumettista che ne trasse suggerimento per creare il mantello dell’eroe, il cui dispiegamento replicava l’apertura alare della macchina e, altresì, dei pipistrelli.

Batman vide la luce nella storia dell’arte, il suo mito si accrebbe col volere della concretizzazione di una fantasia e nel desiderio della scoperta, dell’invenzione. Dalla stretta collaborazione tra Kane e Finger i particolari del costume si accentuarono fino a dar forma all’eroe come lo conosciamo oggi, con un background definito, un’identità umana e una storia. Batman conobbe il mondo quando completò il proprio iniziatico processo di formazione e, come albo a fumetti, venne pubblicato per l’etichetta DC Comics nel maggio del 1939; qualche anno dopo Superman, e prima di Flash, Lanterna Verde e Wonder Woman.

La figura dell’uomo-pipistrello divenne, col passare degli anni, un’icona incomparabile nel mondo del fumetto e nell’immaginario collettivo popolare. Il fascino tenebroso e maledetto del cavaliere oscuro permane tutt’oggi come se non fosse mai stato scalfito dal passare delle decadi. Batman è comparabile a un’opera che conserva la magnificenza originaria, e necessita soltanto sporadicamente di qualche lieve ritocco, eseguito dagli esperti restauratori, i quali correggendo leggermente l’estetica e modernizzando la storia riescono a rendere le sue avventure sempre al passo coi tempi.

Batman Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

Dietro la maschera dell’uomo-pipistrello si nasconde il miliardario Bruce Wayne. Bruce, quando era soltanto un bambino, ha assistito alla morte dei propri genitori, uccisi sotto i suoi occhi da un ladro di strada. Il drammatico evento segnò irrimediabilmente il piccolo, che giurerà sul corpo esanime del padre e della madre, che farà tutto ciò che sarà in suo potere per impedire ad altri di provare la medesima sofferenza arrecatagli da un malvivente. Il trauma cui venne investito da bambino gli farà sviluppare uno stato di diffidenza, di paranoia e sospetto che, da un lato, affinerà le sue straordinarie qualità intellettive e investigative, dall’altro minerà i suoi rapporti con le altre persone. A quella fatidica notte, i suoi creatori fecero risalire alcuni elementi che andranno poi a formare la personalità del protagonista e che fungeranno da spiegazioni esaustive su quella che sarà la sua scelta. Bruce stava guardando uno spettacolo a teatro riguardante la maschera di Zorro. Come lo spadaccino che combatteva per l’indipendenza della sua gente così Batman avrà un costume color nero che potrà aiutarlo a mimetizzarsi tra le ombre. Bruce crescerà tra le cure di Alfred, il suo maggiordomo, e da lui spalleggiato, ma dalla lussuosa residenza, comincerà la sua personale battaglia contro il male che aleggia sulla città e che cercherà d’estirpare con sempre crescente vigore. Batman tutela la città di Gotham, una metropoli rigida, sozza, ricolma di quartieri sudici e periferie traboccanti di delinquenza. E’ una città fortemente inquinata, le cui esalazioni di gas si levano dagli scarichi infiammati, un centro urbano dal sapore antico, ricco di grattacieli che si stagliano alti verso il cielo e che recano sui propri esterni Gargoyle in pietra. Questi scenari gotici sono terreno fertile per le imprese del crociato incappucciato.

Definire Batman un antieroe dark è quanto ma sbagliato. Batman è un giustiziere, un vigilante che accetta volontariamente la propria missione di salvataggio e veglia, e alla sua gente ha offerto, in un patto vincolante, la sua vita. L’adempiere questo compito che non avrà mai fine è lo scopo della sua intera esistenza, ed egli lo assolverà fin quando la sua battaglia contro le forze del male non esigerà la sua morte. Batman non corrisponde quindi ai canoni tradizionali dell’antieroe cinico, disinteressato, che compie l’azione eroica sebbene non voglia volgere completamente se stesso alla causa. Batman è l’esatto opposto, colui che dedica tutto ciò che ha al perseguimento di un obiettivo che non ha mai fine. Al contempo, tuttavia, Batman si differenzia dall’eroe incorruttibile e senza macchia, solare e ottimista, generoso e altruista, tutti criteri personificati da Superman. Batman è un eroe oscuro, deciso, violento con i criminali più efferati, tormentato e distolto. Egli, nella sua interpretazione più classica, agisce sulla linea che demarca i due stadi esistenziali dell’eroismo, quello dell’eroe vero e dell’antieroe, poiché non corrisponde completamente né all’uno né all’altro. Egli vive in una sorta di stasi sospesa tra le due realtà parallele, ed è ciò che calca maggiormente l’unicità di questo supereroe. Batman si differenzia dagli altri personaggi anche perché non possiede alcun superpotere, è un uomo comune, mortale e vulnerabile, ma che si è sottoposto ad addestramenti severi e tempranti che ne hanno fortificato il fisico, le abilità e la tenacia, permettendogli di superare il limite delle possibilità umane.

Batman è l’umanizzazione di una rara forma di paura. Egli deciderà di sfruttare il pipistrello, quel volatile notturno che tanto gli aveva arrecato spavento da bambino per farne un suo simbolo e terrorizzare i criminali. Batman si riveste della sua stessa paura per divenire un demone della notte dal terrificante aspetto che possa seminare il panico nel cuore e nella mente dei malavitosi. Eppure, egli si fa carico di una paura particolareggiata, un sentimento di allerta che da una parte si erge ad effige immateriale di terrore verso tutti coloro che compiono azioni malvagie, dall’altra ha l’obiettivo di costituire l’emblema carnale di giustizia e bontà. La paura intessuta tra i filamenti del mantello di Batman è un’arma contro i criminali di tutto il mondo ma anche un rifugio, come fosse un drappo di velluto sotto cui gli innocenti possono trovare riparo. Timore e speranza possono essere trasfigurati nel simbolismo di due mani che si toccano vicendevolmente e combaciano come epidermide appartenente alla stessa natura, ed esse si uniscono, piegando ogni dito nello spazio corrisposto e lasciato libero dal palmo. Le due mani si stringono in un’univoca presa, rappresentando un’alleanza comune di terrore e speranza. Batman è paura ma è altresì gioia per gli indifesi. Egli agisce nell’ombra ma è come fosse un faro di luce che schiarisce l’oscurità della notte. Il vigilante viene come posseduto da questo continuo dualismo tra luce e oscurità che lo vede sostare nell’ombra come un faro prossimo ad accendersi. Batman è la metamorfosi di una notte buia, di una mezzanotte che rintocca per scandire l’inizio di un’attività criminale senza tregua, ed egli combatte per fermarla prima del sorgere delle prime luci dell’alba: egli è notte che trascorre per garantire un nuovo giorno, che possa essere più sereno di quello già trascorso.

Il Batsegnale che proietta in cielo il simbolo del pipistrello è il grido d’aiuto di un popolo che vede in quel fascio di luce l’allegoria di un provvidenziale salvatore.

La mitologia di Batman è composta da innumerevoli Villan che hanno personalità complesse, pieni di sfaccettature psicologiche e caratteriali con storie curate e approfondite. Tra gli avversari più pericolosi di Batman, Due Facce è colui che più di altri ricalca il tema della dualità, della personalità divisoria che in un mondo governato dal disordine ha come unica fonte di giudizio la sorte, immaginata sotto forma di una moneta, il cui lancio è capace di dare un solo esito tra due possibili scelte. Dopo di lui meritano una menzione speciale:

  • Il Pinguino, dall’aspetto grottesco e dal carattere insensibile e orripilante, che rappresenta una sorta di boss del crimine anch’esso chiamato col nome di un volatile. Vestito con tuba, frac, e munito di monocolo, porta sempre con sé un… ombrello.
  • Lo Spaventapasseri, vera e propria personificazione estetica del fantoccio, che incute paura agli uccelli per allontanarli dalle coltivazioni, diventa esso stesso paura da riversare sul “volatile umano” quale è Batman. Crane è la parte più tetra dell’emozione della paura trattata nelle opere di Batman, trasformando l’astratto terrore immaginato in un incubo che la vittima crede di star vivendo davvero. Se Batman è “paura” avversa ai soli criminali, Crane si eleva al rango di paura universale, metamorfizzata e siffatta ad uomo, che può contagiare chiunque come un’infezione per cui non esiste alcuno antidoto. Lo Spaventapasseri crede fermamente che ogni scelta compiuta dall’uomo sia legata alla paura.
  • L’enigmista, il cui vero nome è Edward Nigma, è una personalità distorta e compulsiva. E’ ossessionato dagli enigmi con i quali anticipa spesso le sue prossime mosse, sfidando le autorità a capire ciò che si nasconde dietro i suoi indovinelli. Nigma è intimorito dall’arguzia di Batman e vuol metterlo alla prova in una sottile sfida d’intelligenza che verte sul comprendere le mosse dell’avversario anticipandone gli indizi contenuti tra gli enigmi.
  • Freeze, glaciale avversario con un cuore di ghiaccio che batte solo per la propria sposa. Freeze adopera con destrezza un’arma congelante e può sopravvivere solo restando all’interno di una speciale tuta criogenica che mantiene la temperatura del suo corpo al di sotto dello 0.
  • La velenosa e bellissima Poison Ivy, crudele madre natura somigliante a un’eterea ninfa dei boschi che cammina a piedi spogli restando nuda, rivestita di sole foglie. Ella è in grado di dar voce e anima alle piante ed è il simbolismo vivente della feroce vendetta della natura sull’indifferenza dell’uomo.
  • Bane, colossale nemico dotato di una forza sovrumana alimentata dal Venom.
  • L’immortale Ra's al ghul che anela a un utopistico mondo privo di criminali e che ricerca il bene generando altro male in un’esistenza che verte all’eternità.
  • Hugo Strange, sadico psichiatra dalla sopraffina intelligenza.

La galleria dei nemici comprende molti altri avversari di spessore. Tra questi, villan come Clayface, Killer Croc e Solomon Grundy rappresentano uno stadio successivo, dove la deformità della mente tipica dei precedenti avversari viene sostituita da una mostruosità nel corpo.

Contro ognuno dei suoi acerrimi nemici, Batman sperimenta una sfida che ne mette a dura prova la resistenza, l’audacia e la perspicacia. Lo Spaventapasseri, ad esempio, sfida le paure inconsce e mai superate di Batman, Ra's al ghul i suoi intoccabili dogmi di incorruttibilità e di discernimento tra moralità e immoralità, e Poison Ivy, come l’antieroina Catwoman, con la sua bellezza fa vacillare la sua resistenza in quanto tentazione sensuale del male. Le pulsioni sessuali che Bruce prova nei confronti delle donne fatali quali possono essere Poison Ivy, Talia al Ghul e Harley Quinn vengono sublimate nel suo intenso e passionale rapporto con Selina Kyle, la più rappresentativa tra le donne pericolose che è riuscita a far invaghire Batman di lei e a costruire un rapporto in cui l’amore e l’odio si intrecciano in un contesto avventuroso e d’azione. 

Ad allietare la solitudine di Batman sono i personaggi di Robin, Nightwing e Batgirl, divenuta poi Oracle, ed in particolare Alfred che riveste il ruolo di padre adottivo, alleato e confidente. Tuttavia, la misantropia di Bruce è un male incurabile. L’astraente senso del dovere che lo opprime gli impedirà di poter mai vivere una vita normale.

Bruce Wayne, come vollero Bob Kane e Bill Finger, è un figlio dannato. Un cavaliere maledetto, ossessionato dalla reminiscenza della morte dei suoi cari genitori. Egli vive schiacciato da un irrazionale senso di colpa che lo conduce a sentirsi come responsabile della loro morte. Batman è un eroe disturbato, la cui “sofferente pazzia” trova ristoro nella battaglia per un fine superiore. Quella di Batman è un’assuefatta follia razionale che viene sepolta sotto il peso dell’armatura che lo aiuta a tollerarne il dolore. Quella che definisco la sua follia razionale è diametralmente opposta alla follia irrazionale, insana e omicida del Joker, la sua nemesi. Batman e Joker sono due facce di una medaglia che li vede uno contro l’altro, in una atavica battaglia tra bene e male. Joker è ossessionato dalla sua esistenza, ed è attratto da ciò che rappresenta l’eroe mascherato non l’uomo. Batman è la democrazia equilibrata, Joker l’anarchia dell’insurrezione sregolata. I due vengono stilisticamente rappresentati in maniera opposta anche per un piccolo dettaglio che molto spesso sfugge all’attenzione: la seriosità e l’ilarità.

Joker genera l’incubo reale di una felicità spensierata e senza regole che sfocia nella cruenta apatia. Quello di Batman è un temperamento drammatico, afflitto, angoscioso, quella del clown è invece una lucida follia, esternata in una risata inquietante che trova piacere nell’attuazione del dolore. Batman soffre e alimenta la bontà insita del suo animo nell’afflizione, Joker incrementa la propria malvagità nella vivacità macabra della comicità. Nella contrapposizione tra Batman e il Joker, la drammaticità rappresenta il bene e l’ilarità il male. La compromessa sanità mentale di Batman ricerca l’ordine, l’instabilità mentale del Joker il caos, in un continuo gioco fatale che li vede contrapposti.

L’architettura imperscrutabile del palazzo mentale qual è la mente di Batman è paragonabile alle salde mura di Arkham, dove restano segregate nelle profondità irraggiungibili delle celle le torbide paure e i tormenti ansiogeni di un uomo che ha trasformato il dolore in fuoco che arde per dar calore e fiamma al suo volere.

Batman custodisce dentro di sé uno spirito crucciato, un animo desolato e oppresso. Le sue disperate fatiche compiute sempre con enorme rischio sembrano voler far intendere che Batman non tema mai la morte e che l’accolga come una liberazione. Come un autunno prossimo a cessare, l’anima del cavaliere oscuro può essere descritta come un paesaggio malinconico con cumuli di foglie rattrappite che giacciono senza vita e colore sul freddo terreno. E’ lo spirito di un uomo che vive da sempre in un interminabile inverno, stagione che avverte interiormente e che scandisce ogni giornata della sua vita con pioggia copiosa e nevicata incessante. Batman vive in un lungo inverno che non può essere ravvivato da alcun soffio estivo. E’ proprio in una notte gelida che Batman appare in piedi sulla cima di un palazzo, quando la luna piena su nel cielo sembra essere alle sue spalle e un fulmine che tuona dal nulla illumina per qualche istante la sua sagoma minacciosa.

Batman è mente pensante che riflette sull’asperità dell’esistenza con il gelo dell’inverno, la sola atmosfera che lo avvicina ad un senso di quella chiusura intima che motiva la propria battaglia. Bruce nella malinconica bellezza dell’inverno ha trovato se stesso, la sua doppia vita, la sola causa eroica che dà un senso normale a un mondo anormale.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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E’ quasi l’alba. Destatevi dal vostro sonno e accomiatatevi dai vostri sogni fino alla prossima notte. Vestitevi con celerità ma prendete il tempo che vi occorre per gustare una buona tazza di caffè. Quando avrete finito, salite a bordo della vostra auto e sfrecciate a tutta velocità per le strade, verso lo stato di Washington. Dirigetevi, pressappoco, a cinque miglia dal confine tra Stati Uniti e Canada, nella città montana chiamata “Twin Peaks”. Un cartello posto al ciglio della strada vi darà il benvenuto quando sarete giunti in prossimità della città. La scritta “Twin Peaks” è tracciata con uno speranzoso color verde, come se volesse tranquillizzare i propri aspiranti visitatori a varcare i confini e ad addentrarsi in città. E’ probabile, per chi conosce cosa sia “Twin Peaks”, che il solo immaginare un fittizio viaggio in macchina, compiuto alle prime luci dell’alba per portarsi in città, faccia avvertire un senso di profonda inquietudine misto a una sensazione di incontrollabile curiosità. Poter calcare realmente il territorio di Twin Peaks potrebbe essere un sogno per chi ha subito il fascino dei misteri di quel luogo immaginario, ma soltanto il fantasticare di poter davvero trovarsi laggiù, potrebbe tramutare la sensazione del sogno in un terrificante incubo.

Tuttavia, proseguiamo ad immaginare d’esser giunti, o forse tornati, a Twin Peaks. Cosa ci attenderà? Grandi camion con rimorchio caricati con grossi tronchi di legno pregiato percorrono le strade della località in lungo e in largo. Si nota il loro andirivieni sostando in quello che è il luogo più affollato dell’intera città: l’RR Diner, locale in cui potremmo sorseggiare l’inconfondibile caffè di Twin Peaks e assaporare la tipica e gustosa crostata di ciliegie. Non ci resterà poi che fare un salto alla stazione di polizia comandata dallo sceriffo Truman, prima di affrontare le paure più torbide e avanzare tra i boschi di Twin Peaks.

Il bubolare dei gufi inquieta gli animi di coloro che hanno il coraggio di farsi strada tra i boschi al crepuscolo. Questi volatili osservano le persone, appollaiati sui rami degli alberi coi loro occhi ricchi di bastoncelli, e tutto sono tranne quello che sembrano. Nella profondità di quei luoghi un drappo color rosso mosso dal vento come fosse fuoco divampante, si materializza dal nulla. Il telone rosso è pronto ad alzarsi per smascherare sotto i nostri sguardi vigili gli incomprensibili misteri di “Twin Peaks”. Una volta che questo fantomatico sipario si è alzato, intravediamo la sagoma di un anziano David Lynch che ci attende seduto comodamente in poltrona. Lynch ci invita a sederci accanto a lui e a riprendere visione della sua arte: a riguardare quel sogno che è stato “Twin Peaks” come spettatori divenuti adesso sognatori. Perché “Twin Peaks” è una narrazione gestuale, fisica e simbolica, strutturata per essere osservata, quasi indagata visionariamente, e per farlo non possiamo che guardare tale serie e immaginare d’essere anche noi a Twin Peaks, tra i freddi e lugubri boschi di quelle montagne impenetrabili.

“Twin Peaks” è arte sbocciata nel medium televisivo, la quale invoglia a provare un’esperienza emotiva in un contesto fittizio. Ma che tipo di arte è? Cos’è realmente “Twin Peaks”?

Era l’8 aprile del 1990 quando il network ABC trasmetteva il primo episodio della serie. “Twin Peaks” nasceva dall’idea del regista David Lynch e dello sceneggiatore Mark Frost. “I segreti di Twin Peaks” andò in onda per due stagioni, la prima composta da 8 episodi, la seconda da 22 episodi. Sin dalle prime puntate, il telefilm divenne oggetto di culto da parte di migliaia di appassionati che evidenziarono il taglio nettamente originale e imparagonabile a qualunque altro prodotto del periodo. “Twin Peaks” fu l’espressione massima e di maggior successo del genio artistico di David Lynch, e in quanto opera concepita secondo le ideologie stilistiche del cineasta risulta tutt’oggi un prodotto impossibile da catalogare sotto un dato genere.

“I segreti di Twin Peaks” narra la storia di Dale Cooper, un agente dell’FBI che giunge nella località di Twin Peaks per indagare sul misterioso omicidio di Laura Palmer, una popolare studentessa ritrovata morta e avvolta in un telo di plastica. Cooper comincia la sua particolare indagine integrandosi con i cordiali abitanti del luogo, apprezzando la quiete e la serenità che Twin Peaks trasmette. Tuttavia, l’alone di pace, schiettezza e semplicità che sembra aleggiare su tutta la cittadina non è che una patina ingannevole che riveste il paese e i suoi abitanti. Twin Peaks nasconde innaturali enigmi irrisolti, misteri impercorribili e ambiguità occulte mai venute a galla. A Twin Peaks nulla è come sembra, la forza soprannaturale alberga tra i meandri dell’oscurità come ombra invisibile che si muove tra i boschi al calare della notte. Cooper è un investigatore del tutto atipico, che antepone il suggerimento istintivo e la deduzione trascendentale alla dotta razionalità. Pertanto, egli possiede una mente incline a investigare la superficie del sovrannaturale, a scavare nel profondo per tentare di far risalire a galla i molteplici segreti del luogo. Sarà, infatti, proprio Cooper a scoprire alcune entità che dimorano a “Twin Peaks” come il Gigante o il nano con cui egli interloquirà nel mezzo delle proprie visioni oniriche.

Tutti i personaggi di “Twin Peaks” vantano una caratterizzazione propria che li rende inconfondibili tra loro. All’onesto sceriffo Truman si oppone il crudele uomo d’affari Benjamin Horne, all’ingenua e adorabile Lucy, segretaria dello sceriffo, si avvicina come in un duetto coordinato il bonaccione Andy, agente di polizia innamorato di lei. E così si prosegue, al violento Leo Johnson si oppone il ragazzo ribelle Bobby Briggs, figlio dell’integerrimo Generale Briggs, innamorato della cameriera Shelly, ragazza coraggiosa ma schiacciata dalle violenze del marito. Tra le personalità femminili più importanti Audrey Horne spicca come la più dolce e tenace, e ad essa è paragonabile, per quel che riguarda la presenza e lo spessore nella serie, il personaggio di Donna Hayward, la migliore amica della vittima Laura Palmer, che insieme al motociclista James Hurley indaga privatamente per scoprire l’assassino della sua giovane amica. Cooper, durante la serie, si avvarrà della collaborazione dell’agente Albert Rosenfield, esperto scienziato forense dal carattere apparentemente superficiale, cinico, straordinariamente sarcastico e ingestibile, e da Gordon Cole, interpretato dal creatore David Lynch, superiore di Cooper, affetto da sordità.

A questa prima parte di personaggi principali se ne susseguono molti altri, talvolta rappresentati goliardicamente. Due personaggi elusivi e dal temperamento eccentrico sono Nadine, dotata di una inspiegabile forza sovrumana, e la signora Ceppo, una donna anziana che regge a sé un ceppo di albero che è in grado di “comunicare” con lei. Una caratteristica di “Twin Peaks” è quella di far agire i propri personaggi in contesti e azioni grottesche che alimentano un approccio surreale e critico allo stile di vita di quei cittadini. Nessun personaggio è dipinto secondo i classici canoni dell’incorruttibilità o della cattiveria più efferata (eccetto l’antagonista), ma vengono descritti secondo le più variegate sfumature caratteriali che possono oscillare dalla bontà d’animo di alcuni all’immoralità di altri.

“Twin Peaks” è un’opera estremamente complessa, che fugge da qualsivoglia univoca e semplicistica interpretazione generale. Una serie che andrebbe analizzata episodio dopo episodio, scena dopo scena, poiché molto soggetta a interpretazioni continue che sfociano nel personale, nell’immaginato e nel simbolismo camuffato. La peculiarità più evidente di “Twin Peaks” è quella di riuscire a coniugare i canoni della detective story con quelli della soap-opera. Parallelamente all’indagine dell’agente Cooper, la serie si concentra sui molti abitanti del luogo, esplorandone le attività occultate e le bizzarre interazioni. Molte delle sequenze che coinvolgono gli stravaganti cittadini sono cadenzate da dialoghi inusuali, apparentemente incomprensibili, ai limiti del “no-sense”, e finiscono, alle volte, per suscitare ilarità. La commedia nera e tendenzialmente macabra è sfruttata pienamente nell’operato di Lynch. Alcuni bislacchi personaggi con i loro intrecci amorosi che hanno foce nell’alterco, nella gelosia, nella ripicca, assumono i contorni parodistici delle telenovele. Questo inaspettato lato comico della serie si intreccia in maniera spiazzante con un’atmosfera maggiormente cupa, orrifica e spaventosa. “Twin Peaks” riesce a generare riso o a terrorizzare nel giro di pochi secondi, al rapido scatto di un cambio di scena.

Gli scenari montani della serie emanano la brezza di un’aria pura e incontaminata, eppure, le scenografie opprimenti e le alte pareti di legno trasmettono un senso di ansia schiacciante, quasi invivibile. La città è permeata da un angosciante stato di allerta, di paura, poiché forze malvagie alitano su essa. Questo clima inquietante risulta essere inizialmente incompreso allo spettatore per via della simpatia del protagonista e di molti altri personaggi che minimizzano il lato pauroso della storia. E’ una duplice identità quella della serie, che mescola l’ironia surrealistica al terrore. “Twin Peaks” è strutturata secondo un perpetuo dualismo: due sono le cascate inquadrate durante la sigla che si congiungono in una, e due sono le anatre che nuotano sullo specchio d’acqua; la dualità si ripresenta, in particolar modo, durante la scoperta dell’entità demoniaca che infesta Twin Peaks, visibile anche nei riflessi degli specchi che rimarcano il tema della dualità: dell’immagine che si specchia e di quella che si riflette che, inquietantemente, non corrisponde alla prima. “Due” sono i mondi su cui si sviluppa la narrazione: il mondo “reale” e quello che Cooper scopre nascosto tra i boschi, palesandosi quasi in una sovrapposizione. Il mondo “trascendentale” pare esplorabile come se il personaggio s’immergesse tra le acque e il suo corpo si mantenesse per metà in superficie e per metà immerso, in un continuo contatto tra la realtà vera e quella parallela.

“Twin Peaks” fa dell’ambiguità la sua unica fonte d’espressione, e si distacca dalla chiarezza limpida della spiegazione. Il mistero primario, descritto da Lynch come l’albero della serie da cui poi si dipanano diversi rami che sorreggono gli enigmi secondari, è quello riguardante l’assassino di Laura Palmer. Un interrogativo che sarà destinato a trovare risposta nel nono episodio della seconda stagione. La sconvolgente rivelazione dell’assassino e la conseguente scoperta dell’entità malvagia che appesta Twin Peaks furono mostrate per imposizione dei produttori con il totale disappunto del creatore. Lynch considerava quel mistero come le solide radici dell’opera e rivelarlo così presto avrebbe portato ad uno sradicamento del tronco e a un crollo autoinflitto. Di fatto, Lynch perse l’interesse e abbandonò la sua creatura per non prendersene più cura sino agli ultimi due episodi. In conseguenza di ciò, la serie smarrì la rotta e naufragò, inabissandosi con sotto-trame alquanto inutili. Il finale della seconda stagione è girato come fosse il secondo atto di un dramma incompiuto. Il viaggio di Cooper trova compiutezza nella scoperta della Loggia Nera, l’entrata nella realtà parallela che ha dimora a Twin Peaks e viene rappresentata da un immenso telone rosso che si sovrappone in un’immagine estetica alla flora della foresta. In quel moto circolatorio, Cooper porta alla luce un incubo destinato a rimanere sopito per i successivi 25 anni.

Ed è a questo punto che vorrei collegarmi con quanto scritto inizialmente, quando abbiamo immaginato di percorrere insieme il nostro finto viaggio e di trovarci fianco a fianco a David Lynch, ad osservare quest’ultimo atto della storia. Con questa terza avventura, Lynch porge la mano al proprio pubblico e lo invoglia, come dicevo, a valicare i confini della camera e ad avventurarsi nel sogno fatiscente di “Twin Peaks” per combattere l’incubo che lo avviluppa. La terza stagione consta di un totale di 18 episodi, ed è una sorta di lungo film scomposto.

In questa terza e probabilmente (il “forse” è sempre d’obbligo) ultima stagione, Lynch dà sfoggio di tutto il suo repertorio creativo. “Twin Peaks – Il ritorno” è un’opera nata per dare risposta ai quesiti del passato, sventando però i pericoli di una risoluzione netta e cristallina. Ad ogni possibile risposta, la nuova serie rilascia una serie di successivi interrogativi che ne aumentano il mito. La terza stagione di “Twin peaks” è volutamente confusa, estraniante, segue una narrazione ingarbugliata, nettamente più articolata e complessa delle precedenti. Lo spettatore non può che immergersi nella realtà immaginifica e guardarla seduto comodamente in poltrona, come fosse accanto a Lynch, senza però potergli chiedere alcuna delucidazione in merito. Non è possibile spiegare Lynch, si può solo tentare di capirlo, lo si può ammirare, ma non lo si può né descrivere né raccontare.

“Twin Peaks – Il ritorno” è arte sequenziale che scorre via con una maestosa cura dell’immagine, trattata come fosse tela i cui colori si depositano su essa come per imbrattarla in modo caotico ma prestabilito dall’artista.  Le scene più intense, misteriose, scorrono per essere mirate dallo spettatore e contemplate non necessariamente per essere comprese. Le sequenze di quest’ultimo viaggio evidenziano quanto la serie sia un qualcosa di mai visto sul piccolo schermo e certifichi un’espressione meta-televisiva intellegibile. E’ un linguaggio di suoni e immagini che nella parte numero 8 trae la propria esaltazione massima con sequenze che si muovono in modo psichedelico, luci, suoni, scenografie e recitazione che agiscono armonicamente in un simbolismo che evita qualunque spiegazione unilaterale, unanime.  “Twin Peaks” è come fumo protetto da un fuochista, emesso da un grosso bricco, o forse una caldaia, che assume forme allegoriche rimaste sospese per aria, ammassi gassosi leggibili ma inafferrabili, pronti a svanire al semplice tocco.

Questa terza stagione è plasmata dall’estro geniale, incomparabile di Lynch, che avrebbe potuto cullarsi sulla riproposizione, ma che invece non lo ha fatto; egli ha creato una nuova storia che si riallacciasse in qualche modo alla precedente e offrisse nuove e indecifrabili chiavi di lettura. Se il modo di raccontare tale storia potrà sembrare altamente disorientante, sarà il rammentare quanto l’arte di Lynch sia da vedere più che da analizzare a riportarci sulla strada principale della visione. “Twin Peaks” è poesia ermetica che lascia ai lettori l’incertezza di ciò che stanno vivendo, garantendo loro la sola possibilità di ripetere l’ultima parola che hanno letto o udito per tentare di capirla, similmente a quanto fa Dougie Jones nel suo discutere quotidiano.

Tecnicamente sopraffina, la terza stagione è un labirinto criptico custodito da un oracolo che però non proferisce risposte a tutti gli enigmi che riposano scolpiti tra i cunicoli di questa costruzione. “Il ritorno” si differenzia dal passato poiché Twin Peaks non è più neppure l’unico luogo in cui agiscono tutti i personaggi, anzi, in questa terza stagione la cittadina è quasi meta di un ben più largo viaggio che il protagonista dovrà adempiere. E’ per l’appunto l’odissea del vero Dale Cooper, incarnatosi nel simpatico e di poche parole Dougie Jones. Il tema della dualità ritorna in auge con la presenza dei “doppioni”, dell’entità malvagia che si manifesta con l’aspetto distorto del protagonista. Tuttavia, il lavoro di Lynch non è del tutto esente da pecche. Come accaduto nelle serie precedenti, le molteplici sotto-trame che riguardano i personaggi secondari appaiono poco interessanti, noiose, evitabili e senza riscontri finali.

Ma quest’ultima tappa ha un obiettivo più grande al suo interno per ciò che concerne il protagonista assoluto: quello che Cooper si è prefissato inavvertitamente agli albori della sua missione. Cooper, una volta “svegliatosi” dal torpore, attraversa questa dimensione in cui anela al salvataggio di Laura, la quale dipartita diede inizio a tutto. Come in un moto rotatorio e infinito, percorribile sui lineamenti del numero “8”, Cooper alla fine riabbraccia il principio. Lynch si innamorò artisticamente della sua Laura e con Cooper provò a salvarla un’ultima volta. La mano che Dale porge alla giovane con la quale attraversa la boscaglia nel tentativo di salvarla è l’atto conclusivo della parte 17, e che poteva essere il finale tanto agognato da ogni fan. Non da Lynch che rovescia quanto realizzato all’ultimo capoverso del proprio copione, incastonando le sue creature nell’ineluttabilità del mistero e del tempo ignoto. Quando finiremo di vedere il diciottesimo episodio, la domanda che dovremo porci non sarà “in che anno siamo?” Ma ancora una volta: “cos’è Twin Peaks?”.

Abbandonate quel posto a sedere, fuoriuscite dal sogno e lasciatevi alle spalle la cittadina. Il viaggio è cessato. Tornate alla realtà e cercate di darvi una risposta. “Twin Peaks” è un concetto, un’essenza, un’arte geniale inspiegabile ma apprezzabile che appartiene all’artista e non al popolo. E’ tutto ciò che non esiste nella vita vera, ma si accresce nella fertilità della creazione artistica, poiché ciò che ha mostrato può avvenire soltanto in quel luogo: può accadere solo a…Twin Peaks.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Jigen disegnato da Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Alcuni ladri apprendono l'antica "arte" del rubare sin da fanciulli. Essi perfezionano questo particolare talento, lo coltivano e tendono sempre più a migliorarsi. Eppure, costoro non potranno mai eguagliare chi, il "dono" del rubare, lo ha intriso nel suo stesso sangue. Perchè, dopotutto, rubare non è che un talento naturale!

Essere un genio del furto rappresenta una qualità ereditaria, un talento tramandato di generazione in generazione. D’altronde, com’è che si dice? Tale padre tale figlio, giusto?! Ecco, in questo caso, si potrebbe anche aggiungere: "Tale nonno, tale nipote!".Arsenio Lupin ed il nipote, Lupin III, ebbero molto in comune. Non soltanto la passione per le belle donne, la furbizia, la spiccata arguzia, ma soprattutto l'estro del rubare!

Nascere ladri ed esserlo per sempre è insito nel sangue dei Lupin, e scorre nelle loro vene. Nessun addestramento, nessuna preparazione, rubare per i Lupin è sempre stato un gesto ovvio, scontato, istintivo ed innato. Un'inclinazione spontenea.

Ispirandosi alla figura del ladro gentiluomo, Arsenio Lupin, nato dalla penna dello scrittore francese Maurice Leblanc, il mangaka Monkey Punch creò il personaggio di Arsenio Lupin III, nipote e degno erede del più grande ladro del mondo. Sin dalla prima bozza in cui il personaggio vide la luce, Punch fece dell’atto del rubare un’attitudine innata, appresa da un legame di discendenza.

Punch, così come fece Leblanc, non trattò il furto nel senso bieco e deplorevole del termine, donò a Lupin la caratura dell’eroe, seppur eroe truffaldino. Dopotutto, un Lupin, qualunque Lupin esso sia, assurge doverosamente ad icona popolare del ladro gentiluomo. Un ladro gentiluomo è un furfante elegante nel vestire, dai modi cordiali, dal temperamento cortese e amabile, che usufruisce delle proprie abilità soltanto per rubare a chi possiede di più. Non che questo dettame ideologico giustifichi il gesto criminale del ladro gentiluomo. “Sembra giusto, però non si fa…”, recitava la meravigliosa sigla ritmata dal suono di una fisarmonica di “Lupin III”. Tuttavia, tale caratteristica del ladro gentiluomo, quella d’esser fraudolento soltanto nei confronti di quei ricchi arricchitisi sulle spalle dei poveri, rende la sagoma del delinquente una figura affascinante, che impone ai propri lettori/spettatori la visione della storia dal punto di vista del criminale dal carattere bonario, invece che dal classico detective dall’indole incorruttibile. Il ladro gentiluomo, classicamente parlando, si erge al di sopra della legge per se stesso e per dar voce, con atti estremi e vendicativi, a chi non viene mai ascoltato. Ma a chi dà voce Lupin?

“Lupin III” vide la luce nel 1967. Conobbe un notevole successo in tutto il mondo per via di un taglio narrativo ironico e avventuroso. "Lupin III" non era una lettura destinata ai più giovani, era, invece, rivolta a un pubblico di ragazzi maturi e uomini adulti che apprezzavano le frequenti tavole erotiche che coinvolgevano il protagonista e la splendida amante Fujiko Mine, spesso rappresentata completamente senza veli. "Lupin III" divenne, con estrema rapidità, un fenomeno di massa. Lo stile diretto, talvolta caricaturale e grezzo del disegno, e l’aspetto sbruffone e sbarazzino del personaggio principale resero “Lupin IIII” un manga, per certi versi, rivoluzionario.

“Lupin III” raggiunse una fama planetaria a partire dagli anni settanta quando venne trasposto per la prima volta in televisione come anime. La prima stagione portò in scena il personaggio con indosso una giacca verde, dalla seconda serie, Lupin vestì la sua inimitabile giacca rossa, ad oggi la più conosciuta del personaggio. Per i successivi quarant’anni, Lupin III conquisterà lo status di icona della cultura popolare e vivrà centinaia di avventure tra episodi, OAV e film anime ad esso dedicati.

La caratteristica delle avventure di “Lupin III” è quella di non avere propriamente una storia di base. “Lupin III”, in special modo negli anime, non ha una trama articolata e scomposta in più sezioni, ogni avventura fa storia a sé. Trattiamo, infatti, di un anime, oserei dire, antropocentrico, che pone i propri personaggi al centro della scena anteponendoli ad una trama continuativa. Sono i cinque personaggi principali i veri fautori del successo. Con Lupin non ci si appassiona alla storyline di ogni singola avventura, ci si invaghisce, invece, del fascino di ogni singolo personaggio. I protagonisti di “Lupin III” sono caratterizzati da uno stile proprio, univoco e riconoscibilissimo. Tutti loro sono disegnati secondo canoni estetici ben precisi: sono siluette snelle, alte, quasi filiformi, e indossano sempre gli stessi abiti. Al loro aspetto si abbina un carattere chiaro e distintivo.

Arsenio Lupin III ha un viso stralunato, un sorriso sbruffone che prelude ad una mente geniale. Lupin ha dei modi di fare spesso infantili e votati al divertimento senza remora. Egli è per metà francese e per metà giapponese ed è universalmente conosciuto per essere il più grande ladro del mondo nonchè il criminale inafferrabile per antonomasia. La sua proverbiale scaltrezza lo rende inacciufabile e gli permette di intuire le mosse del proprio avversario. Lupin è incorregibile e, per l'appunto, sfuggente.

Le belle donne sono il tallone d’Achille di Lupin, soltanto loro riescono a fargli abbassare la guardia. Egli è perdutamente innamorato della ladra Fujiko Mine, tanto da farsi volutamente raggirare dai suoi modi loschi e ingannatori. Lupin è un eccellente tiratore, e maneggia sempre una Walther P38, anche se le sue abilità non possono essere paragonate a quelle di Jigen.

Daisuke Jigen è d’origine nipponico-statunitense, ed è il miglior amico di Lupin, i due, infatti, si spalleggiano da sempre. Jigen veste sempre con giacca, cravatta e pantaloni neri, e indossa un cappello del medesimo colore dal quale è inseparabile. Jigen ha i capelli neri e lunghi, porta la barba incolta sul mento e sulle guance e cela spesso il suo volto mantenendo lo stesso abbassato e coperto dalla punta della visiera del cappello. Jigen è un accanito fumatore, e lo si vede sempre tenere un mozzicone di sigaretta tra le labbra. Egli è un cecchino infallibile, dotato di una maestria ineguagliabile nell’uso di qualunque arma da fuoco, anche se predilige adoperare sempre la sua rivoltella Smith e Wesson M19 Combat. Jigen, essendo sospettoso e introverso di natura, fatica a intraprendere relazioni con donne che non conosce, anche se ha sempre dimostrato di essere attratto da molte figure femminili che ha incontrato durante le sue innumerevoli avventure.

Il trio di base è chiuso da Ishikawa Goemon, samurai taciturno e meditativo. Goemon ha i capelli lunghi e scuri, ed è di religione shintoista. Goemon non accompagna Lupin e Jigen in tutte le loro missioni ma predilige spalleggiarli saltuariamente. Schivo e austero, questo samurai maneggia con impareggiabile destrezza una katana (dalla quale non può separarsi), e con essa è in grado di tagliare di netto qualunque cosa voglia. Goemon è uno schermidore imbattibile su campo neutro. Seppur professi l’attività di ladro, ha un proprio codice etico inviolabile.

Ai tre amici si unisce Fujiko Mine, amante di Lupin. Fujiko, nota in Italia anche come Margot, è tanto bella da togliere il fiato. Porta i lunghi capelli color rame sempre sciolti, ha gli occhi neri, le labbra carnose e la pelle bianchissima. Fujiko è alquanto formosa, ha un seno enormemente prosperoso e veste sempre in modo succinto, il che la rende piacevolmente provocante. Fujiko incarna la tentazione femminile più estrema, essendo lei ingannatrice ed egoista.

Concepita come l’archetipo della donna dal fisico perfetto e statuario, Fujiko amalgama l’audacia del corpo all’astuzia della mente. E’ una persona indipendente, forte, che piega gli uomini al proprio volere. Fujiko rimane una delle donne più attraenti che siano mai nate dall’immaginazione letteraria e fumettistica, personificazione di una bellezza mozzafiato e di un’arguzia pericolosa e criminale, tanto da poter essere considerata una femme fatale di raro splendore.

Fujiko sa di essere amata da Lupin, e sfrutta il sentimento sincero provato dal ladro per proprio tornaconto. Il suo rapporto con il protagonista è, tuttavia, particolare. Sebbene lo raggiri continuamente, Fujiko dimostra più di una volta di ricambiare i sentimenti dell’uomo, d’esserne gelosa e protettiva.

Giungiamo, infine, all’antagonista di Lupin, l’irriducibile e infaticabile Zenigata, Ispettore dell’Interpool, posto a capo della cattura del ladro gentiluomo. Zenigata è a tutti gli effetti l’avversario per antonomasia di Lupin, e dovrebbe assurgere a ruolo di nemesi del protagonista. Zenigata è, invero, un antagonista del tutto particolare: è un personaggio positivo, d’animo buono e altruista. Egli appare goffo, a tratti imbranato, e sebbene possa sembrare imprudente, avventato e sciocco, è in verità molto acuto.

Zenigata veste sempre con un impermeabile color beige a cui abbina un cappello d’ugual colore. Anch’egli è un fumatore. L’ispettore è, senza alcun dubbio, la personalità più complessa del manga e dell’anime. Nonostante sembri un personaggio comico, Zenigata cela una profondità caratteriale e psicologica di grande fascino.

Egli è riconosciuto come un grande ispettore, perché riesce ad arrestare tutti i criminali a cui dà la caccia; tutti meno che Lupin. Quest’insoddisfazione dovuta alla mancata cattura del ladro costituisce un’ossessione per Zenigata. L'inarrestabile ispettore convoglia in sé una duplice ricezione interpretativa da parte dei lettori e degli spettatori. Duplice nonché contraddittoria: ironia e tragicità.

Zenigata è una persona testarda, che non contempla la resa. Egli risulta essere quasi implacabile nei suoi estenuanti inseguimenti per arrestare il ladro gentiluomo. Zenigata non si arrende mai, poiché è mosso da un inalterabile volere. Il personaggio offre, così, una rilettura caratteriale di stampo comico per via degli esiti esilaranti dei suoi inseguimenti, che spesso lo vedono protagonista di malconce cadute rovinose al suolo.

Ma Zenigata è, altresì, un uomo solo, costretto a restare lontano dalla famiglia e dalla sua unica figlia. Egli è dedito solo al lavoro in cui ripone piena fiducia e speranza. Zenigata è schiacciato dal peso di una missione che non può adempiere, e la devozione al proprio mestiere lo porta a girovagare il mondo senza meta e senza una casa. Zenigata vaga da un luogo ad un altro per tentare di realizzare un disperato e vano tentativo. Una condizione tragica d’esistenza.

Il suo rapporto con Lupin non è soltanto intrigante ma unico. Egli desidera catturare il ladro ma se ci riuscisse verrebbe meno la motivazione della sua intera esistenza. In alcune occasioni, quando Zenigata credeva di aver finalmente messo dietro le sbarre Lupin, è caduto vittima di un’acuta depressione poiché non aveva più alcun interesse da soddisfare. Il moto della sua vita anela a un finale da non dover mai raggiungere e la sua ricerca costante mira a un raggiungimento nullo e infruttuoso. Zenigata è un corridore, un maratoneta vigoroso e tenace a cui, in realtà, non interessa raggiungere il traguardo, poiché ama soltanto la corsa.

L'ispettore vuol inseguire il suo acerrimo nemico per sempre, fin quando entrambi non saranno esausti. Solamente quel giorno, entrambi potranno decidere chi dei due è riuscito davvero a prevalere. Vincerà la furbizia o la caparbietà? L’incorreggibilità o la resistenza che Lupin e Zenigata, rispettivamente, incarnano?

Zenigata considera Lupin il suo unico amico, e lo stesso Lupin, che chiama l’Ispettore affettuosamente “Zazà” o “Papà Zenigata”, sa che se un giorno dovesse accettare di scontare i propri crimini si farebbe arrestare soltanto da Zenigata. Entrambi hanno più volte dimostrato di essere leali l’un l’altro in situazioni di pericolo. Vige una sorta di sottintesa, astratta e fraterna amicizia tra i due “nemici”.

"Lupin III" crea, coi suoi personaggi, un empatico rapporto d’ammirazione, stima e apprezzamento nei confronti dei propri spettatori. A chi presta voce, dunque, il ladro gentiluomo, secondo discendente del primo Arsenio Lupin? 

A tutti coloro che, con caratteri diversi, possono immedesimarsi nei rispettivi personaggi che più amano. Dà voce agli inguaribili romantici come Lupin, alle anime laconiche e misteriose come Jigen, alle personalità flemmatiche e riflessive come Goemon, alle donne seducenti e sinistre che ottenebrano spiriti animosi e di sensibile dolcezza ed, infine, dà parola a tutti coloro che seguono un sogno destinato a rendere la propria vita simile ad un’interminabile avventura, come Zenigata.

Lupin III dà voce alla gente, al popolo, a tutti coloro che ne fanno parte.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Il lungometraggio di Stanley Kubrick si rifà a un racconto di Arthur C. Clarke, intitolato “The Sentinel”, scritto nel 1948 per un concorso radiofonico indetto dalla BBC, che lo scartò, e poi pubblicato nel primo e unico numero della rivista “10 Story fantasy”. Nel 1964 Kubrick chiese a Clarke se avesse sottomano un’idea per un buon film di fantascienza, e verso la fine del 1965 cominciarono le riprese, che si conclusero tre anni dopo.

Il racconto di Clarke tratta del ritrovamento sulla Luna di una costruzione piramidale che emette dei segnali verso lo spazio. La strana costruzione altro non è che una specie di “sentinella” messa lì milioni di anni addietro da una razza intelligente, allo scopo di monitorare l’evoluzione della Terra, intorno alla quale ruota la Luna.

L’odissea nello spazio è l’esplorazione subcosciente di una navigazione adempiuta senza lo spostamento fisico, ma con il trasporto mentale che travalica la rotta dell’infinito. “2001: Odissea nello spazio” presagisce il compimento di un’estenuante traversata, il cui itinerario prevede la navigazione su di un oceano di stelle, le cui sponde salmastre tendono ad elevarsi come onde che bagnano le rive dell’immensità smisurata del cosmo. Un pellegrinaggio universale ma soggettivo, che riguarda ognuno di noi, gli spettatori, e la comprensione intima di ciò che il singolo imparerà al raggiungimento dell’ultima tappa, in un viaggio imprevedibile, la cui importanza è insita tanto nel percorso che nella meta. Il tutto, però, non può che essere un’evoluzione immaginaria, vissuta con la potenza di un racconto visivo che avviene sotto i nostri occhi. Come fossimo seduti soli in una platea vuota, silenziosa, ravvivata dalle prime note di un’orchestra sita a pochi passi dal palcoscenico, tutti noi intraprendiamo questo viaggio senza fine tra il tempo e lo spazio nel laconico luogo circoscritto della sala, nel momento in cui le melodie sospingono il nostro spirito a librare in aria. “2001: Odissea nello spazio” è un viaggio intimo, introspettivo, compassato secondo una struttura ponderata per far mirare, con la lentezza della riflessione e della contemplazione, la consistenza meravigliosa di un significato filosofico ed esistenziale. Il film si presta a molte interpretazioni e reca in sé diverse chiavi di lettura, rimanendo sempre uno dei più complessi e complicati lungometraggi da vedere e da capire.

Con il termine Odissea s’intente il verificarsi di un viaggio circolare che si svolge tanto nello spazio siderale quanto all’interno del personaggio principale, concludendosi con un ritorno al punto di partenza, una fine che riabbraccia il principio, un tramonto che si ricongiunge all’alba. La pellicola ha una durata di 145 minuti ed è per gran parte muta; la prima parola viene pronunciata a 25 minuti dall’inizio. “2001: Odissea nello spazio” è plasmato dall’arte dei gesti e dei silenzi, è un racconto sequenziale visivamente trascendentale, un’esaltazione massima del connubio “musica e immagine”, paradigma di base del linguaggio cinematografico. La colonna sonora è composta da quattro brani di musica classica di differenti autori: Richard Strauss, Johann Strauss, Gyorgy Ligeti e Aram Khatchaturian.

E’ Kubrick stesso a indicarci con i sottotitoli la suddivisione della trama in quattro macro-sequenze. Nel buio della proiezione, quando lo schermo permane in uno stato visivo del tutto ottenebrato, iniziano ad echeggiare le note di Richard Strauss, fin quando in dissolvenza, compare l’universo, e poi viene inquadrata la Luna; la camera si alza e lascia intravedere parte della Terra illuminata e ancora dietro il Sole che sta sorgendo. I tre astri sono perfettamente allineati, quando la musica giunge al proprio culmine ritmico e, finalmente, sullo schermo compare il titolo. La prima macro-sequenza si intitola: “L’alba dell’uomo”. E proprio su una magnifica alba, in un paesaggio arido e desolato, si alza completamente il sipario. Tra resti di carcasse divenute ossa alcune scimmie lottano vicino a una pozza d’acqua fangosa. Ma ecco che una mattina scorgono al centro della pozza uno strano monolito di colore nero che guarda verso il cielo. I primati circondano il Monolito e lo sfiorano con gli arti, come fossero catturati dallo stupore di un oggetto ad essi sconosciuto. Si svolge adesso un’altra ellissi temporale in cui alcuni uomini-scimmia rischiano di morire di sete e di fame, non potendo far altro che cibarsi degli avanzi degli altri predatori, finché un giorno uno di essi afferra un osso e comincia a rotearlo. E’ quello l’inizio di un lungo processo di “ominazione”.

Segue un’altra ellissi temporale in cui le scimmie ominidi, assumendo sempre più una postura eretta, hanno adesso ben compreso come usare gli ossi per cacciare e procurarsi il cibo. L’ultima ellissi scandisce il passaggio di alcuni milioni di anni: un osso scagliato in aria si trasforma come per magia in un’astronave che fluttua nel cielo plumbeo cosparso di stelle. E’ un balzo di milioni di anni, un’evoluzione avvenuta con la rapidità di un battito di ciglia ma dal valore intrinseco e storiografico di milioni di anni.

I satelliti artificiali si muovono nello spazio, quasi stessero danzando sulle note del valzer “Bel Danubio Blu” di Johann Strauss. Si scorge poi un’immensa stazione spaziale a forma di doppia ruota in movimento. Sull’astronave si sta svolgendo un incontro tra scienziati russi e americani. Essi discutono in merito a ciò che di inspiegabile sta accadendo su di una base lunare. Raggiunta la superficie lunare, compare di nuovo il monolito, e da esso si dipana un campo di forze, che crea una potentissima emissione radio puntata sul pianeta Giove.  Questa missione ci proietta a diciotto mesi più avanti nel tempo.

L’equipaggio della nave spaziale Discovery è composto da cinque uomini, di cui tre sono ibernati, e da un sesto elemento non umano. Si tratta dell’elaboratore avveniristico HAL 9000, in grado di svolgere tutte le funzioni del cervello umano. HAL è un super-computer di bordo, ed ha il compito di svelare il mistero del Monolito sulla Luna, e di capire le origini della vita. Durante la missione nulla andrà come previsto, HAL si ribellerà agli uomini, uccidendo tutti i membri dell’equipaggio eccetto David, che riuscirà a disattivare l’intelligenza artificiale. Il viaggio dell’astronauta continua così verso l’infinito.

Avvicinandosi sempre più al pianeta Giove, David si imbatte a sorpresa nel Monolito nero sospeso tra le stelle. Da quel momento cade in trance ed entra in una dimensione spazio-temporale, vivendo dei momenti unici ed entusiasmanti tra cui si ritrova dapprima più anziano, in vestaglia da camera, e poi vecchissimo sul letto di morte. Si rivede di nuovo il Monolito, mentre sul letto non compare più lui, ma una specie di bozzolo dalla membrana luminosa, all’interno del quale vi è un feto, rappresentato dal “bambino delle stelle” che si muove nello spazio. Scorrono i titoli di coda e lo schermo diventa nero. Resta cosi per ben cinque minuti, mentre si odono le note del valzer di Johann Strauss.

Kubrick ha sempre evitato di dispensare interpretazioni al proprio film, forse perché non voleva proporci una fiaba conclusa, ma una storia che rimane sospesa, che lascia adito a cento, mille interrogativi. E, infatti, i temi che si possono riscontrare nel film sono molteplici. Per Stanley Kubrick, la sua opera doveva essere intesa come un’esperienza visiva in grado di penetrare, con la forza subitanea di un’emozione, la mente e il cuore di ogni singolo spettatore, e depositarsi nell’inconscio, suscitando conseguentemente un’interpretazione soggettiva.

Il rimando all’eroe omerico non si ritrova soltanto nel titolo. Il calcolatore HAL può essere paragonato a una sorta di moderno ciclope, anch’esso ucciso dall’astuzia di un uomo che lo priva del suo unico occhio. Il tema dell’occhio che scruta, così come ricorre in tutti i film di Kubrick, non poteva certo mancare in questo suo massimo capolavoro. C’è l’occhio dell’elaboratore, l’occhio spalancato dell’astronauta, gli occhi del bambino avvolto dalla membrana fetale.

Il nome del comandante, Bowman, in inglese si traduce “arciere” e può rammentarci, in qualche modo, che Ulisse ha una grande abilità con arco e frecce, tanto che è proprio con essi che scaccerà gli usurpatori dal suo palazzo a Itaca. Ma i rimandi più evidenti sono da cogliere in tutta la storia e nella sua simbologia. L’argomento del ritorno è sempre vivo nella vicenda e, assieme a esso, quello inerente la ricerca della conoscenzaIl lungometraggio, infatti, rifà il percorso dell’uomo dalla sua nascita (appunto l’alba) fino alla sua ultima evoluzione. Però il suo viaggio verso lo spazio astrale, come per l’eroe greco la discesa nel regno dei morti, che rappresenta il limite della sua bramosia di scoperta, è anche un viaggio tanto alla ricerca del suo destino, quanto alla conoscenza delle proprie radici. L’Odissea quindi si conclude così come era cominciata, e cioè con l’inizio di una nuova alba, in cui si vede il “bambino delle stelle” che rinasce nel preciso istante in cui termina la sua esistenza.

La questione della nascita è un altro dei temi importanti e prevale su quello della morte. Assistiamo alla morte di David, degli astronauti e pure a quella del calcolatore. Ma è come se nella fine si avvertisse la vita, di nuovo. Poi c’è il tema della violenza, intesa come caratteristica insita nell’uomo, in quanto incline a uccidere e a sottomettere per avere la meglio. Prova ne è l’osso che si tramuta in arma, e poi in satellite con la fisionomia di un’arma nucleare.

Il tema del progresso è trattato con estrema oculatezza. Si noti come l’elaboratore che pur essendo una macchina infallibile alla fine commette anch’esso un errore fatale. Si ribella quindi al suo creatore e vuole sopraffarlo definitivamente. Ma l’uomo grazie al grande coraggio, all’estro e alla furbizia riesce comunque a metterlo in condizioni di non nuocere, assoggettandolo nuovamente al suo volere. Nei drammatici frangenti in cui HAL perde progressiva coscienza di sé, e la sua intelligenza artificiale svanisce nell’oblio, egli lentamente torna ad uno stato primordiale d’intelligenza, ad un principio ripresentatosi nel momento del trapasso. Preludio all’esperienza esistenziale che vivrà, di lì a poco, il protagonista.

David sopraggiunge in una stanza arredata in stile Impero, d’epoca settecentesca, e in un eloquente silenzio invecchia, assoggettandosi a un espediente scenico che tratta il tempo come se perpetrasse il proprio potere e si “muovesse” con estrema velocità di narrazione, per presagire un successivo stadio evolutivo. La stanza in cui muore l’astronauta, forse vuole omaggiare un secolo “luminoso e illuminato”, in cui l’uomo si mise a guardare il mondo con uno sguardo diverso, e il progresso con occhi nuovi e più portati all’innovazione. Un profondo senso religioso percorre il film dall’inizio alla fine. Il Monolito, a cui sono state attribuite le più svariate interpretazioni, forse raffigurerebbe un riferimento a Dio. Di certo è qualcosa che ha innescato la scintilla della facoltà dello spirito d’intendere, ragionare e giudicare, consentendo così l’evoluzione della razza umana, tanto desiderosa d’ampliare la propria conoscenza.

Definire “2001: Odissea nello spazio” solamente come un film di fantascienza è decisamente errato e oltremodo riduttivo. E’ invece un film completo, in quanto, non a caso, in esso ritroviamo dei rimandi alla storia, alla filosofia, ai miti e alla morale; insomma un fermo e imperituro punto di riferimento nella storia del cinema mondiale.

Essa è un’opera che assolve al proprio volere non prima di aver fatto breccia tra la duplice dimensione del tempo e dello spazio, della vita e dell’esistenza evolutiva. L’odissea dell’Ulisse che è in noi trova l’attracco ad un porto sicuro alla prima esecuzione della partitura dell’ultima aria della colonna sonora. Poco prima che il sipario si chiuda, il nostro spirito, trasportato via in precedenza dall'ebrezza della visione, torna a toccare terra, per accomiatarsi dall’oceano stellare, scenario della navigazione, e per scrutare un’ultima volta la dissolvenza di uno schermo che si spegne con il calar del buio.

Voto: 9/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters   

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