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"Le sorelle Sanderson" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

La storia che presto andremo a riscoprire insieme è scritta su di un vecchio libro impolverato. Almeno, è ciò che mi è sempre piaciuto immaginare.

Accanto al leggio su cui riposa il suddetto tomo, formule magiche, trascritte su vecchie carte con una penna a piuma di uccello, giacciono sparse caoticamente su di un tavolo. Poco distante, un calderone ricolmo di brodaglie tra il rosso e il violaceo viene riscaldato dal fuoco acceso. Sempre lì attorno, pozioni varie contenute in boccette di vetro sono raccolte su di una traballante mensola di legno. Che luogo angusto, spaventoso, che è questo. Dove siamo?

La risposta è presto data: ci troviamo all'interno della lugubre dimora di tre streghe cattive.

Il libro citato poc'anzi ha l’aspetto consunto. Sulla sua copertina di pelle è possibile scorgere un piccolo incavo circolare, scavato sul lato destro, in profondità, sino a formare una lieve incrinatura verso l’interno. Si tratta di uno spiraglio da cui si diparte una palpebra: l’occhio del libro. È il volume di "Hocus Pocus", il testo che contiene i capitoli di questa indimenticabile storia.

È un libro di stregoneria questo, un tomo protetto dalla magia nera che lo rende inviolabile, indistruttibile. Esso scruta il mondo con l’occhio ciclopico di un’entità in grado di osservare e comprendere ciò che si staglia dinanzi.

Se noi tutti iniziassimo a scorrere quelle pagine noteremmo, di primo acchito, che, una volta aperto, il volume mostrerà le sequenze introduttive di un film, nelle quali l’ombra di una strega che vola a cavallo della sua scopa viene riflessa nello specchio d’acqua di un fiume che bagna le sponde del villaggio di Salem.

Tutto ha inizio laggiù, in un tempo ormai andato.

È il 31 ottobre del 1693. È un giorno accorato per Thackery Binx (Sean Murray), il suo corpo è trafelato e il suo spirito inquieto. Un brutto presentimento lo sprona a riaprire gli occhi dopo un sonno agitato. La sua sorellina Emily è stata attratta da un canto ammaliante verso la casa delle sorelle Sanderson, dimora che sorge su di un terreno sconsacrato, tra i meandri di un fitto bosco.

Thackery si è risvegliato quando ormai la sua Emily ha imboccato un viale tetro e fatale.

"Sono loro..." - Sussurra un amico di Thackery, udendo il canto che echeggia dalla folta boscaglia.

"È troppo tardi, ormai è perduta!" - Prosegue, sconsolato.

Thackery non ne vuol sapere di darsi per vinto. "Chiama mio padre, raduna gli anziani, corri!" - Urla il ragazzo.

Poco dopo si addentra fra la vegetazione, intenzionato a raggiungere la casa delle streghe. Sebbene corra più veloce del vento, il giovane non riuscirà ad impedire alle tre fattucchiere di uccidere la piccina. Le tre sorelle succhiano la giovinezza della bambina, prosciugandole le forze vitali. Tornate giovani e belle, le "arpie" vengono sorprese e attaccate dal giovane Binx. A quel punto, le truci fattucchiere puniscono il ragazzo, reo di averle sfidate, trasformandolo in un gatto nero.

La gente del villaggio accorre troppo tardi nel disperato tentativo di fermare le streghe. Una volta catturate, Sarah, Mary e Winifred Sanderson verranno condannate all’impiccagione. Prima di morire, la maggiore di loro pronuncerà un tristo maleficio:

“Tre volte mi purifico col mercurio e sputo sopra le dodici tavole. Sciocchi, tutti quanti! È il mio scellerato libro che vi parla! Alla vigilia di Ognissanti, quando la Luna sarà un cerchio nel cielo, una creatura vergine ci riporterà su questa terra! Torneremo qua giù e le vite di tutti i vostri figli saranno mie!”

Le streghe verranno comunque giustiziate e del destino di Thackery nessuno saprà più nulla.

Comincia in tal modo "Hocus Pocus", un cult del cinema fantastico per ragazzi.

“Hocus Pocus” , sin dalla scena iniziale, si presenta come un risveglio improvviso, avvenuto nel cuore della notte, o alle prime luci di un nuovo mattino, a causa di un sogno concitato, di un incubo dai toni paurosi ma, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, gradevoli. L'intero lungometraggio potrebbe essere comparato ad una “sveglia” repentina che catapulta gli spettatori tra i passi fiabeschi di un racconto di megere, in una magica commedia horror destinata ad appassionare con delizia, garbo, ironia e intelligenza.

Trascorrono trecento anni da quella triste notte. Max, sua sorella Dani e la bella Allison decidono di recarsi nella casa delle tre sorelle durante la notte di Halloween. La casa appare adibita a museo, come fosse un reliquario espositivo in grado di raccogliere e rievocare le sinistre dicerie, divenute leggende, sull’identità di chi, fra quelle mura, vi abitava. Un gatto nero, che altri non sarà che Thackery Binx, sorveglia da tre secoli l’oscura dimora per impedire che il maleficio che prevede il ritorno delle streghe possa avverarsi. Purtroppo Tackhery non potrà far nulla per opporsi a un destino predetto con fermezza, e quando Max accenderà un cero che innescherà la candela dalla fiamma nera, le tre sorelle torneranno in vita. Winifred, Sarah e Mary avranno soltanto una notte per mettere in atto i loro oscuri propositi: nutrirsi delle anime di quanti più bambini potranno per raggiungere l’immortalità e l’eterna giovinezza. Max, Dani ed Allison, con il supporto di Thackery, dovranno così trovare il modo di fermare le streghe.

“Hocus Pocus” venne prodotto dalla Walt Disney nel 1993 e si avvalse di un eccellente cast: la grande e briosa attrice e cantante Bette Midler vestì i panni di Winifred, la sorella maggiore nonché “mente” del trio di streghe. Winifred era caratterizzata da una dentatura estremamente accentuata, con due ingombranti incisivi superiori che quasi le fuoriuscivano dalla bocca. Winifred aveva, altresì, unghie molto lunghe e affilate che le conferivano un “demoniaco” impatto visivo quando ella faceva sovente uso delle mani, allargandole e portandole all’altezza del viso per esaltare i lugubri gesti di un incantesimo.

Kathy Najimy assunse i panni della corpulenta Mary mentre Sarah Jessica Parker quelli della svampita e procace Sarah, la più giovane delle tre. Max, Dani e Allison erano interpretati rispettivamente da Omri Katz, Thora Birch e Vinessa Shaw.

“Hocus Pocus” è una bellissima commedia per famiglie che trae ispirazione dalle più classiche atmosfere fiabesche convertendole in un’appassionante teen-movie dell’orrore. Si tratta di un lungometraggio figlio degli anni ’90, dai toni paragonabili ai “Piccoli Brividi” del periodo, con scenografie impregnate di una vena gotica e favolistica.

Quando si è bambini e si guarda “Hocus Pocus” si avverte una gioia per gli occhi e per il cuore. Esso è un piccolo cult perfettamente in grado di coinvolgere anche gli adulti, con alcune battute ben congegnate e non sempre comprese quando si è piccolini. “Hocus Pocus”, parallelamente alla storia principale che vede i ragazzi fronteggiare le tre streghe in una sfida a distanza, tratta alcune sotto-trame che abbracciano tematiche decisamente interessanti.

Vi è anzitutto il bullismo: Max risulta essere, infatti, una vittima indifesa, infastidita da due teppisti di quartiere.

Viene trattata l’attrazione fisica e l’amore adolescenziale tra Max ed Allison e la timidezza del protagonista nell’esternare alla ragazza i propri sentimenti per il timore di non essere ricambiato. Le insicurezze del primo amore, tipiche della giovane età, sono quindi facilmente captabili nei personaggi dei due giovani. In particolare, il tema della verginità viene inscenato con una certa attenzione. Tale stato emotivo più che fisico, all’interno del film, è meritevole d’essere analizzato.

Nell’epoca in cui Winifred pronunzia il maleficio, la “verginità” era un bene prezioso, una scelta comune, forse obbligata per la maggioranza dei giovani, e aveva un valore di purezza ammirevole nonché consueto rispetto a ciò che sarà trecento anni dopo. La verginità del protagonista, Max, è oggetto d’incredulità per tutti coloro che scopriranno che è stato proprio lui ad accendere il cero. Max sembra quasi rispondere con spavalderia all’ennesima insinuazione di perplessità circa il suo status di vergine quando si troverà ad affermare: “Me lo faccio tatuare sulla fronte (che sono vergine) se non ci crede”. Sembra quasi che la verginità venga tacciata come un’onta o un che di inusuale dalla gente generalista e buzzurra, come se non avesse più il valore dell’amore vero, da cui deriverebbe la passione fisica, e fosse qualcosa da “superare” quanto prima; l’esatto contrario di ciò che avveniva nell’epoca iniziale del lungometraggio, in cui era sinonimo di candore, innocenza e amorevole attesa. La differenza culturale su tale argomento, tra l’epoca seicentesca e i “moderni” anni ‘90, è un confronto certamente interessante, trattato con fine ironia e una velata provocazione dalla pellicola.

Il parallelismo tra le epoche prosegue circa la festività del 31 ottobre. Le sorelle Sanderson restano sconvolte quando si imbattono in marmaglie di bambini che per strada passeggiano, vestiti e truccati da mostri. Le streghe ricordano che un tempo tali mostri terrorizzavano i piccoli nei racconti popolari. Nella modernità, invece, le paure sembrano essere svanite e sostituite da un tentativo di “imitare” fantasticamente le creature della notte che una volta albergavano negli incubi dei più piccini.

Hocus Pocus” tratta persino l’amore possessivo che finisce per sfociare nella violenza. Winifred, molti secoli or sono, era innamorata di William, un uomo che lei stessa tramutò in uno zombie perché furente e gelosa delle attenzioni che costui nutriva nei confronti della sorella di Winnie, Sarah. William, detto Billy, è un morto vivente a cui sono state cucite le labbra con ago e filo, in modo che non possa mai parlare al cospetto della sua vecchia compagna. Quando Billy raccoglierà un coltello, taglierà via le cuciture della sua bocca ed esprimerà il suo odio nei confronti della donna. E’ un taglio netto ma figurato di liberazione: lo zombie recide i filamenti che lo legavano, come fossero catene, al male della strega. Billy tornerà, così, ad essere libero, lontanto da quell'amore che lo aveva reso uno schiavo privo di voce.

Dietro la maschera truccata di un grande "mostro" si cela spesso il volto dell'attore Doug Jones.

 

Anche questa sotto-trama è trattata in modo “soft”, mai in modo crudo, ma lascia comunque un alone intrigante, doveroso d’essere approfondito per venire ben compreso. Winifred con il suo sospetto e la sua possessività ha tolto la vita al proprio compagno, mutandolo in un silente fantoccio al proprio comando, ferendo non soltanto la sua fisicità ma volendo colpire anche il suo libero arbitrio e la sua volontà.

Il rapporto affettivo tra il fratello maggiore e la sorella minore ha una duplice visione: quello tra Thackery e la sorella Emily si intreccia a quello tra Max e Dani. Thackery, condannato a una immortalità dannata come un gatto nero, ricorda all’umano Max di prendersi sempre cura della sorellina. Essa, come tiene a precisare il gatto dal manto scuro, incarna un affetto prezioso che, come tutte le cose più importanti della nostra vita, si comprende realmente soltanto quando è stato perduto.

Tutte e tre le sorelle Sanderson sono dotate di una voce incantevole. Nella celebre sequenza del brano “I put a spell on you”, la canzone cantata da Winifred incanta e strega, letteralmente, coloro che l’ascoltano, soggiogandoli e trasformandoli in “zombie” incoscienti che danzano senza sosta. Sarah è colei che, ancor più delle altre, possiede una voce melodiosa che adopera per attrarre i bambini. È come se le tre streghe abbiano tra le loro corde vocali il dono del canto delle sirene, che ammalia chi lo ascolta, attirandolo verso il pericolo.

Sarah, Mary e Winifred Sanderson ritratte da Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Hocus Pocus” si consuma con la stessa intensità di una candela accesa. La storia si compie nell’arco temporale di una sola notte, la più lunga, quella di Halloween. Alle prime luci dell’alba si compirà il destino, da una parte o dall’altra.

Alla fine saranno i giovani protagonisti a trionfare, e il sorgere di un nuovo giorno annienterà il potere del trio. Winifred verrà trasformata in una statua di pietra e Thackery troverà finalmente il suo riposo eterno: morirà e la sua anima varcherà i cancelli del paradiso. Ad attenderlo ci sarà la sorellina; i due, mano nella mano, partiranno per il loro ultimo viaggio.

Hocus Pocus” è un gioiello del cinema per ragazzi, una perla da gustare ogni anno agli ultimi rintocchi della notte di Ognissanti. È un libro da lasciar dormire per tutto l’anno, ma da risvegliare sempre allo svanire di ogni ottobre. Basterà riprendere in mano il volume che custodisce questa storia, attendere che l’occhio si dilati e, una volta che il libro si sarà ridestato, aprirlo e lasciar riecheggiare un altro canto, un nuovo: “Come little Children…

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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L'agente K e Rick Deckard ritratti da Erminia A. Giordano per CineHunters

  • Lamento vitale

Quando nasciamo, i nostri vagiti annunziano l’impeto di una vita appena sbocciata. Con i nostri occhi chiusi e stretti nello sforzo di generare il pianto, versiamo sulle nostre piccole gote lacrime sincere, intrise d’infinita gioia di vita. Credo sia teneramente adorabile soffermarsi a riflettere sulla valenza di un generico “lacrimare”. Nella nostra vita, piangiamo nei momenti più tristi, e a volte anche in quelli più lieti. La reazione emotiva esternatasi nell’azione del pianto possiede sempre una virtù empirea e tangibile. Si potrebbero lambire quelle lacrime fuoriuscite dai condotti lacrimali. Chi vuol comprendere il perché stiamo versando quelle gocce che racchiudono al loro interno sia ansie che emozioni, potrebbe raccoglierle e leggerle con gli occhi del cuore nell’empatico tentativo di svelarne il vero significato di ogni singola stilla. Lacrime di tristezza e di gioia: sono le più comuni, sebbene siano anche le più diverse. Nello scorrere della nostra esistenza piangiamo sia nella sofferenza come nella felicità, nella perdita di una persona cara come nello sbocciare di una vita nuova. Ma quando nasciamo, il nostro è un pianto istintivo, un naturale grido di partecipazione alla vita. Non vi sono sentimentalismi da indagare, in quel pianto si innesca la più pura e incontrollabile vitalità. Nelle lacrime rilasciate dai nostri minuscoli occhi e nelle pupille che si dischiudono per la prima volta, la vita trova il modo di sorgere e iniziare un cammino.

Le lacrime versate in un giorno di pioggia e l’immagine di un occhio che osserva in maniera indefinita, come fosse “staccato” dal resto del corpo, sono due allegorie basiche della mitologia del “Blade Runner” del 1982, opera di fantascienza che indaga l’esistenza e l’impossibilità di arrestare la morte. E’ proprio con l’immagine di una vigile pupilla, dilatatasi davanti alla camera, che “Blade Runner 2049”, sequel del capolavoro di Ridley Scott, alza il sipario. L’occhio spalancato è metafora di un inizio, simbolo di un’osservazione appena esordita, come se il seguito concepito e diretto da Villeneuve stesse nascendo in maniera subitanea nella sua prima sequenza d’apertura.

  • “Blade Runner 2049” – Un sequel stupefacente

E’ stata una gestazione estenuante quella che ha fatto da avvento alla nascita di un vero e proprio sequel dell’opera senza tempo di Ridley Scott. Ed è stato altresì un parto complicato quello che ha portato alla nascita di un film così appagante per gli amanti del genere, eseguito con meticolosa abilità da ostetrici artisti della parola, dell’immagine, del suono e dell’emozione generata dal connubio, minuziosamente perpetrato, dei precedenti fattori.  Sono trascorsi 35 anni dal primo “Blade Runner”. Tre decenni di paziente attesa e di ponderazione: quella di poter realmente filmare il seguito di un lungometraggio, tanto rivoluzionario quanto portatore di una sfida impossibile da vincere. Tuttavia, il regista Villeneuve ha raccolto il “guanto della singolar tenzone”. Alla fine è riuscito in ciò che sembrava così arduo: girare un film che mantenesse rispetto e esternasse malinconica riverenza all’opera magna originale, ma che voltasse rotta e proponesse un’ammirabile novità tematica e stilistica. “Blade Runner 2049” è un film ben fatto, meraviglioso e armonico. Semplicemente sontuoso!

La pioggia è l’evento atmosferico che richiama l’immagine di un pianto protratto e incessante. Torrenziale è la pioggia che bagna la Los Angeles del 2049 in cui è sempre notte e dove ologrammi pubblicitari vengono fatti materializzare con l’aspetto di corpi umani titanici, dotati di movimento coordinato e predisposto. Che tipo di lacrime bagnano la città di Los Angeles? Lacrime di gioia o di inconsolabile tristezza? Lacrime per glorificare la vita in ogni sua forma?!

 

L'agente K dipinto da Erminia A. Giordano per CineHunters

 

In questa metropoli dispotica e desolata, si muovono, in un alternarsi scenico, le anime di umani e replicanti, ed esse procedono come fossero traghettate dalle correnti ventose di una giornata comune. Sono trascorsi trent’anni dagli eventi di “Blade Runner”. L’agente Rick Deckard è scomparso, e i vecchi replicanti sono stati tutti terminati prima d’essere sostituiti da replicanti di tutt’altro tipo, creati da Niander Wallace (Jared Leto). I replicanti di Wallace sono anche loro esseri creati per venire dominati, stretti e incatenati sotto il giogo dei padroni. Essi sono destinati allo sfruttamento e alla schiavitù nelle colonie extra-mondo, seppur vengano descritti dal loro creatore come creature angeliche forti e resistenti, necessarie per il sostentamento dell'uomo e per il suo sviluppo. Wallace è un dio-creatore che plasma i replicanti come argilla tra le mani.

  • L’amletismo di un replicante

Protagonista della storia è l’agente K, interpretato da Ryan Gosling, un Blade Runner avveniristico, flemmatico, solo apparentemente freddo e distaccato. Egli non è un essere umano, è un androide ultimo modello, un replicante che dà la caccia ai vecchi replicanti modello Nexus, fuggiti per scampare alla terminazione.  Durante un’operazione di recupero e annientamento di un replicante, tale Sapper Morton, l’agente K rinviene una scatola sepolta sotto un albero morto. All’interno dell’oggetto, vengono rinvenuti i resti scheletrici di un replicante Nexus femmina. Gli analisti scopriranno che la replicante è deceduta a causa di un taglio cesareo effettuato chirurgicamente per far nascere il bambino. Sconvolti dalla scoperta, i superiori dell’agente K gli ordinano di fare tutto il possibile per trovare l’erede e ucciderlo, poiché la notizia che una replicante possa aver avuto un figlio potrebbe creare un'instabilità nel delicato equilibrio tra umani e androidi. L’agente K, restio e tormentato nel dover compiere un simile ed efferato gesto, comincerà la sua indagine che lo porterà a scoprire l’identità della replicante rimasta incinta: si tratta di Rachel, la donna innamorata e ricambiata a sua volta da Rick Deckard (Harrison Ford). In una ricerca così complessa, che ha radici in un passato vecchio di trent’anni, l’agente K scoprirà di essere anch’egli, in parte, coinvolto nel caso.

“Blade Runner 2049” è un eloquente e laconico atto comunicativo pur sempre verbalmente espresso ma anticipato da una impercettibile espressione del volto che preannuncia astrattamente ciò che poco dopo verrà espletato concretamente. La dialettica assume un potere valente ma secondario poiché superflua nel far comprendere il sentimento tra un essere umano e un replicante, già comprensibile dall’importanza di un singolo sguardo. In un contesto come questo l’agente K nei suoi esasperati silenzi è l’inequivocabile e ideale protagonista. Ryan Gosling non fa eccedere un’espressività costantemente mutevole, e proprio per tale ragione si rivela perfetto come interprete amletico di un agente meditante. K vive in una casa postmoderna, in cui la tecnologia futuristica è amalgamata in modo eterogeno a quella più tradizionale. La sua cucina a gas è alternata a una stanza in cui un riflettore posizionato sul tetto fa visualizzare la sagoma digitalizzata di Joi, una bellissima donna di cui K è perdutamente innamorato. Joi (Ana de Armas) ricambia incondizionatamente K seppur essa non sia che un estetico agglomerato ineffabile di luce e immagine. Quella che “Blade Runner 2049” inscena con dolente poetica è la meravigliosa e nuova frontiera di una storia d’amore impossibile. Joi è intelligenza artificiale in grado di provare, con coscienza e razionalità, affetto e in particolar modo, amore.

  • Amore platonico, passione intellegibile

Ella è intelligenza artificiale seppur sia un artificio non propriamente meccanico, quasi etereo e impalpabile in quanto contenuto e riflesso da una macchina proiettante. Joi è “intrappolata” in una proiezione, non ha consistenza fisica ma ha volontà, non ha un corpo ma possiede un’anima, non è incarnata ma è visivamente personificata. Un qualcosa di tragico ma narrativamente incredibile anche solo da descrivere. Joi ha voluto ribattezzare K con il nome di Joe, per conferirgli un che di umano. K, dal canto suo, ha voluto far dono alla sua “sposa” di uno strumento, un comando che può custodirla al di fuori di quel “proiettore” che può renderla visivamente mirabile solo tra le austere pareti della loro casa. Con quel comando ella può sciogliere il legame che la trattiene tra quelle mura e valicare i limiti dell’edificio assieme a K. Ella in quell’oggetto ha riposto senza remore la sua esistenza virtuale poiché se dovesse deteriorarsi, cesserebbe di materializzarsi per sempre, come se fosse anch’ella una donna vera, in balia della morte, nel caso in cui venisse “attaccata” e “distrutta”. Se lei gli ha donato un nome, lui ha cercato di donarle una nuova forma di stasi: entrambi provano, in un disperato e romantico tentativo, di umanizzarsi vicendevolmente. Il primo luogo che Joi desidera “visitare”, una volta uscita dalla dimora, è la terrazza del palazzo, sulla quale entrambi vengono investiti da una lieve pioggia che accompagna il loro primo momento d’accenno di “libertà”. Ancora una volta la pioggia, come toccante pianto, sembra cadenzare la vita in “Blade Runner”.

Tra K e Joi esiste un amore platonico e inestinguibile, virtuale ma reale, a cui viene poi conformata una passione indomabile, trasfigurata nell’intellegibilità, che tocca le vette del romanticismo gemmeo. Ella è fisicamente inconsistente, corporalmente effimera ma animosamente ricolma. Quando lui l’accarezza, la sua mano rende la nitida visione della donna opacizzata, poiché soggetta a dissolvere la qualità della sua trasparenza al minimo tocco. La sequenza in cui Joi deciderà di sincronizzare il suo corpo visivo a quello di una donna vera, sovrapponendosi a lei, pixel dopo pixel, per garantire a K la possibilità di consumare il loro amore, è una delle scene più intense e toccanti del film, e riesce a mantenere per tutta la sua durata una passione tersa e persino sognante. Un atto d’amore sentimentale nato e divampato nella sintonia connettiva di due anime “meccaniche” che si congiungono nel bisogno umano di sfiorarsi e toccarsi con concretezza. Un semplice abbraccio, una carezza sul viso per K e Joi assume l’aspetto di un rapido momento d’essenza eterna.

  • I ricordi

“Blade Runner 2049” è un noir fantascientifico impreziosito da una folgorante fotografia. Ha un ritmo volutamente compassato per rimarcare con la dovuta attenzione le scene introspettive e le peregrinazioni solitarie del protagonista, sempre analitiche. La sua è un’investigazione compiuta su due fronti che si intersecano: la ricerca dell’identità dell’erede di una replicante si intreccia a quella inerente la possibile vera identità dell’agente K. K è un replicante che desidera ardentemente d’essere speciale, e non un mero “prodotto”, e nutre la speranza che i ricordi che possiede non siano innestati ma possano essere veri.

La vivezza sensoriale dei ricordi ha i contorni di una finestra spalancata sul passato che può essere pre-costruito o assolutamente veritiero. I replicanti, a cui sono stati impiantati ricordi artificiali, necessitano di quelle memorie per poter restare stabilmente a contatto con la loro intimità, pur essendo consapevoli che quelle rievocazioni non sono altro che il frutto di artificiosi palazzi mentali sapientemente orchestrati con dovizia di particolari. Essi sono un rifugio per rammentare un’identità, anche a costo d’ingannarsi e impantanarsi in una fangosa menzogna.

Con i ricordi riusciamo a padroneggiare la capacità di “dialogare con noi stessi”. I ricordi in “Blade Runner 2049” sono delle raccolte archiviate e possono avere una duplice natura, vera o forgiata ad arte, positiva o negativa. Ricordi paurosi e tristi si alternano con le memorie più felici ed idilliache di un passato che non c’è più. Tali testimonianze memorizzate in “Blade Runner 2049” sono lo specchio dell’anima e riflettono l’interiorità di un essere umano così come di un replicante. La memoria è alimentata dall’emozione, dal sentimento che ad essa è accomunata, e l’effetto sensoriale dell’amigdala può modellare le emozioni provate in quel determinato momento fino a farle rivivere. Attraverso la sfera mnemonica si compie l’investigazione dell’agente K che arriva a interloquire con la più grande creatrice di ricordi per replicanti, la dottoressa Ana Stelline (Carla Juri). Ella vive protetta all’interno di un’ampia cupola che ne preserva la cagionevole salute. Ana è portatrice di una splendida immaginazione con la quale riesce a dare contorno, spessore, forma e colore a un ricordo che si può toccare con mano. Ella è una creatrice di ricordi e li realizza come fossero quadri dipinti con un pennello inesistente su di una tela evanescente, impercettibile come un lieve soffio di brezza. Quando ella vedrà il ricordo che accompagna da sempre l’agente K, ricordo a tal proposito necessario alla comprensione dell’indagine, scoppierà in un accorato pianto e affermerà che tale memoria è vera e non propriamente innestata. Ciò porterà K a credere che lui stesso sia il figlio perduto di Rachel e Rick.

  • Il miracolo della vita

Quella di “Balde Runner 2049” è esaltazione dell’arte cinematografica nella sua essenza più profonda e pura. E’ comunicazione silenziosa, riflessiva, meditabonda, arte che conferisce pregio allo sfondo, rilievo significante alla scenografia, validità alla taciturna espressione di un viso disteso e pensante. E’ emozione mai espressa completamente, ma incastonata nella magnificenza di un momento, nell’importanza di un gesto o di un’intenzione che potrebbe far capire molto di più di quanto semplice possa apparire. In “Blade Runner 2049” il sentimento umano batte come un cuore palpitante. Nella versione di Villeneuve la paranoia che un tempo avvertivamo guardando l’opera di Scott viene annullata. E’ la vita, intesa come miracolo della creazione, ad essere inebriata. La nascita del bambino concepito dall’amore tra Rick e Rachel, è la compiutezza di un prodigio.

Un evento straordinario, una grazia giunta dal cielo, che sconvolge Wallace, uomo che si esprime attraverso orazioni criptiche e ricche di accenni e riferimenti religiosi, come se fosse un antico profeta e oracolo affetto da cecità, ma che crede di vedere ciò che nessun altro è in grado di scrutare. K giungerà fino alla decaduta Las Vegas, megalopoli funerea e irriconoscibile se confrontata a ciò che fu un tempo. Laggiù rinverrà Deckard. Eccezionale la scena in cui Rick e K avranno un confronto fisico in una platea abbandonata sul cui palcoscenico si esibisce un ologramma fuori sintonia di Elvis Presley. Un passato che tecnologicamente si mescola a un presente futuristico.

Un ritorno, quello di Harrison Ford, straordinario. Ford nella sua maschera rugosa, assuefatta alla rassegnazione, alla rinuncia, trasmetterà la sofferenza di una vita di stenti, di allontanamenti forzati, di privazioni. Il Rick Deckard di “Blade Runner 2049” è un padre disperato più che un vecchio cacciatore di replicanti, e la recitazione di Ford accentua l’umanità e il senso di protezione paterna dell’uomo più che la glaciale freddezza di un ex agente. L’eroismo di K, che perderà la sua amata Joi lungo il proprio cammino verso il trionfo finale, sarà l’ultima speranza per Deckard di riscoprire la verità sul proprio erede: sulla propria figlia che altri non sarà che la dottoressa Ana.

  • Pianto finale

Ecco perché ella piangeva alla vista di quel ricordo, ecco perché K “vigilava” su quella reminiscenza dal valore inestimabile: era un innesto basato sulla verità, sul passato di Ana. Ancora una volta le lacrime all’interno del film testimoniano l’importanza di un sentimento, di un passato identificativo rivisto e rivissuto attraverso l’emotività umana. Quindi K riuscirà a salvare Deckard e lo condurrà ad incontrare la sua amata figlia.

“Blade Runner 2049” è un sequel coraggioso e bellissimo, vicino a raggiungere e ottenere di diritto, anch’esso come il predecessore, la caratura del capolavoro.

Quando K avrà adempiuto la propria missione, si sdraierà su una scalinata. La musica riprenderà i passi che scandirono il trapasso di Roy Batty nella celebre sequenza del primo “Blade Runner”. Non verserà lacrime nella pioggia: egli guarderà il cielo che in quel momento comincerà a “piangere” neve. La bianca coltre cadrà copiosa quando egli verserà le sue ultime lacrime sotto la neve ed emanerà l’ultimo respiro. Se Roy Batty aveva versato il suo ultimo pianto sotto la pioggia, Joe farà “scomparire” le sue lacrime nel fioccare della neve.

Anche Ana sarà avvolta dall’incedere di una neve virtuale poco prima di mirare per la prima volta suo padre. Chissà se anch’ella reagirà versando nuove lacrime sotto la neve quando scoprirà chi è la persona che ha dinanzi. Che sia gioia o tristezza, che si tratti di nascita o morte, le lacrime possono riuscire ad esprimere in egual valore l’immensa emotività di un istante che diviene immortale nel tempo. Il pianto è testimonianza di un sentimento, e il sentimento è testimonianza di vita. Che siano uomini o replicanti essi versano lacrime…e sono in vita.

Voto: 9/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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In occasione dell’uscita nelle sale del film “Così parlò Luciano De Crescenzo”, un leggero e appassionante documentario sulla sua vita e sulla sua eccezionale carriera, vorrei dedicare il mio personale omaggio allo scrittore partenopeo.

Curiosando da bambino tra le videocassette di casa, ricordo perfettamente di essermi imbattuto in una dalla copertina davvero particolare; un signore dalla barba brizzolata, con le braccia conserte, accennando un sorriso, reclinava leggermente il capo, mentre puntava il suo sguardo sornione verso chi, dall’altra parte, lo osservava. Giù in basso si leggeva: “Le dodici fatiche di Eracle” e “Il Mito di Teseo e Arianna”. La videocassetta in questione faceva parte di una collezione completa dedicata alla mitologia greca, che mio padre, anni prima, aveva acquistato. Leggendo “Eracle” non capii immediatamente di cosa si trattasse, chiesi quindi una spiegazione a mio padre e la ottenni. Concedetemi la vostra pazienza, da bambino conoscevo in primis la figura di Hercules grazie al cartone della Disney, grazie alla serie TV, e ad altre trasmissioni sull’argomento. Beh, certo, quale bambino non sogna di essere almeno una volta nella vita Hercules? Un uomo capace d’affrontare avversari fantastici e vivere avventure incredibili. Dopo aver capito che quell’”Eracle” non era altro che il nome greco dello stesso personaggio, misi immediatamente la cassetta nel videoregistratore convinto d’assistere a una delle tante pellicole dedicate all’eroe, ma non fu proprio cosi: mi comparve dinanzi un uomo seduto su di una scrivania che, con ironia e una sentita emozione nella voce, narrava le gesta che quell’antico eroe aveva compiuto, stimolando prima di tutto la fantasia dello spettatore che, grazie alle sue parole, era come se vedesse realmente l’eroe mentre compiva le sue incredibili fatiche. L’uomo in questione era Luciano De Crescenzo e l’episodio televisivo faceva parte della trasmissione “Zeus – le gesta degli dei e degli eroi”.

Appassionandomi in breve tempo a quanto stavo ascoltando e vedendo, cominciai a guardare una dietro l’altra tutte le videocassette, disposte in modo ordinato in un mobile fatto apposta per contenerle, insieme a tante altre d’argomento diverso. Quel “narratore” vestito con giacca e cravatta divenne per me un maestro, un ispiratore, un amico. Da bambino mi affascinavano prima di tutto le storie degli eroi che quel professore raccontava; crescendo, invece, compresi la bellezza e la profondità di alcuni miti meno avventurosi, ma di certo più emozionanti, come la tragica vicenda di Orfeo ed Euridice, la peculiarità dei greci nello spiegare l’alternarsi delle stagioni secondo il mito di Ade e Persefone, o la complessità delle varie mitologie dedicate alla nascita dell’universo. Mi colpì, in maniera primordiale e semplice allo stesso tempo, considerando la giovane età, persino il racconto del Simposio, dove De Crescenzo teneva a precisare che l’obiettivo primario era sempre quello della disquisizione, il dialogare tra i vari commensali convenuti, e solo in un secondo momento quello del cenare, della consumazione dei pasti vera e propria. Potrei dire, senza ombra di dubbio, che, grazie a De Crescenzo mi avvicinai per la prima volta ai racconti fantastici, i quali, nonostante le bizzarre tematiche, tanto valore continuavano a conservare tutt’oggi. Grazie a De Crescenzo mi appassionai persino al fumetto, considerando che quella raccolta di videocassette era abbinata a un supporto cartaceo sotto forma di racconto a disegni, da lui stesso curato e dedicato ciascuno al racconto sequenziale del mito stesso. Il passaggio dal fumetto mitologico a quello supereroico e seriale fu un processo inevitabile. Da quel preciso istante cominciai a leggere quanti più fumetti potevo, concentrandomi di più sulle storie e le avventure che QUEL determinato personaggio viveva, e solo dopo al messaggio che l’AUTORE voleva comunicare a chi leggeva la storia. Capii successivamente che quello che stavo leggendo non prendeva vita da solo sulla carta, ma qualcuno provvedeva a scriverlo e qualcun altro lo disegnava per far prendere forza e consistenza alle parole stesse. Fu così che mi avvicinai con sempre maggiore attenzione alla lettura e alla scrittura. Grazie a De Crescenzo lessi i miei primi libri; ricordo ancora come descriveva in maniera arguta e con una punta d’ironia la figura di Ulisse, da lui stesso definito in un suo vecchio scritto un “fico”. Ed ecco perché dico GRAZIE a Luciano De Crescenzo, per me da sempre un maestro, un amico, e di sicuro per tutti un importante autore nel panorama letterario italiano e non solo.

Luciano De Crescenzo è ingegnere, professore, scrittore, studioso, regista, un filosofo atipico, che ha fatto della sua arte un qualcosa di gradevolmente condivisibile, un divulgatore attento e scrupoloso, capace d’impartire cultura ed emozioni anche al lettore frettoloso e allo spettatore meno attento.

L’arte e la filosofia di De Crescenzo, sempre sopra le righe, conobbero, oltre che il medium televisivo, anche il cinema. Fu regista e protagonista del cult “Così parlò Bellavista”, delicata, amorevole e genuina lettera d’amore alla sua Napoli, alla sua gente. Il film fu un’opera in grado di scuotere l’attenzione sui temi più scottanti, sempre affrontati con pacata ironia e marcata determinazione. La dialettica di De Crescenzo si è mantenuta inalterata negli anni: comunicare con garbo e simpatia a chi ascolta il senso degli eventi e dei personaggi, anche fantasiosi, che ci hanno preceduti.

Durante la sua prolifica attività letteraria, De Crescenzo indagò cosa fosse il tempo, se davvero esistesse e come esso venisse interpretato e vissuto da ognuno di noi. Arrivò a dire che il tempo è solo una convenzione. Non molto tempo fa però ammise che il tempo effettivamente esiste e “purtroppo passa”. Lo disse con una nota di malinconia, lui scrittore così attaccato alla bellezza della vita e alla meraviglia della quotidianità. Si interrogò anche su cosa fosse la vera felicità, e su cosa ci rende felici. La pienezza della felicità per Luciano De Crescenzo non si avverte nel momento in cui stiamo vivendo l’attimo felice. Si rimane avvolti e contagiati dalla felicità quando si pensa al momento in cui possiamo vivere realmente quella felicità. La felicità dell’attesa è essa stessa felicità. Siamo felici quando pensiamo a ciò che ci rende felici e che a breve arriverà, e il solo aspettare quell’attimo ci rende lieti. La felicità non è quando incontriamo e ammiriamo la donna amata, la felicità è quando aspettiamo di vederla… Magari il giorno prima del nostro incontro.

Mi verrebbe d’azzardare un parallelismo tra questo credo di De Crescenzo e la splendida poesia del Leopardi “Il sabato del villaggio”. Il poeta affermava che la gente del villaggio era felice quando il sabato ritornava dalla dura giornata di lavoro perché sapeva che il giorno dopo avrebbe riposato. Una felicità di breve durata ma così fantasticamente coinvolgente. Era una felicità illusoria, poiché proprio il giorno dopo, quando sarebbero dovuti essere felici, invece, i villici avrebbero provato tristezza nel realizzare che l’indomani una nuova settimana di lavoro sarebbe cominciata. La felicità è quindi un’attesa illusoria, utopistica?  E’ qualcosa che sfugge, che appare rapido e rapido scompare, lasciando nell’animo una vibrazione armoniosa dolce e triste al tempo stesso. De Crescenzo affermerebbe, invece, che la felicità è proprio in quel piccolo momento, in quei minuti di rilassatezza, quando la speranza di un domani limpido e sereno si concretizza nel pensiero dell’attimo presente. Totò, altra grande personalità artistica di Napoli, diceva che la felicità è fatta di attimi di dimenticanza, per l’appunto di piccoli istanti che ristorano il cuore e carezzano lo spirito.

De Crescenzo affermerebbe, con la semplicità e la simpatica eleganza che lo contraddistingue, che la vera felicità è la “piccola” felicità, tanti piccoli granelli che uno accanto all’altro possano riempire la bisaccia dei ricordi più lieti e spensierati. De Crescenzo rimane senza dubbio un intrattenitore simpatico, un abile divulgatore, un prolifico autore, in altre parole un lavoratore arguto, attento e assiduo della penna e della parola.

Uno scrittore che ha conquistato la sua immortalità, perché vive nel cuore e negli affetti di tutti i suoi lettori più devoti, come il sottoscritto. Un documentario a lui dedicato sarà un’altra testimonianza filmata per onorare una vita intensa.

A Luciano De Crescenzo e al suo programma “Zeus – le gesta degli dei e degli eroi” ho dedicato un articolo facilmente consultabile nella sezione “Speciali televisivi”. Potete leggerlo cliccando qui.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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"IT" ritratto di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Appellatevi solo per un momento ai vostri ricordi. Soffermatevi a rievocare con nitidezza la reminiscenza di un particolare momento, quando eravate bambini, e alla vostra festicciola di compleanno reggevate tra le mani un palloncino. Di palloncini ne esistono di varie forme e colori. Quelli comuni sono tondeggianti, piccole miniature somiglianti ai ben più smisurati palloni delle mongolfiere, le quali si librano sospese tra la terra e il cielo. Vi sono palloncini con simboli scelti opportunamente per essere stampati su di essi, altri che recano sagome di animali, come pesci pagliaccio che nuotano in un mare d’aria, trattenuti da un filo che li mantiene ben saldi al suolo per evitare che scappino via. Esistono, altresì, palloncini realizzati per assumere forme e aspetti di personaggi dei cartoni animati, ritti in pose che ne accentuino i colori sgargianti del vestiario. Quali di questi palloncini amavate trattenere tra le vostre mani da piccoli? Ognuno di noi aveva i suoi preferiti, e quando stringevamo il nostro palloncino tra le dita, lo facevamo con decisione. Talvolta i genitori erano soliti annodare il laccio del palloncino al polso dei propri bambini, così che i piccoli, anche se portati spesso a distrarsi, non avrebbero comunque rischiato di perderlo. I bambini sono più di chiunque altro interessati ai palloncini, e li amano vedere quando dal basso essi tendono a puntare verso il cielo. Quando un palloncino vola via, esso si libra alto nella volta celeste.  Non ha ali per volare ma lo stesso “fugge via”, lontano da noi. Il palloncino dalle forme di un esile e pigmentato pesce sembra quasi “galleggiare” tra le correnti d’aria. Il palloncino di un eroe, invece, pare volteggiare tra pascoli di nuvole. “Galleggiare” e “volare”. Due verbi semanticamente non sinonimi ma che risuonano come minacce di pari terrore al termine di un’inquieta filastrocca esternata da un clown. Ventisette anni fa, il “primo” pagliaccio pronunciava con ossessiva ripetitività quel verbo, quel “galleggiare”; Oggi, ventisette anni dopo, si ode in pellicola l’esternazione disturbante del secondo “predicato”, quel “volare”. Che galleggino o volino, i corpi delle povere vittime di Pennywise si tramutano in raccapriccianti allegorie di palloncini sospesi nel vuoto, galleggianti e volteggianti in una pozza nera e putrida. Gli elementi fanciulleschi e gioviali di un palloncino che vola vengono disfatti dall’orrore di un “demone” che incarna la colorazione di un’infanzia serena, ribaltandola in un’angosciante paura.  IT a quei palloncini e a quel simbolo di liberazione in un volo in cielo, mescola la drammatica “liberazione” di una morte orrenda.

  • L’opera magna di Stephen King: “IT”

Circa trentuno anni fa, l’entità Pennywise faceva la sua prima apparizione. Il suo volto da pagliaccio, cinto da capelli rossastri, tendenti all’arancione, e immerso nel colore di un trucco che faceva filtrare un’epidermide impiastricciata di bianco, non spuntava in maniera subitanea quanto scioccante dalla fessura di un tombino all’angolo di un vicolo. Esso viveva tra gli scaffali delle librerie. Nel 1986, Stephen King pubblicava il libro che sarebbe divenuto il più grande tra i suoi scritti, il capolavoro monumentale di un viaggio coercitivo, di formazione corale, adempiutasi tra i fiabeschi orrori di una fittizia cittadina. King è uno degli autori più prolifici che la letteratura ricordi. Molteplici e variegati sono i mostri a cui questo re del terrore ha dato vita e un potere nascosto tra le righe di un tomo. I suoi lavori ebbero spesso la valenza di veri e propri casi letterari, trasposti con sempre maggiore abitudine al cinema. King divenne per la settima arte una sorta di principe del brivido Hitchcockiano. Pur senza essere direttamente coinvolto nelle produzioni ha saputo, mediante i suoi lavori scritti, generare sgomento e suspense in oltre quattro decenni di cinema. Tra i suoi libri, “IT” occupa un trono di rilievo. Esso si è fregiato dello scettro di opera magna, di corpus complessivo, stratificato in grado di condensare la totalità delle tematiche del pensiero letterario di Stephen King.

“IT” non è solamente un romanzo dell’orrore. Conseguentemente, la trasposizione televisiva prima e cinematografica poi non sono adattamenti funzionali a generare una mera forma di paura. “IT” è un romanzo di crescita, di accettazione, una storia di amicizia profonda, inattaccabile e radicata nell’adolescenza. E’ una narrazione tumultuosa, cadenzata da singole fasi, esperienze personali di violenza e orrori.

Il pagliaccio è la pura metafora fisica e graficamente oppositrice tra l’immagine giocosa di un clown e quella spaventosa di un sadico assassino, di un assoluto antagonista e divoratore, dalla cui influenza sfocia un male che alberga dietro l’ingannevole maschera di una quiete mistificata e menzognera. Gli abitanti di Derry, l’immaginaria cittadina in cui si svolge la storia, indossano maschere di “cera sciolta”, in pelle rattrappita e rugosa per nascondere non certo con successo, la malvagità che essi perpetrano sotto il volere di IT, il quale diviene, più che un puparo, un indicatore di movimento, colui che muove inizialmente i fili per far sì che le sue marionette compiano ciò che lui vorrebbe ma che loro stessi non gli impedirebbero di fare. IT e Derry sono una cosa sola, egli, più che apparire come un parassita ed efferato omicida, vive un rapporto simbiotico con la città e la sua gente in un flusso di energia negativa che filtra circolarmente dalla fonte fino al ritorno alla foce (in entrambi i casi sempre IT). Il libro è ancora una raccolta di orrori di vita privata e di drammi umani. In tutto questo, IT, esente da una forma esteriore univoca, regna su di una cittadina in cui sgorga sangue, come se grondasse dalle tubature cittadine e fuoriuscisse dai lavandini; ma esso non macchia il pavimento e neppure le pareti delle case, e non viene percepito dagli adulti in quanto viene occultato dalle loro stesse trame intessute di crudeltà. “IT” non è solamente paura, è un’indagine accrescitiva volta a mettere a nudo le realtà torbide della vita di una città in cui la sola luce fioca, ma sufficientemente luminosa per generare una fiammella di speranza è accesa dall’indissolubile amicizia che coinvolge i sette bambini protagonisti.

  • “IT” al cinema

Abbiamo dovuto attendere fino all’ultimo trimestre del 2017 per assistere ad un adattamento cinematografico dell’opera di King. Il lungometraggio reca sul finale la dicitura “Capitolo primo”, proprio perché va a narrare la prima parte della storia, relegando la seconda parte a un film successivo. Rispetto alla versione televisiva, “IT” è un film ordinato, privo di digressioni avvenute tra passato e presente e fa del proprio sviluppo regolato un punto di forza e scorrevolezza.

IT ha raggiunto da tempo lo status di icona dell’orrore, di mostro leggendario, personificazione di un male e di una paura atavica, indefinibile, primordiale. Egli rappresentata a tutti gli effetti il modellamento di un terrore universale che diviene personale e soggettivo.  E’ toccato a Bill Skarsgård il compito di donare voce e mutevole corpo al malvagio Pennywise al cinema.

Seguendo una struttura organizzativa lineare, il lungometraggio pone i bambini con le loro problematiche al centro della scena. Il cast è completato da giovani attori, molti dei quali alla loro iniziatica esperienza nel mondo della settima arte. Tra questi spiccano in particolare i nomi di Finn Wolfhard, già famoso come interprete nella serie Netflix “Stranger Things” e Jaeden Lieberher nel ruolo di Bill.

“IT” apre le prime pagine del suo racconto visivo in una giornata piovosa, quando il cielo sembra piangere lacrime infauste e funeree per l’imminente morte del piccolo Georgie. Il fratellino di Bill corre sotto la pioggia indossando un impermeabile giallo, inseguendo una piccola barchetta di carta impregnata di paraffina. Quando la barchetta, navigando, finirà per cadere nella fessura di un tombino, Georgie si imbatterà nel suo carnefice, IT, l’entità antica che vive a Derry. Si tratta, naturalmente, della prima apparizione dell’assassino all’interno del film. La violenta morte di Georgie viene rappresentata come King la descrive. Il braccio mozzato del povero bambino traccia immediatamente il percorso stilistico che il film adempirà: quello d’essere un traduttore più conforme all’opera letteraria originale e a ciò che, per quanto possibile, potrà essere filmato dal “vivo” partendo dalle parole descrittive di un testo.

Il film “IT” è un lungo incubo, ritmato e scomposto in sezioni singolari dedicate ai personaggi e ai loro incontri con il mostro di Derry. Un ottimo montaggio rende fluida l’unione sequenziale degli spezzoni. “IT” fa delle costanti manifestazioni del clown un evento dalla forza traumatica, la quale esercita uno choc infantile, destinato a marchiare per sempre l’animo dei protagonisti. “IT” è, di fatto, lo sgretolarsi dell’innocenza. Tutti i personaggi compiono in questo primo capitolo la fase primaria del loro viaggio, una tappa resa come fosse un prologo a ciò che li attenderà nuovamente in età adulta.

“IT” si piega a molti stereotipi tradizionali del cinema dell’orrore. Le sequenze in cui Pennywise compare improvvisamente dinanzi alla camera per far sobbalzare gli spettatori seduti in platea, i momenti in cui sembra di essere sempre sul punto di uccidere i malcapitati, per poi fallire poco prima di compiere le sue insane volontà, sono tutte azioni perpetrate mediante uno stile scenico tipico dei film di genere. Tuttavia, le scene più paurosamente intense sono distillate con arguzia e non con esagerazione.

L’interloquire tra i bambini, e il loro rapporto, fulcro della prima parte della storia, non è esente da difetti. In particolar modo, la sceneggiatura appare alle volte pretestuosa, i dialoghi brillanti e le battute volgari e mature pronunciate dai ragazzi danno l’idea d’essere forzate e poco confacenti alla loro età. Tutti i bambini sembrano presentarsi al cospetto degli spettatori come se avessero la pretesa d’essere già noti e conosciuti. Coloro che ricorderanno con chiarezza le personalità dei protagonisti del libro riusciranno facilmente a rapportarle ai personaggi sullo schermo. In caso contrario si avrà qualche difficoltà in più a delineare con chiarezza alcuni di loro. Lacune tutto sommato sorvolabili che non pregiudicano la comprensione della storia ma, a mio giudizio, sono doverose d’essere segnalate. Tra loro, colei che spicca più degli altri è certamente Beverly, interpretata da una bravissima Sophia Lillis, ragazza forte e coraggiosa, pronta ad affacciarsi alla maturazione fisica e psicologia da giovane donna quale sta diventando.

Bill Skarsgård, prigioniero di un appariscente trucco, convoglia gran parte della sua verve interpretativa nella potenza perentoria dello sguardo. L’attore possiede una particolarità: è in grado di muovere le pupille dei suoi occhi nella direzione opposta. Non viene di certo notato di primo acchito, gli occhi non giacciono inermi in una forma di evidente strabismo, eppure se li si osserva con attenzione nel mentre Pennywise recita le sue battute, ci si accorgerà che gli occhi sono rivolti in maniera quasi impercettibile in due direzioni diametrali: un occhio guarda il personaggio con cui IT interagisce, l’altro occhio guarda…noi. E’ rivolto verso la camera. L’espediente interpretativo che consiste nel guardare direttamente la telecamera, osservandola con dimostrato desiderio d’esternare una sensazione e richiedere il coinvolgimento, la compartecipazione dello spettatore, esiste dal cinema degli anni ’30. Fu Oliver Hardy ad introdurre il cosiddetto “camera look” un atteggiamento interpretativo che prevedeva il rivolgersi direttamente alla camera da presa quando accadeva qualcosa di esilarante o di incerto. Quello sguardo richiedeva silenziosamente una risposta da parte del pubblico, una reazione, giacché era evidente.

In “IT” è soltanto un eloquente e sinistro occhio diretto a distruggere la fredda identità di una macchina da presa, più spesso paragonata di per sé proprio a un occhio imparziale, che si limita solamente ad osservare e registrare con neutralità. Il film di “IT” in maniera velata è occhio che osserva occhio, a sua volta, in un’interazione vicendevole, globale ma al contempo interpersonale, poiché va a toccare le sensazioni di ognuno di noi. Se il “camera look” poteva essere più che evidente, in “IT” lo sguardo è incerto, immobile nella gelida impersonalità di un dubbio, di un’osservazione, di un disagio. Come IT ha il pieno controllo sulla città, così l’interpretazione di Bill Skarsgård trascende a un controllo che abbatta i confini scenici delimitanti da una tecnica di ripresa e arrivi dritto al cuore dello spettatore per spaventarlo.

“IT” rilascia con semplicità il messaggio principale dell’opera di King. Nel loro scontro finale con il pagliaccio, il quale ogni qualvolta viene colpito dai giovani assume una nuova forma, del tutto uguale alle paure più grandi di ognuno di loro, i ragazzi respingono l’entità malvagia con la forza della loro unione, con un coraggio che piega la paura. Simbolicamente, IT viene ferito da qualunque strumento possa armare la mano di chi lo affronta, se questi è privo di paurosa riverenza e sudditanza nei suoi confronti. I perdenti si riveleranno gli assoluti vincitori. Non avranno paura! "IT" è sopravvivenza, vittoria e trionfo su di una paura ciclica.

L’adattamento cinematografico di “IT” è un horror dal grande impatto visivo e tematico che con rispetto traduce il volere di un autore e ne dà nuova vigoria in un nastro di pellicola. Badate, non è una versione complessa. E non è arricchita da nuove e interessanti idee autoriali infuse dalla mano di un regista, il quale potrebbe e dovrebbe voler trasmettere anch’esso la sua idea inerente la tematica affrontata. In “IT” si respira l’atmosfera emanata dal volere di un unico dio-autore: Stephen King. Non ha l’anima di un film indipendente ma ha lo spirito del libro, e di questo i fan ne saranno certamente grati. Al contempo, mi sento di affermare che era lecito aspettarsi qualcosa di più dall’impostazione registica di Andrés Muschietti, un qualcosa difficilmente descrivibile, che rendesse questo film ancora più emozionante. Un qualcosa di più “personale” che, in maniera astratta, manca.

  • L’iconografia orrifica di “IT” tra televisione e cinema

Se il film del 2017 ha il merito di mantenere l’aspetto più crudo del romanzo, la miniserie ha il pregio di trasfondere l’aria di un periodo lontano, un passato come quello degli anni ’60 mescolato a un presente nostalgico e in perpetuo mutamento come gli anni ‘90. Tra i protagonisti bambini, un giovane Seth Green (futuro interprete del lupo mannaro OZ in “Buffy” e, qui, paradossalmente terrorizzato da IT con le sembianze di un licantropo) e il compianto Jonathan Brandis si elevavano sulla coralità di un cast di alto spessore. Tutti i bambini di “un tempo” risultano, a mio giudizio, più facilmente identificabili nei loro caratteri rispetto agli alter-ego del film. Si respirava un clima di maggiore unione nella vecchia e cara gang dei perdenti. Il loro rapporto d’amicizia, la loro gioia di vivere e i singoli incontri che hanno con IT, sono curati e forse meglio eseguiti rispetto alla versione più recente. Sebbene il film insceni gli eventi in maniera progressiva, la miniserie con le sue oscillazioni tra presente e passato, conferisce una valenza ancor più marcata alla sfera dei ricordi e finisce per tracciarli con più incisività. E’ probabile che, là dove la miniserie scivolava nella lentezza, vale a dire nella seconda parte in cui da adulti, la gang dei perdenti tornava a riunirsi a Derry, il capitolo 2, che vedremo prossimamente al cinema, offrirà una rivisitazione nettamente migliorata.

L’IT di Tim Curry, in una miscellanea tra stile comico e sadismo, ha certamente lasciato un’impronta indelebile. Il suo mostro, umano e demoniaco nelle sue vesti da clown, colpisce ancora oggi per la sconvolgente naturalezza dell’interpretazione, il più delle volte eseguita senza alcun supporto di effetti speciali o trucchi visivi pioneristici. La recente interpretazione di Bill Skarsgård non sfigura al cospetto della precedente e l’eredità del clown viene rispettata secondo un più moderno stile estetico e interpretativo.

L’errore da non commettere è quello di preferire nettamente una singola versione a discapito di un’altra. I due adattamenti di “IT” non si annullano a vicenda, anzi tutt’altro! Comunandoli, entrambi possono offrire una panoramica ancor più completa. Da una parte e dall’altra, le due versioni tendono a completarsi vicendevolmente, analizzando gli eventi da punti di vista sempre diversi.

Come un groviglio di palloncini, ciascuno colorato distintamente, il mito di IT permane tutt’oggi sospeso tra la terra e il cielo, galleggiante e bordeggiante in una lastra immaginaria, in cui morte e liberazione si sovrappongono come forze assolutamente discordanti.

Voto: 7/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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  • Fifa è tornato

Il ritorno del migliore simulatore videoludico del gioco del calcio, ovvero il venticinquesimo capitolo della serie EA, “Fifa 18”, per gli amanti del settore è un appuntamento a cui non si può mancare. E’ dunque un acquisto irrinunciabile. Merito anzitutto dell’eccellente lavoro svolto dalla EA Sports nel ricercare un sempre maggiore realismo tattico per quel che concerne l’esperienza di gioco. I creatori di “Fifa” hanno sviluppato e mantenuto nel corso degli ultimi anni un certo distacco, un margine di vantaggio e di preferenza critica nei confronti dei rivali del settore quali “PES” e gli altrettanti simulatori sportivi. “Fifa 18” non può essere da meno, e infatti non si discosta dai miglioramenti a volte riscontrabili in dettagli, altre volte ben più evidenti nelle meccaniche di gioco, che i curatori seguitano a introdurre di anno in anno.

  • Calcio d’inizio

Le opzioni di gioco di “Fifa 18” sono le medesime del capitolo precedente. Potrete scegliere sia di giocare una partita comune contro il computer che creare il vostro Dream-team da sogno in “Fifa Ultimate Team”, sfidando avversari sparsi per il mondo mediante l’online, oppure iniziare la modalità carriera da allenatore (interessanti accorgimenti sono stati apportati in questa sezione) o da giocatore, e intraprendere la seconda parte del Viaggio di Alex Hunter.

Per accertarvi delle differenze di questo nuovo capitolo è consigliabile cominciare con un “Calcio d’inizio”, una partita singola con la vostra squadra del cuore contro l’avversario che prediligerete. Vi accorgerete immediatamente di come i movimenti dei giocatori appaiano armonici e ordinati, e i frequenti contrasti fisici più chiari ed evidenti. “Fifa 18” è un videogioco che favorisce nettamente il gioco offensivo e il calcio spettacolo. Ciò sacrifica però la fredda lucidità della fase difensiva.

Se tra i vostri schemi tattici amate impostare una manovra offensiva sull’asse degli esterni, noterete come le ali attacchino la profondità con costante frequenza e, se serviti opportunamente con millimetrici lanci lunghi, la palla giungerà spesso sui piedi dei giocatori scattanti a ridosso dell’area di rigore. Effettuare tali aperture non rappresenta uno sforzo fisico notevole per i giocatori più esperti; le difese avversarie tendono infatti a coprire centralmente il campo e a lasciare un maggiore spazio sulle fasce. E’ probabile che il vostro attaccante riceva il pallone a seguito del taglio in profondità, ma che debba poi vedersela immediatamente con il terzino avversario che arrancherà a coprire con non poca fatica. Beneficiano di questo aspetto i giocatori dotati di elevata velocità, i quali potranno riuscire a varcare i limiti dell’area di rigore con costante frequenza.

Il tocco palla in particolare è stato reso più realistico dall’atto del giocatore che col piede andrà in contro al pallone per stopparlo e potrà avere qualche difficoltà a trattenere la sfera se servito con palloni veloci a ridosso della linea difensiva avversaria. Ogni movimento del piede, ogni torsione della caviglia influiranno sul controllo della sfera. Se un calciatore mancino dovesse tirare col destro, e viceversa, ci accorgeremmo di quanta poca qualità riesca a mettere col suo piede non prediletto. Gli sviluppatori hanno curato ogni minimo particolare dell’azione dei corpi dei giocatori, a tratti più compassati ma sempre allerta. Occorrerà, dunque, dosare attentamente i passaggi corti, preda facile delle intercettazioni avversarie: questo è il primo aspetto contraddittorio di questo nuovo Fifa, nel quale i passaggi lunghi paiono maggiormente fruibili, mentre i passaggi corti hanno bisogno di una maggiore accortezza e precisione. “Fifa 18” ha il merito, o il difetto, di rendere semplici le giocate più complicate e complessi gli aspetti più facili di gioco.

  • E le difese?

Quello che colpisce più di ogni altra cosa è la facilità con cui i giocatori tecnici riescano a farsi beffa delle difese. I difensori, se non guidati da una mano esperta, potrebbero incappare in molte figure statiche da imbarazzanti “birilli”. Tuttavia, la vostra esperienza e le vostre conoscenze arricchitesi in anni di gioco non vi serviranno a molto. In questo nuovo capitolo di “Fifa” la difesa è interpretabile in un modo del tutto nuovo. Come ci ha abituato negli ultimi anni, Electronic Arts ha lasciato la possibilità ai giocatori di poter scegliere tra “difesa tradizionale” e “difesa tattica” (attenzione, online si potrà utilizzare solo la difesa tattica). La prima è più abbordabile poiché dà la possibilità ai giocatori di temporeggiare e pressare il portatore di palla allorquando si voglia compiere un tackle per reimpossessarsi della sfera. Nella difesa tattica si dovranno, invece, coprire molto più gli spazi e cercare di chiudere le linee di passaggio. Si potrà riprendere il pallone soltanto quando il contrasto sarà stato compiuto al momento opportuno. Il problema sorge nella situazione in cui i giocatori forti, veloci e tecnicamente abili, punteranno un difensore. Gli attaccanti tecnici lasceranno pochissime volte scampo ai loro avversari, creando con regolarità una pericolosa superiorità numerica. Le difficoltà a mantenere la porta inviolata, specie se amate sfidare la CPU in partite consistenti, dalla durata di una ventina di minuti per tempo, saranno alte per entrambe le squadre. Anche le difese della CPU commetteranno errori grossolani, che potranno spianare la strada ai vostri giocatori. A questo va aggiunta una certa costanza che si potrà notare nel realizzare gol da fuori area.

Se riuscirete a trovare una piccola apertura, un tiro da fuori, non sempre ben coordinato, potrebbe comunque rivelarsi inaspettatamente fatale. Più spesso del normale i portieri resteranno di sasso nel mentre seguiranno imbambolati la traiettoria del pallone insaccarsi nel sette da una distanza siderale. Pertanto i punteggi di una singola partita potranno essere ricchi di gol da una parte e dall’altra.

In “Fifa 18” vince chi commette meno errori, un qualcosa che però poco si sposa con il concetto di realismo che tanto abbiamo imparato ad apprezzare nei Fifa recenti. In “Fifa 18” non si ha mai la sensazione di essere veramente in controllo della linea difensiva nella sua interezza. Colpisce, a tal proposito, anche la semplicità con cui spesso possiamo realizzare una rete ai nostri avversari. Sorge spontaneo domandarsi se esista a tutti gli effetti una “questione difesa”, e se essa sia un tallone d’Achille invalidante per ogni formazione. “Fifa 18” vuole volutamente esaltare una forma di calcio spettacolare. Gli incredibili gol realizzati dalla lunga distanza, le molte possibilità di scartare i difensori, e i risultati rocamboleschi che possono cambiare nel giro di pochi minuti, certificano questa scelta, che poco ha a che vedere con il calcio più intenso, quello giocato sul filo di lana, per il rotto della cuffia e spesso deciso da un guizzo.

Lev Yashin tra le icone leggendarie di "Fifa 18"

 

  • Trattative “dal vivo”

Una tale questione, che potrà essere giudicata come un merito o un demerito da ognuno di noi, non penalizza in maniera totalmente decisiva le bellezze sparse nelle altre modalità del videogioco, che ancora una volta cattura l’essenza e l’adrenalina sportiva di una partita di calcio. La modalità carriera è certamente la componente manageriale più rinnovata. Quando si vorrà contattare una società per acquistare un loro giocatore, così come quando vorrete discutere il rinnovo di un vostro calciatore, le trattative avverranno in tempo reale e sotto i vostri occhi, con una sequenza filmata nella quale vedremo noi stessi in veste di allenatore/manager discutere con i rappresentanti delle squadre. Si potrà intavolare una trattativa sull’offerta, la forma dell’acquisizione e l’introduzione di una percentuale sulla futura rivendita e se la trattativa soddisferà le due parti in causa, si potrà passare successivamente a trattare direttamente col giocatore e con l’agente (con tanto di nuova sequenza filmata) in cui si limeranno i dettagli relativi al conguaglio economico.

La modalità carriera rappresenta un grosso passo in avanti e offre al videogiocatore la sensazione di star davvero vivendo la simulazione di un’esperienza da allenatore, selezionatore e manager calcistico. E’ stato altresì migliorato il sistema per scovare giovani talenti attraverso i viaggi organizzati degli osservatori in giro per il mondo, e in egual modo sono state perfezionate le tattiche degli allenamenti per far crescere ogni singolo giocatore, e infine è stata approfondita la gestione manageriale della società.

In tutto questo, la modalità “Il viaggio”, grande nuovo “marchio distintivo” presentato nella versione precedente del videogioco, riprende con interessanti novità. Hunter, il nostro alter-ego calcistico, vive il sogno che ogni amante del calcio vorrebbe vivere, il tutto in un coinvolgente film interattivo cui il videogiocatore potrà dare il proprio contributo soltanto sul campo. Tuttavia, si avvertirà ancora la sensazione di non avere un peso appagante sul progredire della storia e sulle decisioni del “campioncino”, che di fatto procederà nella sua carriera senza una vera possibilità di chissà quale scelta.

  • Conclusioni

La grafica di “Fifa 18” ha fatto notevoli balzi in avanti, oltre a una cura più evidente nella creazione dei volti di alcuni giocatori più famosi, anche gli stadi e i tifosi sono resi con ammirabile realismo tanto da far sentire il giocatore molto più partecipe dell’entusiasmo proveniente dagli spalti. Le gare rasentano nell’estetica una perfezione similmente paragonabile a una partita trasmessa in TV.

“Fifa 18” lascia in bocca, tuttavia, un retrogusto un tantino amaro. L’equilibrio tra le due fasi di gioco appare utopistico, i risultati tennistici piovono a grappoli e la simulazione dello sport più bello del mondo è ridotta ad uno spettacolo balistico per incantatori di folle. In questo ultimo episodio, i difensivisti e gli amanti della difesa imperforabile resteranno amareggiati, i fedeli al credo del “vince chi fa un gol in più dell’avversario” ne gioiranno.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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«Signore e signori buonasera! Comincio col darvi una notizia molto importante: ai tempi di Socrate non c'era la televisione. Proprio così, non c’era! E voi vi chiederete: "e che facevano i greci la sera, dopo cena?" Ascoltavano i miti.»

Questa frase venne pronunciata da Luciano De Crescenzo all’inizio della prima puntata della trasmissione “Zeus – Le gesta degli dei e degli eroi”. Era una garbata introduzione, un accogliente invito a prendere posto nel salotto della nostra casa, il quale per una ventina di minuti diveniva un tutt’uno con il salotto del Professor De Crescenzo. Curioso che lo scrittore napoletano tenesse a precisare che al tempo dei greci la televisione non ci fosse. Come potevamo non saperlo?! La simpatica esplicitazione aveva una particolarità, legata al fatto che De Crescenzo in quel preciso istante stava parlando di un’epoca così lontana, in cui la televisione non poteva esserci, e lo faceva proprio mediante un mezzo televisivo. Luciano De Crescenzo, seduto comodamente in poltrona, mentre reggeva sulle sue ginocchia un grosso tomo che con ritmata frequenza sfogliava, vestiva le immaginarie vesti di un cantore greco. De Crescenzo, per il pubblico italiano, quando il sole tramontava e la sera era oramai alle porte, diventava un moderno Omero. Un narratore che conferiva alle proprie parole il peso di una valenza scritta, impressa su di un foglio immacolato, quale poteva essere la mente di un ascoltatore che si apprestava a trarre informazioni da disquisizioni su di un argomento che non conosceva. De Crescenzo divulgava attraverso il potere “catturante” e “seduttivo” di una scatola rettangolare da cui fuoriescono suoni e immagini, e con essa valicava il limitare di una camera chiusa, entrando con la gentilezza di un affabulatore e con la signorilità di un maestro che ricava gioia nel trasfondere ciò che sa ai suoi allievi, di qualunque età essi siano.

Se un tempo la televisione non c’era, il popolo greco veniva intrattenuto dai miti che ne stimolavano la fantasia, alla pari di sequenze immaginate. De Crescenzo sfrutta il potere affascinante e persuasivo dell’invenzione per diffondere il verbo di una religione arcana.

De Crescenzo seguitava a paragonare il medium televisivo al racconto mitologico. I serial più articolati che venivano trasmessi in quegli anni, nelle loro trame avvincenti e imprevedibili, non si discostavano poi di molto dalla complessità della mitologia greca. Il mito greco era una narrazione strutturata in molteplici “episodi” che potevano cessare improvvisamente con quello che noi oggi definiremmo cliffhanger (colpo di scena) e condannare gli ascoltatori a giacere nel limbo di un’incertezza che sarebbe perdurata fino al giorno successivo, quando l’aedo lo avrebbe ripreso, come fosse stato un “arrivederci alla prossima puntata”. Una similitudine azzardata, direte voi lettori, ma che rende bene l’idea su come i greci si trastullassero nei loro momenti di noia. De Crescenzo affermava ironicamente che il mito più era corposo e di lunga durata più traeva vantaggio il narratore. Dividere la storia in svariate sezioni che andassero raccontate in altrettanti giorni garantiva al cantore la possibilità d’essere invitato per il medesimo numero di cene richiesto per completare il racconto. Dodici fatiche di Eracle equivalevano a 12 cene. E i cantori se piegati agli stenti della miseria potevano nutrire il loro stomaco in egual misura di come nutrivano la mente di chi ascoltava il loro arguto proferire. Ne andò di mezzo il povero Ulisse, che non riusciva in alcun modo a trovare la via di casa e a raggiungere la sua amata sposa a Itaca perché Omero aveva l’assoluto interesse a prolungare il racconto. Più durava la storia più inviti a cena avrebbe rimediato.

Intendiamoci, cari lettori, quella di De Crescenzo era una descrizione volutamente provocatoria, adusa a rendere simpatica l’idea di un “cantastorie” furbescamente opportunista.

Tali aneddoti costituivano la bellezza di quel programma, il modo in cui il professor De Crescenzo istruiva i suoi “alunni” di tutta Italia, impartendo lezioni con la genuinità di un saggio maestro dalla barba bianca e brizzolata che ama rendere semplice ciò che apparentemente non lo sembrerebbe affatto. Similmente a quanto fece l’indimenticabile maestro Manzi agli inizi degli anni ’60, quando educava con l’amorevole cura di colui che era disposto a servirti una nozione o un fondamento grammaticale come fosse poggiato su un cucchiaino d’argento e pronto ad essere portato alla bocca per venire “fagocitato” e pertanto “appreso” in un sol boccone, così De Crescenzo teneva le sue lezioni di mitologia con un linguaggio amicale, buffo, gradevole, di certo fruibile e piacevolmente interessante. La mitologia greca veniva così trattata in tutte le sue più svariare rappresentazioni. Persino chi non provava alcun interesse per una simile trattazione, udendo quei racconti non poteva che restarne rapito, affascinato, e sviluppare un sentimento d’ammirazione nei riguardi di una cultura così raffinata come quella greca.

Ma andiamo ancor più nel dettaglio. “Zeus – Le Gesta degli Dei e degli Eroi” venne mandato in onda dalla Rai negli anni Novanta, e fu un programma prodotto da Mario Orfini e Giovanna Romagnoli. Ogni puntata si apriva con una maestosa panoramica circolare dello splendido quadro del pittore Giulio Romano, custodito al palazzo Te di Mantova. Era una sorprendente raffigurazione della volta celeste, l’Olimpo pullulante di divinità che poggiavano i loro immortali corpi su nuvole di bianca consistenza. Questo moto circolare si apriva sulle siluette, immortalate in una posa plastica e d’immane bellezza, di Zeus ed Era. Il padre degli dei era intento a scagliare le folgori dal cielo, ed esse erano state dipinte come grosse criniere dorate, avvolte da scariche elettriche.  Il giro terminava nuovamente sulle figure del Re e della Regina degli dei, per poi progredire più in alto nella visione e soffermarsi in dissolvenza su di un’aquila con le ali spiegate.

De Crescenzo da sempre si è interessato a questo tema, tant’è che i miti greci hanno rappresentato il filo conduttore di molte sue opere pubblicate. Per tutta la durata della serie televisiva lo scrittore racconta le vicende in chiave umoristica, con una buona dose d’ironia, in una cornice prettamente teatrale. Lo studio dello scrittore era eterogeneo, una scrivania era disposta centralmente nella stanza ed era la postazione prediletta dal professore, sui cui sedeva e cominciava il suo racconto. Alle sue spalle, una libreria adornata con pile di magnifici libri posti in posizione verticale, dava lustro ai lati della scenografia. Centralmente, poco al di sopra del volto del maestro, solitamente, trovavano posto quattro piccoli dipinti, illustrati dai curatori del programma, che servivano da supporto al mito che da lì a poco sarebbe stato trattato. Tali quadretti cambiavano di episodio in episodio, ed erano cinti da ghirigori dorati. Gli angoli della scena erano impreziositi da due busti marmorei di stampo greco, che, a seconda dell’argomento narrato, mutavano fisionomia. Il busto a cui De Crescenzo prediligeva rivolgersi aveva i caratteri somatici di Socrate.

Sulle pareti laterali, anche i quadri venivano opportunamente vagliati e posizionati di volta in volta per fungere da mutevoli raffigurazioni dei variegati miti. Quelle calde pareti traspiravano sapienza, e quegli scorci ravvicinati emanavano il gusto per l’antico. La zona più appartata dello studio conteneva alcune poltrone e anche un televisore. De Crescenzo, tuttavia, non si limitava a raccontare staticamente le proprie storie all’interno dello studio. Spesso girava all’esterno, portava i suoi telespettatori a visitare sale di museo e a scoprire statue antiche, in un viaggio di formazione attraverso le bellezze paesaggistiche, scultoree e di contenuto del mondo greco.

Tutta la serie era organizzata secondo un’attenta progressione narrativa. Le gesta degli eroi e le inclementi decisioni degli dei sono scandite con estrema naturalezza sin dalle prime battute. Dopo essere partiti con i racconti sulla creazione del mondo e sui miti degli dei e le imprese degli eroi, si continuava poi con i miti riguardanti le grandi storie d’amore e si terminava con i racconti dell’Iliade.

Quando la serie terminò, venne raccolta e messa su supporto magnetico, nonché distribuita in edicola e suddivisa in quattro gruppi d’appartenenza:

  • I miti degli Dei
  • I miti degli Eroi
  • I miti dell’Amore
  • I miti della guerra di Troia

Ciascuno dei gruppi constava di un cofanetto con due videocassette e un libro a fumetti (24 volumi cartonati in totale) di approfondimento dell’argomento trattato, corredato di citazioni, aneddoti e curiosità. Con questi fumetti, lo scrittore raccontava nuovamente il mito facendolo vivere attraverso il disegno e lo sviluppo su "tavolozza".

La mitologia in senso generale spesso viene vista come una matassa difficile da dipanare. I fili degli innumerevoli racconti si intersecano, si aggrovigliano e si disperdono in essi stessi. Il complesso dei miti e delle leggende che l’antichità ha intessuto intorno alle creature eccellenti del mondo, gli dei e gli eroi hanno da sempre affascinato studiosi di ogni tempo, suscitando in loro interesse e curiosità.

De Crescenzo col potere della parola ci conduce per mano nel mondo sconfinato dei miti, ci fa viaggiare all’interno delle imprese degli eroi, tra vicende di gente non comune, in una realtà fittizia, creata dalla fantasia greca, ma sempre presente e ancora magicamente viva e palpitante. Le loro imprese e le loro sofferenze hanno significati profondi, radicati in un mondo e in una cultura millenari.  Le gesta, le fauste imprese, così come la gloria, gli amori, ma anche i patimenti e gli affanni degli eroi, le pagine narrative e di riflessione della letteratura greca sono spesso come le teche di una mostra, di un’esposizione, sia pure pregiata, unica, ma comunque astrusa da comprendere. E’ necessario quindi rendere tutto accessibile, di facile comprensione, goduto da ciascuno di noi.

In tutto questo c’è riuscito appieno Luciano De Crescenzo, che con un linguaggio semplice ed essenziale, alla portata sia della persona informata che del dotto, così come pure nei confronti dell’uomo della strada ha reso interessante ciò che per alcuni poteva risultare erroneamente noioso.

Nel viaggio ipotetico di De Crescenzo si scorgono sempre luoghi sconosciuti, s’incontrano genti nuove, si viene a conoscenza di storie, leggende e tradizioni provenienti da ogni angolo remoto della Grecia. Sarà per il fruitore del mezzo televisivo un continuo scoprire, appropriarsi di nuovo scibile, ma per qualcuno sarà anche un rivisitare, con occhio diverso, quelle realtà storiche e di sapere che già conosce.

I miti contengono un patrimonio di saperi, regole morali, modelli di comportamento, conoscenze che vengono prima di qualsiasi altra elaborazione concettuale.

Il lavoro di De Crescenzo fu sublime, egli rese il trasporto di un’informazione come fosse un lascito, un meraviglioso simposio dialogico tra un parlante e colui che avrebbe fatto proprie quelle parole.

Le musiche, come fossero composte da un suonatore di lira, spesso accompagnarono i passi del mito esternato vocalmente, sorreggendo le parole riguardanti tali bellezze antiche e supportandole a fluire nel cielo, e giungere fino alle costellazioni che tutt’oggi recano il nome dei protagonisti dei miti e a incastonarsi tra il firmamento dell’immortalità. Sinfonie e versi donati al sentimento e alla ragione.

Quella di “Zeus – le gesta degli dei e degli eroi” fu arte allo stato puro, un’eloquente messa in scena narrativa e d’apprendimento, che poggiava sulla bellezza della semplicità, del racconto perpetrato vocalmente per intrattenere gli ascoltatori e per dilettare il sentimentalismo e la razionalità, per riscaldare il cuore e accarezzare la mente.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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“La grande fuga”, “Fuga da Alcatraz”, “Il fuggitivo”, “Fuga per la vittoria”, il cinema hollywoodiano ha sempre mostrato un certo feeling per le già citate fughe. Sono storie dai ritmi frenetici, imprese compiute col fiato sospeso tanto è il rischio cui sono investiti i protagonisti di un tale cinema d’azione. Le fughe nel medium cinematografico sono corse contro il tempo per sfuggire alla presa invalidante degli inseguitori, sono evasioni che spesso nascondono, dietro le loro impavide e spericolate galoppate, significati ben più profondi. La “fuga”, tanto ostentata nei titoli iniziali, rappresenta una voglia di sortita dal sistema, di allontanamento da una società opprimente che schiaccia i deboli, una corsa verso un orizzonte indefinito che abbia la mera e fiduciosa illusione di costituire un luogo lontano e sicuro, in cui il fuggitivo possa ricongiungersi con se stesso e ricominciare una nuova vita. Tra i film che trattano di “fughe” ce n’è uno che possiede una particolarità, una fuga dal pericolo e dalla morte che aleggia sul protagonista con inclemenza: è “1997: fuga da New York” di John Carpenter.

Il suddetto film è un’opera di fantascienza che segue l’approccio stilistico dei tipici film d’azione. Carpenter immagina un futuro distopico, un “1997” in cui la città di New York viene cinta da grosse mura invalicabili che la circondano nella sua interezza. Manhattan è stata evacuata da nove anni e da allora è diventata una sorta di immensa prigione per tutti i detenuti che sono stati trasferiti laggiù e abbandonati a loro stessi. La città pullula di criminali ed spietati assassini. Durante un attacco terroristico l’aereo presidenziale viene dirottato e il presidente degli Stati Uniti precipita all’interno della città, venendo catturato dai più pericolosi delinquenti della decaduta metropoli, capeggiati da un leader chiamato “il Duca”. Per salvare il presidente, il quale possiede un nastro magnetico su cui è inciso un importante messaggio da comunicare al mondo, il governo sceglie di inviare un combattente esperto nel campo dell’infiltrazione e della sopravvivenza in zone ad alto rischio. Tale guerriero, il cui nome è Snake Plissken, è stato da poco catturato dalle forze dell’ordine per rapina. Gli viene promessa la libertà se in 24 ore riuscirà a trovare e liberare il Presidente. Per garantirsi la fedeltà massima, all’ex soldato vengono iniettate nel corpo due capsule che lo uccideranno se non farà ritorno allo scoccare della ventiquattresima ora.

“1997: fuga da New York” è un’opera tenebrosa che rivisita i peccati, le imposizioni del potere, l’apatia della società e l’indifferenza della stessa nei confronti del prossimo, racchiudendo tutti questi elementi in un contesto scorretto, anomalo, irreale eppure così comprensibile. Quella di Carpenter non è una spaventosa profezia esternata come monito, più che altro è una angosciante rilettura estremizzata di una realtà brutale divenuta così per colpa di una falsa istituzione governativa che tratta il popolo come fosse un oggetto, e considera i criminali come rifiuti immondi da esorcizzare al di fuori del mondo conosciuto. New York è una città tramutatasi in un immenso e soffocante penitenziario governato dal caos e da uno stato tribale di uomo contro uomo. L’essere umano si è tramutato in una bestia primordiale, come se fosse regredito agli albori dell’anarchia.

In questo contesto così torbido, il Duca riveste il ruolo dell’assemblatore di mandrie, di colui che cerca di unire sotto il proprio pugno di ferro la crudeltà di un gregge malato per porla sotto il proprio giogo. In una società in cui non vi sono regole, il Duca vuole diventare l’unico e solo sovrano di una nuova forma di governo che ha fondamento nel terrore. Ma chi ha portato a questo? Cosa ha condotto a questo stato di inciviltà primitiva? E’ stata la modernità di un governo egoista ed egocentrico, che ha dimostrato la propria insensibilità trattando un ex eroe di guerra, il protagonista, come fosse al pari di un oggetto da utilizzare per proprio tornaconto e rischiare di annientarlo pur di raggiungere l’obiettivo prefissato dai superiori. L’essere umano non conta più nulla per i potenti in “1997: fuga da New York” e questa è un’amara verità che Plissken terrà bene a mente quando inizierà la sua missione.

Egli riuscirà ad addentrarsi al calar della notte in città, nascondendosi tra carcasse di automobili abbandonate e muovendosi camaleonticamente tra i palazzi che nel frattempo si sono trasformati in enormi ricettacoli di malvagità e impudenza. Così darà inizio alla sua personale fuga contro il tempo per sfuggire alla gelida presa della morte e al tormento di una realtà alienante di un mondo post-apocalittico.

Jena, interpretato da Kurt Russell, nei suoi protratti silenzi, nelle sue espressioni digrignanti, nelle sue brevi interlocuzioni ciniche, e nella sua aria spavalda ma rassegnata, ricalca lo stereotipo dell’antieroe riluttante, la cui missione è stata imposta come una dannazione; in vero egli risente della passività mostrata delle autorità, e nutre un desiderio di rivalsa nei confronti del potere politico. Jena nel film incarna l’anima del fuggitivo, di colui che fugge dalle convenzioni sociali di una realtà ambigua, che scappa dai dettami imposti da un totalitarismo meschino, che corre via da coloro che odia.

Non chiamatelo Plissken! Chiamatelo Snake, letteralmente “serpente”, perché egli, come ci suggerisce il tatuaggio che fa da marchio sulla sua pelle, sa essere letale come un cobra.  Si tratta di un epiteto distintivo, un soprannome indicativo scelto per descrivere un uomo solitario. Chiamatelo in alternativa Jena, un particolare appellativo scelto arbitrariamente per volere dell’adattamento italiano, e che, sebbene si distacchi dall’originale, tale parola ricalca in egual modo il suo temperamento forte, sdegnoso e aggressivo. Jena Plissken è un cacciatore, un predatore “spazzino”, che si trova costretto ad acciuffare una preda preziosa per una società corrotta, che lo ha abbandonato come fosse un reietto.

Potete chiamarlo Snake, o Jena, starete pur sempre descrivendo il medesimo antieroe, un fuggitivo che lotta contro il tempo, tra la vita e la morte, per adempiere a una missione obbligata, come fosse un castigo pronunciato da giudici che giocano con la vita di chi considerano alla loro mercé. Jena è guercio, vede solo dall’occhio destro, quello sinistro viene coperto da una “benda da pirata”. Nonostante la sua menomazione, Jena riesce a vedere le tele ingannatrici di chi è al comando.

Jena nella sua disavventura a New York dovrà combattere contro l’inarrestabile scorrere del tempo in una sfida che lo porterà quasi ad udire costantemente il rumore dei secondi che scorrono via e che lo avvicinano tristemente alla sua dipartita. Egli guarda il proprio orologio con l’ansia di chi ha una spada di Damocle sul capo pronta a cadere quando la mano del tempo mollerà la sua già traballante presa. L’intero film è una duplice fuga per il protagonista, una fuga da un mondo lercio e sordido e da un fato che lo fa sentire in trappola.

Quando Jena riuscirà a porre in salvo il Presidente e salverà se stesso per il rotto della cuffia, avrà la conferma di quanto già sapeva: ha salvato la vita a un “regnante” amorale e insensibile. A quel punto il capriccio di Snake si compirà, egli sostituirà i nastri e darà al Presidente la semplice registrazione di un brano musicale. Jena, invece, avrà il nastro contenente il messaggio, e lo distruggerà con le sue mani. Una fredda vendetta perpetrata a danno di uno Stato che ha smarrito ogni forma di morale. Non chiamatelo Snake, non chiamatelo Jena, chiamatelo semplicemente Plissken: un cognome vero in un mondo di figure distorte.

Voto: 7/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Arlo e Spot disegnati da Erminia A. Giordano per CineHunters

 

De “Il viaggio di Arlo” se n’è parlato poco, come se fosse stato l’argomento meno stimolante in un’interlocuzione a tema. “The Good Dinosaur” fu la seconda creazione dello studio Pixar del 2015, che per la prima volta scelse di distribuire due e non più soltanto una delle proprie creazioni nello stesso anno. “Il viaggio di Arlo” venne rilasciato dopo l’avvento del tanto discusso e acclamato “Inside Out”, il film che tra i due ebbe con merito ciò che comunque ingiustamente mancò ad “Arlo”: una ricezione ragguardevole. “Inside Out” fu il film d’animazione di maggior successo dell’anno, “Arlo”, invece, dovette accontentarsi d’essere il “fratellino più piccolo” tra le due opere figlie di una stessa madre, la Pixar che le generò e le amò entrambe. Questo perché ambedue ricche di valori e insegnamenti messi in scena secondo la pregevole rappresentazione animata tipica degli studios. “Il viaggio di Arlo” ebbe un impatto mediatico somigliante all’aspetto del proprio protagonista: minuto ma apprezzato, piccolo ma tutto sommato di successo. “The Good Dinosaur” è riuscito a ritagliarsi comunque la propria fetta di pubblico, magari in un numero non poi tanto altisonante, ma quanto basta per lasciare un segno, una piccola impronta impressa nel cinema d’animazione.

65 milioni di anni fa, nello spazio, un meteorite precipita con apocalittica rapidità verso la terra. Qualcosa, tuttavia, non va come la storia ci ha insegnato, il meteorite manca la Terra e procede verso una rotta a noi ignota. I dinosauri, scampati così all’estinzione, nei successivi millenni si evolvono, sviluppando capacità cognitive simili a quelle umane.  Arlo è un dinosauro erbivoro, ultimo di tre fratelli.  La stranezza che possiamo cogliere al momento della sua nascita è quella che, sebbene l’uovo che conteneva Arlo sia più grande e capiente del normale, egli, quando l’involucro si dischiuderà, apparirà più gracile dei suoi fratelli.  Arlo vive in una fattoria con la sua famiglia, e cresce all’ombra del fratello e della sorella, ben più abili di lui nel lavoro. Arlo è schiacciato dalla paura, e appare costantemente atterrito e spaventato dai pericoli del mondo esterno.

Per fargli acquistare maggiore fiducia in se stesso il padre gli affida il compito di catturare un misterioso predatore che si intrufola per nutrirsi nel rifugio in cui i dinosauri custodiscono le loro riserve di cibo accumulate per l’inverno. Il ladruncolo, che si rivelerà essere un cucciolo di essere umano, viene scoperto un giorno da Arlo il quale, tuttavia, esiterà a colpirlo. A quel punto, il padre sceglierà di accompagnare il figlio oltre i sicuri recinti della fattoria per inseguire l’inaspettato predatore. Questa ricerca avrà un esito drammatico: il padre di Arlo morirà durante una tempesta, strappato all’affetto del figlio dalla potenza dello sfocio di un’inondazione. Arlo, decidendo di riacciuffare quel cucciolo, comincerà, suo malgrado, un viaggio nel mondo preistorico.

“Il viaggio di Arlo” avvicina due esseri appartenenti a razze diverse e li accomuna. Il rispetto che avvicina il dinosauro al bambino ha come fondamento la certezza che non è la differenziazione della specie a rinsaldare un legame ma la comunanza di un sentimento, la vicendevole comprensione empatica. Arlo e il piccolo umano, rispettivamente animale e uomo, si avvicinano tra loro colmando i vuoti e stringendo un legame affettivo simbiontico nel quale l’uno riempie gli spazi lasciati dall’altro. La differenza primaria che lo spettatore riesce a notare è che tale rapporto viene espresso mediante il rovesciamento delle parti. Sebbene “Il viaggio di Arlo” abbia una struttura prevedibile e uno sviluppo che lo spettatore saprà piacevolmente anticipare, riesce comunque ad offrire una mutata originalità compiuta nel capovolgimento che fa in merito alla razza animale e quella umana. Qui è l’animale ad essere progredito, ad occupare un posto di prima grandezza nella scala gerarchica dell’evoluzione. I dinosauri parlano, sanno coltivare la terra e raccogliere i doni che essa elargisce a chi sa prendersene cura. L’uomo si trova a vivere in una fase embrionale della propria ascesa. Spot, il tenero ma deciso cucciolo di uomo, cammina a quattro zampe, ringhia e grugnisce, ha un forte istinto predatorio e di sopravvivenza, denti forti con cui si procura il cibo, e si esprime non certo a parole ma con degli ululati che rilascia inarcando il volto verso il cielo. Nelle iniziali discrepanze, Spot conquista la fiducia di Arlo.

Arlo, docile e indifeso, e Spot, piccolo ma isolato, assurgono ai ruoli dei due poveri emarginati. Entrambi hanno perso i loro affetti più cari, e forse Spot più di Arlo ha perduto quanto di più significativo la vita gli ha dato. Essi dialogano sulle loro mancanze comunicando con il simbolismo di alcuni ramoscelli messi in posizione ed irti sul terreno: Arlo ne mette cinque in fila, dal ramoscello più grande, rappresentante il padre, al più piccolo, rappresentante egli stesso. Spot risponde posizionando tre ramoscelli, tra cui uno piccolo raffigurante se stesso. A quel punto, Arlo depone il ramoscello più grande della sua fila e lo seppellisce. Spot risponde facendo lo stesso sui due rametti che altro non rappresentano che sua madre e suo padre. Arlo ha perso l’ancora della sua vita, Spot addirittura le uniche persone che si prendevano cura di lui. Entrambi hanno raffigurato la loro famiglia racchiusa in un cerchio che adesso sembra essersi dissolto sul terreno. Soli e sofferenti, Arlo e Spot si completano in un rapporto affettuoso che sancisce la capacità umana e animale di poter capire le sofferenze altrui, in un’umanizzazione totale che abbraccia i personaggi e li rende comprensibili da noi tutti.

“Il viaggio di Arlo” è un film di formazione, di maturazione fisica e caratteriale, non strutturato secondo una vera e propria trama, bensì secondo un’esperienza iniziatica di vita. Nelle loro peregrinazioni, Arlo e Spot affrontano numerosi pericoli che li pongono davanti a un Triceratopo leggermente “fuori di testa”, a spietati Pterodattili famelici e a Tirannosauri sorprendentemente socievoli e amicali, in un continuo ribaltamento di quelle aspettative che gli spettatori nutrono nei confronti delle razze che via via incontrano e che sfidano i preconcetti della vita reale. Poco prima di giungere al capolinea della loro avventura, Arlo fronteggia le paure che da sempre lo avevano piegato alle avversità della vita. Egli capirà che lo stato di allerta della paura farà sempre parte del suo animo ma starà a lui riuscire coraggiosamente a ridurlo. Sotto una fitta pioggia battente, durante un temporale come quello che si è abbattuto sulla terra il giorno in cui Arlo perse suo padre, il giovane dinosauro fronteggia tuoni e fulmini, predatori e insidie per salvare il suo fraterno amico e condurlo in salvo. Al termine di questa sua personalissima impresa, Arlo avrà raggiunto la meta astratta del suo intimo percorso.

“Il viaggio di Arlo” è un film emozionante, visivamente meraviglioso e alquanto commuovente, una piccola perla della Pixar che forse non sarà preziosa come le altre ma potrà essere comunque custodita nel loro scrigno d’arte.  Si tratta di un lungometraggio circolare, che si muove come su un percorso ben delineato, la cui iniziale tracciatura si ricongiunge sul cessare della circolazione. Nella fine Arlo ritrova la propria partenza, la casa da cui ebbe inizio il suo viaggio. Esso si ricongiunge alla propria famiglia non prima di aver detto addio al suo amico. Spot, il quale attraverso i suoi ululati aveva attirato a sé una famigliola della sua specie, vorrebbe portarlo con sé ma non può farlo. Entrambi hanno finalmente trovato ciò che stavano inconsapevolmente cercando: Spot la sua nuova famiglia, Arlo il suo posto nel cerchio della vita come voleva suo padre, il quale teneva sempre a ricordargli quanto suo figlio fosse come lui, se non di più.

Arlo, col proprio muso, traccia un cerchio sulla terra che cinge Spot con quelli che saranno i suoi nuovi mamma e papà. Il piccolo umano comprende che le loro strade si divideranno e saluterà il suo amico-animale abbracciandolo. Tra le lacrime, Arlo dice addio a Spot che felice smette di gattonare, e si pone su due gambe, imitando l’andatura dei suoi genitori adottivi che camminano in posizione eretta. Sul finale, il film ci regala un ultimo, celato messaggio: è l’inizio di un percorso evolutivo che abbraccia tanto i dinosauri quanto l’essere umano che abbiamo conosciuto. Il cerchio proseguirà il suo moto circolatorio, fatto di crescita, di sviluppo, semplicemente di…vita.

“Il viaggio di Arlo” ci insegna come l’esistenza possa essere ostica da affrontare ma ricca di insegnamento. Tante lezioni che possiamo imparare se diamo ai nostri sentimenti un peso imprescindibile nella comprensione dell’atteggiamento altrui.

“Il viaggio di Arlo” è emozione pura, intensa, che si avverte come il lieve soffio del vento sul viso. Un soffio leggero, impercettibile così delicato da essere sentito anche dalle lucciole che si nascondono tra le verdi radure dei boschi adiacenti la dimora di Arlo e che, sentendo il sospiro, si librano in aria rilasciando una luce verde, evanescente. L’emozione prodotta dal film assume una tonalità di verde, che è proprio il colore della speranza che abbandona il suolo e si innalza verso il cielo azzurro cupo della notte.

E’ un qualcosa che resta ben scolpito nel cuore degli spettatori, come l’orma che Arlo vuol imprimere sul silo, accanto a quella che aveva lasciato suo padre. Un'impronta che può essere suggellata solo al raggiungimento di un traguardo importante. Così Arlo può segnarla al suo ritorno a casa, proprio accanto a quella che fu del suo amato genitore. L’egual valenza possiede il film: la valenza di un’impronta emozionale marchiata nel cuore di chi ha osservato.

Voto: 8/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Anno 2019, Rick Deckard (Harrison Ford in uno dei suoi ruoli più iconici) è un cacciatore di replicanti, chiamato ad un’ultima missione prima di ritirarsi. Quest’ultimo incarico concerne il ritrovamento di sei replicanti fuggiti dai campi di lavoro nelle colonie extraterrestri e rientrati sulla Terra per nascondersi tra la folla anonima. I replicanti sono fabbricazioni di androidi dall’aspetto umano. Deckard decide così di mettersi alla ricerca di quei “fuggitivi”. Nell’arduo tentativo di rintracciarli, Rick è affiancato da Rachel, una donna non consapevole d’essere essa stessa una replicante. Gli androidi rinnegati sono guidati da Roy Batty (Rutger Hauer) e Pris (Daryl Hannah) e mirano ad incontrare il creatore dei replicanti per ottenere un prolungamento della loro vita, che cessa dopo soli 4 anni…

Nel 1982, Ridley Scott tornava al cinema con l’ultima delle sue fatiche: “Blade Runner”. Si trattava del secondo lungometraggio di genere fantascientifico che recava la firma di Scott, due anni dopo il grande successo di “Alien”. Il cineasta statunitense era quanto mai deciso, quasi immantinente nel voler dimostrare nuovamente la propria attitudine a sollevare interessanti argomentazioni inscenate in contesti futuristici e altamente dispotici. Con la creatura aliena concepita da Hans Rudolf Giger e plasmata in terrificanti fattezze da Carlo Rambaldi, denominata Xenomorfo, Scott filmò in “Alien” l’incarnazione parassitoide di un innaturale terrore bestiale. Alien era la paura trasfigurata nella raccapricciante deformità di un essere ostile e predatorio, che con la sua orripilante tecnica riproduttiva reinterpretava una violazione fisica, uno stupro al corpo umano, che veniva tramutato obbligatoriamente in ospite e, al compimento della propria straziante morte, in genitore partoriente di una paura immonda, data alla luce dal dolore di un parto violentemente imposto. Alien era un incubo primordiale a cui dare corpo difforme e atroce movenza, gesto efferato e rumore sinistro, verso spasmodico e respiro convulso.

Con “Blade Runner” la fantascienza di Scott navigò lontano, si protrasse lungamente verso uno stadio successivo, e attraversò le lande desolate di un universo narrativo, in cui avrebbe ricercato altre complessità tematiche, basate sull’analisi dell’esistenza, della religione e dell’autocoscienza. Con “Blade Runner” la paura obbrobriosa di un mostro d’imprecisata natura viene accantonata per essere sostituita da una evoluzione stilistica umano-centrica, ovvero che pone l’umanità al centro di un articolato dibattito filosofico e morale. Gli scenari cambiarono, e Scott non basò la sua storia incentrandola sui limiti circoscritti di una nave spaziale, bensì sul centro urbano di una Los Angeles nebulosa e sozza, inquinata e claustrofobica, così come appare in questo immaginario 2019. “Blade Runner” apprende la paura di “Alien” e la converte in un ansioso climax paranoico e tremendamente sospettoso. Il termine significante della parola “certezza” vacilla maledettamente, come fosse un concetto aleatorio e vacuo. “Certo” può anche significare “errato”. Nulla è realmente certo in “Blade Runner”; la certezza non esiste, non è altro che una chimera, un’illusione scientifica che avviluppa ciò che è umano e ciò che non lo è, e che viene inglobata in un’atmosfera angosciosa, carburata dalla costante inquietudine su chi sia un autentico essere umano e chi un replicante mimetizzatosi camaleonticamente con il resto della popolazione.

I replicanti non necessitano, tuttavia, delle medesime qualità dei camaleonti, non hanno bisogno di mutare il loro colore epidermico a seconda del terreno e dello spazio che li circonda, essi sono iperrealistiche riproduzioni del derma, e sono totalmente somiglianti agli uomini. Pertanto, il camuffamento verte sul mantenere un atteggiamento “tranquillo”, nella speranza d’evitare d’essere scovati e sottoposti al test per il riconoscimento.

“Blade Runner” è un noir fantascientifico, gotico e ombroso, ambientato per la quasi totalità nelle ore buie della giornata, quando il sole tramonta e le ombre degli uomini e dei replicanti vengono livellate e poi annullate dalla scomparsa del sole. Se i noir di un tempo erano girati in bianco e nero, e il fumo della sigaretta accesa fumata dai protagonisti si levava in alto, come una nuvola grigiastra che immerge i personaggi in un’atmosfera irrespirabile, in “Blade Runner” i colori sono distillati sulle illuminazioni esterne degli sfondi piovosi ma incupiti dalle scenografie fredde, buie, tenebrose. La storia di questa pietra miliare del cinema fantascientifico è quella di un avvenire crepuscolare per la razza degli uomini, in cui il sorgere di un domani chiaro, limpido parrebbe d’impossibile previsione.

“Blade Runner” è un inarrestabile pianto amaro e malinconico, che si manifesta nella pioggia copiosa che bagna la città con triste abitudine. Si vive in un avvilente presente nel quale la vita scorre via come lacrime sotto la pioggia. Il clima alienante emana un’insicurezza intollerabile. A cominciare dal personaggio di Rachel (Sean Young), così bella e generosa da rendere la verità sulla sua origine ingiusta, poiché risulta inaccettabile che essa non sia nata col dono della vita umana. Rachel è una replicante che non sa di esserlo, un destino dall’esito pauroso che mette in dubbio persino la veridicità dei ricordi d’infanzia, innestati in modo artificioso nella sua sfera mnemonica. Essa quando scoprirà la sua vera natura ne rimarrà inorridita. Nulla può essere come sembra nell’opera di Scott: umanità e artificiosità si mescolano in un affresco dai colori indistinguibili. Sebbene la natura di Rachel sia tale, Deckard se ne innamora e vorrebbe fuggire via con lei da una così avvilente quotidianità urbana.

L’indagine ricercata del protagonista si abbina alla disperata fuga per sottrarsi all’implacabile passare del tempo che consuma gli ultimi granelli di sabbia nella clessidra dei replicanti capeggiati da Roy Batty, ai quali restano pochi giorni di vita prima della dipartita. E’ la fascinosa analisi esistenziale che “Blade Runner” attua. Gli androidi, vivi e senzienti per loro stesse ammissioni, desiderano quello che non potranno in alcun modo ottenere: una vita durevole che possa essere impreziosita da un allungamento del tempo loro concesso. Essi sono stati creati da un padre che ne depreca le volontà, considerandoli dei figli illegittimi, ammassi di cute e circuiti. L’atto della creazione viene rivestito di un’accezione abominevole, poiché adempiuto da un insensibile creatore che genera una forma di vita senza curarsi della conseguenza delle vittime (i replicanti) che ricevono il peso di un’ingiuria. Tale offesa riguarda proprio i replicanti, la cui sola colpa al momento della nascita è quella d’essere stati confezionati, impacchettati e dischiusi dal torpore di un parto mai avvenuto, per fini lavorativi. Essi investigano sul loro imminente futuro, semmai dovessero averne uno, parallelamente all’investigazione che Deckard compie per stanarli e distruggerli. Mentre essi anelano alla speranza di una vita in modo anche violento e privo di remore, Rick è costretto a escogitare il modo per annientarli.

Quando Roy Batty incontrerà il creatore dei replicanti assisteremo ad una fantomatica e intensa riproposizione fantascientifica di un “essere vivente” che si imbatte nel proprio Dio, in colui che dall’alto di un sapere universale ha generato la vita. La richiesta di Roy Batty, proferita con una fermezza che cela la disperazione, è quella riguardante un prolungamento dell’esistenza. Quando riceverà la risposta negativa, ovvero l’impossibilità di evitare il deterioramento dei circuiti allo scoccare del quarto anno, Batty bacerà il suo creatore e lo ucciderà. Un bacio d’addio, di rassegnazione, il “bacio di Giuda” rilasciato da un replicante che si è sentito esso stesso tradito, e che si prepara a compiere un parricidio, o altresì una sorta di omicidio compiuto da un essere ai danni di un dio creatore che si è mostrato non misericordioso nei riguardi della sua creatura. Roy Batty parrebbe assumere i contorni religiosi del Lucifero insorgente.

A questo punto i replicanti rimasti sarebbero fuori controllo, e vorrebbero vendicarsi. Deckard li insegue per porre fine ai loro tormenti e per far cessare i pericoli ad essi accomunati. Segue una colluttazione brutale, nella quale Roy Batty dimostra la sua forza sovrumana e la ferrea durezza con cui vorrebbe uccidere Deckard. Tuttavia, sul finire delle vicende, quando ormai Deckard provato e prossimo a morire sta per lasciarsi cadere da un precipizio verrà raggiunto dall’androide che lo raccoglierà col suo braccio e lo trarrà in salvo. Roy Batty, il replicante, mostra un’inaspettata misericordia, una pietà che nessuno ebbe nei suoi riguardi. Agguanterà ed espleterà un’umanità sopita e a quel punto più vera che mai, perdonando il suo inseguitore e permettendogli di continuare a vivere.

«Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di morire

Quando declamerà il suo celebre monologo finale, un canto funebre di commiato, lascerà traspirare quanto la vita, veritiera o irreale, sia ineffabile, e i ricordi, le storie, le singole esperienze e le meraviglie dell’universo osservate in un battito di ciglia e conservate nei ricordi di un animo vitale possano svanire come lacrime che abbandonano gli occhi e scivolano giù lungo le guance al momento della morte. Ciò che abbiamo vissuto scomparirà, i momenti andati diverranno momenti perduti. Ma essi potranno essere in parte custoditi nell’eredità dei nostri discendenti, negli affetti delle persone a noi più care. Questo non è possibile per un replicante, e per tale ragione, nel finale sarà il salvataggio di Roy Batty ad assumere un significato profondo. Esso verrà rammentato dal protagonista come testimonianza di un gesto di riconoscenza, effettuato in punto di morte.

“Blade Runner”, ancor più che una parabola sull’esistenza, trovo sia un racconto allegorico sull’impossibilità d’arrestare la morte. Lo spegnersi di una vita è il passo finale di ogni singolo essere. Tutti noi nasciamo e siamo consapevoli che la nostra permanenza sulla Terra sarà solo temporanea, una sorta di assoluto passaggio. La morte, come scrisse J.R.R. Tolkien, è un dono che “Eru Ilúvatar” ha elargito agli uomini di Arda, i quali quando sarà il momento dovranno abbandonare la propria dimora per calcare l’etere e le bianche sponde. La morte potrà essere un’altra via per gli uomini, ma per i replicanti? Non ci sarà nulla, tutto svanirà in un solo e fatale istante dopo poco più di quattro anni, un tempo drammaticamente misero ed esiguo. Nel suo tragico “spegnimento”, la personalità misteriosa di Roy Batty ha sublimato l’importanza della “sopravvivenza”, offrendo la vita a colui che era un suo nemico.

Rick, rimessosi in piedi, si ricongiungerà a Rachel, e con essa scapperà via. Al termine del lungometraggio, l’alone del sospetto seguita a permanere. Un dubbio venuto alla luce nel corso degli anni, alimentato da piccoli indizi di natura mitologica, che assumono l’aspetto di un unicorno, e che disseminati nelle varie versioni inducono noi spettatori a vestire gli inaspettati panni di “cacciatori di replicanti”. E se persino Dekcard fosse un replicante?

Voto: 9/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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