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Recensione e analisi: “1997: Fuga da New York” – Chiamatelo…

“La grande fuga”, “Fuga da Alcatraz”, “Il fuggitivo”, “Fuga per la vittoria”, il cinema hollywoodiano ha sempre mostrato un certo feeling per le già citate fughe. Sono storie dai ritmi frenetici, imprese compiute col fiato sospeso tanto è il rischio cui sono investiti i protagonisti di un tale cinema d’azione. Le fughe nel medium cinematografico sono corse contro il tempo per sfuggire alla presa invalidante degli inseguitori, sono evasioni che spesso nascondono, dietro le loro impavide e spericolate galoppate, significati ben più profondi. La “fuga”, tanto ostentata nei titoli iniziali, rappresenta una voglia di sortita dal sistema, di allontanamento da una società opprimente che schiaccia i deboli, una corsa verso un orizzonte indefinito che abbia la mera e fiduciosa illusione di costituire un luogo lontano e sicuro, in cui il fuggitivo possa ricongiungersi con se stesso e ricominciare una nuova vita. Tra i film che trattano di “fughe” ce n’è uno che possiede una particolarità, una fuga dal pericolo e dalla morte che aleggia sul protagonista con inclemenza: è “1997: fuga da New York” di John Carpenter.

Il suddetto film è un’opera di fantascienza che segue l’approccio stilistico dei tipici film d’azione. Carpenter immagina un futuro distopico, un “1997” in cui la città di New York viene cinta da grosse mura invalicabili che la circondano nella sua interezza. Manhattan è stata evacuata da nove anni e da allora è diventata una sorta di immensa prigione per tutti i detenuti che sono stati trasferiti laggiù e abbandonati a loro stessi. La città pullula di criminali ed spietati assassini. Durante un attacco terroristico l’aereo presidenziale viene dirottato e il presidente degli Stati Uniti precipita all’interno della città, venendo catturato dai più pericolosi delinquenti della decaduta metropoli, capeggiati da un leader chiamato “il Duca”. Per salvare il presidente, il quale possiede un nastro magnetico su cui è inciso un importante messaggio da comunicare al mondo, il governo sceglie di inviare un combattente esperto nel campo dell’infiltrazione e della sopravvivenza in zone ad alto rischio. Tale guerriero, il cui nome è Snake Plissken, è stato da poco catturato dalle forze dell’ordine per rapina. Gli viene promessa la libertà se in 24 ore riuscirà a trovare e liberare il Presidente. Per garantirsi la fedeltà massima, all’ex soldato vengono iniettate nel corpo due capsule che lo uccideranno se non farà ritorno allo scoccare della ventiquattresima ora.

“1997: fuga da New York” è un’opera tenebrosa che rivisita i peccati, le imposizioni del potere, l’apatia della società e l’indifferenza della stessa nei confronti del prossimo, racchiudendo tutti questi elementi in un contesto scorretto, anomalo, irreale eppure così comprensibile. Quella di Carpenter non è una spaventosa profezia esternata come monito, più che altro è una angosciante rilettura estremizzata di una realtà brutale divenuta così per colpa di una falsa istituzione governativa che tratta il popolo come fosse un oggetto, e considera i criminali come rifiuti immondi da esorcizzare al di fuori del mondo conosciuto. New York è una città tramutatasi in un immenso e soffocante penitenziario governato dal caos e da uno stato tribale di uomo contro uomo. L’essere umano si è tramutato in una bestia primordiale, come se fosse regredito agli albori dell’anarchia.

In questo contesto così torbido, il Duca riveste il ruolo dell’assemblatore di mandrie, di colui che cerca di unire sotto il proprio pugno di ferro la crudeltà di un gregge malato per porla sotto il proprio giogo. In una società in cui non vi sono regole, il Duca vuole diventare l’unico e solo sovrano di una nuova forma di governo che ha fondamento nel terrore. Ma chi ha portato a questo? Cosa ha condotto a questo stato di inciviltà primitiva? E’ stata la modernità di un governo egoista ed egocentrico, che ha dimostrato la propria insensibilità trattando un ex eroe di guerra, il protagonista, come fosse al pari di un oggetto da utilizzare per proprio tornaconto e rischiare di annientarlo pur di raggiungere l’obiettivo prefissato dai superiori. L’essere umano non conta più nulla per i potenti in “1997: fuga da New York” e questa è un’amara verità che Plissken terrà bene a mente quando inizierà la sua missione.

Egli riuscirà ad addentrarsi al calar della notte in città, nascondendosi tra carcasse di automobili abbandonate e muovendosi camaleonticamente tra i palazzi che nel frattempo si sono trasformati in enormi ricettacoli di malvagità e impudenza. Così darà inizio alla sua personale fuga contro il tempo per sfuggire alla gelida presa della morte e al tormento di una realtà alienante di un mondo post-apocalittico.

Jena, interpretato da Kurt Russell, nei suoi protratti silenzi, nelle sue espressioni digrignanti, nelle sue brevi interlocuzioni ciniche, e nella sua aria spavalda ma rassegnata, ricalca lo stereotipo dell’antieroe riluttante, la cui missione è stata imposta come una dannazione; in vero egli risente della passività mostrata delle autorità, e nutre un desiderio di rivalsa nei confronti del potere politico. Jena nel film incarna l’anima del fuggitivo, di colui che fugge dalle convenzioni sociali di una realtà ambigua, che scappa dai dettami imposti da un totalitarismo meschino, che corre via da coloro che odia.

Non chiamatelo Plissken! Chiamatelo Snake, letteralmente “serpente”, perché egli, come ci suggerisce il tatuaggio che fa da marchio sulla sua pelle, sa essere letale come un cobra.  Si tratta di un epiteto distintivo, un soprannome indicativo scelto per descrivere un uomo solitario. Chiamatelo in alternativa Jena, un particolare appellativo scelto arbitrariamente per volere dell’adattamento italiano, e che, sebbene si distacchi dall’originale, tale parola ricalca in egual modo il suo temperamento forte, sdegnoso e aggressivo. Jena Plissken è un cacciatore, un predatore “spazzino”, che si trova costretto ad acciuffare una preda preziosa per una società corrotta, che lo ha abbandonato come fosse un reietto.

Potete chiamarlo Snake, o Jena, starete pur sempre descrivendo il medesimo antieroe, un fuggitivo che lotta contro il tempo, tra la vita e la morte, per adempiere a una missione obbligata, come fosse un castigo pronunciato da giudici che giocano con la vita di chi considerano alla loro mercé. Jena è guercio, vede solo dall’occhio destro, quello sinistro viene coperto da una “benda da pirata”. Nonostante la sua menomazione, Jena riesce a vedere le tele ingannatrici di chi è al comando.

Jena nella sua disavventura a New York dovrà combattere contro l’inarrestabile scorrere del tempo in una sfida che lo porterà quasi ad udire costantemente il rumore dei secondi che scorrono via e che lo avvicinano tristemente alla sua dipartita. Egli guarda il proprio orologio con l’ansia di chi ha una spada di Damocle sul capo pronta a cadere quando la mano del tempo mollerà la sua già traballante presa. L’intero film è una duplice fuga per il protagonista, una fuga da un mondo lercio e sordido e da un fato che lo fa sentire in trappola.

Quando Jena riuscirà a porre in salvo il Presidente e salverà se stesso per il rotto della cuffia, avrà la conferma di quanto già sapeva: ha salvato la vita a un “regnante” amorale e insensibile. A quel punto il capriccio di Snake si compirà, egli sostituirà i nastri e darà al Presidente la semplice registrazione di un brano musicale. Jena, invece, avrà il nastro contenente il messaggio, e lo distruggerà con le sue mani. Una fredda vendetta perpetrata a danno di uno Stato che ha smarrito ogni forma di morale. Non chiamatelo Snake, non chiamatelo Jena, chiamatelo semplicemente Plissken: un cognome vero in un mondo di figure distorte.

Voto: 7/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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