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"Lilo e Stitch" - Disegno di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

  • Un anatroccolo “sospettoso”

Suspicious Minds

“We can't go on together
With suspicious minds (Suspicious minds)
And we can't build our dreams
On suspicious minds”

Il lungometraggio della Walt Disney “Lilo e Stitch” è cadenzato da una colonna sonora costruita proprio su alcune delle più famose canzoni di Elvis Presley. Nella canzone “Suspicious minds”, letteralmente “pensieri sospettosi”, i presunti e paranoici sospetti tra una coppia d’innamorati frenano il naturale evolversi di un amore appena sbocciato. In “Lilo e Stitch”, tali incerti pensieri potrebbero tramutarsi in interrogativi nati per dare una risposta esaustiva a dubbi circa l’origine di Stitch. Stitch viene visto dai più come un cane dall’eccentrico aspetto; ma perché i suoi atteggiamenti sono così intimidatori? Chi è questa insolita creatura che ha catturato, con grande attenzione, lo sguardo della piccola Lilo? Da dove proviene? E dunque sull’incredibile origine di Stitch che ha inizio il nostro viaggio immaginario, il cui itinerario prevede la traversata di bacini d’acqua pura e cristallina popolati da splendici cigni, oltre che l’esplorazione di nuovi pianeti mai raggiunti dall’uomo su cui vivono bizzarre forme di vita aliene.

In un terreno acquitrinoso, ricco di graminacee a culmo legnoso, giacciono i gusci bianchi di uova appena dischiusi. In questo soffice canneto, una mamma anatra sta osservando per la prima volta i suoi piccoli venuti alla luce. Si accorge, subito dopo, che un uovo, quello di colore azzurrognolo, è anch’esso pronto a schiudersi. Ne viene fuori un esserino piuttosto particolare, dal piumaggio grigiastro. Il piccolo “anatroccolo” è più conformato dei suoi fratelli e anche molto più goffo nei movimenti mentre annaspa sul terreno.  La madre, seppur confusa dalla strana nascita, lo sospinge con il becco, per cercare d’affiancarlo ai suoi fratelli, i quali, però, sorpresi dal particolare piumaggio vorrebbero tenerlo lontano, quasi a emarginarlo. “L’anatroccolo” viene quindi messo in disparte senza rendersi conto del perché, e rimanendo triste e solo, decide di fuggire via.

I passi di questa meravigliosa fiaba vengono letti con grande coinvolgimento da Stitch, una creatura errante proveniente da un mondo al di là della Terra. Fu la piccola Lilo, una bambina hawaiana che prese Stitch con sé, a fargli conoscere la storia del brutto anatroccolo, scritta dall’autore danese Hans Christian Andersen.  Stitch empatizza con l’impacciato cucciolo e sente di somigliargli molto. Ma lui non è nato da nessun uovo. A dire il vero, non ha né una madre né un padre. Egli è stato plasmato dal pensiero e forgiato dalla volontà, dalla mente creativa e dall’ingegno di un inventore extraterrestre. Non vide la luce in un recinto sbagliato, bensì attraverso un evento innaturale. Stitch è un essere vivente nato su di un pianeta remoto per seminare incertezza e sgomento, violenza e terrore. Nonostante le sue minute dimensioni, Stitch, battezzato alla nascita col numero di laboratorio 626, è un esperimento scientifico sfuggito al controllo del proprio padrone e condannato all’esilio su un pianeta desertico. Come accaduto al brutto anatroccolo, anche Stitch viene rifiutato da tutti e costretto ad allontanarsi dall’habitat in cui spalancò i suoi occhi al mondo. A differenza dell’anatroccolo, tuttavia, Stitch non fu scacciato per il suo aspetto bizzarro, quanto per la sua pericolosità. Il suo essere stato concepito per “distruggere” lo condanna, irrimediabilmente, ad essere ritenuto una costante minaccia. Durante il trasporto sulla nave, Stitch riesce a venir fuori dalla sua cella e a dirottare l’astronave verso la Terra, precipitando nelle isole Hawaiane. Stitch non si perderà in un recinto di anatre ma finirà per “mimetizzarsi” in un canile, venendo incautamente scambiato per un canide dall’aspetto bislacco. Di lì a poco, verrà adottato da una famiglia, no, non certo una famiglia di cigni, ma di umani.

Lilo, l’adorabile bambina giunta al canile con la sorella Nani, lo sceglie tra tanti e se lo porta a casa, imponendogli affettuosamente il nome di Stitch. “L’animale”, in virtù della sua natura, ha un carattere indomito e pestifero e per questo motivo causerà non pochi problemi alla sua nuova famiglia. Nani fatica, anche a causa di Stitch, a trovare lavoro e sa che se non riuscirà a migliorare la sua precaria situazione, perderà la sua sorellina, la quale dovrà essere trasferita in un orfanotrofio, in attesa di essere adottata da una nuova famiglia.

Stitch, in un momento particolare della sua storia, tiene in mano il libro delle fiabe di Andersen, scorrendo con gli occhi le pagine scritte. Chi lo sa se già in quel momento egli riusciva a comprendere perfettamente ciò che stava tentando di leggere nella lingua degli umani. Magari, in quei frangenti faticava ancora a capire completamente il senso delle frasi, ma l’illustrazione di quel “brutto” anatroccolo che procedeva solitario, lasciandosi alle spalle quella nidiata, che per lui non fu mai la sua famiglia, lo colpisce profondamente. “Sono come lui” avrà detto tra sé. Stitch si identifica così con la figura del brutto anatroccolo, per un destino analogo ma al contempo diverso. La favola del brutto anatroccolo viene spesso raccontata ai bambini per rincuorarli e non farli sentire soli, vittime del timore di non essere accettati dagli altri. In te si nasconde più di quanto l’apparenza dà a vedere. Un giorno diventerai un bellissimo cigno, e troverai il tuo posto in questo mondo. E’ ciò che suggerisce in parte lo splendido racconto di Andersen.

E’ per tale ragione che Lilo ama anche lei così tanto quella storia, perché aspetta in cuor suo il momento in cui verrà accettata da un amico. Lilo è infatti triste e sola, e viene ignorata dalle sue amichette per i suoi modi di fare. Se Stitch non ha né un padre né una madre, Lilo ha perduto i suoi genitori in un tragico incidente e il suo unico affetto rimastole è la sorella maggiore. La sua è “una famiglia disastrata”, così la definisce Lilo, ma pur sempre una famiglia. E proprio in questo ironico e disastrato nucleo famigliare, Stitch irrompe non certo in punta di piedi, ma con la vivacità di un incontenibile “figlio adottivo”.

  • Un re del rock

 “Can’t help falling in love

“Wise men say only fools rush in

But I can’t help falling in love with you

Shall I say Would it be a sin?

If I can’t help falling in love with you”   

La musica e le parole di “Can't help falling in love” descrivono in maniera melodiosa l’impossibilità di non innamorarsi. “Non riesco a non innamorarmi di te”, ripete melanconicamente il ritornello della canzone. L’amore ha svariate forme, e può dare vita a legami indissolubili. Una famiglia unita è l’esempio di come l’amore viene veicolato negli affetti famigliari. Si tratta di un tipo di amore che riserviamo ai genitori, ai fratelli e alle sorelle, ai nostri figli, i quali rappresentano forse la forma più pura d’amore che si possa provare, quello riservato ad una creatura che abbiamo generato noi stessi o che abbiamo imparato ad amare come nostra, ed è quell’amore imperituro.

Lilo and Stitch disegnati da Erminia A. Giordano per CineHunters

 

E’ impossibile, di fatto, evitare di innamorarsi della propria famiglia se con essa esiste un legame inscindibile. Famiglia è ciò che include la vicinanza, la cooperazione, il poter contare gli uni sugli altri. “Ohana” significa famiglia, ed è il termine del linguaggio hawaiano maggiormente usato nel film. E in una famiglia nessuno viene abbandonato o dimenticato.

E’ questo l’insegnamento che Stitch carpisce nella sua permanenza sulla Terra. Egli, nato in un ambiente ostile, in cui avrebbe dovuto generare morte e distruzione, muta il proprio essere, venendo influenzato positivamente dalle carezze di una famiglia non proprio priva di tragicomici problemi. La natura violenta di Stitch cambia per far posto ad un temperamento mite, quieto, riflessivo e dolce. Stitch, spronato da Lilo, si “traveste” da Elvis, il re del rock, così da concretizzare il primo vero cambiamento “estetico” riscontrabile in lui nel corso del film. Il personaggio convoglia la sua grintosa energia nella musica, suonando una graziosissima chitarra.

  • Un lago e una fotografia

Always on my mind

Maybe I didn't hold you
All those lonely, lonely times
And I guess I never told you
I'm so happy that you're mine...”

“Always on my mind” non fa parte dei brani della colonna sonora di “Lilo e Stitch”, il che potrà indurvi a pensare che la scelta d’includerlo in questa selezione da me utilizzata per “raccontare” e analizzare i messaggi dell’opera sia ingiusta. Ma non lo credo! “Always on my mind” è una delle canzoni più belle a cui la voce di Elvis abbia mai dato vita e regalato memoria. “Sempre nella mia mente” recita il titolo del brano in questione. Il ricordo di una persona amata, di una parte della nostra famiglia vive nei nostri cuori, e si fa spazio nei nostri pensieri come un’immagine richiamata dal sentimento. I ricordi possono essere immortalati dall’artificio meccanico e chimico di una fotografia.

Solitamente gli scatti fotografici, custoditi all’interno di una cornice, li poggiamo, magari, sulla scrivania, così da poterli rimirare ogni qualvolta sentiamo la mancanza di un momento trascorso o di una persona in particolare. La foto della famiglia di Lilo viene contornata da una simpatica aggiunta: il frammento di una fotografia di Stitch, rintagliato opportunamente, viene inserito insieme a quella di famiglia. Un messaggio meraviglioso per la semplicità, il garbo e l’ironia con cui riesce a comunicare il valore di un ricordo da custodire sempre nella mente e da poter essere, ugualmente, osservato. La famiglia è adesso al completo, tra vecchi ricordi e i prossimi da aggiungere.

«Non importa che sia nato in un recinto d'anatre: l'importante è essere uscito da un uovo di cigno.» (Hans Christian Andersen)

La frase di Hans Christian Andersen tocca il tema dell’importanza delle nostre origini. Non importa dove e come nasciamo, conta se abbiamo nel nostro “io” l’eleganza d’animo di un maestoso cigno. Nelle sue origini, Stitch non può ricercare lo spirito nobile e altero di un bianco cigno. Stitich è, infatti, una creazione, non ha né avrà mai le sembianze di un nobile cigno, regale e leggiadro quando solca le acque limpide di uno specchio lacustre. Per Stitch, la nobiltà armoniosa del cigno ha sede nel suo cuore, nella sua scelta di vita e nella sua evoluzione emotiva. E’ nelle profondità del suo carattere che è contemplabile la bellezza di un cigno.

Stitch è andato contro la sua stessa natura che lo voleva una fiera efferata e indomabile, divenendo un essere buono e pacifico. Nella fiaba, il brutto anatroccolo, alla fine del suo percorso, raggiungerà le sponde di un lago e ammirerà un nugolo di cigni che beatamente sostano sulla superficie dell’acqua. Nuoterà per raggiungerli, attratto dalla loro regale bellezza, e si accorgerà, con grande stupore, che i cigni lo accoglieranno con garbo e cortesia. Quando l’anatroccolo chinerà il capo per scorgere il proprio riflesso, si accorgerà d’essere diventato anch’esso un cigno. Come il brutto anatroccolo, anche Stitch ha trovato il proprio posto e la propria famiglia per conto suo, tuttavia non coi suoi simili. Ed è questa la meraviglia del suo viaggio.

"Stitch con la sua famiglia" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Come il cigno bianco ha mirato il proprio riflesso, così Stitch potrà soffermarsi a guardare la fotografia che lo vede a fianco della sua famiglia e comprendere nuovamente l’importanza dell’Ohana. La casa e la famiglia sono le cose più importanti della nostra vita. Se più persone considerassero la casa e la Ohana prima dell'oro il mondo sarebbe un posto di sicuro più felice. Ma questa è un’altra citazione, magari per un’altra storia…

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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A causa di una valanga che impedisce il passaggio del treno, alcuni viaggiatori sono costretti a pernottare in un piccolo albergo situato in uno sperduto paesino di montagna nell’immaginario stato di Bandrika, nel cuore dell’Europa, governato da un dittatore. Del gruppo fanno parte una coppia di amici e due amanti clandestini, oltre a due donne, già ospiti dell’albergo, una giovane che deve tornare a casa per sposarsi e una anziana che riveste il ruolo di simpatica governante.

Nell’autunno del 1937, dopo aver concluso le riprese di “Giovane e innocente”, Hitchcock si mise subito al lavoro per cercare un nuovo soggetto. Ci sono due versioni di come il maestro arrivò al romanzo da cui poi trasse il suo film. Una è quella che fu lo stesso Hitchcock a pensare al libro di Ethel Lina White “The Wheel Spins”, l’altra invece narra che non riuscendo a trovare nulla che lo interessasse veramente, il maestro chiese al produttore Edward Black se aveva qualche bel soggetto da dargli. Black si ricordò di una sceneggiatura scritta l’anno prima da Gilliat e Launder, tratta dal romanzo della White, che era però stata messa da parte, sebbene ci si stesse già lavorando su da tempo. Infatti, nell’estate del ’38, una troupe mandata in Jugoslavia per le riprese esterne venne bloccata dalla polizia e rimandata in Inghilterra, in quanto le autorità jugoslave, dopo aver letto la sceneggiatura, l’avevano ritenuta offensiva per il Paese. Quel progetto cinematografico fu dunque accantonato.

Comunque sia andata la vicenda, Hitchcock fu entusiasta del lavoro dei due sceneggiatori, apportando solo delle piccole modifiche, e cioè aggiungendo e togliendo qualcosa.

Felice fu anche la scelta degli interpreti principali. Margaret Lockwood, che qualche anno dopo sarebbe diventata l’attrice cinematografica più popolare in Gran Bretagna, era una fan dei romanzi scritti dalla White e interpreto quindi il suo ruolo con grande entusiasmo. Michael Redgrave, promettente attore teatrale, apparteneva alla compagnia del celebre John Gielgud e aveva già lavorato con Hitchcock ne “L’agente segreto”. Tuttavia, al contrario della Lockwood, Redgrave ne era ben poco entusiasta. Anche gli attori che interpretavano personaggi minori recitarono ottimamente; Naunton Wayne e Basil Radford, nel ruolo dei due amanti del cricket, ebbero un tale successo che in seguito furono chiamati a ricoprire parti simili, spesso in coppia.

Il film fu realizzato con un budget molto modesto: fu infatti girato interamente in studio, utilizzando per gli esterni dei modellini. Quando nell’ottobre del ’38, “La signora scompare” uscì nelle sale inglesi, riscosse un enorme successo, e ben presto anche in America. A New York rappresentò l’evento della stagione cinematografica natalizia; il New York Times lo giudicò il film migliore dell’anno, mentre Hitchcock ricevette il New York Critics Award come miglior regista del 1938.

“La signora scompare” è uno dei film più movimentati di Hitchcock e più ricchi di colpi di scena. Così come il treno su cui viaggiano i personaggi attraversa località e paesaggi diversi, il film si snoda sui classici temi del cinema del maestro: spionaggio, suspense, fuga, amore contrastato, identità false, ostilità. Il tutto pervaso da un umorismo fresco e vivace che è tipico di un Hitchcock giovane e che diventerà col passare degli anni cupo e amaro.

Di sicuro non va preso sotto gamba l’aspetto politico del film. Erano, quelli, anni bui, e molteplici segnali facevano presagire la guerra imminente. Sotto la guida del conservatore Chamberlain la Gran Bretagna portava avanti nei confronti della Germania nazista, sempre più aggressiva e pericolosa, una politica di non intervento che sarebbe sfociata nel settembre del 1938 negli accordi di Monaco. L’Europa centrale e la penisola balcanica erano sotto regimi dittatoriali; in Spagna i franchisti combattevano una spietata guerra intestina, appoggiati dai fascisti italiani e dai nazisti. Nel film “La Signora scompare” si respira tutto questo e lo stato di Bandrika può essere paragonato all’Europa, mentre la carrozza ristorante del treno richiama il luogo dove gli inglesi si ritrovano a sorseggiare il tè; in altre parole la Gran Bretagna stessa. Al di là del lieto fine e sotto quella patina rilassante e sbarazzina, “La signora scompare” lascia trasparire moniti drammatici e oscuri presagi.

“La signora scompare” è anche un omaggio a uno dei mezzi di trasporto più importanti e popolari del ventesimo secolo. Il lungometraggio è, infatti, quasi interamente ambientato su un treno. Ma in molti altri suoi film Hitchcock ha riservato al viaggio in treno un ruolo importante: da “L’agente segreto” a “Il club dei trentanove”, da “Intrigo internazionale” a “L’ombra del dubbio”, da “Il sospetto” a “Io ti salverò”. Anche in questo, come in tutti i film, Hitchcock ha posto la sua firma. Lo si può notare mentre cammina lungo una banchina della Victoria Station di Londra.

Che il grande maestro fosse impaziente in quel momento? Chi può saperlo, forse voleva trasmettere l’idea dell’indugio, dell’attesa di un mezzo che potesse trasportalo verso la sua prossima esplorazione artistica. “La signora scompare” fu infatti uno degli ultimi film appartenenti al periodo inglese del regista britannico, ormai pronto a volgere la propria attenzione al cinema hollywoodiano. Il viaggio “tortuoso” lungo i binari del film sembra preannunciare l’imminente “traversata” che Hitchcock compirà dall’Inghilterra all’America per giungere alla tanto agognata meta statunitense e dare inizio a un nuovo percorso artistico.

Un remake de “La signora scompare” è stato realizzato dal regista Anthony Page nel 1979, interpreti Elliott Gould e Cybill Shepherd, con il titolo “Il mistero della signora scomparsa”.

Redazione: CineHunters

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"Jumanji" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Correva l’anno 1869, e i giovani Caleb e Benjamin, in una notte fredda e buia, si accingono, terrorizzati, a seppellire una vecchia cassa chiusa con dei robusti lucchetti e cinta tutta attorno con del fil di ferro. Seppellire equivale a nascondere, mettere al riparo dallo sguardo dei posteri ciò che non si vuole venga rinvenuto. Ma quello che il terreno inzuppato dalle continue piogge può occultare, può venire ugualmente scoperto, se a destare la curiosità dei viandanti è un rumore. Ciò che l’occhio non vede può comunque inquietare il cuore, se un tam-tam di tamburi, un suono acuto e persistente, quasi ritmato, proveniente da quella cassa sepolta, viene udito.

Cento anni dopo, il giovane Alan Parrish ode proprio il rullo di quei tamburi, ridestatisi dal torpore dell’oscurità del terreno, in seguito ai lavori di scavo che un’impresa edile sta effettuando proprio nello stesso punto in cui, un secolo prima, la cassa fu nascosta al mondo. Quel frastuono cadenzato attira Alan fino a fargli ritrovare i resti di un antico baule che custodisce al suo interno uno strano gioco da tavolo, inserito in una particolare scatola di legno intagliato, che reca una scritta: “Jumanji”. Alan lo raccoglie, se lo porta a casa e, assieme alla sua migliore amica Sarah, di cui è segretamente innamorato, comincia a giocare a Jumanji…

  • Vuoi giocare?

E’ soltanto un gioco” – quante volte abbiamo ascoltato questa affermazione? “Jumanji” nasce dall’idea di sfatare la concezione innocente e sicura dell’atto di giocare, trasformando l’azione del gioco in fonte d’insidie letali. Giocare è un verbo che spesso associamo ai bambini. Si gioca quando si è piccoli, nel periodo in cui l’immaginazione è tanto preponderante nel nostro modo di guardare il mondo da permetterci di trasformarlo nel nostro immenso parco giochi. E’ forse per tale ragione che i tamburi di “Jumanji” vengono uditi soltanto dai più piccoli. Essi attirano la loro attenzione, li invogliano ad avvicinarsi sino ad aumentare il ritmo del rullo quando i giovani sono a pochi passi dal rinvenire “Jumanji”. Il gioco ha una propria coscienza, e desidera essere trovato. I tamburi, pertanto, sono un segnale che attrae i bimbi verso il gioco e… verso il pericolo.

Ma giocare vuol significare, altresì, fuggire dalla realtà circostante, per rifugiarsi in una divertente fantasticheria. E’, in un certo senso, quello che cerca Alan quando inizia la sua partita a “Jumanji” con Sarah, ovvero distrarsi per qualche minuto e allontanarsi dai problemi che la vita gli sta ponendo davanti e a cui non riesce a trovare alcuna soluzione. Alan è infatti vessato da certi bulli di quartiere che lo tormentano e lo aggrediscono quotidianamente, e soffre l’incomunicabilità col padre che sembra non capirlo e vorrebbe mandarlo in un collegio d’istruzione. Alan progetta di scappare di casa, ma, poco prima di lasciarsi tutto alle spalle, si imbatte in Sarah, venuta a cercarlo, con cui, tra un discorso e l’altro, comincia a giocare a Jumanji.

A quel punto, le peculiarità inquietanti del gioco cominciano a manifestarsi in tutta la loro cupa essenza: le pedine sull’intricata e labirintica “scacchiera” si muovono da sole, e ogni qual volta uno dei due tira i dadi, verso il centro del gioco, all’interno di una sagoma tondeggiante di vetro, compare una scritta di colore verde che recita inquietanti versi rimati. La prima “poesia” del gioco preannuncia l’arrivo di un stormo di pipistrelli africani. Spaventati, Alan e Sarah decidono di mettere via il tutto, ma quando il ragazzino getta via i dadi, Jumanji “pensa” che il giocatore abbia in verità “tirato” e così fa apparire il secondo messaggio. Alan viene condannato a restare intrappolato nella giungla di Jumanji fin quando, dai dadi, un giocatore non farà uscire i numeri “5” o “8”. D’un tratto Alan inizia ad essere risucchiato dal gioco, sotto lo sguardo attonito di Sarah che, di lì a poco, verrà aggredita da una volata di pipistrelli neri. Poco prima di scomparire, Alan implora Sarah di tirare i dadi ma la ragazza, messa in fuga dai volatili, scapperà via. Di Alan si perderà ogni traccia per i successivi 26 anni…

  • Una partita in sospeso

Quel semplice gioco da tavolo, che doveva donare ad Alan un po’ di conforto in un mondo esterno fitto e opprimente come una giungla e una realtà famigliare che non riusciva a capirlo, si trasforma in un’angosciante prigione senza alcuna via di fuga. Ventisei anni dopo, la casa dei Parrish è caduta in rovina e viene acquistata ad un prezzo stracciato da Nora Shepherd, tutrice dei suoi due nipoti, Peter e Judy, figli del fratello morto assieme alla moglie in un incidente d'auto. Proprio Peter e Judy rinvengono il gioco nella soffitta della villa, chiamati anch’essi dal suono dei tamburi, e iniziano a giocare. Dopo aver assistito all’apparizione di zanzare giganti e di scimmie inferocite, Peter lancia i dadi ancora una volta, ottenendo come combinazione numerica un 5. Dal gioco fuoriesce un leone della savana unitamente ad Alan, divenuto oramai un uomo adulto. In principio, il protagonista non comprende cosa sia accaduto e osserva con incertezza la realtà casalinga che lo circonda. Dopo aver combattuto con il temibile predatore, Alan si rende finalmente conto d’essere stato liberato. Quella a cui Judy e Peter hanno dato inizio è, in realtà, la continuazione della partita rimasta insoluta dal 1969 tra Alan e Sarah. Il gioco giace quindi in una sorta di stasi, di attesa inamovibile, perché per proseguire necessita della presenza di Sarah.

“Jumanji” funge così da articolata metafora della prosecuzione delle questioni rimaste in sospeso. Tali vicende finiscono per ripresentarsi nel corso della nostra vita e non possono essere evitate. Fuggire dai problemi, come stava per fare Alan all’inizio del suo viaggio quando, pur di non affrontare il padre, era pronto a scappare per non voler fare più ritorno, non è mai la soluzione. E’ proprio per rammentare tale monito che il gioco torna a ripresentarsi facendo riecheggiare i suoi lugubri suoni tambureggianti. Il percorso impervio rappresentato dalle caselle di Jumanji ha le sembianze di un tracciato labirintico. I “cunicoli” del Dedalo non costituiscono tuttavia un sentiero difficoltoso da perscrutare in virtù dei suoi passaggi quanto invece dei suoi tranelli. Il tratto da percorrere in Jumanji è intricato ma piuttosto evidente: il giocatore deve riuscire a sventare ogni minaccia, è questa la sua unica sfida. Dopotutto, Jumanji non è un gioco di strategia, come tiene a precisare Judy. E’, invece, un gioco di sopravvivenza. E lottare per sopravvivere fa parte dell’istinto vitale di ogni essere umano. Le caselle di Jumanji creano un percorso intersecante, che raffigura l’andirivieni delle sfide di una vita. Jumanji è un avviluppante labirinto dove si può scorgere l’uscita contando le caselle che mancano al raggiungimento della via di fuga, e in cui, nonostante ciò, si ha sempre il terrore di non riuscire a giungere alla fine del percorso.

I dadi, in tutto questo, evocano la casualità del fato, e sono, coi loro numeri, portatori di un esito incerto che fa fluire irrequietezza. Le scelte di una vita e le mosse per sopravvivere non sono qui decise dalla saggezza o dall’audacia di un giocatore quanto dalla mano della fatalità. Gioco e terrore, vita e morte si alternano in un’esperienza esistenziale volta alla comprensione delle proprie paure e alla dominazione del proprio coraggio.

  • Ritorno alla realtà: tra passato e presente

Sebbene il film mantenga sempre un ritmo divertente, vivace, adrenalinico e avventuroso, “Jumanji” declina una poesia triste e profondamente sensibile.

Alan, in principio, avrebbe voluto lasciare quel mondo che conosceva. Era stufo di tollerare soprusi dai prepotenti e severi ordini impostigli dal padre. Probabilmente però quella fuga che Alan avrebbe voluto compiere all’inizio del film era un gesto di paura e avrebbe guidato il protagonista a un pentimento. Alan sarebbe poi corso a casa, dal padre e dalla madre, e avrebbe chiarito l’alterco che avevano avuto. L’esternazione di una semplice frase sarebbe bastata. Purtroppo, l’atroce volontà del gioco gli ha impedito di fare ciò che avrebbe voluto. E così, quando Alan torna alla realtà, scopre con profonda tristezza che i suoi genitori sono morti. Jumanji ha spezzato il legame famigliare che univa Alan ai suoi, i quali si sono spenti senza mai scoprire cosa era accaduto davvero al loro figliolo. Il protagonista non ha neppure potuto dire loro addio.  “Jumanji” celebra sommessamente l’importanza della comunicazione in quanto strumento per esprimere i sentimenti. All’inizio del lungometraggio, la madre di Alan, a seguito del diverbio che il marito ha avuto col figlio, sembra rivolgersi al consorte per invogliarlo a tornare in casa e a parlare con Alan. “Sam! Sam!” dice con fare esortativo la donna, ma quand’ecco che il padre di Alan si volta verso di lei, e lei lo congeda, con un candido: “niente!”; come se accettasse di rimandare la conversazione, cosciente di poterla riprendere al loro ritorno. Ma Alan e i genitori non avranno mai più alcuna conversazione. E’ il triste tributo che “Jumanji” fa all’importanza della parola e soprattutto al tempo presente, quello da non farsi sfuggire e che spesso diamo per scontato quando non dedichiamo il giusto spazio ad una persona importante. Per il resto dei suoi giorni, Sam crederà che Alan sia sparito per colpa sua e mai alcuna parola di conforto udirà per dare pace al suo cuore stanco.

Alan mira una città molto diversa da quella che aveva lasciato, sozza, malandata, colma di gente povera, di senzatetto, ricca di mura imbrattate e in piena crisi. La fabbrica di scarpe del padre, fiore all’occhiello della sua famiglia, è fallita ed è stata abbandonata; persino la statua del generale Angus Parrish, antenato di Alan, è totalmente deturpata da imbrattature spray. Le persone sono apparentemente impazzite, i sogni si sono infranti, e non vi è alcun rispetto per la storia antica del centro urbano e per gli avi di un tempo. Anche l’esilarante Carl Bentley, vecchio amico di Alan e noto con il diminutivo di “Laccio bollente”, è stato costretto ad abbandonare il suo sogno di progettare scarpe per vestire la divisa da poliziotto, la cui vettura d’ordinanza verrà ironicamente martoriata dalla furia di Jumanji.  Sembra che gli effetti spaventosi del gioco si siano propagati per la città, fino a farla piombare in un disordine generale, che non svanirà fin quando Jumanji non verrà portato a conclusione. La realtà cittadina si riflette sulla realtà parallela del mondo di Jumanji, che finisce per compendiare tanto il passato quanto il presente e condurlo in un avvilente futuro senza speranza. Alan fa solo brevi accenni circa la sua esperienza ventennale nella giungla di Jumanji, e confessa che in quei luoghi non esistono solo scimmie, leoni e zanzare, ma anche creature impossibili da immaginare o anche solo da scrutare, ombre impenetrabili che si muovono nella notte e attendono in agguato. Il suo racconto, criptico ed ermetico, suscita l’immaginazione sopita di noi ascoltatori. Così come l’origine di Jumanji e il potere ad esso legato permangono nell’imperscrutabilità, anche l’essenza stessa del mondo del gioco finisce per permanere nell’ambiguità proprio per lasciare allo spettatore un alone di incerta e imprecisata magia. Ma la particolarità di “Jumanji” è quella di trasportare le paure di un mondo incastonato tra gli intagli di un gioco da tavolo e rigettarle nella realtà che noi ben conosciamo. “Jumanji” solo in parte può trasportar chi questo mondo vuol lasciar…perché finisce poi per trasformare quello stesso mondo appena lasciato in un riflesso selvaggio di Jumanji. La giungla enigmatica, primordiale, selvaggia e incontenibile invade una città irriconoscibile!

  • Vite spezzate, tra prigioni interne ed esterne

Alan ritrova Sarah, divenuta anch’ella una donna adulta e segnata irrimediabilmente dall’esperienza traumatizzante della sua scomparsa. Nei loro dialoghi, Sarah fa emergere la sofferenza di una vita amara che l’ha portata all’isolamento. Era soltanto una bambina quando Alan scomparve, e non fu mai creduta da nessuno quando raccontava ciò che aveva visto. Se Alan era rimasto intrappolato in un mondo parallelo, se vogliamo virtuale, come quello del gioco, Sarah era rimasta sola e prigioniera in una realtà cittadina menefreghista e insensibile. Entrambi separati hanno fatto fronte a una vita spezzata. Quando Alan osserva le piante carnivore, i grossi baccelli di colore giallo, i verdi rampicanti robusti e vividi, fuoriusciti dal gioco, invadere l’abitazione, affermerà che “ci sono cresciuto così, è ciò che c’è là fuori che mi terrorizza”. La “giungla cittadina” e la giungla di Jumanji possono venire messe a confronto. Così come è terrificante la forza animalesca che si nasconde all’interno del gioco, pronta a manifestarsi nella nostra realtà, allo stesso modo è inquietante ciò che ci può attendere fuori dalle mura di casa. Alan fu terrorizzato dal mondo di Jumanji ma imparò a riconoscerlo come la sua unica e sola “casa”, Sarah fu segnata dalla quotidianità urbana e finì per non conoscere dimora alcuna. Quella di Jumanji è stata per Alan una prigione interna, velata, quella di Sarah una prigione senza confini, capace d’estendersi all’esterno. Si tratta di due mondi così differenti eppure ricchi delle medesime, grandi difficoltà. Vivere e vincere le proprie battaglie, nella giungla o in città, richiede un’immensa dose di coraggio che è ciò che vuole insegnare “Jumanji”. Ed è proprio nel loro ritrovarsi che Alan e Sarah sentono di non essere più soli ma di appartenere l’uno all’altra, e nella fortificazione dei loro spiriti, essi riprendono a combattere con le loro più recondite paure, per porre fine al gioco e risanare le ferite di una vita spezzata. Uniti, Alan e Sarah vogliono vivere insieme in questo mondo e non più lasciarlo come le paure volevano, a volte, suggerire loro.

  • Un avversario prima o poi va affrontato

La gioventù e la maturità riguardano il periodo della vita che Jumanji è riuscito a racchiudere nella sua esperienza di gioco. Tra Alan e Sarah e Judy e Peter esiste un rapporto di reciprocità che riguarda l’età adulta e la giovinezza. Alan vede in Peter il bambino che fu un tempo e cerca di educarlo come fece suo padre con lui, rendendosi poi conto che il figlio diventa padre ereditando a volte anche i difetti del genitore.

Sul finire delle vicende, Alan dovrà compiere l’ultimo passo: affrontare il suo acerrimo nemico. Come teneva suo padre a ricordargli, un avversario prima o poi va affrontato. Alan è perseguitato da un efferato cacciatore della giungla, Van Pelt, che aspira da sempre ad ucciderlo poiché lo considera la più inafferrabile delle sue prede. Van Pelt cela, sotto i suoi baffi folti e spioventi, il volto del padre di Alan, come se rappresentasse la più grande paura del protagonista ma al contempo il più grande atto di coraggio che Alan deve compiere. Per tutta la sua vita, Alan ha vissuto oppresso dai sensi di colpa per non aver parlato con Sam da padre a figlio, e fronteggiando apertamente Van Pelt, ha l’occasione di dimostrare d’essere un uomo coraggioso benché terrorizzato dalla consapevolezza di dover perire sotto i suoi colpi. Scrutando il volto del cacciatore, Alan, senza rendersene conto, sta sfidando con coraggio suo padre, facendo valere quell’ardire che il genitore ricercava in lui. Poco prima di essere colpito a morte, Alan lascia cadere i dadi che reggeva in mano, i quali segnano il numero necessario alla pedina di Alan per raggiungere la fine del percorso e far pronunciare al protagonista la parola “Jumanji”. Alan ha superato la prova e ha vinto il gioco, e così tutte le manifestazioni di Jumanji vengono ora risucchiate via all’interno del gioco. Il tempo si annulla ed Alan e Sarah tornano nel 1969, a quella famosa sera in cui tutto ebbe inizio. Erano loro i giocatori originari quando la partita cominciò, e il tempo ha ripreso ora a scorrere con normalità, senza più gli effetti distorti del gioco. L’orologio a pendolo che aveva rintoccato il cambio dell’ora poco prima che Alan si dissolvesse in Jumanji può adesso riprendere a segnare il tempo reale, non più funestato dalla maledizione di Jumanji.

E’ la nuova occasione di vita che Alan e Sarah potranno godere insieme. Alan ne approfitta per riappacificarsi immediatamente con il padre, il quale si scusa anch’egli. Da adulti, Alan e Sarah, sono adesso sposi e in attesa del loro primo figlio. Rincontrano quindi Judy e Peter, e offrono ai genitori dei due un lavoro che garantirà sicurezza per il futuro. Il destino che rischiava d’essere deciso da un tiro di dadi è adesso plasmato dalla conoscenza di Alan e Sarah.

Nel suo generare distruzione, Jumanji ha pur sempre donato una nuova vita ai propri giocatori. Non a caso, il gioco, rimasto sulla battigia, semisepolto dalla sabbia, cullato dal lento mormorio della risacca, fa ancora riecheggiare il rullo dei suoi tamburi per attirare a sé altri nuovi giocatori.

Jumanji avrà sempre una volontà tutta sua.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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  • Sipario

Quanto è magico entrare in un teatro e vedere spegnersi le luci. Non so perché. C’è un silenzio profondo, ed ecco che il sipario inizia ad aprirsi. Forse è rosso. Ed entri in un altro mondo.(David Lynch)

L’opera “Noises Off” è una commedia di Michael Frayn, composta nel 1977 e portata in scena per la prima volta nel 1982 al Lyric Theatre di Londra. Il testo ebbe uno splendido adattamento cinematografico nel 1992, per la regia di Peter Bogdanovich. La peculiarità di questa commedia, dal titolo “Rumori fuori scena”, è il suo appartenere al genere del “Teatro nel teatro”, ed il suo conseguente immergersi in una realtà narrativa dalla duplice valenza. “Rumori fuori scena” narra le disavventure di una compagnia teatrale, impegnata nell’allestimento della farsa “Niente addosso”. Nella commedia gli attori reali assumono i ruoli di attori fittizi, i quali a loro volta sono portati inevitabilmente a interpretare i personaggi protagonisti delle scene farsesche, appunto di “Niente addosso”. “Rumori fuori scena” è una recita nella recita, un’interpretazione nell’interpretazione, una finzione dalla doppia natura.  La storia ha inizio in piena notte, all’interno di un teatro in cui si stanno svolgendo le prove generali del testo da rappresentare.

Alla vigilia dell’allestimento di un qualsiasi spettacolo, il teatro sembra sempre giacere in una sorta di dormiveglia.  La spoglia platea, i vuoti palchetti che sovrastano il pianterreno, e il golfo mistico, vacuo e libero, paiono tutti immersi in un dolce sonno, in attesa d’essere risvegliati dall’arrivo del pubblico e dell’orchestra che animerà il laconico silenzio della sala. La compagnia teatrale di Lloyd è in fermento, e i preparativi procedono con passo spedito.

“Rumori fuori scena” è l’incontro tra la realtà precostruita di una commedia scritta e dallo svolgimento ben studiato, con la farsa esilarante, che non segue una trama o una spiegazione logica, ma irrompe con fragore inaspettato per generare situazioni cariche di coinvolgente ilarità. E’ proprio un teatro “deserto” quello che, in piena notte, sta ospitando la sgangherata compagnia del regista Lloyd Dallas.

  • Atto Primo

Il teatro è il disperato bisogno dell’uomo di dare un senso alla vita”. (Eduardo De Filippo)

E’ da poco passata la mezzanotte, e la “prima” della commedia “Niente addosso” si avvicina. Lo scenografo Tim Allgood ha impiegato due giorni per montare sul palcoscenico le imponenti scenografie. L’ambientazione della farsa prevede, infatti, che gli eventi si svolgano nel soggiorno di un elegante villino di montagna, costituito da un piano terra e da un piano superiore, a cui si può accedere per mezzo di una scala di legno, a due rampe, posta alla sinistra della scena. Il villino è solo apparentemente disabitato. Esso spesso è oggetto di visita, o per meglio dire d’irruzione, da parte dei personaggi interpretati dagli attori della compagnia. I personaggi di “Rumori fuori scena” sono 9: Dotty Otley, che in “Niente addosso” interpreta la signora Clackett, Garry Lejeune, nello spettacolo è Roger, Brooke Ashton, che nella farsa è Vicky, Frederick Fellowes, nello spettacolo Philip Brent ma anche “Lo sceicco arabo”, Belinda Blair, che in “Niente addosso” interpreta Flavia Brent, e Selsdon Mowbray, nello spettacolo “il ladro. Chiudono il cerchio il già citato regista Lloyd, il suddetto Tim e l’assistente di scena Poppy.

Portare in scena “Niente addosso” risulta un’impresa estremamente complessa. Le entrate e le uscite di alcuni personaggi (i quali non devono mai incrociarsi sulla scena o ne verrebbe meno il proseguo della farsa stessa) sono innumerevoli, si susseguono a ritmi incalzanti e, per dare l’effetto desiderato, devono essere eseguite con tempistiche sincronizzate, senza margine d’errore. Lloyd, per tale ragione, esorta i suoi attori a dare il massimo. Gran parte dell’agire interpretativo dei personaggi riguarda l’uscita e l’entrata in scena con in mano particolari oggetti che devono essere, di volta in volta, prima deposti in una zona specifica della casa e poi ripresi in un secondo momento. In particolare, il piatto di sardine preparato dalla signora Clackett è spesso fonte d’errore, perché viene lasciato sul comodino quando dovrebbe essere portato via o dimenticato nel dietro le quinte quando invece dovrebbe trovarsi in scena. E’ proprio su di un comune “piatto di sardine” che la farsa e la commedia stessa ruotano e si intersecano in un valore prettamente comunicativo. Nella vita anche un banale oggetto può avere un’importanza rituale per l’accadimento di un evento. Portare le sardine fuori o riportarle dentro nella realtà teatrale di “Rumori fuori scena” funge da metafora dell’ignaro agire dell’uomo in un universo deterministico. Tiene ad affermare, filosofeggiando, Lloyd che il fare entrare le sardine e il fare uscire le sardine costituiscono la farsa, e di conseguenza il teatro, e quindi la vita. E’ la meraviglia del teatro, quella di poter conferire simbolismo e spessore a un semplice oggetto scenico, in questo caso, un comune piatto di sardine, destinato a cambiare il corso e il senso della rappresentazione di una parte di vita.

L’intero primo atto di “Rumori fuori scena” mostra le prove della farsa, spesso interrotte da beffardi imprevisti e goffe incertezze degli attori che, senza riconoscere le proprie disattenzioni, procedono imperterriti a far riecheggiare i loro vocalizzi alla stessa maniera di come l’orchestra del Titanic suonava le proprie arie con il piroscafo invaso dalle acque. Tutta la compagnia a poche ore dall’inizio della rappresentazione è già stremata. Poppy e Tim non riposano da quarantotto ore e devono ancora restare all’erta per coordinare gli attori. “Rumori fuori scena” è l’esaltazione del teatro nella sua fase primordiale, il principio di un abbozzo che deve essere ancora plasmato. E’ per tale ragione che le prove mostrate nel primo atto assumono un valore pieno, vivo, affascinante, perché è come se la commedia stessa nascesse sotto i nostri occhi. La soave purezza del teatro si avverte molto prima della rappresentazione, già nell’istante in cui si pensa all’opera da portare in scena. Le prove sono, per l’appunto, l’embrionale concezione dell’opera teatrale, poiché è nella preparazione iniziale che si plasma la rappresentazione finale.

“Rumori fuori scena” sa esaltare ogni aspetto della lavorazione teatrale, partendo dall’autore del testo fino all’assistente di scena. Tutti coloro che lavorano alla realizzazione della commedia rispettano i loro ruoli. Gli attori si concentrano sull’interpretazione, il regista sulla direzione specifica e globale dell’evento teatrale, su cui nessuno osa metter parola, e la scenografia viene issata e resa unica col massimo del lavoro decorativo possibile per far sì che l’impatto visivo della scena risulti sempre sorprendente. Tutti i membri della compagnia lavorano a ritmi frenetici, lasciando trasparire uno stress senza fine. Lo stoico Tim non sa risparmiarsi, e riveste il triplice ruolo di direttore di scena, attrezzista e persino di “jolly” di ogni singolo attore. La presenza dell’autore fittizio di “Niente addosso”, vale a dire il fantomatico Robin Housemonger, aleggia sul gruppo in maniera costante. Lloyd, talvolta, prende in mano il tomo in cui è contenuto il lavoro dell’autore, affermando che quello è il “testo sacro” e che non può essere in alcun modo alterato né dev’essere necessariamente capito dall’attore, più che altro dev’essere solamente eseguito. La volontà dell’autore teatrale fugge dall’approvazione degli attori stessi. Ciò che infatti avviene nella farsa non risponde ad una logica ben precisa, accade perché è così che ha voluto il dio-creatore e autore, e il testo risponde ad una irrazionale leggerezza splendidamente artistica.

Ne deriva una differenza: “Rumori fuori scena” rappresenta la vita fatta di ansie, fatiche, impegni, collaborazioni, amicizie e amori, rimorsi e gelosie, vendette e ritorsioni. La farsa “Niente addosso” rappresenta l’esatto contrario: essa è l’illogicità della vita umana, l’ineluttabilità degli eventi, e come essi possano essere riletti in chiave umoristica. E’ sempre la capacità di ridere della sventura la forma più fine di acume e intelligenza. Quella di “Rumori fuori scena” è la vita portata entro i confini di un palcoscenico e considerata priva di un significato, poiché il senso vero sfugge alla ricerca dell’uomo e va al di là delle sue possibilità d’indagine. La vita è esperienza inattesa, improvvisazione senza regole, è una farsa teatrale che fugge da ogni logica che non sia comprensibile in una smorfia volta al riso.

Humphrey Bogart affermava che la differenza sostanziale tra un copione e la vita è che il copione deve avere un senso. Se non c’è dato comprendere le dinamiche che spingono i personaggi di “Niente addosso”, possiamo invece cercare di capire cosa domina l’agire dei personaggi di “Rumori fuori scena”. Nelle loro entrate e nelle loro uscite è racchiudibile l’alba e il crepuscolo, l’arrivederci e il ritorno. E’ forse per tale ragione che i personaggi sulla scena entrano ed escono con tale frequenza. “Rumori fuori scena” è l’apertura coordinata di una porta che simboleggia un nuovo inizio nel contempo in cui un’altra porta, che simboleggia un addio, si chiude. La farsa e la commedia, qui divenute un tutt’uno, rispondono al bisogno dell’uomo di dare un senso alla vita e alle varie tappe che ne fanno parte.

  • Atto secondo

Tutto il mondo è un teatro e tutti gli uomini e le donne non sono che attori: essi hanno le loro uscite e le loro entrate; e una stessa persona, nella sua vita, rappresenta diverse parti.” (William Shakespeare)

Vi è mai capitato, mentre sedete in platea, di perdere per qualche istante la concentrazione sullo spettacolo in sé e domandarvi cosa, al contempo, sta avvenendo dietro le quinte? Quella che si trova al di là della scenografia è una realtà fatta di silenzi, di comunicazioni gestuali, vocalmente inespresse, di suggerimenti laconici onde evitare che il pubblico in sala si accorga di qualcosa. Nelle compagnie più diligenti, direi professionali, in genere, non accade nulla di particolarmente interessante. Gli attori e le attrici siedono pazientemente e attendono d’essere chiamati dal direttore di scena per la loro entrata. Qualcuno/a più “ansioso/a”, invece, leggerà ancora una volta il copione, lo/a scenografo/a tamburellando il piede sul pavimento come segno d’impazienza, aspetterà la fine del primo atto per potersi mettere subito al lavoro al cambio scena. Un clima così disteso non è respirabile nella compagnia capeggiata da Lloyd Dallas, che dietro le quinte è capace d’inscenare “una commedia”, ancor più divertente di quella che si svolge in palcoscenico.

Durante il secondo atto di “Rumori fuori scena”, la compagnia è ormai in piena attività e si sposta di città in città e di teatro in teatro in una lunga tournée. Dopo i primi grandi successi, la compagnia sta vivendo una fase transitoria che presto li condurrà ad un fiasco dietro l’altro. Questo è dovuto al fatto che Lloyd li ha temporaneamente abbandonati per curare la regia dell’Amleto con un’altra compagnia teatrale, ma soprattutto perché tra gli attori sono emersi molti malumori dovuti per lo più a ripicche di cuore e gelosie. Lloyd sopraggiunge nel dietro le quinte un pomeriggio, per ritrovare un po' d'intimità con Brooke, ma viene subito informato da Tim dei dissapori sorti tra gli attori: Dotty e Garry si sono lasciati, per l'eccessiva gelosia di lui, che vede in Frederick un rivale, visto che una sera a cena ha ascoltato e consolato Dotty in preda a una crisi nervosa; la stessa Dotty è convinta, a causa di alcuni equivoci, che Belinda si stia infatuando di Garry, sostenendo che lei sia innamorata di Frederick; per di più, non si riesce a trovare Selsdon, per l'ennesima volta, addormentatosi chissà dove ubriaco. A complicare la situazione si aggiunge Poppy, che vuole informare Lloyd d’essere incinta. Alla pomeridiana dello spettacolo, i malumori tra la compagnia si susseguono senza sosta. La scena adesso si svolge interamente negli ambienti posti nel retropalco. Nel corso della rappresentazione della farsa si registrano innumerevoli gag esilaranti tra gli attori nel dietro le quinte, i quali tentano di ferirsi e colpirsi tra loro nell’istante in cui sfuggono alla vista del pubblico che numeroso affolla la platea. Da qui in poi si producono i “famosi” rumori fuori dalla scena.

Le entrate e le uscite sincronizzate degli uomini e delle donne, e quindi degli attori e delle attrici, avvengono adesso in una duplice veste che riguarda tanto i personaggi della farsa sul palcoscenico quanto i personaggi della commedia nel dietro le quinte. In contemporanea, la flebile linea di demarcazione meta-teatrale tra farsa e commedia tende ora a essere rispecchiata simbolicamente dalla divisione tra “palco” e “retropalco”, luoghi scenici che separano due differenti modalità d’interpretazione che si susseguono, altalenandosi continuamente. Ciò che accade nel secondo atto è la duplice realtà di “Rumori fuori scena”, quella che avviene sul palcoscenico, sotto gli occhi attenti e vigili degli spettatori che in modo del tutto insolito assistono alla farsa, e quello che si verifica oltre le quinte su cui è posta invece l’attenzione dei veri spettatori, i quali assistono a ciò che normalmente è celato al loro sguardo.

  • Atto Terzo

“Il teatro è così infinitamente affascinante perché è così casuale. E’ come la vita.” (Arthur Miller)

Nella concezione casuale del teatro, l’errore, se lieve, può contribuire ad impreziosire lo spettacolo. A teatro ogni rappresentazione è diversa, basta un cambio d’intonazione, un movimento differente, un cenno improvvisato e il tutto muta. La commedia teatrale non vanta l’immortalità di un’opera filmica, essa è in perpetuo divenire e in questo moto incessante il piccolo errore finisce per evidenziare la naturalezza dell’operato dell’uomo a teatro. Nel terzo atto di “Rumori fuori scena” tutto sembra essere lasciato al caso. La farsa “Niente addosso” è preda dell’incertezza di un destino e dell’indeterminatezza di un esito nebuloso. Si fa ritorno nell’ampio soggiorno del villino, ma ormai i rapporti e gli screzi che serpeggiano tra gli attori provocano incredibili quanto tragicomici danni alla farsa che perde ogni logica di sviluppo. Sulla scena irrompono, sostituti in concomitanza con i protagonisti, i personaggi, che finiscono per incontrarsi tra loro disfacendo la logica dell’esecuzione; persino Lloyd si trova costretto ad entrare in scena, salvo poi rendersi conto di aver aggravato ulteriormente la situazione.

  • Cala il sipario

Un bravo attore non fa mai la sua entrata prima che il teatro sia pieno” (Jorge Luis Borges)

La compagnia giunge infine a Broadway, il più prestigioso teatro della loro tournée. Lloyd è oramai in preda alla paranoia, teme che gli attori combinino un ennesimo strafalcione, ha persino paura che la scenografia cada rovinosamente giù e non ha il coraggio di assistere. Rientrerà solo alla fine per ascoltare gli scroscianti applausi provenire dalla platea, entusiasta. La farsa è stata un successo e gli attori hanno finalmente dimenticato i loro dissapori. Tutti insieme, mano nella mano, compiono un inchino, come grandi attori e uomini di teatro dinanzi ad un teatro strapieno di spettatori elettrizzati. Sono nati sentimenti forti di amore e relazioni destinate a durare tra gli attori e le attrici della compagnia. La nascita perdurata di un sentimento è la vita, ma anche la farsa, e questo è il teatro. Si chiude così “Rumori fuori scena”, nell’assordante ma sempre gradevole rumore di un applauso.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Quella a cavallo tra il 5 e il 6 gennaio è, per i bambini, l’ultima notte magica delle festività natalizie. Un uomo dalla barba color argento dà il via, e una donna che “calza” indumenti miseri e consunti, pone fine ai festeggiamenti. L’Epifania tutte le feste si porta via.  E’ il compito che la Befana assolve tutti gli anni, quello di regalare un dolce risveglio ai piccini nel giorno in cui il clima natalizio è ormai agli sgoccioli.

Della Befana si sa ben poco. C’è chi crede sia antica come il mondo, chi afferma, senza provare dubbio alcuno, che lei era già vecchia quando nacque Gesù Bambino e che si trovava nei pressi di Betlemme quando incrociò i Re Magi che stavano per raggiungere la grotta in cui era nato il Redentore. Alcune leggende vedono i Magi spingersi a domandare a quella donna dal vetusto aspetto di accompagnarli, ma ella avrebbe desistito dall’uscire di casa, chi lo sa, forse intimorita dal freddo pungente. Poco dopo, però, la donna si sarebbe pentita e avrebbe così resa colma una cesta di dolci da offrire a tutti i bambini che avrebbe incontrato quella notte sulla sua strada, nella speranza di incontrare il Re dei Re appena venuto al mondo. E’ forse per tale mito che noi tutti, ancora oggi, attendiamo lo scoccare della prima ora del 6 gennaio per deporre le statuine dei Re Magi nel presepe dinanzi alla grotta dove giace il Bambino Gesù. Il giorno della Befana sembra riguardare, in qualche modo, la venuta dei Re Magi.

Ma chi era davvero quella vecchina cui i racconti fanno menzione? Perché ebbe in dono quella che si crede sia un’immortalità? La Befana è in vero una figura avvolta da un alone di magico mistero. A differenza di Babbo Natale, che i racconti sono soliti far risalire la sua residenza al Polo Nord, non si conosce dove la Befana viva, celata allo sguardo dell’uomo. E sempre per differenziarsi dal Signore del Natale, la Befana non ha elfi al proprio servizio. Si suppone che viva sola, in un luogo imprecisato. Perché non potrebbe vivere su nel cielo, tra le stelle luminose del firmamento sconfinato?

La Befana sono solito pensarla come un’anima un tantino sfortunata. Non ha il medesimo vantaggio di Babbo Natale. Lei arriva soltanto alla fine delle festività, non dona gioia quando il periodo natalizio ha dato appena inizio al suo corso. Lei discende dal remoto, quando oramai le ferie dal lavoro sono prossime a cessare e gli impegni tornano a bussare nuovamente alla porta, quando le vacanze scolastiche sono agli sgoccioli e il divertimento senza apparente fine, nonostante tutto, tende a cessare. La Befana dona così, con i suoi dolciumi all’interno delle calze, l’ultima gioia, quel soffio di bontà, sinonimo di un periodo lieto e terso qual è il Natale.

Al calar del sole, il 5 gennaio, potremmo alzare gli occhi al cielo e volgere lo sguardo alla luna nel vano tentativo di scorgere le fattezze stravaganti della Befana che vola tra pascoli di nuvole. Talvolta ella, se riuscissimo a intravederla, potrà avere intorno al capo un fazzoletto di stoffa, ma c’è chi giurerebbe di averla vista indossare un cappello a punta. Vola in sella a una scopa, si manifesta nella notte e reca a sé le sembianze di una megera malandata. Che la Befana sia una strega? Nessuna risata sadica potrebbe udirsi fuoriuscire dalla sua bocca, se non un flebile risolino affettuoso. Ella è in verità soave e gentile, come se quel suo pesante aspetto fosse la condanna del tempo atta a nascondere una bellezza interiore. Le sue vesti scucite, avvolte dalla fuliggine che vien giù dai cunicoli dei camini, il suo volto affossato dalle rughe, il suo naso adunco e il suo mento a ciabatta, la sua andatura in volo del tutto somigliante a quella di una fattucchiera ria e malvagia, sono tutte sembianze ingannatrici, che contrappongono la bontà della sua anima all’esteriorità menzognera.

La Befana è costante contrapposizione: dispensa col suo volo armonioso felicità in un giorno di leggera malinconia, possiede le parvenze di una megera eppure ha i modi garbati di una strega buona, e nei suoi sgradevoli caratteri somatici non incute alcun timore, tutt’altro! Invita i piccini a guardare oltre le apparenze e a scorgere la bellezza di un cuore puro.

E se l‘espressione pesante del volto della Befana non sia che una mistica patina generata volutamente dalle sue arti magiche? La Befana sembra voler rappresentare la bellezza interiore, quella occultata sotto una greve parvenza poiché meritevole d’essere scoperta soltanto da chi può riuscire a vedere sempre oltre le pur semplici apparenze. Ella, millenni orsono, rifiutò di uscire di casa per prestare aiuto a quei tre viandanti ma se ne pentì poco dopo. Rammentate la vecchia mendicante che testò la generosità del cuore di un principe delle fiabe, chiedendo riparo dal freddo pungente nel castello regale e offrendo come pegno una rosa incantata? La Befana potrebbe agire in egual maniera, muovendosi nella notte come una vecchia dal misero aspetto che porge regali a chi è, o diventerà, uno spirito degno, tanto da ricordarci come bisognerebbe conoscere la vera bellezza, quella che si insinua nell’animo e che porta a fare del bene. Quello stesso bene che scaccia il carbone.

E se la stessa Befana… Se esistesse realmente e… Se incontrata davvero, rivelasse, al cospetto di un puro di cuore, d’essere in verità non una sgraziata vecchietta dall’anima candida, ma una dolce e leggiadra entità? Magari la sua bruttezza si dissolverebbe e apparirebbe una bellissima fata, eternamente giovane come il tempo immortale, desiderosa di mostrarsi per com’è soltanto a chi è stato buono e generoso nella sua vita.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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