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Emily Blunt è Evelyn - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Come puoi spiegare ad un bambino che non può giocare col suo giocattolo? Come potresti distoglierlo dal tenere in mano il modellino di un aereo da combattimento e fingere di pilotarlo? Sarebbe come arrestare la sua voglia di crescere, smorzargli la fantasia.  Quel medesimo desiderio che lo porterebbe a fantasticare d’essere all’interno della cabina di pilotaggio e volare alto nel cielo, a combattere contro i malvagi della sua avventura testé improvvisata. Non ci riusciresti mai! Ciononostante, il piccino non può davvero giocare. E’ complicato replicare con la voce i suoni che immaginerebbe provenire da quell’aereo in volo. Analogamente, se tenesse in mano la riproduzione giocattolo di una locomotiva non potrebbe fare “ciuf ciuf”, e muoverla con le mani, un po’ a destra e un po’ a sinistra, immaginando di farla sferragliare su dei binari visibili solo nei suoi candidi occhi. Nel mondo in cui vive quel bambino è vietato fare alcun rumore se si vuole sopravvivere.

Mentre la sua famiglia è intenta a racimolare provviste e generi alimentari in un negozio abbandonato, il piccolo Beau ha trovato una navetta spaziale giocattolo, e vorrebbe portarla con sé. Tuttavia, il padre prontamente lo ferma e gli spiega che il giocattolo farebbe troppo rumore e attirerebbe i mostri. Il bambino è triste ma non può che acconsentire al volere del genitore. Di lì a breve, la sorellina più grande, all’insaputa del padre, gli rende il giocattolo. Quando l’avrebbe scoperto, papà avrebbe capito, - avrà pensato la sorella - ma fino ad allora doveva essere il loro segreto. La famiglia procede scalza sul sentiero che la conduce verso casa. Prima di uscire dal negozio, Beau recupera le batterie e le inserisce all’interno della navetta, mettendola in funzione. Il piccolo si ferma improvvisamente e resta per qualche istante come rapito dagli effetti acustici e dalle luci multicolori emesse dal giocattolo. Il flebile suono e l’innocente stupore prodotto dall’intermittenza della luce colorata, concepite per attirare la fantasia di un bambino, si riveleranno, loro malgrado, l’arma che condurrà Beau alla morte. Quella navetta spaziale che non era altro che un “balocco” nato per divertire, si rivelò, invece, come la “sonora” fine di un’anima innocente. Il rumore fuoriuscito dal giocattolo attira delle strane creature provenienti dai boschi, le quali catturano il bambino e lo uccidono davanti alla sua famiglia, rimasta inerme in preda a una disperazione incontenibile. I genitori di Beau e i suoi fratelli non poterono neppure lasciarsi andare ad uno straziante pianto, non ebbero la possibilità di squarciare l’angosciante quiete che dominava il tutto con un urlo disperato. Ebbero solamente la mera opportunità di piangere contenendo i lamenti. Quello che “A quiet place” ci presenta è il dramma laconico di una famiglia a cui non è più concesso esternare con la voce alcuna sensazione.

A quiet place – Un posto tranquillo” comincia il proprio corso una mattina dell’anno 2020.  In questo futuro, la Terra è stata invasa da creature extraterrestri, prive di vista ma estremamente sensibili al rumore. Nel giro di poche settimane, la popolazione terrestre è stata devastata dall’azione predatoria di queste creature. I pochi sopravvissuti vivono giorno dopo giorno stando attenti a mantenere un costante, quanto angosciante, silenzio. Anche il minimo rumore può, infatti, attirare l’attenzione degli alieni. La famiglia Abbott è composta da Lee (John Krasinski, protagonista e regista del film), la moglie Evelyn (Emily Blunt), i figli Marcus, Regan, la quale è affetta da sordità, e lo scomparso Beau. Gli Abbott, sopportando con sempre più fatica i disagi di un’esistenza regolata dal mantenimento del più assoluto silenzio, continuano a restare in vita, comunicando tra loro per mezzo della lingua dei segni. Sono trascorsi 476 giorni dall’arrivo di questi “demoni” discesi dallo spazio, invasori ostili dalla natura ignota. Evelyn è incinta e si accinge a partorire a breve. Lee sta ultimando quanto è necessario per rendere sicura una stanza insonorizzata, che possa garantire la venuta al mondo e la crescita del nascituro.

“A quiet Place” è un film atipico e originale. Non è un semplice horror, il cui scopo preminente è quello di acutizzare il terrore come potrebbe sembrare dall’ingannevole locandina. Non è nelle intenzioni basiche del lungometraggio esagitare un’emozione di paura nel cuore degli spettatori, così come ha voluto far credere la “menzognera” campagna pubblicitaria scelta per promuovere il film. Il genere che maggiormente dovrebbe calzare a pennello per descrivere “A quiet place” è quello del thriller fantascientifico. E’ il senso di allerta ad essere precipuo, o ancor più specificatamente, la tensione a venire alimentata in un crescendo durante lo scorrere della pellicola piuttosto che lo spavento. Il lungometraggio cerca di indurre all’immedesimazione il pubblico nella disagiante situazione in cui vertono i protagonisti. La storia e l’ambientazione non fanno che rimarcare sin dall’inizio quanto il pericolo sia sempre imminente. Basta una minima disattenzione, la più sbadata delle dimenticanze, per generare un suono e attirare verso di sé la morte. Non fare alcun rumore diventa sempre più difficile, un “dovere” quotidiano sempre più snervante.

La pellicola di Krasinski è apprezzabile anzitutto per il coraggio: girare un film quasi interamente sprovvisto di dialoghi verbali, e garantire comunque un’eccellente scorrevolezza, non è impresa da poco. Voler stimolare la concentrazione degli spettatori per mezzo di un magniloquente mutismo è un tentativo lodevole, poiché un pubblico attento non potrà che lasciarsi trascinare dalla suggestiva atmosfera dell’opera, che nel silenzio ricorda un’evocativa facondia simbolica. La dialettica in “A quiet place” è filtrata nei gesti, il significato di una parola diventa fruibile nei cenni, l’esternazione di un’emozione negli sguardi, la trasmissione di un pensiero nelle mimiche facciali. Il silenzio prolungato fa sì che gli occhi, l’espressione del viso, le mani stesse diventino tutti strumenti comunicativi per esternare una volontà. Nella corrispondenza degli sguardi scambiati tra i personaggi si instaura un rapporto empatico con gli spettatori. Per gustare appieno l’esperienza offerta dal film, occorrerà che ognuno di noi provi inevitabilmente ad immaginare d’essere al posto dei protagonisti, a dover far fronte ad una vita di stenti e rinunce.

Nell’incomunicabilità vocale, emerge un silenzio assordante che permea la totalità dell’ambiente. Gli unici suoni che riescono ad allietare la silenziosità imposta alla razza umana sono quelli della natura, come il gorgoglio di un ruscello, il fragore di una cascata o il sibilo del vento. I personaggi vivono tutti oppressi da un mutismo inviolabile, tranne la giovane Regan, che risulta essere ulteriormente isolata dalla sua sordità. Non vi è un vero e proprio scampo da una situazione tanto alienante. Gli Abbott vivono nell’isolamento, nell’emarginazione. Procedono giorno per giorno ad elaborare il loro lutto, e permanendo in silenzio faticano ancor di più a superarlo. Non possono comunicare apertamente i loro dispiaceri, affrontarli per mezzo della parola, del lamento e dello strillo. Non riescono a sfogare il loro dramma intimo, devono, invece, soffocarlo, e non potendo comunicare apertamente ecco che si presentano le incomprensioni, i dubbi, le ansie di una figlia che teme di non essere più amata dal padre. Per andare avanti occorre affidarsi alla bellezza delle piccole cose. Ecco che una semplice partita a Monopoli diventa il solo passatempo per Regan e Marcus.

E in egual maniera, anche la musica, riprodotta a volume basso e ascoltata attraverso le cuffie, è l’unico accompagnamento musicale che riesca a cadenzare i passi di danza di una moglie, Evelyn, e di un marito, Lee, i quali, per qualche istante, riescono a dimenticare i loro affanni fintanto da concedersi la libertà di un lento. Anche quel “razzo giocattolo” era una “piccola cosa”, e doveva rappresentare una “via di fuga” per un bimbo che non voleva altro tranne volare via con l’immaginazione e porre fine a quel maledetto silenzio. Sacrifici, coraggio, amore, affetto, protezione verso la propria famiglia, sono solo alcuni dei temi affrontati con sagacia dal thriller di Krasinski. Un bel film, ricco di suspense che nel suo essere laconico comunica più di quanto, alle volte, potrebbero fare le parole.

Come abili mimi che si esprimono con l’arte dei gesti, gli attori protagonisti ci aiutano a comprendere come il loro unico scopo sia proteggere i propri figli ad ogni costo. Krasinski interpreta il ruolo di un padre di famiglia protettivo e valoroso. Ma è la moglie Evelyn a prendersi meritatamente la scena. Una straordinaria Emily Blunt interpreta una madre prostrata dal dolore ma mai arresasi ad esso. Incredibilmente potente la sequenza del parto, in cui la donna tollererà gli spasmi e un dolore straziante, restando muta, trattenendo a fatica le urla di dolore che il suo corpo reclamerebbe. Il suo volto madido di sudore, i suoi occhi addolorati, le lacrime che le scendono lungo le gote, la sua bocca che fatica tremendamente a bloccare anche il benché minimo gemito di sofferenza, sono tutte caratteristiche interpretative riscontrabili nell’immediatezza e che accentuano la sua convincente ed entusiasmante interpretazione.

E’ interessante notare come in questo mondo postapocalittico, in cui vige la morte, questa famiglia abbia voluto e cercato in ogni modo di garantire la nascita di una creatura portata in grembo con tutte le problematiche del caso. Con la venuta al mondo del loro ultimo figlio, Lee e Evelyn hanno dato alla luce la speranza in un’esistenza oppressa dall’oscurità. Ogniqualvolta il bambino piangerà, il suo pianto costituirà una lieta melodia che interromperà quel drammatico silenzio, riecheggiando come un lamento liberatorio e pieno di voglia di vivere.

Voto: 7/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Devo ammettere che non ero affatto a conoscenza delle pieghe che la storia avrebbe preso nel secondo capitolo della saga di “Terminator”. Eppure, un dubbio mi assalì quando guardai per la prima volta il lungometraggio del 1984. Osservando la caccia che coinvolse i fuggitivi, Sarah e Kyle, e che venne portata avanti con infaticabile devozione dal cyborg, a cui Arnold Schwarzenegger prestò le sue nerborute fattezze, non potei fare a meno di pormi il seguente interrogativo: se un Terminator venisse programmato per difendere, invece che per attaccare, cosa potrebbe accadere? Esso costituirebbe una difesa non solo “rocciosa”, ma pressoché indefessa. Il Terminator vigilerebbe giorno e notte sul soggetto verso cui le sue attenzioni sono state a ben riguardo “indirizzate”. Una macchina distruttrice si tramuterebbe in un protettore possente quanto infaticabile. Per me non rappresentava che una mera ipotesi. Rimasi comunque scettico circa la possibilità di poter vedere un cyborg di tale natura “tramutato” in una sorta di guardia del corpo. Mi ripetevo che, come descritti dal guerriero Kyle Reese, i “Terminators” non conoscessero paura, rimorso, stanchezza, pietà. Erano stati concepiti per annientare gli uomini, plasmati tra le fiamme di una fucina affacciata su una voragine infernale, al solo scopo di procurare dolore. Ciononostante, quando recuperai per la prima volta “Terminator 2” rimasi piacevolmente colpito. La macchina assassina era stata riprogrammata, e il T-800 vestiva adesso i panni di un vigilante.

James Cameron spiazzò le attese del periodo e realizzò un sequel innovativo e spettacolare. L’antagonista del primo film tornava mantenendo un aspetto del tutto somigliante a quello che aveva il suo tristo predecessore, tuttavia, il suo ruolo venne invertito, da efferato assalitore il Terminator di Schwarzenegger indossò le vesti dello stoico difensore di Sarah Connor e del figlio, il futuro guerriero John. Il T-800, questa volta, se la sarebbe dovuta vedere contro un nuovo Terminator, un modello T-1000, maggiormente potente e ancor più imbattibile. Se nel primo lungometraggio di Cameron, la sfida dell’uomo contro la macchina costituiva il fulcro narrativo dell’opera, per il sequel il cineasta scelse di porre su fronti opposti le due creazioni “partorite” dell’intelligenza artificiale Skynet. La macchina si scontrerà contro un’altra macchina, in un duello senza esclusione di colpi.

“Terminator 2 – Il giorno del giudizio” è un sequel stupefacente, che si pone ad un livello paritario se non addirittura superiore rispetto al capostipite della propria saga. Come spesso è accaduto per le produzioni del regista James Cameron, il budget per la realizzazione del film fu impressionante. I costi superarono i 100 milioni, ma i guadagni e i responsi critici ripagheranno ampiamente le spese: “Terminator 2” sarà il film di maggior successo dell’anno, e vincerà quattro premi Oscar su sei candidature. La pellicola è una lunga e inarrestabile corsa effettuata tra la notte e il giorno per ricercare una doppia salvezza: quella dei nostri protagonisti, Sarah e John, vigilati da un guardiano che farà quanto è in suo potere per difenderli, e quella relativa alla razza umana, sulla quale pende una minaccia per l’imminente creazione di Skynet. Il film è permeato da un’atmosfera avvincente, ed è in particolar modo scandito da fantastiche sequenze d’azione che lasceranno attoniti anche coloro i quali sono meno propensi a conturbarsi davanti ad un trucco scenico ben congegnato o ad un articolato effetto speciale.

“Terminator 2 – Il giorno del giudizio” riprende a raccontare la storia là dove si era interrotta. Sarah è molto cambiata da quella notte in cui perse la vita Kyle Reese per darle la possibilità di trarsi in salvo. Quando Reese spirò, ciò che restava del busto in endoscheletro metallico del Terminator riprese ad animarsi e, strisciando, continuò il suo folle proposito di neutralizzare la donna. Sarah riuscì a terminare definitivamente la macchina, schiacciandola sotto il peso di una pressa idraulica. Fu in quel momento che lei cominciò la sua ascesa. Sarah andrà incontro ad un’evoluzione evidente rispetto al primo film, nel quale era una giovane donna, dolce e spaventata, vittima di eventi avversi, di una caccia spietata perpetrata da un predatore impossibile da arrestare. Tale fuga, per scampare alle intenzioni fatali del terminator, l’aveva resa una preda indifesa, la cui unica tutela era garantita da un uomo, il padre del suo futuro figlio. In “Terminator 2”, Sarah verrà rappresentata come una donna forte, atletica, un’esperta di armi da fuoco e del combattimento corpo a corpo. Ella è pronta a battagliare per scongiurare l’olocausto nucleare che Kyle le raccontò. Sarah è una delle grandi protagoniste del cinema di James Cameron: come Ellen Ripley di “Aliens”, Sarah è audace, una madre che non contempla alcuna resa quando si tratta di difendere il suo unico figlio; e come Rose di “Titanic”, ella è una donna in grado di vivere con fierezza, di affrontare le asperità che la vita le pone sul proprio commino, e di restare eternamente legata al ricordo di un primo e indimenticabile amore.

Nel sequel di “Terminator”, colpisce la naturalezza con cui il pubblico instaura un feeling spontaneo con il T-800. Quel cyborg ha i medesimi connotati fisici del brutale assalitore che tentò, fino allo stremo e oltre, di uccidere la nostra protagonista, Sarah Connor, e che riuscì ad annientare il coraggioso guerriero Kyle Reese, compagno di Sarah e padre inconsapevole di John. Sebbene verso il robot non potremmo che, da subito, nutrire la stessa diffidenza provata da Sarah, quando questa si imbatterà nuovamente nella macchina che ha il medesimo aspetto del suo indimenticato assaltatore, noi spettatori riusciamo comunque a simpatizzare con l’agire sincero del Terminator: ciò perché senza remora alcuna riponiamo in lui la nostra fiducia. Con una scrittura curata e intelligente del personaggio, il T-800, da cattivo, venne mutato in un protagonista d’indiscussa caratura eroica, in grado di far breccia nel cuore del pubblico come un guardiano silenzioso scelto per essere l’estrema difesa.

E’ il concetto di “difesa” un aspetto interpretativo importante e ricorrente del film. In “Terminator”, Kyle Resse ammetteva d’essere tornato indietro nel tempo per proteggere Sarah, una donna la cui fama leggendaria precedeva la conoscenza del suo vero aspetto. In pochi sapevano realmente chi fosse Sarah Connor, e ancor di meno quale conformazione avesse il suo viso. Nessuno sapeva il colore dei suoi occhi, o che i suoi lunghi capelli erano, in verità, biondi. Eccetto Kyle, a cui John Connor, conscio d’essere suo figlio, darà una fotografia della madre in modo che Kyle cominci a conoscerla. Kyle si innamorerà dei lineamenti di quel volto, imparerà a scoprire ogni curva d’epidermide di quella giovane donna, immortalata in uno scatto fotografico a cui rimase tanto legato. Kyle era prontamente disposto a dare la sua vita per Sarah quando fu scelto per incarnare l’ultima difesa della donna: è questo l’atto d’amore più grande espresso dai due film di “Terminator”, quello relativo al “difendere” ciò che amiamo. Kyle morirà per dare una speranza alla sua amata, Sarah, la quale, a sua volta, sarà pronta a sacrificare se stessa pur di proteggere il figlio. La strenua difesa dei protagonisti umani subirà una nuova analisi in “Terminator 2 – Il giorno del giudizio”, quando il T-800 dimostrerà di poter essere anch’esso una difesa inossidabile.

La lotta spossante che coinvolge il T-800 con il T-1000 è una battaglia in cui il male, personificato nel Terminator di nuova generazione, non solo si manifesta come una forza oscura ma anche e di certo per nulla scalfibile. Se il T-800 poteva essere distrutto dopo una serie di violenti attacchi eseguiti con grosse armi da fuoco, il T-1000 vanta una capacità rigenerativa infusa in lui dal materiale con il quale è stato costruito; ad ogni colpo subito, la lega di metallo liquido che riveste l’androide pare deformarsi per poi tornare allo stato iniziale come se non fosse successo nulla. Ma non solo, tale lega mimetica gli permette di assumere la forma degli oggetti che lambisce o delle persone che tocca. Il male in “Terminator 2” potrebbe celarsi ovunque, usufruire di ogni forma e adoperare ogni possibile voce per attirare a sé le vittime designate.

Il Terminator mandato indietro nel tempo per proteggere John dovrebbe essere il primo T-800 “riprogrammato” per garantire un’azione non più votata all’eliminazione ma alla salvezza. Se in principio le macchine erano soltanto fautrici di morte, lui sarà il primo cyborg a farsi garante di un atto protettivo. Nulla lo avrebbe fatto demordere dalla sua missione, nessuna ferita, nessun patimento, niente avrebbe fermato il Terminator dal suo intento primario: difendere John e Sarah a qualunque costo. Il T-800 ripete proprio quella frase che Kyle disse alla donna di cui era innamorato: “vieni con me se vuoi vivere!”. In quest’affermazione trapela la testimonianza di un affetto votato alla protezione assoluta.

Il T-800 di “Terminator 2” è un androide atipico, il primo ad aver subito un cambiamento delle proprie direttive. Nella sua peculiare situazione, incentrata sulla difesa e non più sull’attacco omicida, il Terminator sembra “aprirsi” ad una maggiore comprensione dell’agire umano. Si domanderà, tra le tante cose, perché le persone piangono. L’interpretazione di Arnold Schwarzenegger, non più una maschera fissa e impenetrabile di rabbia e odio, rimarcherà questo aspetto della personalità della macchina. La mimica, in diverse scene, sembra cambiare, il Terminator non ha più un volto meccanico e indecifrabile, freddo e distaccato. In particolare, quando nella fonderia si rivolgerà a John e gli dirà di allontanarsi, il cyborg avrà uno sguardo comprensivo, e assumerà un’espressione che sembra trasmettere l’idea che il Terminator sia conscio dell’affetto che il giovane ha iniziato a provare per lui, considerandolo alla stregua di un padre. Ancora il T-800 dirà al giovane, quando la sanguinosa battaglia volgerà al vittorioso culmine, che ha ben capito perché noi esseri umani piangiamo, eppure, il suo sistema gli impedisce di poterlo fare.

“Terminator 2 – Il giorno del giudizio” sembra ricercare, mediante un’indagine introspettiva, un barlume di umanità negli ingranaggi meccanici del cyborg. Il rapporto empatico venutosi a creare con questo androide raggiungerà il suo massimo nella scena finale, in cui il Terminator sceglierà volutamente di uccidersi, facendosi sciogliere in una vasca di acciaio fuso. Con la sua dipartita, potrà cambiare gli eventi apocalittici previsti per il 1997. La sua mano sarà la sola parte del corpo che permarrà per qualche istante sopra la superficie del fluido incandescente: le sue dita simuleranno il gesto di un “ok”. In quell’ultimo saluto, il robot mimerà un cenno tipicamente umano.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Ellen Ripley e Newt - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

L’Alien si era insinuato tra gli angoli celati alla vista della “scialuppa di salvataggio”, sulla quale il tenente Ellen Ripley aveva trovato riparo poco prima dell’autodistruzione della nave madre Nostromo. Ellen era l’ultima sopravvissuta di un equipaggio sterminato barbaramente da un predatore ostile. La donna si accorse della presenza della creatura, quando essa sbucò dalla stiva di bordo in stato di semi-incoscienza. Ellen, sconvolta dalla presenza dell’essere, ebbe comunque il tempo per nascondersi, e in particolar modo sfruttò il momento propizio per razionalizzare il terrore esagitato in lei dal mostro. Concepì così un rischioso piano per sbarazzarsi definitivamente dell’extraterrestre. Il giorno in cui quella forma di vita sconosciuta e aberrante fu spazzata via dallo scafo dell’astronave e si perse nello spazio sconfinato, la paura nella sua essenza più perfida e angosciante fu domata. Il terrore venne assoggettato al volere di una donna. La paura venne allontanata, e si dissolse come un incubo che sparisce al momento del risveglio. Tuttavia, ciò che aveva visto e affrontato il tenente Ripley non poteva essere dimenticato con la medesima semplicità con cui i brutti sogni vengono accantonati al sorgere del sole. L’Alien era arrivato dall’oscurità, ed era nero come la pece. Nulla poteva schiarire la sua immagine, e niente poteva addolcire il ricordo di un simile orrore. Lo Xenomorfo era un incubo primordiale di fattezze bestiali. Dopo aver trionfato, Ellen doveva ultimare il suo viaggio e far ritorno a casa, alla volta della Terra…verso la sua figliola. Nella versione speciale di “Aliens” di James Cameron, si scopre, infatti, che Ellen Ripley era madre di una bambina. Un dettaglio di grande valenza, soprattutto se considerata l’iconografia che il ruolo di una “madre” riveste nel lungometraggio di fantascienza.

  • Il sequel di “Alien”

Aliens – Scontro finale” fu il seguito del capolavoro fantascientifico “Alien”. Cameron, regista di “Aliens”, aveva appena ultimato le riprese del suo primo cult, “Terminator”, e si apprestava a scrivere una nuova pagina importante della sua carriera. Girare un secondo capitolo del thriller fantascientifico, dalle venature orrifiche della già pietra miliare di Ridley Scott, era un’impresa dal successo tutt’altro che scontato. Cameron sapeva che Scott, con quell’atmosfera cupa e opprimente del primo “Alien”, e col quel mistero inscenato secondo un’accurata progressione sequenziale degli eventi che avrebbero portato l’Alien a manifestarsi con gradualità nelle sue minacciose intenzioni, aveva già detto molto su quell’essere dalla natura enigmatica e fascinosa da dover essere mantenuta tale. Il regista statunitense sapeva che doveva fare qualcosa di diverso, andare oltre, “esagerare”. Con “Aliens” Cameron realizzò un sequel che espanse la mitologia introdotta e perfettamente trattata nel primo, indimenticabile episodio; egli doveva puntare al culmine e coniugare l’azione con la narrazione, il ritmo con la riflessione. Non sarà più soltanto un alieno ad essere l’imperscrutabile antagonista che si cela nel buio e fuoriesce, in maniera fulminea, impietrendo la sua povera preda. In “Aliens” gli Xenomorfi compaiono a dozzine, il pericolo viene esasperato nonché avvertito con mortifera costanza, e il senso di allerta viene reso preminente proprio perché incarnato in tanti esseri astiosi che attaccano con frenesia. Gli Xenomorfi visti in “Aliens” “vengono fuori dalle pareti” claustrofobiche di una caverna, sfuggono abilmente alla vista degli uomini per poi apparire di colpo, dimostrando grande intelligenza nel mimetizzarsi camaleonticamente con l’ambiente circostante e attaccare coloro che non riescono a distinguerli dai muri nei quali vi si occultano. Così facendo, gli Xenomorfi somigliano a un male di sicuro non percettibile, che piega le sicurezze dell’uomo, da sempre predatore in cima alla catena alimentare, qui invece estromesso senza preavviso, e prepotentemente gettato giù da quell’apice piramidale per essere calpestato.

“Aliens” fu inoltre la prima, vera testimonianza del particolare talento di Cameron. Faccio riferimento alla peculiare abilità del cineasta nel girare i “sequel”. Solitamente, i “seguiti” tendono a rivelarsi inferiori se confrontati agli originali: Cameron sovvertirà il luogo comune, dapprima con il suo “Aliens – Scontro finale” e in seguito con “Terminator 2 – Il giorno del giudizio”, due pellicole d’indiscussa bellezza e dal ragguardevole successo. Tutt’oggi, entrambe permangono come prove inconfutabili, che certificano come tali seguiti siano, non solo degni successori di capostipiti divenuti opere di culto, ma addirittura, secondo i pareri di tanti, superiori ad essi. “Aliens” è un film denso, corposo (l’edizione speciale supera le due ore e mezza di durata), ricco di suspense, strutturato secondo un susseguirsi di molteplici scene intense che alternano momenti introspettivi ad altri in cui l’azione più spettacolare la fa da padrone. “Aliens” è la lotta dell’essere umano contro la natura più avversa, dell’uomo contro una bestia dalla laida fattezza. “Aliens - Scontro finale” è un bellissimo lungometraggio di fantascienza, che può vantare la pregevolissima interpretazione di Sigourney Weaver, candidata all’Oscar come miglior attrice protagonista.

  • Donna…

Ellen, ancor prima di partire per la sua missione sulla Nostromo, come dicevo, era una mamma. Dopo essere miracolosamente scampata agli attacchi del mostro alieno, per fare ritorno sulla Terra, Ellen innestò il pilota automatico della navetta, e proseguì nel preparare quanto era necessario per il sonno criogenico, inevitabile per sostenere il viaggio di ritorno, all’interno di una capsula. Ellen si abbandonava così al mondo dei sogni, dopo aver vissuto con gli occhi sbarrati un incubo in carne ed ossa.

Trascorrono tanti anni dal quel giorno, 57 per la precisione, molti di più di quanti erano stati inizialmente previsti dall’ufficiale superstite del Nostromo. La navetta di salvataggio su cui riposa, dormiente e da poco più di mezzo secolo Ellen Ripley, viene scorta da un’astronave della stazione di recupero Gateway. Ellen viene ritrovata e risvegliata dal suo stato di ipersonno. Scoprirà, con dolore, che la sua amata figlia, divenuta sessantenne, è morta in seguito ad una malattia. Sebbene la straziante esperienza con lo Xenomorfo sia oramai un ricordo, il panico vissuto torna a manifestarsi in lei, specialmente quando Ellen dorme. L’Alien si configura nuovamente come un incubo d’origine ignota, un male ansiogeno in grado di spezzare il corpo di un essere prossimo a morire o di turbare, in egual maniera, la psicologia di chi è riuscito a sottrarsi alla sua presa mortale.

Nei suoi sogni agitati, Ellen rivive sulla propria pelle la terrificante scena della nascita dell’Alien. Lo Xenomorfo nasce attraverso una macabra azione parassitoide, compiendo una violenza fisica devastante e uccidendo il corpo che lo ha ospitato. Ellen rammenta con orrore tale orripilante nascita. Lei, una donna che un tempo aveva messo al mondo anch’ella una vita e che aveva sofferto il dolore del parto per poi stringere tra le braccia la sua neonata, una creatura dolce, bella e innocente, resta inorridita nel soffermarsi a rievocare quanto la venuta alla luce di uno Xenomorfo sia uno stupro e un parto d’immonda natura. Non riuscendo a sopportare più i suoi incubi, Ellen accetta di partecipare a una pericolosa missione con l’intenzione di distruggere le restanti uova degli Alien sul sistema LV-426. Decide così di tornare in quel pianeta in cui la sua squadra di sbarco rinvenne l’uovo dell’Alien. Tale pianeta è stato recentemente terra-formato e colonizzato dagli esseri umani. I membri della Compagnia Weyland-Yutani recatisi sul suddetto pianeta non rilasciano da tempo più alcuna comunicazione, ed Ellen crede che tutti siano stati catturati dagli esseri e sfruttati per la nascita di quelle forme di vita extraterrestri.

Ellen cerca di mettere in guardia i marines dai pericoli legati al mostro, ma questi non sembrano dare affatto peso alle parole del Tenente, convinti di avere dalla loro la forza perentoria delle armi e la scaltrezza eroica tipica dei grandi combattenti. Ellen risulta essere l’unica donna in una squadriglia di soldati composta da soli uomini. In verità, tra loro vi è un’altra donna, Vasquez, ma quest’ultima viene anche lei rappresentata con un aspetto marcato, rude, del tutto somigliante a quello dei corrispettivi compagni di “plotone”. Sembra esserci un’astratta linea di demarcazione che separa la protagonista, conscia del male a cui stanno tutti per andare incontro, dagli uomini facenti parte di questa “squadra d’assalto”, quasi tutti ingenui e spiccatamente arroganti. I guerrieri in questione credono di poter contare sulla supremazia bellica delle loro avanguardistiche armi, non curandosi dei pericoli portati da una razza aliena sorta da una natura indomabile e oscura, che non conosce rimorso né paura. La virilità maschile personificata da questi soldati subisce, se confrontata alla saggezza femminile di Ripley, una rilettura negativa, tanto da rendere l’arroganza dei soldati una sorta di manifestazione plateale della loro mascolinità da sbruffoni. I soldati, giunti sul pianeta con stupida calma e una mal celata superbia, cominceranno ben presto a cambiare, perché si troveranno dinanzi una potenza predatoria incontrollabile, che farà vacillare completamente ogni loro sicurezza. Gli uomini, se in principio avevano assunto le spavalde vesti di implacabili guerrieri, verranno ora ridotti a inermi vittime sacrificali, prede del volere degli Alien. Tra i membri dell’equipaggio soltanto Hicks (Michael Biehn), e l’androide Bishop (Lance Henriksen) verranno rappresentati con valori differenti, e non a caso saranno i soli a trarsi in salvo insieme a Ripley.

  • …Madre

Una volta discesi sul sistema LV-426, Ripley incontrerà una bambina, Newt, miracolosamente scampata alle grinfie delle creature. Con lei, Ellen instaurerà un profondo legame d’affetto che assumerà i contorni di un rapporto tra madre e figlia. Ripley, nel visino, turbato e reso sporco dal sozzo terreno, della giovane sopravvissuta, torna a rimirare la figlia perduta. Quando Newt verrà presa dalle creature e portata nel covo della grande regina, Ellen comincerà un’eroica ed estenuante corsa contro il tempo per salvarla. Le sequenze che vedono Ripley calare giù, sino ad avventurarsi nelle profondità delle caverne mantengono un ritmo incalzante. Ellen, per mettere in salvo la sua prole adottata, si troverà faccia a faccia con lo Xenomorfo regina. Ripley, da madre, sarà al cospetto di una creatura dalla mole gigantesca, anch’essa madre a sua volta, genitrice di una forma di vita che necessita di uccidere per poter ottenere vita propria. Ripley ingaggerà un violento scontro con la regina, che culminerà con la morte della raccapricciante creatura.

Ellen aveva rinvenuto la sua Newt nel momento in cui stava prevalendo la disperazione, e nell’istante in cui credeva di averla perduta per sempre. Fu l’urlo terrorizzato della piccola ad attirarla. Con l’audacia che può animare il cuore di una madre, Ellen si precipiterà verso il più arduo dei pericoli. Fu il grido di una piccola ad attrarre l’attenzione di una madre. Nello spazio nessuno può sentirti urlare, recitava la celebre Tagline dell’“Alien” del 1979, eppure, l’urlo disperato di una figlia richiamò a sé una madre perduta…così che potesse affrontare ancora una volta la paura più recondita e sconfiggerla.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Molti, molti secoli addietro, nel tempo in cui i miti affondano le loro più arcane memorie è raccontata la storia di un uomo dalla natura divina. Arcade, quello era il suo nome, chiamava “madre” Callisto, una ninfa consacrata alla dea Artemide, e “padre” colui il quale veniva appellato, in egual modo, da coloro che sedevano sulle nuvole bianche del monte Olimpo: Arcade era, infatti, figlio di Zeus, il padre degli dei. Un giorno, il giovane Arcade fu notato dal sommo padre mentre camminava, con passo cauto e leggero, tra la folta vegetazione. Vigile era lo sguardo del semidio, e predatorie le sue intenzioni. Armato con arco e frecce, la prole mortale di Zeus stava dando la caccia ad una grossa orsa che vagava, confusa e spaventata, tra gli alberi secolari della foresta. Si apprestava a trafiggere l’animale, facendo scoccare un dardo acuminato con fatale precisione, quando intervenne Zeus, che raccolse le anime del cacciatore e della sua preda e le trasfigurò in astri del cielo. Quando si rese conto di ciò che stava, inconsapevolmente, per compiere, il giovane si sentì rinfrancato dal provvidenziale intervento del padre. L’orsa, infatti, altri non era che la madre Callisto, tramutata in una bestia selvatica come atto punitivo della regina degli dei, furente di rabbia. Arcade si ricongiunse così alla donna che gli aveva dato la vita e insieme raggiunsero l’immortalità sotto forma di costellazioni: Callisto divenne l’Orsa Maggiore e suo figlio l’Orsa Minore.

Capitan Harlock - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Il ricordo di Arcade si mantenne caro agli uomini, che sempre rimasero ispirati dalla benevolenza che egli ebbe quando calcò il reame dei mortali. Vollero così onorare la sua figura, battezzando una regione della Grecia col suo nome: l’Arcadia. Questa terra fu idealizzata come una regione incontaminata, paradisiaca, in cui potevano vivere in pace e in armonia uomini e natura, in un idilliaco equilibrio del creato, impossibile anche solo da scalfire. Hera, tuttavia, non si diede per vinta, e sebbene il marito avesse salvato le anime del figlio e della ninfa, riuscì a mettere in pratica una sua nuova azione vendicativa: le due costellazioni furono condannate a girare in eterno nel cielo, senza poter mai discendere al di sotto dell'orizzonte per trovare riposo.

Nella modernità del nostro tempo, quando oramai il fato di Arcade e di sua madre non è che un lontano ricordo, i racconti fantastici, partoriti dalla mente di un autore come Leiji Matsumoto, si soffermano a rievocare le vicissitudini di una particolare nave spaziale che, come le due costellazioni incarnate da Arcade e da Callisto, vaga in maniera perpetua tra le stelle senza mai fermarsi. L’astronave è comandata da un capitano dalla personalità tanto complessa quanto ardua da comprendere appieno. Tale comandante risponde al nome di Harlock. Chissà se Capitan Harlock, al timone della sua colossale astronave, abbia mai rivolto le sue rotte spaziali verso l’Orsa minore, la costellazione in cui pulsa, tra le stelle luminose, il cuore di quel vecchio eroe greco. Come per Arcade e Callisto, il “moto” di Harlock è senza fine, poiché risponde ad una missione che non può conoscere resa alcuna. Anche Harlock, così come i due personaggi della mitologia greca, non può discendere dalle stelle e non può tornare a vivere sulla sua amata Terra. Egli è stato bandito, additato dal governo come un fuorilegge, essendo egli un pirata spaziale su cui poggia il gravoso peso dell’esilio. Il governo terrestre lo ha scacciato come un pericoloso rivoluzionario. Harlock non ha più una dimora terrena, ma è divenuto la personificazione di un’idea. La casa di Harlock è sita nell’universo sconfinato. Sebbene sia stato allontanato dal pianeta, Harlock costituisce la più importante difesa della Terra.

Capitan Harlock - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Il veliero, che solca le “acque” dello spazio profondo e che viene controllato dalla mano ferma ma ugualmente delicata di Harlock, è conosciuto con un epiteto altisonante, il quale ricalca la magnificenza simbolica ed idealista della nave: Arcadia. Un evidente riferimento a quella terra pura e intrinsecamente pacifica della Grecia. La nave stellare è stata concepita dal suo costruttore per assurgere a luogo nel quale regna la parità, l’uguaglianza e, in particolar modo, un sacro e inattaccabile valore di libertà. L’equipaggio dell’Arcadia è estremamente eterogeneo, eppure, nonostante le diversità estetiche e caratteriali che intercorrono tra i membri dell’equipaggio, tutti loro sono accomunati da trascorsi molto simili e soprattutto dalle medesime aspirazioni. Sull’Arcadia, Harlock raccoglie le anime delle persone bramose di giustizia, gli spiriti di tutti coloro che, esiliati dai loro mondi, possono ritrovare una nuova dimora all’interno del vascello che solca “le acque” burrascose dello spazio sconfinato. Harlock siede su di un imponente trono, come fosse un re buono e pacifico a cui è stato strappato un regno sulla Terra. Egli è, di fatto, sovrano dei cieli.

Nella storia di “Capitan Harlock”, la regione dell’Arcadia, cui facevano cenno i racconti antichi, è divenuta, come ogni altra parte del globo, una terra arida. Il mondo è stato depauperato di ogni risorsa, e tutti gli abitanti della Terra vivono in uno stato di totale indifferenza e apatia. Le acque dei mari sono state prosciugate, e il clima è divenuto afoso e difficilmente tollerabile. L’Arcadia, la nave spaziale di Harlock, richiama quell’idealizzazione che non c’è più, e vuol render vera una tangibile illusione. Se il nostro pianeta non ha più un solo spazio su cui poter far sorgere una civiltà armoniosa, la sola speranza per la razza umana è quella di volgere gli occhi al cielo, così da tentare di scorgere la sagoma di un’astronave che rimanda a quell’ideale mai del tutto perduto: creare un microcosmo su cui vige un’esistenza sorretta da un perfetto e amorevole equilibrio.

La figura di Harlock è fascinosa e intrigante. Se per lui il firmamento sconfinato costituisce un immaginario oceano fatto di stelle, la Terra rappresenta il suo unico porto, un attracco sicuro a cui tuttavia non può mai far ritorno. Gli astri luminescenti appaiono ai suoi occhi come la luce di un faro che orienta le aspre traversate della sua Arcadia. Capitan Harlock è un eroe di stampo classico, romantico e melanconicamente rispettoso di un trascorso che è andato perduto. Il suo cuore è rimasto fedele a una sola donna, la sua adorata Maya, e i suoi ricordi più cari custodiscono il tempo passato con Tochiro, il suo migliore amico, e con Esmeralda, la “piratessa” spaziale, consorte di Tochiro e madre della piccola Mayu, di cui Harlock diverrà tutore e padre adottivo.

Il Capitano è un idealista, e considera ciò che fu il solo modo per orientarsi tra le incertezze del suo presente e il nebuloso avvenire della razza umana. Harlock è un uomo introverso, taciturno, riflessivo, che difende la Terra perché seguita ancora e per sempre a guardarla con gli occhi della purezza. Per lui, il pianeta è il nostro bene più prezioso, e seppure stia attraversando una fase di decadimento, esso stesso potrà un giorno “rifiorire”, quando la razza umana tornerà a prendersene cura. Per questo motivo, Harlock veglia sul suo pianeta d’origine come fosse un misantropico guardiano, un anomalo anacoreta.

Seppur ricerchi la solitudine, egli finisce poi per accogliere quante più persone isolate incontra, così da donare loro una casa in cui vivere e un ideale per cui poter morire. Capitan Harlock è una guida eroica, pronta a difendere la Terra fino allo stremo delle forze; è questo che evoca la sua bandiera nera, la “Jolly Roger”, issata sull’Arcadia, che allude al teschio scarnificato dei temuti vessilli dei pirati. Non è un messaggio di terrore, quanto una testimonianza emblematica del suo battersi fino alla morte pur di salvaguardare il pianeta. “Mi batterò fin quando il mio corpo non cederà e la mia epidermide si dissolverà fino a non lasciare di me che dei resti scheletrici” sembra voler dire con quella bandiera che “svolazza” in quel vasto mare tenebroso che in maniera infinita si snocciola al suo navigare.

Capitan Harlock incarna un particolare senso di solitudine, quella che l’uomo avverte al cospetto dell’universo senza confini. L’universo ammantato di corpi celesti è freddo, silenzioso, e per tale ragione dev’essere scrutato ascoltando una melodia che possa cadenzare lo scorrere laconico di una giornata trascorsa su nel cielo. E’ forse per tale ragione che Harlock, sovente, contempla la magnificenza di quella tavola azzurrastra che attraversa, come superficie acquosa, con la sua nave, facendosi allietare dalle melodie di Meeme, la sua compagnia femminile prediletta, quando lei pizzica delicatamente la sua arpa, facendo così giungere nella camera del Capitano le dolci note. Nel suo perpetuo navigare, capita che l’Arcadia incroci i resti di altre navi spaziali, ridotte oramai a relitti fantasma, le quali procedono senza più uno scopo, come adagiate su un fondale sabbioso o sospinte dalle correnti oceaniche. Tali scenari spettrali non possono che suscitare in lui riflessioni esistenziali sul cammino vitale di ogni uomo, e nel suo caso di ogni “pirata”. Cosa raccontano quei vascelli abbandonati e dai contorni fatiscenti? L’ultima testimonianza di una lotta, di un ideale che ha mosso l’animo di chi, su quelle navi, ha lottato sino alla fine.

Meeme - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Harlock ha l’anima di un poeta maledetto, sprovvisto di penna e della dovuta ispirazione per poter comporre versi rimati. Un poeta, per l’appunto, affranto da una solitudine intima, genuflesso alla nostalgia di un ideale di libertà, evocato nella giovinezza e mai affievolitosi nonostante l’asprezza degli eventi che si sono succeduti nel corso degli anni. Il Capitano fa sì che i suoi versi, invece che espressi a parole, vengano “trascritti” come note musicali e “decantati” in struggenti suoni dalla sua ocarina. Tale melodia è triste e malinconica e sembra perdersi nell’infinità del tempo. Harlock suona questo strumento portandolo alla bocca, per poi chiudere gli occhi, come a voler rievocare sommessamente, nella sua intimità imperscrutabile, le reminiscenze di un passato sempre preminente nel suo presente.

La navigazione di Harlock rappresenta un’odissea. L’Arcadia, quel paradiso terrestre “volato” su nel cielo, fu la dimora di gente meravigliosa a cui, al termine della sua più grande e vittoriosa battaglia, Capitan Harlock darà congedo. Il suo equipaggio tornerà sulla Terra, in modo che siano proprio loro i primi garanti della “fioritura” che Harlock sperava di rimirare per il suo pianeta natale. Lui, invece, con Meeme, la sua ultima ed eterna compagna, si dirigerà verso l’infinito, portando con sé quegli ideali di armonia ed uguaglianza che noi uomini, qui sulla Terra, non riusciamo ancora oggi a fare nostri.

 

Eppure basterebbe volgere lo sguardo verso il cielo e viaggiare, con l’ausilio della fantasia fino ai confini delle stelle, laggiù nelle zone sperdute dello spazio profondo, dove potremmo scorgere la prua di una nave che muove verso di noi, e una bandiera nera mossa dal “vento”. L’arcadia veglia, nonostante tutto, su di noi e continua a trasmettere quelle stesse ideologie romantiche mai sopite o dimenticate, e per tale ragione eternate nel cielo come costellazioni siffatte di luminosa e illuminata speranza.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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