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Orfeo ed Euridice

(Personale rivisitazione del mito greco)

Giù, alle fronde di una quercia se ne stava, taciturno e con gli occhi chiusi, un giovane. Si era disteso sul soffice sottobosco, e lì era rimasto per alcune ore, perso tra i suoni della natura. Non stava dormendo, anche se così pareva. Era assorto ad ascoltare l’armonia del bosco. Il cinguettio degli uccelli che volteggiavano di albero in albero, il rumore del ruscello che scorreva verso la vallata, la roca “voce” del vento che sussurrava tra le fessure degli alberi erano i canti di una fauna ma anche di una flora che lo avevano avvolto in un microcosmo di pura gaiezza.

Orfeo, quello era il nome del giovane, di rado emetteva un fonema, piuttosto saltuariamente esternava un flebile sibilo, eccezionalmente pronunciava alcunché che non fosse una canzone. Non soleva parlare, forse perché le parole, unione di vocali e consonanti, erano per lui banali, se non addirittura superflue. Esse non riuscivano ad esprimere completamente ciò che lui avrebbe voluto manifestare. Orfeo portava con sé uno strumento, una lira, che utilizzava per comunicare, preferendola alla parola. Talvolta, per quanto meravigliosa, non adatta del tutto ad esprimere un sentimento per chi fa delle note il solo mezzo per veicolare il proprio pensiero. Orfeo era un musicista dalla sensibilità di un poeta. Non poteva essere altrimenti, sua madre era Calliope, la musa della poesia epica. Orfeo, pur ammirando la potenza emotiva che poteva essere mossa in lui da un canto poetico, preferiva la leggiadria della musica. Egli non ricercava una tavoletta su cui incidere i versi che il cuore gli dettava, era, invero, la musica, il solo mezzo d’espressione con il quale si sentiva a suo agio.

Quando produciamo arte, che sia scrittura, musica, canto, poniamo a nudo la parte più intima di noi stessi: l’anima. E’ come se le vesti ci venissero strappate di dosso e una luce intensa e accecante irradiasse il nostro corpo, cosicché una persona, una soltanto, colei che più lo desidera, riesca a mantenere fisso lo sguardo senza essere abbagliata. Immaginate che la luce si affievolisca sino a scomparire del tutto, e un’essenza impalpabile ma visibile, spoglia e sincera, permanga. Si tratta della nudità che generà l’amore, e tale amore vero, disinteressato, partorisce a sua volta un ricordo eterno, incarnatosi in una relazione, che ostacola l’implacabilità della morte.

Orfeo in ogni suo brano musicale è solito rilasciare un frammento astratto della propria anima. Tutti restavano incantati dalle note che egli emetteva con la sua lira, uomini e donne, fiere e piante.  Un giorno, in quel bosco in cui egli amava sostare, un suono dolce e soave lo “svegliò” di soprassalto, facendolo drizzare in piedi. Udì distintamente il risolino di una ninfa. Camminava a piedi scalzi tra la fitta boscaglia, con i lunghi capelli che le coprivano, solo in parte, il corpo nudo. Euridice era il suo nome, ed era una driade.

Le driadi, avvenenti, eteree, sagge e rigogliose come un fiore appena sbocciato che si regge su di un saldo stelo, vivevano nella foresta, incarnando la forza e lo spirito di essa. La celestiale bellezza della ninfa rapì il cuore di Orfeo con la medesima rapidità di un dardo scoccato dall’arco di Cupido. Il figlio di Calliope attirò l’attenzione della ninfa pizzicando la sua lira. Euridice accostò l’orecchio e poi si lasciò guardare da Orfeo, emerso, nel frattempo, dalla folta vegetazione. Le note prodotte dallo strumento furono una sorta di dichiarazione d’amore che il giovane volle intonare per Euridice. Tale confessione romantica non fu pronunciata, non era fatta di parole scritte, venne fuori da un’armonia musicale, e si levò dalla fredda terra per raggiungere la sfera celeste sino a perdersi tra le costellazioni ordinate da Zeus. La dichiarazione d’amore, sotto forma di melodia, divenne una stella luminosa, incastonatasi nel firmamento sconfinato, così come era l’amore di Orfeo. Il giovane mise a nudo la sua anima, e si lasciò ammirare dalla ninfa, anch’ella senza vesti né veli, anch’ella innamorata. Orfeo, ai suoi componimenti melodici, non accompagnava mai alcun canto vocale. Fu per la prima volta Euridice a cadenzare la musicalità con la sua voce gradevole e ben intonata. Nei giorni a seguire, Euridice cantò per Orfeo, ed Orfeo suonò per Euridice, in un connubio passionale di musica e parole. Ma il suono che più compiaceva Orfeo era sempre quello che Euridice lasciava trapelare ogni qual volta sorrideva.

Euridice giurò il suo eterno amore ai piedi di un altare di petali e foglie e, sotto un arco nuziale di rami intrecciati con fiori colorati e dai mille profumi, Orfeo la prese in moglie.

L’idillio d’amore tra Orfeo ed Euridice venne tragicamente spezzato da Aristeo, uno dei figli di Apollo. Questi, uomo rozzo e brutale, si era invaghito di Euridice, e non riuscendo a placare il proprio impeto, tentò di aggredire la ninfa che, per sfuggirgli, scappò via. In quel triste giorno, Orfeo si era temporaneamente allontanato dalla consorte che non avrebbe rivisto più calcare le lande dei mortali. Durante la fuga, Euridice inciampò e cadde vicino ad un serpente che le morse un piede. Il letale veleno del rettile fece subito effetto e così la ninfa si spense in solitudine nel bosco.

Quando seppe della tragedia, Orfeo si strusse di disperazione. Raccolse tra le braccia il corpo senza vita della moglie e la strinse a sé, emettendo un urlo terribile che sconvolse la funerea quiete del bosco. Distrutto dal dolore, Orfeo scese negli inferi, deciso a riprendere l’anima della sua amata. Raggiunta la sponda dell’Acheronte, si imbatté in Caronte che, furente, cominciò a scacciare l’invasore, riconoscendo in lui la viva anima. Orfeo non si scompose, cominciò a suonare la sua lira e, di colpo, il Traghettatore di anime si placò. I modi aggressivi e violenti del cupo nocchiero cessarono, venendo sostituiti da comportamenti gentili e inaspettatamente aggraziati. Caronte, pertanto, accompagnò Orfeo dall’altra parte del fiume. Nemmeno la furia di Cerbero turbò il cantore. Orfeo, infatti, riprese a suonare e il cane a tre teste, guardiano dell’Ade, smise di mostrarsi cruento, divenendo mansueto. Al termine del suo cammino, Orfeo giunse davanti ad Ade e Persefone, supplicando il re e la regina degli inferi di restituirgli la sua amata. La disperata richiesta di Orfeo fu accompagnata dal continuo suono della sua lira, e i due regnanti dell’Oltretomba, mossi a compassione, decisero di restituire la vita ad Euridice. Il monito finale per Orfeo fu il seguente: “Portala con te, ma finché non uscirete dagli inferi non potrai guardarla per nessuna ragione. Se trasgredirai quest’ordine, perderai per sempre la tua sposa.”

Orfeo tremò, prima di accettare l’accordo. Prese la mano di Euridice e, senza guardarla in viso, si apprestò a risalire gli inferi, guidando l’anima dell’amata lungo le tetre scalinate che li avrebbero condotti all’uscita. Insieme a loro si incamminò anche Ermes, in veste di controllore. La presa della sposa era gelida di morte, tant’è che, impressionato, Orfeo dovette cederla, poiché gli sembrava di non toccare l’epidermide delicata di Euridice, come se lei non fosse altro che un’essenza evanescente; e tale consapevolezza, che si palesava come una sinistra rimembranza, lo tormentava.

Durante il lugubre sentiero, il musico avanzava da solo con alle spalle Euridice. I primi dubbi di Orfeo furono legati alla presenza effettiva di Euridice; non potendo più toccarla né potendola guardare, in lui si stava insinuando il dubbio e la paura se fosse davvero lì con lui. Quando smetteva di suonare, non sentiva nemmeno il rumore dei passi della moglie. Si rincuorò - le anime non lasciano segni né tantomeno generano rumori - pensò tra sé, riprendendo il cammino. D’improvviso, sentì una Euridice chiamarlo. Lo invitava a girarsi, a guardarla, a darle un bacio. Ma Orfeo non si voltava. I tentativi continuarono e si fecero sempre più intensi e drammatici. Orfeo, tremante, proseguì senza sosta, cosciente che quelle voci erano le tentazioni degli inferi, per nulla accomodanti nel lasciar andar via un’anima dall’oltretomba. Arrivato finalmente alle porte dell’Ade, non resistendo più, Orfeo si voltò di scatto per ricambiare lo sguardo della ninfa. Euridice, però, non aveva ancora completamente raggiunto l’uscita, era rimasta indietro, rallentata nei suoi passi dalla ferita che aveva alla caviglia, il morso del serpente. Euridice cominciò a svanire e, davanti allo sguardo attonito di Orfeo, morì una seconda volta.

Il suonatore cadde a terra, distrutto dal dolore, lasciandosi andare alla più straziante disperazione. Gli occhi intrisi di lacrime si levarono verso il cielo, ed egli implorò l’intervento misericordioso di Zeus.  Nessuno venne in soccorso di Orfeo, che rimase solo ad osservare, tra i singhiozzi, quella stella accesa che era nata dalla musica decantata per la sua Euridice, quando ad ella si dichiarò. Orfeo notò come la luce di quella stella priva di costellazione si stava affievolendo. Il suo amore era imperituro ma l’addio di Euridice aveva spento la luce della sua esistenza e la stella sembrava esserne conscia, diminuendo la propria radiosa intensità.

Orfeo pianse ininterrottamente per oltre sette mesi. Da quel momento la sua melanconica melodia non farà altro che incantare gli alberi che un tempo vegliavano sulla sua amata e che l’accompagnarono, silenti, nella sua crescita da ragazza a donna. Dopo la perdita della sua sposa, Orfeo non proverà più alcuna forma di amore per nessun’altra, restando perennemente fedele al ricordo del suo eterno amore. La sua arte, però, attirerà l’attenzione delle Menadi, che arderanno di passione per lui. Orfeo le rifiuterà più volte, finché furiose, le stesse lo uccideranno, inveendo e martoriando terribilmente il suo corpo. La testa di Orfeo finirà sulla lira la quale, lasciata navigare senza meta sul fiume, raggiungerà il mare senza mai smettere di cantare, spingendosi fino all’isola di Lesbo. Orfeo cantava, e cantava senza sosta le stesse strofe che un tempo intonava la sua sposa.

In quell’attimo, Zeus, commosso dall’amore di Orfeo, raccolse la lira e la pose tra le stelle. Il Padre degli dei plasmò con le sue mani una costellazione, proprio attorno a quella stella morente, concepita dall’amore. La stella riprese improvvisamente “vita”, e si accorse d’essere avvolta dalla costellazione della Lira. L’anima di Orfeo venne eternata nel cielo e il suo cuore avvolto a quella sua stella.

Nei Campi Elisi, Euridice vagava come un’anima beata, ma non ricordava nulla della sua vita trascorsa. Eppure, avvertiva un’insoddisfazione recondita ed elusiva. Era l’assenza del suo ricordo più caro divenuto, con l’arte e l’amore, immortale. Si avvicinò, quando il sole scomparve all’orizzonte, ad una caverna sita ai confini del paradiso greco. Tale spelonca custodiva una spaccatura, un’apertura tra le sue rocce che si affacciava sul cielo degli uomini.

Fu in quel momento che vide la stella della costellazione della Lira brillare di luce propria, ed ella rammentò. Orfeo le stava dando un bacio. 

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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"The Evil Dead Trilogy - Ash Williams" - Locandina artistica di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Attenzione: l’articolo contiene SPOILER sulla trilogia de “La casa” e sulla serie “Ash vs Evil Dead"

  • La casa (1981)

Qualunque cosa con questo libro, io abbia riportato in vita, mi perseguiterà per sempre.”

Ash (Bruce Campbell) se ne stava rannicchiato sul sedile posteriore della sua Delta. La Delta era un modello Oldsmobile 88 del 1973, a cui Ash era particolarmente affezionato. Giusto il giorno prima l’aveva portata dal meccanico per assicurarsi che fosse perfettamente funzionante. L’autovettura era il mezzo con cui lui, la sua ragazza Linda, sua sorella Cheryl e gli amici Scott e Shelly avrebbero dovuto raggiungere un cottage di montagna per trascorrere un tranquillo week-end. Per l’occasione, Ash aveva concesso di guidare la sua macchina all’amico “Scotty”, che li avrebbe condotti, non senza qualche sussulto lungo il tragitto, a destinazione.

La casa che i cinque avevano affittato ad un prezzo stracciato si trovava all’interno di una folta boscaglia, isolata dal centro cittadino, e per essere raggiunta era necessario attraversare un ponte fatiscente ma “solido come una roccia”. Lo chalet si presentava in condizioni alquanto malconce, e dava l’impressione d’essere la più decadente delle catapecchie, la più sudicia e buia delle spelonche. Nulla però poteva abbattere lo spirito avventuriero dei cinque giovani, pronti a godersi qualche serena giornata di riposo.

Cheryl Williams, la sorella di Ash, era un’artista. Presumibilmente, ella amava soffermarsi a ritrarre ciò che più catturava la sua attenzione. A tal proposito, proprio l’andirivieni di un vecchio orologio a pendolo, parte integrante dell’arredamento della casa, attirò la ragazza, la quale, una volta aver preso confidenza con l’ampia camera del soggiorno, si mise a disegnare. Di colpo il pendolo si arrestò, come se il tempo avesse rinunciato a scorrere, mentre la mano di Cheryl, guidata da una forza estranea e invasiva, cominciava a lasciare dei segni di matita sul foglio immacolato. La ragazza tratteggiò un’immagine astratta e apparentemente incomprensibile ma che si rivelerà in seguito essere la copertina di un libro.

La sceneggiatura del film, curata dal regista Sam Raimi, fa sì che sia proprio Cheryl, e non il protagonista Ash, ad avere il primo contatto paranormale con la forza demoniaca che si cela nella foresta. Non è certamente un caso, Cheryl è un’attenta disegnatrice, che ghermisce il dettaglio della realtà circostante così da trasporlo su tela, come fosse una rappresentazione intima e personale. Si può certamente supporre che la sua sensibilità d’artista le abbia permesso di avvertire per prima i pericoli sovrannaturali che dormono tra le fredde mura di quella baita, in attesa d’essere ridestati.

Proprio in corrispondenza del pendolo a muro, oramai fermo, si trova una botola che conduce alla cantina dell’abitazione. Decisi a perlustrarla, Ash e Scott si avventurano nel buio sotterraneo e rinvengono un arcano tomo (il Necronomicon), un pugnale affilato (il pugnale Kandariano) e un nastro-registratore. Ascoltando il nastro, i giovani scoprono che un archeologo (il professor Knowby, proprietario della casa) ha preso possesso di un libro, ritrovato durante uno scavo nelle rovine di Candar, che consente di riportare in vita i demoni. Il professore ha poi pronunciato e registrato le formule contenute nel libro, risvegliando un demone che riposava in esso.

“La casa” fu girato con un budget esiguo. In virtù di ciò, il cast scritturato per la lavorazione contava interpreti non professionisti, tra i quali figuravano gli amici di Sam Raimi. I trucchi di scena e gli effetti speciali furono improvvisati di volta in volta e spesso realizzati con materiale di risulta. Raimi, al suo debutto per una regia cinematografica ma già abilissimo con la macchina da presa, per ultimare le riprese, sempre con una certa difficoltà, dovette “inventarsi” tecniche di regia che sfruttassero la soggettività, espediente che diverrà il suo marchio di fabbrica. I mostri presenti ne “La casa” non vengono mai palesati. E’, invero, l’occhio della camera a muoversi con rapidità verso i poveri protagonisti, come se esso incarnasse lo sguardo di predatori famelici che sbucano dalla vegetazione e aggrediscono prede inermi e indifese. “The Evil Dead” nacque come un B-Movie girato con mezzi di fortuna ma raggiunse, grazie alla maestria registica del suo cineasta e alla bravura interpretativa del suo protagonista, la caratura dei classici dell’orrore. La “povertà” degli scenari, la semplicità di alcune trovate, la massiccia dose di splatter e l’elevato utilizzo di espedienti orrifici, agghiaccianti per i tempi, impreziosirono la pellicola, fino a rendere “La casa” un amatissimo prodotto di nicchia. “La casa” si segnala, naturalmente, per costituire l’esordio assoluto del personaggio di Ash Williams, antieroe riluttante che evolverà gradualmente nel corso della trilogia.

Ash, nel primo lungometraggio, è del tutto diverso da come apparirà nelle incarnazioni immediatamente successive. E’ un ragazzo a modo, tranquillo, romantico e innamorato della sua Linda. L’orrore che si abbatterà su di lui e che investirà come una dannazione tutti i suoi amici lo temprerà nel carattere, trasformando la sua indole imperturbabile in un temperamento audace e combattivo.

Principalmente, è interessante scorgere la dinamica iniziale con cui l’opera di Raimi comincia il proprio corso. I cinque ragazzi si recano al cottage per trascorrere un vacanziero fine settimana. Quella che doveva essere una gita fatta di divertimento si trasformerà in un’avventura il cui itinerario rappresenterà una discesa inarrestabile nel vortice degli orrori più torbidi. La casa, in tal caso, dovrebbe garantire una sorta di protezione, l’ultimo baluardo sito in un bosco maledetto, un rifugio dai mali che si muovono come ombre silenti e minacciose di albero in albero, sospinti dal vento freddo della notte. In verità, proprio la baita sarà il luogo da cui i mali verranno liberati ed esacerbati. Ciò che della storia raccontata nel film dovrebbe far raggelare il sangue nelle vene è il fatto che il male non abbia mai una vera forma, bensì si impadronisca dei corpi e delle anime degli innocenti, deturpandone la sagoma e dominandone per sempre la volontà. Ash si troverà così a dover affrontare un’essenza malefica invisibile, difforme, che osserva da lontano e in silenzio le proprie vittime sacrificali.

Ash sarà il solo a sopravvivere al dramma che si consumerà quella lunga notte. All’alba di un nuovo giorno, il tempo riprenderà a scorrere e gli ingranaggi dell’orologio a pendolo a muoversi. Una volta fuoriuscito dal decadente edificio, anche Ash verrà attaccato dal demone che credeva d’aver sconfitto.

  • “La casa 2” (1987)

“C'è qualcosa là fuori, quella strega nella cantina ne è solo una parte, quella cosa vive fuori nei boschi al buio, è qualcosa che vuole tornare dal mondo dei morti.”

Ash viene così assalito dal mostro che finisce per soggiogarlo ed impadronirsi di lui. A salvarlo da una tragica fine sarà il sorgere del sole che respingerà l’entità maligna permettendo ad Ash di tornare in sé. Non potendo più fuggire, l’uomo si barrica in casa. A notte fonda, Ash, stupefatto, osserva il corpo mutilato della propria compagna Linda riprendere vita, emergere da una fossa scavata in precedenza nel terreno e cominciare a danzare, sola, al chiaro di luna. Una scena spiazzante, di stampo spiccatamente Burtoniano, diremmo oggi. Ma è soltanto la prima di un susseguirsi delirante di sequenze che giacciono pericolosamente in bilico sull’orlo di un abisso spalancato sull’orrore e su di un inaspettato umorismo. Sam Raimi con “La casa 2” riscriverà i canoni dei comuni film horror, elevando il suo seguito ad un rango superiore, diverso ed imparagonabile. L’ambientazione è la medesima della precedente, altresì lo sviluppo narrativo coincide con il precedente, persino il tema basico della pellicola ricalca il vecchio capitolo, eppure “La casa 2” è un sequel dallo stile differente e innovativo, merito di un Raimi capace di plasmare una pellicola ancor più avvincente partendo da un tema del tutto simile.

“La casa 2” espande il dramma vissuto da Ash Williams, convertendo il triste fato del protagonista in una disavventura dalle venature tanto raccapriccianti quanto tragicomiche. “La casa 2” è un’allucinazione reale, un incubo vaneggiante vissuto in piena veglia, un delirio onirico palpabile e visibile ad occhi aperti. Le immagini splatter vengono rimodellate a fini umoristici, il sangue ribollente che schizza in ogni dove ogni qual volta Ash annienta un demoniaco avversario è l’elemento caratterizzante di un orrore divenuto fonte di un’ironia difficile da descrivere. “La casa 2” è una commedia dell’orrore che segna la nascita di un’icona del cinema horror.

Poco dopo essersi dilettata in quel balletto macabro, Linda seguiterà ad aggredire Ash, che per sopravvivere sarà costretto a eliminarla. Tuttavia, la sua mano destra, addentata dalla morsa del maligno essere, verrà infettata dal “veleno” del demone e assumerà la sua volontà. Ash sarà dunque costretto a mozzarsela. La situazione e la stabilità mentale di Ash cominciano a cedere: bizzarri e terrificanti eventi sovrannaturali si manifestano senza freno, la mobilia e tutti i restanti oggetti della casa prendono vita e sbeffeggiano Ash, oramai sull’orlo della follia. Sarà Annie Knowby, la figlia del professore, tornata all’abitazione con le pagine mancanti del Necronomicon, a “salvarlo” prima che sia troppo tardi.

Una volta ripreso il pieno controllo della sua mente, Ash escogita un modo per poter combattere. Fabbricandosi un'imbrigliatura speciale per il braccio destro, egli si impianta una motosega al posto della mano mancante e, con la mano sinistra, imbraccia un fucile a canne mozze calibro 12, scovato nello chalet. La scena che mostra Ash armarsi di sega e fucile, mentre sta per pronunciare per la prima volta il suo celebre e distintivo “Groovy” sancisce l’avvento compiuto dell’antieroe, futuro cacciatore di demoni e “uomo della profezia”.

Come verrà rivelato proprio nel finale de “La casa 2”, il Necronomicon parla di un uomo sceso dal cielo, il “prescelto”, colui che solo può sconfiggere le forze del male, che si rivelerà essere proprio Ash. Questo elemento della storia aggiunse un mistico alone di predeterminazione nel destino del protagonista, come se un fato già scritto avesse guidato Ash. Il protagonista era quindi destinato a trovare il libro dei morti e ad affrontare l’oscurità in quella casa.

  • “L’armata delle tenebre” (1992)

“Mi chiamo Ash, e sono uno schiavo. Se non sbaglio dovrebbe essere l'anno domini 1300 e mi hanno condannato a morte, ma non è stato sempre così. Un tempo anch'io ho avuto una vita vera, un lavoro.”

Ash viene risucchiato in un vortice spazio temporale e trasportato indietro nel tempo, finendo nel Medioevo. Ne “L’armata delle tenebre” Raimi porta a compimento la trasformazione della saga, abbandonando quasi del tutto l’atmosfera horror a favore di uno stile cinematografico votato al fantastico. Anche lo stesso Ash si presta ad un cambiamento ultimato, divenendo la caricatura dei più classici eroi risoluti e mascolini del cinema d’azione, parodiandone la parte più sciocca, impulsiva e superficiale di ognuno di loro. Nel medioevo, Ash viene identificato da un mago come l'uomo che, secondo un'antica profezia, avrebbe ritrovato il Necronomicon e annientato le forze del male. Sebbene sia riluttante, Ash accetta di ricercare il libro poiché è la sua sola possibilità di far ritorno nel presente. Non sarà così facile adempiere la missione di recupero, poiché un’armata di teschi si appresta a sorgere…

“L’armata delle tenebre” è un piccolo gioiello appartenente ad un genere incomparabile, “modellato” con un’impronta inconfondibile da Sam Raimi. Surrealismo, magia inverosimile, tanta azione, comicità demenziale e un senso costante d’avventura fanno dell’atto finale della trilogia un lungometraggio avvincente, pieno di fascino nonché capace di far ridere a crepapelle. L’ultima apparizione al cinema di Ash vede il protagonista della trilogia affrontare un demone nel supermercato in cui lavora come commesso del reparto ferramenta, in una scena irresistibilmente divertente.

“Si, certo, potevo restare nel passato. Avrei fatto una vita da re. Ma non mi posso lamentare. A mio modo sono un re.”

Ash, come verrà ulteriormente approfondito nella serie televisiva “Ash vs Evil Dead”, ambientata trent’anni dopo gli eventi dell’ultimo film, è un eroe non certo eccezionale, ma, invece, un uomo comune, non particolarmente sveglio né tantomeno animato da sentimenti di puro e disinteressato altruismo. Egli è “vittima” consapevole di una profezia che lo ha scelto, o per meglio dire, lo ha tacciato, affibbiandogli la levatura dell’eroe che lui non ha mai chiesto. Ash è estremamente ironico ed allegro, e sa dispensare buonumore.

Analizzando il suo vissuto è possibile notare come Ash, per più di trent’anni, abbia vissuto nascosto e in solitudine. Nessuno gli ha creduto quando ha raccontato gli orrori accaduti nella vecchia baita di montagna, ed è stato considerato dai più come un efferato assassino. Ash è stato per lunga parte della sua vita un “eroe” incompreso, reputato alla stregua di un reo. Per tale ragione il personaggio ha passato tre decenni vivendo alla giornata in una roulotte. Anche se non dà a vederlo, le dicerie e le malignità sul suo conto lo hanno ferito, tant’è che nei momenti di maggiore disperazione, quando abbandona la sua veste scaltra, Ash non esita ad ammettere con tristezza di considerarsi “un fallito”.

Williams è un uomo pigro, colmo di vizi, che ama trascorrere le sue giornate a bere birra, a corteggiare belle donne e a guidare la sua Delta. Ash sembra a tutti gli effetti un uomo superficiale, eppure finisce per legarsi completamente alle persone che più gli stanno vicino, come Pablo e Kelly, dimostrando di confidare molto nei suoi affetti famigliari. Può dare l’impressione d’essere neghittoso, ciononostante non rinuncia mai a combattere, o a compiere i suoi “doveri”, tanto da non esitare a sacrificarsi. Ash non torna mai indietro sebbene abbia più volte avuto la possibilità di farlo. Egli è intimamente buono e, com’è possibile notare nella terza e ultima stagione della serie televisiva, sa assumersi, con una sorprendente felicità, le sue responsabilità di padre. E’ proprio nel rapporto con sua figlia Brandy che Ash rivela di saper essere, altresì, un padre amorevole, protettivo e affettuoso.

Per tutta la sua vita, Ash ha intrecciato una parte delle sue sicurezze attorno ad una catenina, un pendaglio d’argento che, un tempo, cercò di donare a Linda ma che poi tenne per sempre con sé. Quel pendaglio ricorda ad Ash i suoi sentimenti più puri di amore. Di fatto, quando verrà posseduto dall’entità malvagia, nel secondo capitolo della trilogia, sarà proprio il guardare la catenina argentea a farlo rinsavire. La collanina funge così da amuleto protettivo per Ash, che ne farà dono, sul finire delle proprie avventure, alla figlia Brandy, così che possa essere protetta dal portafortuna del padre.

"Ash Williams" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Ash Williams è un personaggio di notevole spessore, un eroe divenuto evocativo ed iconico, merito di un grandissimo Bruce Campbell che ha fatto di questo ruolo un simbolo di coraggio e simpatia.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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“Ti ricordi la prima volta in cui hai visto un dinosauro?” -  è un interrogativo ripetuto con dolce frequenza da Claire. La voce di Bryce Dallas Howard voleva porre a noi interlocutori una domanda, le cui intenzioni, più che ottenere una risposta di tipo razionale, erano destinate a far riaffiorare un ricordo appartenuto alla sfera emotiva del nostro vissuto. Per l’appunto, provo anch’io a rivolgere a te, lettore, il medesimo quesito: qual è stata la prima volta in cui hai visto un dinosauro? Si trattava di una riproduzione giocattolo? Un pupazzo di stoffa con le fattezze di un “buon” triceratopo? Forse hai veduto per la prima volta l’immagine di un primordiale dominatore della Terra sulle pagine di un libro illustrato? Chissà, avrai osservato lo scatto fotografico di un museo all’interno di un testo che ritraeva i resti scheletrici di un colossale animale che, milioni di anni or sono, muoveva i suoi poderosi passi sul suolo Triassico, Giurassico o Cretaceo! Vi è, invece, la possibilità che tu, proprio tu caro lettore, abbia visto, come me, per la prima volta un dinosauro…con la pelle addosso, intento a muoversi con maestosità in una verde radura. Lo hai intravisto mediante l’occhio meccanico di una cinepresa. Era forse un Brachiosauro alto nove metri? Molti di noi, in principio, hanno ammirato un dinosauro guardando “Jurassic Park”.

Ci sembrava fin da allora un miracolo, concretizzatosi con le ingegnosità magiche e figurative del cinema, quell’arte che rese vivida una forma di vita vissuta in un tempo tanto lontano. Sono certo che oltre al senso della vista, alla meraviglia estetica che è stata capace di generare in voi quella sequenza, scolpita con tale limpidezza nella vostra mente, riuscirete a ricordare anche il frastuono assordante, sinistro e inquieto di un’andatura titanica come quella di un dinosauro che poggia l’arto inferiore sul terreno, o il ruggito fragoroso di un Tirannosauro. Potete ricordare con cristallinità le emozioni che avete provato quando avete avvertito tutto questo per la prima volta in assoluto?

La campagna pubblicitaria imbastita per promuovere “Jurassic World – Il regno distrutto”, quinto capitolo della saga iniziata da Steven Spielberg col suo capolavoro del 1993, ha indirizzato l’attenzione del pubblico sull’importanza di richiamare quel caro ricordo. La prima reminiscenza che conserviamo riguardante i dinosauri, che tanto abbiamo imparato ad ammirare e, perché no, anche a studiare assiduamente, sospinti dall’impatto e dalla suggestione che quel film, il primo film, ha avuto in noi, è la fonte primaria dell’amore provato per il mondo giurassico. “Jurassic World” vuol farci tornare bambini, permetterci di rievocare quell’ingenuo ed incantato senso di stupore che abbiamo provato la prima volta in cui ci siamo affacciati alle meraviglie di quel parco dalle fatali illusioni. Per gustarsi appieno l’adrenalinica avventura di “Jurassic World – Fallen Kingdom” occorrerà sin da subito far sì che siano le emozioni basiche, i sentimenti primordiali, gli affetti sinceri a guidare i nostri istinti.

“Jurassic Park”, tuttavia, non è mai stato solo emozione né mero intrattenimento d’avventura. La prima pellicola ha intrecciato la sua analisi filosofica e la sua indagine esistenziale sulla vita attorno al tema del progresso scientifico, all’ardire dell’uomo che “gioca” a fare “Dio”, se non addirittura a sostituirsi a Lui. La vita, impossibile da controllare, trova infatti sempre il modo di sopravvivere e andare avanti, di progredire nel proprio irrefrenabile percorso evolutivo. La vita sfugge al giogo impostole da taluni, e si ribella con forza selvaggia. Nell’universo cinematografico di “Jurassic Park”, in quanto creature per certi versi incarnanti il miracolo, i dinosauri sono portatori di una esistenza arcana, trascorsa, ma che ancora seguiterà a perdurare in futuro.  I dinosauri, selezionati dalla natura per l’estinzione, sono stati riportati alla luce dal parto generato dal connubio amoroso tra uomo e scienza. Essi sono conseguentemente responsabilità dell’essere umano, il quale ha il dovere di vigilare e proteggere i propri simili oltre i dinosauri stessi a cui ha donato una seconda esistenza.  Di fatto, in “Jurassic World – Il regno distrutto” la missione dei protagonisti sarà incentrata sul salvataggio dei dinosauri.

 

Anzitutto è il tema del diritto e del dovere alla salvaguardia della vita animale ad emergere nella pellicola. I dinosauri possono beneficiare degli egual diritti degli animali del nostro tempo? Una calamità naturale si sta abbattendo su Isla Nublar: un vulcano attivo è sull’orlo di una devastante eruttazione che annienterà l’isola, sterminerà la specie che ivi alberga, e distruggerà il regno dei dinosauri. La natura si sta per manifestare in tutta la sua sconvolgente potenza. La lava incandescente si palesa come una punizione divina, una seconda estinzione. Ma i dinosauri, nati “in provetta”, in laboratorio, sono vivi, siano essi erbivori e così delicatamente ammirabili, siano essi carnivori e così fatalmente pericolosi. Tali creature meritano d’essere salvate! Ecco perché fare appello a quell’interpellanza pronunciata da Claire, la protagonista della pellicola. Rammentate l’emozione della prima volta che avete contemplato l’incedere regale di un gigante che calca il terreno, e capirete così, mossi da quella fremente sensazione, perché anche voi desiderate a tutti i costi salvarli!

Non è una fortuita coincidenza che proprio un brachiosauro resterà dimenticato sull’isola prossima a morire, avvolto dalla nube e sull’orlo dell’abisso. Quel primo dinosauro inquadrato più di vent’anni prima dalla sapiente regia di Spielberg è anche l’ultimo a morire, in una scena toccante che vuol ricordarci ancora l’importanza di ricorrere ai nostri ricordi legati ai dinosauri per ben comprendere perché è così basilare rimanere vicino ai protagonisti in questo viaggio.

“Jurassic World – Il regno distrutto” è un lungometraggio diverso, per certi versi atipico rispetto ai precedenti capitoli del franchising, eppure per tutto il tempo, il film strizzerà l’occhio al passato, citando molte scene che i fan più accaniti non potranno che scorgere. E’ una giocosa altalena tra passato e futuro il film di Bayona, specialmente nella prima parte in cui si avvicendano le ricerche sull’isola, con i dinosauri vivi, mirabili in carne ed ossa, con altre sequenze girate all’interno della villa del magnate Lockwood, in cui è possibile, invece, vedere le ossa dei dinosauri custodite in un ampio salone a carattere espositivo. Ciò che furono i dinosauri, ciò che sono e ciò che ancora saranno in futuro viene riletto dalla lente del cineasta anche attraverso questi espedienti simbolici.

In “Jurassic World – Il regno distrutto” i dinosauri vengono trattati come merce di alto valore, prodotto da vendere e su cui effettuare ogni forma di lucro. E a tal proposito, tra dinosauri in catene, aste e vincite sancite a colpi di martello, fredde cifre a sei zeri, per una parte consistente dell’opera si perderà quel senso classico di avventura, quella lotta per la sopravvivenza tipica dei vecchi episodi della serie. “Jurassic World – Il regno distrutto” vuol porre la propria lente d’ingrandimento sulla sacralità della vita in ogni sua forma e come essa debba essere sempre salvaguardata.

 

La trama di “Jurassic World – Fallen Kingdom” non è articolata, cede anch’essa alla riproposizione di un’aberrazione innaturale, di una nuova mutazione genetica orchestrata in laboratorio che darà vita all’IndoRaptor, il quale sarà nuovamente, come accaduto per l’Indominus Rex, abbattuto da una natura vera, una “fauna” altrettanto feroce ed originaria.

Tra omaggio e nostalgia, tra cambio di rotta e tentativo d’innovazione, il film diverte ed intrattiene con pochi veri picchi di emozione, e forse aggiungendo poco al proprio percorso narrativo se non per un finale che aprirà scenari interessanti, non più circoscritti ad un luogo limitato come era il parco o le isole di Isla Nublar e Isla Sorna, ma propagandandosi per tutto il globo terrestre: sarà la nascita compiuta di “Jurassic World”.

Ricordate la prima volta che avete visto un dinosauro? Provate adesso ad affacciarvi alla finestra, potreste vederne uno muoversi libero per le strade, salvato da quello stesso amore che avete provato col primo “Jurassic Park”, e che vi ha accompagnato fino ad oggi, fino al termine di “Jurassic World – Il regno distrutto”.

Voto: 7/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

Potete leggere il nostro articolo "Jurassic Park - Quando i dinosauri dominavano la Terra" cliccando qui.

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Le stagioni di Gianni Rodari

Primavera è una giovinetta
con in bocca la prima violetta.
Poi vien l'estate, nel giro eterno
ma per i poveri è sempre inverno.
Vien l'autunno dalla montagna
ed ha l'odore di castagna.
Vien l'inverno dai ghiacciai
e nel suo sacco non ha che guai
.”

Dopo la titanomachia e la vittoria delle divinità greche, i discendenti aventi diritto alla spartizione della sovranità universale erano sostanzialmente tre: Zeus, Ade e Poseidone. I tre fratelli decisero di dividersi equamente il potere e a ognuno di loro toccò il dominio di un reame. Fu la sorte a muovere la mano di un destino neutrale nelle volontà esecutive: Zeus estrasse la Folgore e divenne dio dell’Olimpo, Poseidone sorteggiò il Tridente e ottenne il regno del Mare, Ade s’impadronì della Falce e conquistò il trono dell’Oltretomba. Raramente si nominava quest’ultima divinità, tanto la si temeva. E a ragion veduta! Tra i primogeniti di Crono, il divoratore, e Rea, la regina madre, Ade era annoverato tra le divinità più potenti di cui la mitologia avesse mai raccontato il vissuto. Dal sangue freddo e dal coraggio smisurato, Ade, durante la guerra contro i giganti, abbatté con furia molti Titani, mutilando braccia e squarciando ventri, rimanendo sempre nell’invisibilità. Egli portava sul capo un elmo nero, e proteggeva il suo corpo immortale con un’armatura buia come la notte più profonda. Pareva che la sorte avesse agito con saggezza e non con imparziale autorità quando fece in modo che il regno oscuro e imperscrutato dell’ultraterreno spettasse proprio a lui, schivo e riservato, tenebroso e austero. L’aldilà dava l’idea d’essere il riflesso dello spirito gelido del proprio padrone. Sembrava mitigare nell’animo di Ade un freddo quanto perpetuo inverno, tanto il suo carattere emanava un alone di inscalfibile e impersonale compostezza. Non era buon costume menzionare con leggerezza tale divinità. Si aveva il timore che la si importunasse, o che addirittura la flebile pronunzia dell’appellativo che lo contraddistingueva lo facesse adirare. Io stesso provo solamente ad immaginare cosa mormorassero i greci sommessamente in quel tempo tanto lontano: “Meglio guardarsi dall’incappare in un’involontaria provocazione. Sarebbe certamente opportuno evitare anche la più innocente delle stuzzicherie, così che il carattere, probabilmente iracondo, di un tale Re non venga intaccato. Sapete, laggiù ci vuole ben poco per “reindirizzare” il volere delle Moire…”

Nessuno pronunziava invano il nome di Ade per la timorosa suggestione che egli potesse punire il reo addirittura con la morte. Ma non era che una mera paura infondata. Negli scritti della mitologia, Ade era sovente descritto come un dio taciturno, dallo sguardo severo e giudizioso, ma mai egli si rivelò perfido ed improbo. Si ha ancora oggi la predisposizione, peraltro sbagliata, di pensare al dio greco dei morti e reinterpretarlo come una figura oscura, minacciosa, maligna, forse infingarda, nonché desiderosa di spodestare il fratello minore, Zeus. Nulla di più sbagliato! Ade era un dio leale, pacato, introverso e persino sentimentale. Il solo associare Ade alla figura della morte crea tutt’oggi un ingannevole pretesto aduso a farlo passare come un personaggio malvagio. E’ un po’ l’errore che facevano gli antichi greci quando credevano che Ade fosse da temere per il solo essere dio dell’oltretomba. L’abito non fa il monaco, diremmo oggi traendo spunto dal famoso detto popolare, e in egual maniera, il regno in cui egli troneggiava non doveva dare l’impressione sbagliata di una personalità ben più complessa di quella di un cattivo dei racconti.

Andando più nel dettaglio, Ade aveva il volto maestoso ma al tempo stesso tetro, i capelli arruffati e la barba incolta. Il dominio di Ade portava il suo stesso nome, ed era situato al centro della Terra, nell’Erebo misterioso, e comunicava direttamente col mondo esteriore attraverso caverne dalle profondità smisurate. Tristi fiumi vi scorrevano e bagnavano sponde di consistenza rocciosa: lo Stige, fiume sudicio e ombroso, il Cocito, il fiume dei lamenti, il Piriflegetonte, il fiume del fuoco, il Lete, il fiume dell’oblio e l’Acheronte, il fiume del dolore. L’Acheronte circondava il paese e per attraversarlo bisognava servirsi della barca guidata dal vecchio e burbero Caronte, il quale, se non gli si pagava prima l’obolo e se il corpo a cui l’anima era appartenuta in vita non aveva ricevuto la debita sepoltura, scacciava l’anima stessa costringendola a errare in eterno lungo la desolata riva. Varcato il fiume si giungeva all’ingresso dell’Ade, custodito da Cerbero, il cane dalle tre teste e dalla voce di bronzo, mansueto nei rispetti di chi entrava, feroce nei riguardi di chi tentava di uscire. Oltre la soglia infernale tre giudici, Eaco, Minosse e Radamanto, esaminavano le anime e le assegnavano al nero Tartaro, ai Campi Elisi o alle Isole dei Beati. I cattivi e specialmente coloro che avevano peccato contro gli Dei erano destinati al Tartaro: ivi erano i Titani, e il gigante Tizio, cui due avvoltoi rodevano il fegato, e Tantalo, condannato a fame e sete eterne. I buoni erano guidati ai Campi Elisi, dove regnava una eterna primavera, splendeva la luce radiosa del sole e crescevano pioppi argentei. Cupe divinità si aggiravano nel regno di Ade: Thanatos e Hypnos, la personificazione della Morte e del Sonno, fratelli e figli della Notte, e tutta la schiera dei Sogni, quelli veritieri e quelli ingannatori, le Keres, seguaci di Marte, e le Erinni.

Le Erinni erano le dee della vendetta, persecutrici soprattutto di coloro che si rendevano colpevoli di inumanità verso i supplici e i forestieri o, peggio ancora, di empietà o di assassinio contro i parenti. Ade regnava assieme alla propria sposa Persefone, la regina degli Inferi. Persefone, conosciuta altresì come Proserpina dai romani, arrivò nell’oltretomba a seguito di un rapimento perpetuato dallo stesso Ade. La dea vi giunse quando il sole fulgido della primavera irradiava i boschi verdi della Terra. Nelle profondità dell’Ade vi trovò un clima differente, un mesto inverno.

 

  • Inverno

Paesaggio invernaledi R. M. Rilke

“Respiran lievi gli altissimi abeti
racchiusi nel manto di neve.
Più morbido e folto quel bianco splendore
riveste ogni ramo via via.

Le candide strade si fanno più zitte:                                                                                        le stanze raccolte più intente.

Rintoccano l'ore. Ne vibra
percosso ogni bimbo tremando.
Di sovra gli alari, lo schianto d'un ciocco
che in lampi e faville rovina.

In niveo brillar di lustrini,

il candido giorno là fuori s'accresce,
divien sempiterno Infinito.”

Ade era costantemente arrabbiato. Tollerava come un supplizio permanente le urla rauche dei dannati che echeggiavano come lamenti martellanti nelle lande desolate del suo regno. Ovunque posasse lo sguardo non vedeva che dolore e tristezza, se non nelle regioni dell’Eden, in cui comunque non poteva che recarsi solamente per delle brevissime soste. Il dio greco era solo e nella sua solitudine si consumava il dramma di un’esistenza vacua e isolata. C’era persino chi giurò di averlo visto versare rassegnate lacrime di insoddisfazione senza mai cedere ad alcun singhiozzio. In mezzo a cotanta desolazione, Ade sentiva di trascinarsi in un inverno figurato, invalicabile, astratto e duraturo, senza che però potesse beneficiare della gioia, di certo temporanea, effimera, ma ugualmente dolce alla vista della caduta della neve. Nessuna coltre bianca avrebbe addolcito quel buio. Ade sognava di avere un raggio di sole che rischiarasse le tenebre del suo mondo. Fu forse in quell’istante, quando realizzò cos’era che mancava nella sua vita, che egli si sentì raggiunto al cuore dalla freccia più tenue ma, al contempo, più difficile da estrarre: quella di Eros. Ade concepì l’amore come un bisogno inestinguibile, avvampante, che movesse la sua mano disperata. Prima di partire, però, guardò fugacemente il suo elmo che lo rendeva invisibile. Quale ironia, pensò tra sé, quell’arnese a cui era tanto legato lo rendeva realmente impossibile da vedere, eppure egli si sentiva invisibile anche senza che lo indossasse, poiché nessuna donna aveva mai posato lo sguardo su di lui, relegato nelle profondità della Terra da tempo immemore. Quando emerse dal sottosuolo, fu investito dai caldi raggi di un sole primaverile.

"Il ratto di Proserpina" - Gruppo scultoreo di Gian Lorenzo Bernini

 

  • Primavera

Fiorita di marzo di Ada Negri

La fioritura vostra è troppo breve,
o rosei peschi, o gracili albicocchi
nudi sotto i bei petali di neve.

Troppo rapido è il passo con cui tocchi
il suolo; e al tuo passar l’erba germoglia,
o Primavera, o gioia de’ miei occhi.

Mentre io contemplo, ferma sulla soglia
dell’orto, il pio miracolo dei fiori
sbocciati sulle rame senza foglia,

essi, ne’ loro tenui colori,
tremano già del vento alla carezza,
volan per l’aria densa di languori;

e se ne va così la tua bellezza
come una nube, e come un sogno muori,
o fiorita di marzo, o Giovinezza!…”

In quei secoli sulla Terra, faceva sempre bel tempo. Demetra, la dea delle messi, della fertilità e dell’agricoltura, donava agli uomini un’alternanza di mesi caldi e temperati, e procurava agli stessi proficui raccolti. Rigogliosi fiori germogliavano colorati in ogni dove, le foreste “pullulavano” di alberi secolari e verdeggianti dalle radici robuste, e dalle sorgenti sgorgavano con forza trasbordante e viva fiumi d’acqua cristallina. Ade si trovò dinanzi ad un paesaggio bucolico ed idilliaco che a stento ricordava d’aver contemplato prima della reclusione nel sottoterra. L’estate era alle porte, ma Ade non sapeva neppure cosa fosse una simile stagione. Fu proprio quando calcò il soffice manto verde di una radura che scorse un gruppo di ragazze intente a raccogliere fiori nei pressi di un lago. Una fra tutte rapì il suo sguardo: ella avvicinava alla bocca il petalo di una piantina di violette. I suoi capelli sprigionavano, ogni qual volta venivano mossi dal vento, un effluvio dolce che rievocava il profumo delle primule sbocciate, e le sue iridi al sole cangiavano colore, da un nocciola chiaro ad uno scintillante verde smeraldo. Ade venne rapito istantaneamente dalla bellezza di colei che aveva raccolto più fiori di tutti: Persefone. Sbucò a quel punto dalla vegetazione, e spaventò inavvertitamente le giovani, che scapparono via. Tutte tranne Persefone, rimasta impietrita e forse sorpresa dall’imponenza del dio. Ade si macchiò di un gesto deplorevole, seppur non propriamente violento: prese Persefone con sé.

Ella si dimenò con tutte le sue forze per sfuggire alla presa, ma Ade per adempiere del tutto a quel suo gesto, la strinse con decisione, fino ad affondare le mani nella candida pelle della giovane. Quello bastò per farla desistere dal dimenarsi oltre. L’urlo spaventato della fanciulla venne avvertito dalla madre, proprio la dea Demetra.

Persefone si figurò agli occhi di Ade come una sposa siffatta di una luce rinfrancante, un’aurora.

  • Estate

Trebbiaturadi E. Panzacchi

Meriggio. La macchina trebbia

ansando con rombo profondo.

Il grano, rigagnolo biondo,

giù  scorre. Nell'aria è una nebbia

sottile. Sogguarda per l'aia

il nonno, con faccia rubizza.

Nell'aria una rondine guizza

radendo la bassa grondaia.

E intanto, che ressa sul ponte

tra i mucchi di spighe e di paglia,

col sole che gli occhi abbarbaglia,

col sole che affuoca ogni fronte!

Le donne di rosse pezzuole

avvolgon le trecce sudanti.

Non s'odon né risa né canti.

Ma il nonno: - Su, allegre, figliole!”

L’estate prossima a giungere sulla Terra si interruppe ancor prima d’arrivare, ma si propagò paradossalmente nell’oltretomba. La portò con sé Persefone, che riscaldò il cuore freddo di Ade.

Quando si accorse dell’assenza della figlia, e scoprì il rapimento, furibonda, Demetra si recò da Zeus per reclamare giustizia. Nel frattempo, Persefone, smarrita e spaventata, si struggeva di tristezza fin quando si accorse dei modi gentili che il dio dei morti riservava verso di lei. La durezza con cui in principio la prese per condurla negli inferi pareva essere stata del tutto accantonata a favore di qualche lieve carezza. Ade offrì alla donna la corona da regina e attese con un sentimento che mai aveva provato prima nel suo cuore, l’amore, d’intravedere sul viso della sua prossima consorte un sorriso incantevole. Ade per la prima volta cedette alla più umana delle speranze, alla più fragile delle volontà auspicate: l’aspettativa che il suo amore potesse essere ricambiato. Ma Persefone era ancora una prigioniera, confinata in una fortezza tenebrosa senza che lo avesse mai chiesto. Non poteva innamorarsi di colui che le aveva imposto una costrizione, aveva bisogno di scorgere in lui un’umanità benevola.

Zeus, il dio dell’Olimpo, era conscio di non avere potere su Ade né alcuna giurisdizione sugli inferi. In aggiunta a ciò, non voleva far indispettire né l’illustre fratello né Demetra, e cosi declamò una proposta: se Persefone non avesse mangiato nessun frutto del regno del sottosuolo, sarebbe potuta tornare dalla madre. Spaventata all’idea che la figlia avesse già toccato cibo, Demetra cominciò a piangere. Dalle sue gote scesero lacrime grosse come gocce di rugiada. Di riflesso, gli alberi del mondo iniziarono a piangere anch’essi, ma invece che lacrime, lasciarono cadere giù foglie ingiallite e avvizzite. Gli occhi di Demetra, inumiditi dal suo pianto incessante, le appannarono la vista e nel mondo la nebbia sulla Terra e la foschia sul mare calarono giù dal cielo come testimonianza di una fredda sofferenza intima.

  • Autunno

San Martino di G. Carducci

“La nebbia agli irti colli
piovigginando sale,
e sotto il maestrale
urla e biancheggia il mar;
ma per le vie del borgo
dal ribollir de’ tini
va l'aspro odor dei vini
l'anime a rallegrar.
Gira su’ ceppi accesi
lo spiedo scoppiettando:
sta il cacciator fischiando
su l'uscio a rimirar
tra le rossastre nubi
stormi d'uccelli neri,
com'esuli pensieri,
nel vespero migrar.”

Quando Demetra scese nell’Ade per reclamare la figlia era già troppo tardi. Persefone aveva mangiato sei semi del frutto del melograno, ed era pertanto condannata a giacere nell’oltretomba per sempre. In preda alla disperazione, Demetra implorò Ade di lasciare andare la giovane, ed egli mostrò pietà. Persefone sarebbe rimasta per sei mesi con lui, e negli altri sei sarebbe tornata sulla Terra dalla madre. Era il barlume di umanità che Persefone attendeva di trovare nel proprio futuro marito. La ragazza accettò, finalmente sorrise e sposò Ade.

Quando Persefone si trovava con il marito, la madre si angustiava per lei, e dai suoi lamenti e dalle sue geremiade gli uomini ricevevano l’autunno e il freddo inverno, ma quando Ade lasciava andare Persefone per i successivi sei mesi, Demetra tornava felice, il suo cuore palpitante di gioia rinvigoriva la natura e il clima terrestre, regalando agli uomini la primavera e la calda estate. Tutto il contrario accadeva nell’oltretomba in una perenne contrapposizione che non avrebbe mai avuto fine: quando Ade trascorreva le sue settimane con la moglie, gioiva e avvertiva sulla sua pelle la lieve carezza di un vento primaverile e il dolce bacio del sole di fine giugno. Quando doveva salutare la sposa, tornava a sopportare la malinconia di un autunno stanco e l’asprezza di un inverno di gelo colmo di solitudine. Quanta importanza recava nel cuore di un marito il matrimonio, e nel cuore di una madre la vicinanza famigliare…

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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"Riflesso di Spider-Man" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

  • Capitolo Terzo: Spider-Man 3

La ragnatela era stata imbrattata da una sostanza vischiosa, nera come pece e appiccicaticcia. Essa ora è scura, non bianca e rossa come un tempo. Quando la camera dilata il suo disinteressato sguardo e si sofferma ad osservare il consueto intrecciarsi della ragnatela ai titoli d’apertura dell’ultimo film della trilogia, è tutto buio. Da una zona anonima, una luce fioca rischiara parte dei fili tessuti e intrisi di un liquido bruno e putrido. Impregnati da questo denso “materiale” di origine ignota, i titoli di testa frastagliano accanto alle immagini estrapolate dei protagonisti. Il terzo e conclusivo “opening credits” della trilogia simboleggia la fase culmine del lavoro di Raimi: dalla fuggevolezza del primo Uomo-Ragno apparso nei titoli di testa si è passati all’arte deificata di Alex Ross, sino a giungere alla realtà netta e cristallina di “Spider-Man 3”. Nessuna reinterpretazione artistica, in questa ragnatela affagottata dall’oscurità del simbionte le immagini sono evidenti, reali. Ciò preannuncia l’inevitabile: in questo conclusivo capitolo della saga tutti i nodi verranno al pettine e saranno risolti una volta per tutte in maniera nitida e definitiva. Nel mentre la sequenza scorre via, gocce ombrose cadono giù, insudiciando ulteriormente i filamenti ancora immacolati. Il lurido elemento vivo e colloso del simbionte ha intaccato completamente la tela del ragno, e la sta facendo sua come un parassita ingordo e violento: è il momento di andare via.

"Spider-Man" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

  • Di rado un film fu tanto atteso

L’aria che si respirava nelle settimane che precedettero l’uscita di “Spider-Man 3” la ricordo con un tale nitore che potrei paragonarla ad una lieve brezza rinfrancante, pronta ad accarezzarmi il viso. Se il primo lungometraggio di Raimi era riuscito a suscitare in me tutta una serie d’emozioni, il secondo mi aveva meravigliato come mai avrei creduto. Le premesse sembravano, dunque, suggerirmi che la terza pellicola avrebbe alzato ulteriormente la posta in palio. Raimi era già riuscito a superarsi, perché non avrebbe dovuto ripetersi?

Per un ragionamento forse poi non tanto logico né conseguenziale, “Spider-Man 3” sarebbe dovuto essere un trionfo visivo, un tripudio di sensazioni nuove. Le aspettative continuarono a crescere di giorno in giorno quando fu annunciata la presenza di “Venom”, uno dei massimi antagonisti dell’Uomo-Ragno. Come ben sapevo, Venom non era che un “parto” secondario, una creatura “generata” solo in un secondo momento dal simbionte. Prima del suo approdo, sarebbe stato Spider-Man ad interagire con l’alieno, a sperimentare per la prima volta il fascino del male. “Spider-Man 3” veniva presentato come un film cupo, dark, maturo. La prima immagine pubblicizzata della pellicola immortalava l’Uomo-Ragno seduto in cima ad una torre con indosso un iconico costume nero. Spider-Man era stanco, in ginocchio, schiacciato da un peso oscuro che gravava sul suo capo. Il suo volto cedeva, osservava il vuoto, e il suo braccio disteso era poggiato sulla gamba. Quello che vedevo era un Uomo-Ragno riflessivo, meditabondo, oppresso, forse anche intimorito da quella strana sostanza attaccaticcia che gli si era modellata al costume. Si trattava di un’immagine fin troppo attrattiva per un appassionato del supereroe come me che, al riguardo, ben conosceva la trama circa l’arrivo del simbionte sulla Terra. Raramente, confesso di aver atteso tanto un film. In molti, oltre me, non vedevamo l’ora di raggiungere la sala cinematografica. Sui cellulari, le immagini del “Black Spider-Man” campeggiavano come sfondi e temi. “Spider-Man 3” sarebbe stato un evento che avrebbe segnato i ricordi più cari di ogni “nerd”.

"Spider-Man Nero in città" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Ed io, dal mio punto di vista, ero pronto. Per meglio dire, ero decisamente immantinente di rivedere Spider-Man “danzare” sulla città restando aggrappato alle sue “corde”, dondolandosi di grattacielo in grattacielo, tuffandosi poi giù a capofitto nel centro urbano di una metropoli illimitata. I presupposti per poter guardare un terzo atto altrettanto stupefacente erano solidi come le fondamenta di un’antica cattedrale.

Quando uscii dal cinema restai piacevolmente colpito dalla bellezza estetica di alcuni personaggi, dall’azione travolgente, e dalle (poche) sequenze riservate allo Spider-Man nero. Tuttavia, una domanda cominciò a farsi strada in me: “tutto qui?”. Del film mi erano rimaste impresse le sequenze di maggiore impatto visivo, ma la storia l’avevo già scordata. Cosa era successo? Le mie pretese erano state tradite o, in verità, loro stesse erano già dal principio irraggiungibili? In verità, “Spider-Man 3” mancò di molte cose.

Sam Raimi non poté lavorare tranquillo. Al regista non fu permesso di sviluppare la storia come avrebbe voluto. In vero, fu la Sony ad esigere la presenza di Venom, cosa che costrinse Raimi a rimaneggiare pesantemente la sceneggiatura già collaudata. Per la prima volta, Raimi non riuscì a mantenere il timone della propria nave con mano risoluta. Ne seguirono delle “virate” improvvise che destabilizzarono la navigazione. I tanti personaggi presenti sulla scena e i troppi antagonisti costrinsero il regista a perdere la rotta, dando luogo ad una storia pasticciata. “Spider-Man 3” non è, purtroppo, la degna fine che questa trilogia avrebbe meritato. Le colpe non furono imputate a qualcuno o a qualcosa in particolare, ma ad un mix di scelte, opzionate ed imposte, che guastarono l’armonia di un atto finale partito sotto tutt’altri auspici.

"Spider-Man, riflesso" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Le debolezze del terzo film sono riscontrabili in una storia poco incisiva, se non parecchio labile, e nella debolezza dei personaggi principali, per la prima volta caratterizzati con pressapochismo, conseguenza diretta di una raffazzonata e frettolosa riscrittura obbligata. Pur attingendo parti della trama da alcuni dei momenti più entusiasmanti della storia editoriale dell’Uomo-Ragno, il film finì per arenarsi in un pantano fangoso senza mai uscirne. A questo va aggiunto lo spessore psicologico vacuo e insufficiente di Eddie Brock, e la pessima resa di Gwen Stacy, interpretata dalla bionda (per l’occasione) Bryce Dallas Howard, personaggio cardine dell’adolescenza di Peter, qui ridotta a ragazza petulante, mero pretesto per abbozzare un triangolo amoroso fatto di gelosie e inganni.

Il modo di agire dei protagonisti, Peter, Mary Jane e Harry, è incoerente, innaturale, e del tutto fuori carattere tant’è che alle volte si ha l’impressione che essi non siano realmente loro, ma delle copie distorte ed irriconoscibili. Tuttavia, questo difetto permette di analizzare uno dei concetti presenti in “Spider-Man 3”, ovvero il tema della “trasformazione”. Sebbene il terzo e ultimo passo della trilogia sia imperfetto, esso riesce comunque a inscenare diverse tematiche interessanti, meritevoli d’essere messe al vaglio.

  • Questo costume. Wow, che bella sensazione... È la fine del mondo.

L’esibizionismo è un elemento basico di “Spider-Man 3”, sin dalla scena iniziale, nella quale vediamo un Peter disincantato ammirare l’immagine di “se stesso” proiettata su un grande schermo. Peter avverte indirettamente le gioie della fama, e sembra esternare, seppur con i suoi tipici modi affabili, la sfacciataggine di chi sente d’essere amato, se non anche venerato, dal grande pubblico. Raimi vuol farci riflettere su come la trasformazione di Peter cominci ben prima del suo imbattersi nel simbionte alieno. Mary Jane ha finalmente calcato i palcoscenici di Broadway, ma la sua prima esibizione raccoglierà tenui, per non dire freddi, riscontri critici. D’altronde, il lavoro di Mary Jane, ovvero il suo essere attrice di teatro, non può prescindere dal non sconfinare nel protagonismo. I grandi interpreti mettono in gioco le loro doti e si esibiscono “ostentando”, in arte recitativa, il loro talento. Mary Jane pare risentire di colpo del proprio insuccesso, e sembra sviluppare parimenti una leggera invidia nei confronti dell’alter-ego dell’uomo che ama, Spider-Man, il quale è prossimo ad essere celebrato in un evento in cui gli verranno consegnate le chiavi della città.

Ed è in tale festosa circostanza che si spezza l’idillio amoroso tra Peter e Mary Jane: Spider-Man bacia Gwen senza una vera motivazione, senza neppure curarsi della reazione che avrebbe potuto provocare in Mary Jane. Peter, borioso e sbruffone, è oramai accecato dalla fama dell’eroe. L’arrivo del simbionte incrementerà la sua arroganza e il suo desiderio di protagonismo: da una trasformazione accennata nel carattere del ragazzo si giungerà ad una trasformazione completa, riscontrabile esteriormente nel costume nero. La sequenza in cui un Peter addormentato cadrà preda del simbionte che lo soffocherà col suo manto di pelle nera come il tizzone, e l’immediata scena successiva, in cui l’Uomo-Ragno si risveglierà, sono straordinarie e conferiscono il lustro che serve alla pellicola per riprendersi e donare ai suoi spettatori dei momenti di pura estasi visiva.

Spider-Man che giace a testa in giù, stretto alla sua ragnatela, e che si vede per la prima volta riflesso allo specchio con il costume avviluppato dal simbionte, accompagnato da una traccia musicale forte e vibrante, è una sequenza d’enorme impatto. Spider-Man osserva il riflesso di un nuovo se stesso, come accadde a Norman Osborn nel primo film quando, intravedendo la sua immagine replicata dallo specchio, interagirà con Goblin. Lo specchio per Raimi diventa lo strumento per espletare una dualità oscillante tra bene e male. L’Uomo-Ragno in quella vetrata si relazionerà per la prima volta con la sua identità più torbida e incontrollabile.

A questo punto la trasformazione viene marcata da un mutamento nella psiche e nell’indole del ragazzo, divenuto, sotto l’influenza del simbionte, più aggressivo e spietato. Ciononostante, il film di Raimi non riesce a mostrare con pregevolezza questo cambiamento senza scadere nel pittoresco. Molte delle scene che certificano la diversità caratteriale di Peter sfiorano la comicità, ai limiti della caricatura. Inoltre, per esternare il cambiamento dell’eroe si scelse di dare al protagonista un look diverso nella pettinatura affinché fossero accentuati i capelli corvini. Una scelta inopportuna, se non anche imbarazzante, che poco riuscirà a comunicare allo spettatore se non un senso di perplessità.

Le trasformazioni messe in atto in “Spider-Man 3” riguardano tanto il protagonista che i suoi avversari. Il male possessivo già presente nei precedenti lungometraggi sull’Uomo-Ragno qui tenta di mutare tanto l’aspetto quanto il cuore dei personaggi. Harry assumerà l’identità di Goblin, mutando il suo essere per inseguire la “chimerica illusione” che il padre perduto possa essere fiero di ciò che il figlio è diventato seguendo le sue orme. Persino il volto di Harry verrà sfregiato a metà da una delle bombe presenti nel suo arsenale, come se il viso volesse rappresentare il bene e il male che dilaniano l’animo incerto del ragazzo.  Flint Marko vedrà il suo corpo disfarsi come polvere granulosa e ruvida quando verrà trasformato nell’Uomo Sabbia. Sia Harry che Flint, tuttavia, non manterranno la loro crudeltà a lungo e, come Peter, rigetteranno il male al termine delle loro vicissitudini. Dei quattro mutati soltanto Eddie Brock, Venom, si lascerà contagiare del tutto dall’oscurità, ergendosi, di fatto, a vero antagonista della pellicola.

  • Io non sono un uomo cattivo... è cattiva la mia sorte.

L’intero film di Raimi ruota attorno all’avvicendamento tra bene e male, con quest’ultimo che si manifesta nuovamente sotto forma di dannazione. E’ dannato il fato di Flint, colpevole di aver ucciso inavvertitamente zio Ben. Sarà ancora maledetto il suo destino, quando egli si troverà vittima di un esperimento che lo tramuterà nell’Uomo-Sabbia. A tal proposito, la scena in cui egli affiora da una montagna di sabbia e cerca di riassumere una forma umana è intensa e toccante. Il modo in cui la sua mano porosa e sgretolabile cerca di afferrare il pendaglio in cui è custodita la fotografia della figlia, il suo unico affetto, testimonia come un uomo “distrutto” e ridotto in polvere tenti di aggrapparsi a qualcosa di concreto per riappropriarsi del proprio aspetto. Si aggancia ai ricordi, agli affetti, all’amore l’Uomo Sabbia.

  • La vendetta è come un veleno che t’invade tutto e senza che tu te ne accorga ti trasforma in un essere spregevole.

“Spider-Man 3” indaga la sfera emotiva del suo grande eroe e cerca di far perseguire lui il perdono. La furia vendicativa dell’uomo-Ragno nei confronti di Flint, reo di aver ucciso Ben Parker, è dettata da una ferita che nell’animo del supereroe aveva cominciato a cicatrizzarsi ma che di colpo è stata inaspettatamente riaperta. Al contempo, Eddie Brock insegue folli propositi di rivalsa nei confronti di Peter Parker, colpevole di avergli fatto perdere il lavoro al Daily bugle. Se Peter riuscirà a perdonare Flint, tanto da togliersi finalmente un peso dal cuore, Eddie tenterà fino allo stremo di vendicarsi. La vendetta così si configura come un lercio veleno, coagulante e di nero colore.

  • Sono le nostre scelte che fanno di noi quelli che siamo... e abbiamo sempre la possibilità di fare la scelta giusta.

La campana rintocca più volte quando la pioggia bagna uno stremato Peter Parker. Il lacrimare del cielo si fa incessante come un pianto continuo e malinconico. L’atmosfera riflette la personalità agitata e umiliata dell’eroe. Spider-Man ha raggiunto la sommità di una cattedrale, si è accomodato in cima, su una pietra sporgente, e una croce svetta alta sul suo capo, al culmine della casa di Cristo. E’ uno Spider-Man meditativo quello che possiamo ammirare in una delle scene più coinvolgenti dell’intera trilogia. Comincia ad essere disgustato dal suo costume nero che ne ha compromesso la moralità. Decide così di ritirarsi all’interno del campanile. Nel frattempo, Eddie ha varcato la soglia del santuario e dopo aver sfiorato l’acqua santa con la punta delle dita della mano destra, si siede sul banco a pregare: Brock implora Dio di uccidere Peter Parker. Poco dopo aver espresso quel drammatico volere, l’uomo avverte delle urla provenire dal limite massimo del campanile. Quando la grossa campana suonerà, la forza del simbionte verrà meno e Spider-Man potrà così cercare di strapparsi di dosso quel costume. Come Ercole, il massimo eroe della mitologia greca, quando cercò con ferrea volontà, tra afflizione e patimento, di sdrucirsi di dosso le vesti infocate intinte nel diabolico sangue del centauro Nesso, così Peter, con egual fatica, farà di tutto per sbrandellare i resti di quel tetro veleno, agendo e soffrendo a causa del costume che gli sta dilaniando le carni. In quel momento, Peter avrà compiuto una scelta: tornare ad essere il vero Spider-Man. Da lassù, il simbionte cadrà giù come una pioggia maledetta, figurandosi come la spaventosa risposta alla richiesta proferita da Eddie Brock in chiesa. Il simbionte avvinghia l’uomo e lo trasforma in Venom. Ne seguirà uno scontro che vedrà prevalere l’Uomo-Ragno.

Zia May era solita ricordare a Peter il dovere dell’uomo che ha l’intenzione di chiedere in sposa una donna. Prendersi cura della propria consorte è prima di tutto una scelta cosciente e doverosa, poi un dono e soprattutto un impegno da dover adempiere per tutta la vita. Peter si riappellerà a questo insegnamento quando si ricongiungerà a Mary Jane, pronto a proteggerla nuovamente finché avrà forza. Peter e Mary Jane torneranno insieme rimettendo assieme i cocci rotti del loro allontanamento. I due riprenderanno così a danzare; no, non più su nel cielo, passando di nuvola in nuvola con l’ausilio delle ragnatele, ma sulla Terra, lì dove hanno scelto di riprendere la loro storia, questa volta per sempre.

"Solitudine"  China di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

  • Conclusioni: addio amichevole Spider-Man di quartiere

Siamo giunti al termine di questo viaggio, e quest’ultima pagina segna la fine di questa personale rilettura che ho voluto dedicare alla trilogia di Sam Raimi. “Spider-Man 3” non ebbe alcun seguito, fu, dunque, l’ultimo atto. Le imponenti e sensazionali scene d’azione permisero al film, a mio giudizio, di andare oltre la sufficienza. Tuttavia, la sensazione che la saga meritasse una conclusione più entusiasmante continua a permanere anche a distanza di due lustri. Manca il matrimonio tra Peter e Mary Jane, manca l’ultimo scontro tra Spider-Man e il Lizard di Dylan Baker, manca ancora tutto ciò che avremmo potuto vedere in un possibile “Spider-Man 4” che tanti, oltre me, avranno un tempo reclamato a gran voce.

La trilogia di Spider-Man di Sam Raimi occuperà sempre un posto speciale nella storia del cinema, e soprattutto nel mio cuore, così come lo Spider-Man di Tobey Maguire seguiterà ad essere un simbolo di quella che potremmo definire “un’epoca” lontana del cinema supereroico. Diversa e di certo stupefacente.

Voto: 7/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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