Orfeo ed Euridice
(Personale rivisitazione del mito greco)
Giù, alle fronde di una quercia se ne stava, taciturno e con gli occhi chiusi, un giovane. Si era disteso sul soffice sottobosco, e lì era rimasto per alcune ore, perso tra i suoni della natura. Non stava dormendo, anche se così pareva. Era assorto ad ascoltare l’armonia del bosco. Il cinguettio degli uccelli che volteggiavano di albero in albero, il rumore del ruscello che scorreva verso la vallata, la roca “voce” del vento che sussurrava tra le fessure degli alberi erano i canti di una fauna ma anche di una flora che lo avevano avvolto in un microcosmo di pura gaiezza.
Orfeo, quello era il nome del giovane, di rado emetteva un fonema, piuttosto saltuariamente esternava un flebile sibilo, eccezionalmente pronunciava alcunché che non fosse una canzone. Non soleva parlare, forse perché le parole, unione di vocali e consonanti, erano per lui banali, se non addirittura superflue. Esse non riuscivano ad esprimere completamente ciò che lui avrebbe voluto manifestare. Orfeo portava con sé uno strumento, una lira, che utilizzava per comunicare, preferendola alla parola. Talvolta, per quanto meravigliosa, non adatta del tutto ad esprimere un sentimento per chi fa delle note il solo mezzo per veicolare il proprio pensiero. Orfeo era un musicista dalla sensibilità di un poeta. Non poteva essere altrimenti, sua madre era Calliope, la musa della poesia epica. Orfeo, pur ammirando la potenza emotiva che poteva essere mossa in lui da un canto poetico, preferiva la leggiadria della musica. Egli non ricercava una tavoletta su cui incidere i versi che il cuore gli dettava, era, invero, la musica, il solo mezzo d’espressione con il quale si sentiva a suo agio.
Quando produciamo arte, che sia scrittura, musica, canto, poniamo a nudo la parte più intima di noi stessi: l’anima. E’ come se le vesti ci venissero strappate di dosso e una luce intensa e accecante irradiasse il nostro corpo, cosicché una persona, una soltanto, colei che più lo desidera, riesca a mantenere fisso lo sguardo senza essere abbagliata. Immaginate che la luce si affievolisca sino a scomparire del tutto, e un’essenza impalpabile ma visibile, spoglia e sincera, permanga. Si tratta della nudità che generà l’amore, e tale amore vero, disinteressato, partorisce a sua volta un ricordo eterno, incarnatosi in una relazione, che ostacola l’implacabilità della morte.
Orfeo in ogni suo brano musicale è solito rilasciare un frammento astratto della propria anima. Tutti restavano incantati dalle note che egli emetteva con la sua lira, uomini e donne, fiere e piante. Un giorno, in quel bosco in cui egli amava sostare, un suono dolce e soave lo “svegliò” di soprassalto, facendolo drizzare in piedi. Udì distintamente il risolino di una ninfa. Camminava a piedi scalzi tra la fitta boscaglia, con i lunghi capelli che le coprivano, solo in parte, il corpo nudo. Euridice era il suo nome, ed era una driade.
Le driadi, avvenenti, eteree, sagge e rigogliose come un fiore appena sbocciato che si regge su di un saldo stelo, vivevano nella foresta, incarnando la forza e lo spirito di essa. La celestiale bellezza della ninfa rapì il cuore di Orfeo con la medesima rapidità di un dardo scoccato dall’arco di Cupido. Il figlio di Calliope attirò l’attenzione della ninfa pizzicando la sua lira. Euridice accostò l’orecchio e poi si lasciò guardare da Orfeo, emerso, nel frattempo, dalla folta vegetazione. Le note prodotte dallo strumento furono una sorta di dichiarazione d’amore che il giovane volle intonare per Euridice. Tale confessione romantica non fu pronunciata, non era fatta di parole scritte, venne fuori da un’armonia musicale, e si levò dalla fredda terra per raggiungere la sfera celeste sino a perdersi tra le costellazioni ordinate da Zeus. La dichiarazione d’amore, sotto forma di melodia, divenne una stella luminosa, incastonatasi nel firmamento sconfinato, così come era l’amore di Orfeo. Il giovane mise a nudo la sua anima, e si lasciò ammirare dalla ninfa, anch’ella senza vesti né veli, anch’ella innamorata. Orfeo, ai suoi componimenti melodici, non accompagnava mai alcun canto vocale. Fu per la prima volta Euridice a cadenzare la musicalità con la sua voce gradevole e ben intonata. Nei giorni a seguire, Euridice cantò per Orfeo, ed Orfeo suonò per Euridice, in un connubio passionale di musica e parole. Ma il suono che più compiaceva Orfeo era sempre quello che Euridice lasciava trapelare ogni qual volta sorrideva.
Euridice giurò il suo eterno amore ai piedi di un altare di petali e foglie e, sotto un arco nuziale di rami intrecciati con fiori colorati e dai mille profumi, Orfeo la prese in moglie.
L’idillio d’amore tra Orfeo ed Euridice venne tragicamente spezzato da Aristeo, uno dei figli di Apollo. Questi, uomo rozzo e brutale, si era invaghito di Euridice, e non riuscendo a placare il proprio impeto, tentò di aggredire la ninfa che, per sfuggirgli, scappò via. In quel triste giorno, Orfeo si era temporaneamente allontanato dalla consorte che non avrebbe rivisto più calcare le lande dei mortali. Durante la fuga, Euridice inciampò e cadde vicino ad un serpente che le morse un piede. Il letale veleno del rettile fece subito effetto e così la ninfa si spense in solitudine nel bosco.
Quando seppe della tragedia, Orfeo si strusse di disperazione. Raccolse tra le braccia il corpo senza vita della moglie e la strinse a sé, emettendo un urlo terribile che sconvolse la funerea quiete del bosco. Distrutto dal dolore, Orfeo scese negli inferi, deciso a riprendere l’anima della sua amata. Raggiunta la sponda dell’Acheronte, si imbatté in Caronte che, furente, cominciò a scacciare l’invasore, riconoscendo in lui la viva anima. Orfeo non si scompose, cominciò a suonare la sua lira e, di colpo, il Traghettatore di anime si placò. I modi aggressivi e violenti del cupo nocchiero cessarono, venendo sostituiti da comportamenti gentili e inaspettatamente aggraziati. Caronte, pertanto, accompagnò Orfeo dall’altra parte del fiume. Nemmeno la furia di Cerbero turbò il cantore. Orfeo, infatti, riprese a suonare e il cane a tre teste, guardiano dell’Ade, smise di mostrarsi cruento, divenendo mansueto. Al termine del suo cammino, Orfeo giunse davanti ad Ade e Persefone, supplicando il re e la regina degli inferi di restituirgli la sua amata. La disperata richiesta di Orfeo fu accompagnata dal continuo suono della sua lira, e i due regnanti dell’Oltretomba, mossi a compassione, decisero di restituire la vita ad Euridice. Il monito finale per Orfeo fu il seguente: “Portala con te, ma finché non uscirete dagli inferi non potrai guardarla per nessuna ragione. Se trasgredirai quest’ordine, perderai per sempre la tua sposa.”
Orfeo tremò, prima di accettare l’accordo. Prese la mano di Euridice e, senza guardarla in viso, si apprestò a risalire gli inferi, guidando l’anima dell’amata lungo le tetre scalinate che li avrebbero condotti all’uscita. Insieme a loro si incamminò anche Ermes, in veste di controllore. La presa della sposa era gelida di morte, tant’è che, impressionato, Orfeo dovette cederla, poiché gli sembrava di non toccare l’epidermide delicata di Euridice, come se lei non fosse altro che un’essenza evanescente; e tale consapevolezza, che si palesava come una sinistra rimembranza, lo tormentava.
Durante il lugubre sentiero, il musico avanzava da solo con alle spalle Euridice. I primi dubbi di Orfeo furono legati alla presenza effettiva di Euridice; non potendo più toccarla né potendola guardare, in lui si stava insinuando il dubbio e la paura se fosse davvero lì con lui. Quando smetteva di suonare, non sentiva nemmeno il rumore dei passi della moglie. Si rincuorò - le anime non lasciano segni né tantomeno generano rumori - pensò tra sé, riprendendo il cammino. D’improvviso, sentì una Euridice chiamarlo. Lo invitava a girarsi, a guardarla, a darle un bacio. Ma Orfeo non si voltava. I tentativi continuarono e si fecero sempre più intensi e drammatici. Orfeo, tremante, proseguì senza sosta, cosciente che quelle voci erano le tentazioni degli inferi, per nulla accomodanti nel lasciar andar via un’anima dall’oltretomba. Arrivato finalmente alle porte dell’Ade, non resistendo più, Orfeo si voltò di scatto per ricambiare lo sguardo della ninfa. Euridice, però, non aveva ancora completamente raggiunto l’uscita, era rimasta indietro, rallentata nei suoi passi dalla ferita che aveva alla caviglia, il morso del serpente. Euridice cominciò a svanire e, davanti allo sguardo attonito di Orfeo, morì una seconda volta.
Il suonatore cadde a terra, distrutto dal dolore, lasciandosi andare alla più straziante disperazione. Gli occhi intrisi di lacrime si levarono verso il cielo, ed egli implorò l’intervento misericordioso di Zeus. Nessuno venne in soccorso di Orfeo, che rimase solo ad osservare, tra i singhiozzi, quella stella accesa che era nata dalla musica decantata per la sua Euridice, quando ad ella si dichiarò. Orfeo notò come la luce di quella stella priva di costellazione si stava affievolendo. Il suo amore era imperituro ma l’addio di Euridice aveva spento la luce della sua esistenza e la stella sembrava esserne conscia, diminuendo la propria radiosa intensità.
Orfeo pianse ininterrottamente per oltre sette mesi. Da quel momento la sua melanconica melodia non farà altro che incantare gli alberi che un tempo vegliavano sulla sua amata e che l’accompagnarono, silenti, nella sua crescita da ragazza a donna. Dopo la perdita della sua sposa, Orfeo non proverà più alcuna forma di amore per nessun’altra, restando perennemente fedele al ricordo del suo eterno amore. La sua arte, però, attirerà l’attenzione delle Menadi, che arderanno di passione per lui. Orfeo le rifiuterà più volte, finché furiose, le stesse lo uccideranno, inveendo e martoriando terribilmente il suo corpo. La testa di Orfeo finirà sulla lira la quale, lasciata navigare senza meta sul fiume, raggiungerà il mare senza mai smettere di cantare, spingendosi fino all’isola di Lesbo. Orfeo cantava, e cantava senza sosta le stesse strofe che un tempo intonava la sua sposa.
In quell’attimo, Zeus, commosso dall’amore di Orfeo, raccolse la lira e la pose tra le stelle. Il Padre degli dei plasmò con le sue mani una costellazione, proprio attorno a quella stella morente, concepita dall’amore. La stella riprese improvvisamente “vita”, e si accorse d’essere avvolta dalla costellazione della Lira. L’anima di Orfeo venne eternata nel cielo e il suo cuore avvolto a quella sua stella.
Nei Campi Elisi, Euridice vagava come un’anima beata, ma non ricordava nulla della sua vita trascorsa. Eppure, avvertiva un’insoddisfazione recondita ed elusiva. Era l’assenza del suo ricordo più caro divenuto, con l’arte e l’amore, immortale. Si avvicinò, quando il sole scomparve all’orizzonte, ad una caverna sita ai confini del paradiso greco. Tale spelonca custodiva una spaccatura, un’apertura tra le sue rocce che si affacciava sul cielo degli uomini.
Fu in quel momento che vide la stella della costellazione della Lira brillare di luce propria, ed ella rammentò. Orfeo le stava dando un bacio.
Autore: Emilio Giordano
Redazione: CineHunters
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