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"Mary Poppins" (Emily Blunt) - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
  • Arrivederci, Mary Poppins…

Con la sua voce soave e modulata, lo aveva annunciato sin dal principio. Quando la brezza avrebbe smesso di soffiare da est, lei sarebbe andata via. Ed ecco che il vento cambiò. La famiglia Banks era accorsa al parco, beata. George aiutava i figlioletti a far volare l’aquilone nel cielo terso del mattino. Egli rideva sotto i suoi baffi spessi, spensierato come non lo era mai stato. Il signor Banks era stato salvato, e con lui la sua famigliola, fieramente unita, finalmente felice. Il compito di una tata buona che, in quei lieti frangenti, sostava sulla soglia della porta di casa Banks, era stato ultimato con la precisione minuziosa di una fata praticamente perfetta sotto ogni punto di vista.

Il manico del suo ombrello incantato borbottava qualcosa. Quel becco a forma d’uccello mormorava di sentimenti ed emozioni, di rammarichi e nostalgie. “Io so benissimo cosa provi per quei bambini” – fu l’ultima frase che il bislacco manico riuscì a pronunciare. La tata lo zittì con la solita delicatezza. “Adesso basta parlare a vanvera” – disse. Quelle parole, però, erano vere e non “ciarlate a casaccio”. Mary Poppins ne era consapevole, si era davvero affezionata a Jane e Michael, gli adorabili figli di George e Winifred Banks, ma non poteva fare altro che accingersi a partire. Schiuse quel fatato parapioggia, raccolse la borsa dalla capienza illimitata e cominciò a librare verso le nuvole bianche.

La vide, per l’ultima volta, lo spazzacamino Bert, che alzò gli occhi al cielo e scorse quella sagoma dolce e gentile. “Arrivederci, Mary Poppins… Non stare via molto!” – disse il tuttofare. Mary Poppins parve sentirlo, si voltò e gli elargì il più affettuoso dei suoi sorrisi.

Bert non venne ascoltato, e quella sua richiesta non fu mai esaudita. Mary Poppins rimase lontano per tanto, poco più di mezzo secolo. Cinquantaquattro anni dopo ella fece ritorno, scese da un candido nembo, accompagnata da una luce radiosa. Non era invecchiata di un solo giorno, come tenne a precisare Michael, oramai adulto, eppure la tata dei sogni era cambiata. Le sue scarpe blu come il mare ritoccarono terra in un periodo alquanto particolare: erano gli anni della Grande Depressione, e per i Banks nulla andava come doveva…

  • Mary Poppins, sei tornata!

Il ritorno di Mary Poppins” è il sequel dell’intramontabile classico del 1964. Nei cinema di tutto il mondo, sono trascorsi cinquantaquattro anni dall’immortale apparizione della bambinaia dai magici poteri. “Mary Poppins”, grazie ad una storia a carattere famigliare, ad un’ambientazione realistica, la quale raffigurava una Londra d’inizio Novecento viva e fervente di colore, ad una forte componente favolistica, ed una dimensione onirica generata dalle arti stupefacenti della protagonista, che riesce a penetrare, ad avvolgere e a mutare il reale, è stata una delle pellicole più rivoluzionarie, intrinsecamente artistiche e sorprendenti del panorama cinematografico di ogni tempo. Julie Andrews, con grazia, autorevole dolcezza, e con un’inimitabile signorilità materna, ha ramificato nell’immaginario collettivo.

Girare il seguito di un lungometraggio che ha scritto pagine indelebili nella storia della settima arte e che ha cresciuto e coccolato, rispettivamente, molte generazioni di piccoli e grandi spettatori, pareva essere un’impresa titanica, presumibilmente da evitare, facendo appello ad un briciolo di prudenza. Ma la Disney, si sa, non è nuova a raccogliere guanti di sfida, a cercare di rendere possibile ciò che sembrerebbe impossibile. Or dunque, traendo spunto dal libro “Mary Poppins ritorna”, scritto dalla stessa P.L. Travers e seguito letterario ufficiale del ben più celebrato “Mary Poppins”, lo studio Disney ha dato disco verde alla produzione e alla successiva realizzazione dell’ambizioso sequel del capolavoro degli anni Sessanta.

Mary Poppins possiede, ora, il volto roseo e delicato di Emily Blunt. L’attrice britannica raccoglie l’eredità di Julie Andrews, infondendo alla sua Mary Poppins una spensierata leggiadria. Se Julie Andrews emanava una garbata eminenza dal suo portamento elegante, Emily Blunt fa scaturire una graziosa superbia. Ella offre così un’interpretazione lodevole, coinvolgente e spumeggiante. Nonostante, con ogni probabilità, Julie Andrews continui ad essere ritenuta la Mary Poppins per eccellenza, Emily Blunt non tentenna né mostra mai di soffrire il paragone, adoperando tutto il proprio talento nella creazione di una Mary Poppins nuova, che coniuga una gestualità classica con un’espressività moderna. Ad insidiare il suo eccelso lavoro ci pensa, però, lo sviluppo narrativo, il quale si limita a soddisfare più che a sorprendere, ad accontentare più che a meravigliare.

  • Le lancette del tempo

L’inizio de “Il ritorno di Mary Poppins”, citando, a suo modo, l’atto conclusivo del capostipite, crea un collegamento tra gli anni trascorsi. E’ anzitutto una questione di tempo quella che il film vuole trattare, e ciò viene suggerito sin dal momento in cui il sipario si apre. Nel finale dell’opera originale, Mary Poppins volteggiava via, mentre i piccoli Banks erano tutti presi a giocare con mamma, papà ed il loro aquilone. Molti anni dopo, i figli di Michael rinvengono il vecchio aquilone del padre, ed esso vola via, sfugge alle loro mani, risucchiato da una corrente impetuosa. L’aquilone si disperde nel cielo ottenebrato, quand’ecco che viene recuperato da Mary Poppins, il cui corpo schiarisce il grigio della tempesta, e porta con sé una luce nuova, carica di speranza. Si potrebbe affermare che Mary Poppins torni nell’esatto momento in cui le avevamo detto addio, o perlomeno in uno scenario davvero simile a quello di tanti anni prima. Allora, Jane e Michael giocavano con il loro aquilone, e adesso, nell’intro del film del 2018, i piccoli Banks inseguono anch’essi il medesimo aquilone. E’ un ritorno al passato, un segno di come il tempo giri ciclicamente e rivesta un ruolo di primo piano.

Nell’essenza fisica della protagonista, il concetto astratto di tempo trova la sua massima esaltazione. In Mary Poppins, infatti, il tempo pare essersi fermato. Ella non invecchia, essendo stata baciata dal dono dell’eterna giovinezza. Se sull’epidermide di questa nuova protagonista non è riscontrabile alcuna testimonianza dello scorrere degli anni, al contrario, nel mondo in cui vivono i Banks, il tempo ha addotto effetti malaugurati. Il viale dei ciliegi ha perduto vivezza cromatica, perché gli alberi non sono sani e floridi come una volta, l’Ammiraglio Boom, che tuttora amministra la propria dimora come un vascello che solca il mare aperto, è vecchio, arrembato, e non spacca più il secondo con la stessa precisione del Big Ben. Vi è un serio problema di “tempistiche” nel viale dei ciliegi, tutto sembra oscillare tra un triste “andato” e un imminente “prossimo”. La moglie di Michael è venuta a mancare e l’amata casa dei Banks è sotto pignoramento. E’ il momento propizio per il ritorno di Mary Poppins, che discende sul suolo terrestre come una fata e rincontra Jane e Michael, ormai adulti e un tantino smemorati. Infatti, sebbene la riconoscano immediatamente e restino tanto felici quanto sorpresi nel rivederla, essi non rimembrano pienamente le stupefacenti avventure in cui Mary Poppins li aveva condotti col suo inconfondibile brio. Erano soltanto dei bimbi quando la conobbero, oramai hanno dimenticato o forse, cosa ben peggiore, hanno smesso di credere!

La relazione tra Jane, Michael e la loro tata è a stento accennata se non quasi del tutto assente. Mary Poppins, in passato, ha cambiato le loro vite, ciononostante il ritrovarla non genera, ai fratelli, alcuna tangibile emozione che possa essere percepita da noi spettatori. I due, se non nella fase iniziale, restano quasi indifferenti dinanzi alla costante presenza della “strega” buona. Un qualcosa di inspiegabile se non addirittura di incomprensibile e d’imperdonabile. Vedere poi Michael rimproverare aspramente Mary Poppins, rea di aver riempito la testa dei suoi figli di “sciocchezze”, causa un effetto straniante.

La sceneggiatura pone Mary Poppins sullo sfondo delle vicende, come se fosse un’attenta accompagnatrice invece che un’amabile catalizzatrice degli eventi. In “Mary Poppins”, la tata dispensava dolcezza ai bambini e, al contempo, migliorava tutto quello che si trovava intorno a lei. Lo scopo segreto di Mary Poppins era quello di trarre in salvo il signor Banks, un uomo precipitato in un abisso di insensibilità e avarizia, ed un papà schiacciato dagli obblighi lavorativi, i quali esigevano il sacrificio dei suoi doveri paterni. Mary Poppins si rivolgeva, con una frequenza dosata, al padre dei bambini, riuscendo, con la sua proverbiale dialettica, a mutare l’indole crucciata e severa del genitore. Ne “Il ritorno di Mary Poppins” questa basica sotto-trama non può essere presente, e purtroppo non viene sostituita da un racconto altrettanto interessante. Mary Poppins finisce, conseguentemente, per svolgere il semplice ruolo dell’intrattenitrice. La tata, di fatto, distrae i piccini dai turbamenti quotidiani, trascinandoli in mondi fantastici e “immergendoli” in regni sottomarini. Michael, distrutto dalle paure, appare nervoso, irascibile e sfoga la crescente ira rimproverando i suoi figli. Tutto questo non è che un mero refuso del ruolo che fu di suo padre. Ma Michael non è il signor Banks, e non soffre della medesima, incompresa, fragilità. Una debolezza, questa, che neppure lo stesso George riusciva a comprendere e a rinvenire in lui. L’incanto promanato da Mary Poppins permetterà, comunque, ai bambini di consolare il padre con saggezza e amorevolezza, così che lo stesso Michael rammenti l’importanza della famiglia.

Verso la fine delle vicende, la grossa lancetta del Big Ben si accinge a sancire la mezzanotte. E’ una corsa contro il tempo quella della famiglia Banks per mantenere il possesso della loro casa. Grazie all’intervento di Mary Poppins, l’imponente torre dell’orologio potrà far sì che l’ora indietreggi di qualche minuto, così che i Banks salvino la loro proprietà e tornino a volare, lieti, su in cielo con il supporto di palloncini colorati. Un messaggio espresso velatamente e rivolto a tutti quanti noi: mandiamo indietro le lancette del nostro orologio, torniamo a provare l’emozione fanciullesca, lo stupore dell’infanzia, il desiderio di sognare.

  • Ripulire e illuminare

 “Il ritorno di Mary Poppins” è una meravigliosa esperienza visiva, capace di ingolosire il palato di coloro che amano nutrirsi di trucchi e illusioni, di magie e incantesimi. La pellicola è una delizia per gli occhi, diletta gli animi, riscalda i cuori, tuttavia soffre di una storia poco entusiasmante e di un preminente richiamo al passato: il montaggio rievoca l’esatta successione delle sequenze del primo film e, in egual modo, molti altri elementi fanno eco con la prima pellicola: l'entusiasmo per l’attivismo che anima il carattere di Jane porge la guancia all’ardore della signora Banks, la quale lottava strenuamente per l’emancipazione delle donne, la bizzarra cugina di Mary Poppins, interpretata dalla celeberrima Meryl Streep, mima l’esuberante zio Albert, persino Michael, negli atteggiamenti, emula il padre e, infine, la figura del lampionaio Jack fa il verso a quella di Bert, lo spazzacamino di Dick Van Dyke. La Disney è sempre stata maestra nel confezionare lungometraggi intrisi di stupefazione estetica, cionondimeno negli ultimi anni la stessa ha plasmato uno stile cinematografico votato alla suggestione, alla malinconia. “Il ritorno di Mary Poppins” non è da meno, contempla ed elogia il “primo capitolo” per poi rilasciare un nuovo messaggio, il quale, però, risulta essere sacrificato sull’altare del citazionismo.

Molti anni or sono, Bert, infilandosi nelle “canne fumarie”, ripuliva i camini dalla fuliggine e dal nerume. Il suo mestiere aveva delle somiglianze con quello della stessa Mary Poppins. Anch’ella spazzava via lo sporco di un’esistenza vacua, triste, scevra dal sogno fanciullesco e dalla fantasia dell’innocenza. Come gli spazzacamini, i quali salivano sino alle vette più alte dei palazzi, anche Mary Poppins, dondolando nel firmamento, poteva guardare il mondo dall’alto, da una prospettiva unica. Bert, molto tempo fa, liberava i camini dal sudiciume e, così, Mary Poppins spolverava, a ritmo di “supercalifragilistichespiralidoso”, la vita del signor Banks, sozza dal giogo dell’avarizia. Ne “Il ritorno di Mary Poppins”, Jack è un lampionaio. Egli, insieme ai suoi colleghi acciarini, accende i lampioni disseminati per le vie di Londra, illumina la strada ai viandanti così che possano far ritorno alle loro case. Allo stesso modo, Mary si presenta come un arcobaleno, comparso allo scadere di un fortunale, per irradiare il tortuoso percorso dei Banks e aiutarli a ritrovare il tragitto verso la quiete e la felicità. Sia in “Mary Poppins” che ne “Il ritorno di Mary Poppins”, la protagonista e il suo comprimario, che sia uno spazzacamino o un acciarino, condividono una “missione” piena di assonanze. E’ questo quello che ha fatto Mary Poppins alla famiglia Banks: dapprima ha spazzato via ogni affanno, in seguito ha illuminato ogni giorno della loro esistenza, come una madre buona e generosa.

  • Non ti dimenticheremo, Mary Poppins…

Sul finale, Mary Poppins rimarrà nuovamente sola, sull’uscio della grande villa dei Banks. Il viale dei ciliegi è nuovamente fiorito, ed il tempo è tornato a scorrere con benevolenza. Mary Poppins è pronta ad andare via, ancora una volta ha salvato i suoi cari ma nessuno si è soffermato a dirle “arrivederci”, guardandola negli occhi. E’ il dono ma anche il fardello di Mary Poppins: amare, essere amata, ma non potersi mai fermare troppo a lungo a gustare il tepore della famiglia. Andrà via, col suo ombrello, scomparendo ma non venendo mai dimenticata.

Il ritorno di Mary Poppins” ha un fascino seduttivo, è un film assolutamente ben fatto, divertente, colmo di spensierata festosità. Inferiore al suo predecessore ed altresì manchevole di una morale profonda, di un’educazione alla crescita e alla formazione che solo l’originale sa tutt’oggi esprimere, può essere comunque annoverato tra i sequel discreti. Un film piacevole, godibilissimo, gioioso, ma poco sincero poiché troppo studiato a tavolino.

Voto: 7,5/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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"Lo schiaccianoci" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

(Reinterpretazione personale della fiaba de “Lo schiaccianoci e il re dei topi” per la notte di Natale)

Non molto tempo fa, alle “radici” di un albero addobbato, giaceva, in piedi e zitto zitto, un giocattolo veramente speciale. A differenza degli altri regali, non era stato inscatolato in una confezione colorata. Qualcuno lo aveva poggiato per terra così com’era per far sì che venisse notato di primo acchito. Le illuminazioni si riflettevano su di lui ed esaltavano la scarlatta coloritura con cui era stato dipinto. Il volto del “balocco” vantava una forma bislacca, simile a quella di un grosso quadrato su cui erano stati dipinti, a mano, due occhi azzurri, un naso sottile e un paio di baffi scuri da sparviero. Esso teneva i denti in bella mostra, elargendo, a chiunque lo osservasse, un perpetuo e stravagante sorriso. La bocca poteva essere aperta e chiusa mediante un’apposita barra che spuntava dalla schiena. Tale giocattolo era, a tutti gli effetti, uno schiaccianoci. “Azionando” la leva, i duri incisivi frantumavano con facilità il guscio del frutto. Nulla sembrava turbare questo schiaccianoci. Permaneva immobile, irto sulle gambe con la sua bella divisa tempestata di gemme scintillanti come rubini.

Quant’era grazioso! Lo schiaccianoci ostentava l’eleganza di un piccolo principe, coraggioso e inamovibile dinanzi al pericolo. Aveva i capelli densi e bianchi, tanto soffici da ricordare i filati di lana. Dal mento “fioccava”, come della candida neve, un folto pizzetto affusolato. Sulla sua testa, svettava un cappello a cilindro rosso, adornato da una catenina d’oro. Stretto all’argentea cintura ricamata con elementi arabeschi, vi era un fodero dal quale emergeva la guardia di un fioretto. Quell’aura distinta e quel portamento diritto indicavano un qualcosa di misterioso. Quel giocattolo, fatto interamente di legno pregiato, doveva essere un valoroso cavaliere e non un comune frantumatore di noci.

Nell’ampio salone in cui “egli” sostava, vi era in atto un lauto banchetto. Dolci canzoni facevano eco da ogni dove, creando una magica atmosfera. Dalla cucina, effluivano gli allettanti odori di biscotti al cioccolato appena sfornati. Lo schiaccianoci percepiva i profumi attraverso gli esigui fori del suo naso, ricavato da un frammento di corteccia. Davanti ai suoi occhi si stagliavano le sagome di almeno due dozzine di invitati, tutti allegri e festanti. Lo schiaccianoci non era un ninnolo di minute dimensioni, a suo modo, tenendo ben ritta la schiena e accentuando la larghezza delle spalle, sapeva essere imponente, ciononostante, lì in basso, si sentiva insignificante al cospetto di quegli adulti, animati dal brio della festa. Avvertì la sensazione d’essere un irrilevante esploratore, avventuratosi in un sentiero popolato da giganti. Questi ultimi si scambiavano auguri, caldi abbracci e innumerevoli baci, sfiorandosi le gote. “Che confusione” - borbottò lo schiaccianoci con una voce fioca che a stento riuscì ad udire lui stesso. Del resto, non poteva di certo farsi notare. Tutto d’un tratto, gli si avvicinò una ragazzina. Lo prese in braccio e lo portò con sé.  “Oh, che bella!” - pensò lo schiaccianoci. Finalmente una creatura esile, delicata e gentile si era fatta avanti e lo aveva strappato da quel luogo fastidiosamente rumoroso. “Sarà lei la mia nuova padroncina?” - rifletté.

Clara, la timida bambina che aveva ricevuto lo schiaccianoci in dono dallo zio Drosselmeier, era rimasta affascinata da questo trastullo dal fervido colore vermiglio. Si sedette in poltrona e cominciò a tenerlo tra le sue braccia come fosse un bambolotto, fin quando lo zio la raggiunse.

Per mestiere, Drosselmeier fabbricava giocattoli ma era anche un costruttore di orologi. Egli somigliava ad un Geppetto d’altri tempi, ed il suo schiaccianoci ad un bambino di legno, un Pinocchio schietto ed incapace di mentire. Da buon giocattolaio, Drosselmeier era solito intagliare ed ottenere, da un ciocco di pino, una forma inanimata, seppur carica di significato estetico e artistico; da buon orologiaio, nelle sue creazioni, arrestava il tempo, infondeva staticità, catturando una sensazione felice nei sorrisi esternati dalle buffe faccine dei suoi giocattoli, instillando continuità ad un compito che un determinato giocattolo avrebbe dovuto svolgere, e rendendo eterno un gesto d’amore. Lo schiaccianoci non era stato plasmato dalla sua arte, eppure, in lui confluivano tutte le finalità volute dal signor Drosselmeier. Lo schiaccianoci, infatti, era sempre fermo quando doveva compiere un’azione costante, ovvero quella di rompere le noci; altresì, era “imprigionato” nella sua intenzione più ignota, vale a dire quella di ottenere la “libertà” e, infine, era stato eternato nel suo gesto d’amore segreto: il suo restare rigido per poter essere notato da una ragazzina di cui si sarebbe innamorato.

Lo schiaccianoci, suo malgrado, era schiavo di un compito gravoso e fiaccante. Lui, un principe, non voleva adempiere tale obbligo per sempre. Sbriciolare le noci per il resto della vita era una mansione ripetitiva e alienante, un po’ come quella che un baffuto personaggio di un’altra storia, chiamato Charlot, avrebbe dovuto svolgere in una fabbrica da lavoro in tempi, decisamente, più moderni. Spaccare noci non è poi tanto diverso dal finalizzare sempre le stesse mosse in una catena di montaggio, se le aspirazioni fantastiche di una vita sono tanto preminenti nelle anime e negli spiriti dei più sognanti.

Drosselmeier sapeva che lo schiaccianoci non era un giocattolo come un altro, ma volle tenere il segreto per sé. Dopotutto, Clara avrebbe scoperto quanto doveva quella stessa notte. Indugiò allora a parlare con la piccola.

 “Sai cos’è questo?” – domandò il giocattolaio alla piccina.

 “No!” – rispose sinceramente Clara.

Beh a prima vista è uno schiaccianoci, ma devi sapere che è anche un principe”. – confessò l’anziano signore.

Un principe?” – chiese la giovinetta. - “E di quale regno?” - incalzò subito dopo.

Ma del regno delle bambole, naturalmente. Devi sapere che quello da cui proviene è un mondo incantato, accessibile soltanto nei sogni più intensi” – sussurrò Drosselmeier all’orecchio della bimba, prima di lasciare un bacio sulla di lei fronte.

Clara cullò lo schiaccianoci per tutta la sera, cadendo poi in un sonno profondo. Riaprì gli occhi in piena notte e vide, stupefatta, l’albero di Natale che si faceva immenso, ergendosi a dismisura come una pianta verde fiorita da un fagiolo magico. L’angelo che sovrastava la cima non si vedeva più, poiché l’albero era divenuto ciclopico come un castello, ed era cresciuto sin oltre il tetto della casa, tanto da accarezzare il cielo stellato. Subito dopo, Clara si rese conto che tutti i mobili della casa erano alti, possenti, capienti da far paura. La già ampia camera era divenuta, ai suoi occhi, sterminata. Ma era tutto cambiato oppure era stata lei a rimpicciolirsi senza alcun motivo? Clara si sentì minuscola, come una bambola vestita di rosa. Vide poi il suo schiaccianoci, fermo, alle radici dell’immenso abete, splendente di luci e festoni colorati. Oramai avevano entrambi la stessa altezza, come se un incantesimo avesse esercitato le proprie arti per congiungerli.

Ombre silenti, imprecisate e rapide come un battito di ciglia, si erano ammassate negli angoli bui della stanza. Digrignavano i dentoni sporgenti, grattavano i muri con le loro unghie affilate come lame e scuotevano le code a mo’ di eliche vorticose. Erano topi da battaglia, entrati in casa e decisi a balzare sullo schiaccianoci ancora inerme.

Maestà! Maestà!” - si udì un coro echeggiare dalla vetrina in cui Clara era solita custodire le sue bambole. Tutte loro avevano preso vita e volontà, dibattendo le loro manine sui vetri per destare il loro sovrano, finalmente giunto.

Padroncina! Padroncina!” - sbraitavano – “Salvate il nostro principe” – proseguivano all’unisono.

Com’era fiero lo schiaccianoci nella sua postura. Restava sugli attenti come un tenace soldatino di piombo. Tuttavia, non poteva essere quel soldatino tanto famoso! Lo schiaccianoci aveva entrambe le gambe e nessuna baionetta tra le mani. Clara, tremante perché i topi erano in agguato, si portò vicino a lui, come una ballerina di carta desiderosa di danzare col suo amato soldatino. Quando sentì la dama così vicina da poterla sfiorare con le sue mani di legno, improvvisamente, lo schiaccianoci vivificò, iniziò a muoversi, a parlare, dimostrando a Clara d’essere vivo. Sullo schiaccianoci gravava, infatti, un’oscura maledizione, scagliata dalla regina dei topi. La sua triste storia fu presto rivelata: lo schiaccianoci, un tempo, era un ragazzino, tramutato in giocattolo dalla perfida megera dei ratti.

Con l’arrivo di Clara, la sola a confidare nel fantastico e a provare affetto per lo schiaccianoci, l’incantesimo cominciò a sciogliersi. Lo schiaccianoci, dunque, brandendo la sua spada, affrontò il re dei topi, accorso in testa al suo esercito di sozzi roditori per fermare la magia buona scaturita dalla fanciullina. Lo schiaccianoci prevalse sul malvagio despota, riassumendo sembianze umane. Porgendo la mano alla sua adorata, il principe la invitò ad accompagnarlo sin dentro quell’ammaliante illusione, precisamente nel regno della foresta innevata, laggiù dove la fata dei dolci li stava attendendo con impazienza. Colma di gioia, Clara acconsentì, incamminandosi verso la coltre bianca, oltre i confini della dimora oramai svanita. Laggiù, dove tuttora risuonano melodie celestiali, e ogni fiocco bianco disceso dal firmamento danza nell’etere, seguendo le arie di un valzer di neve, Clara e lo schiaccianoci si innamorano l’un l’altra. Decisero allora di concedersi un ballo. Lei lo abbracciò, cingendolo con le braccia; intrecciò poi il proprio sguardo con quello del principe e i due si persero nei rispettivi occhi pieni di sentimento. Lui, di colpo, la sollevò verso l’alto, dove la levità di un soffio subitaneo carezzò il viso arrossito di Clara.

L’amore, all’inizio, è una luce fioca, che vive di impulsi e brevità, che si accende e si spegne come l’illuminazione intermittente di un albero di Natale, e che poi, consolidatasi, diviene stabile, accesa, radiosa come un raggio sfavillante. L’amore nasce dall’incontro inaspettato, si genera da un lampo improvviso che precede il tuono rimbombante di un colpo di fulmine. L’amore è tenue, e germoglia nelle essenze eteree di due batuffoli di neve che vengono dondolati dal vento ma che non si allontanano, volteggiando e dando concretezza ad un passo di danza che si consuma tra i meandri di una boscaglia cosparsa di candore. L’amore è robusto come il legno più duro, eppur fragile, scalfibile e delicato come la pelle immacolata di una ragazza vera. Esso è una composizione musicale che cadenza l’incedere danzate di un principe e di una principessa; è tutto ciò che, nella dimensione onirica della notte di Natale, vivono insieme Clara ed il suo schiaccianoci.

L’indomani, al sorgere di un nuovo giorno, Clara si risvegliò nel suo letto, rimembrando quel sogno vivido ed indimenticato, ma del suo schiaccianoci non vi era più alcuna traccia. Alla porta bussò lo zio Drosselmeier, seguito dal nipote ritrovato, un giovane che indossava una giacca rossa.

Buongiorno, Clara” – disse lui, accennando un sorriso.

Buongiorno, mio schiaccianoci” – sussurrò lei.

Molte notti dopo, quel mondo ovattato tornò a materializzarsi nei sogni dei due protagonisti, oramai grandi e desiderosi di convolare a nozze. Ascenderanno al trono di re e regina del reame delle bambole.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Trascorso ottobre, il tempo sembra scorrere con celerità, e le giornate iniziano a farsi sempre più corte. Già dal primo meriggio, il sole patisce un’inspiegabile stanchezza; esso comincia così a sonnecchiare, porgendo le proprie gote luminose alle nuvole, soffici cuscini di delicata consistenza. La Stella madre del sistema solare cede poi il posto alla sorella Luna che, al calar della sera, svetta alta e piena di vita nel firmamento. Tutte le notti, l’astro lunare fa sì che la sua crosta opalina rifletta una fievole luce. Tale chiarore allieta le ore notturne dei mortali che, sulla Terra, si accingono ad accogliere la venuta della stagione invernale e, con essa, il freddo pungente.

La notte di Natale di tanto tempo fa, in un bosco verdeggiante, il vento soffiava gelido come mai prima di allora. Insistenti ululati riecheggiavano dagli angoli remoti della foresta come un canto melodioso ma inquieto. I rami spogli venivano mossi dall’algido sbuffo dell’aria e, urtandosi gli uni agli altri, generavano un’eco di strepitii.

In quell’angusta foresta, si aggirava una micragnosa vecchietta dal misero aspetto. Si era addentrata nel fitto della boscaglia, dove sorgeva un castello che riluceva di un bianco marmoreo. Con le sue mani ossute e rugose, che serbavano, nel palmo, i segreti di una vita longeva, l’anziana donna bussò alle porte del castello. Le aprì un principe. La vecchina chiese asilo, offrendo al giovane una rosa. Questi, che provava repulsione per l’aspetto della mendicante, rise del dono, e la scacciò. La donna, curvata dal peso dei suoi anni e piegata dagli stenti, lo avvertì di non lasciarsi ingannare dalle sembianze esteriori, poiché la vera bellezza è custodita nel cuore. Il principe la respinse nuovamente. A quel punto, la bruttezza della mendicante si dissolse, rivelando l’aspetto di una fata bellissima. Per punire il nobile insensibile e viziato, l’angelica creatura lanciò su di lui un maleficio: lo tramutò in una bestia e trasformò tutti i suoi servitori in oggetti incantati.

Un periodo dell’anno che, tradizionalmente, reca in sé gioia e felicità come il Natale dispensò per il principe Adam un tragico destino. Adam peccò di arroganza, egoismo e cattiveria. Ma perché proprio il principe fu scelto per subire questo infausto incantesimo? Perché lui e la sua “famiglia” di corte andarono incontro a questa magica fatalità? Tutto ebbe inizio in pieno inverno. La fata non fu un comune spirito vendicatore. Attraverso la maledizione che volle infliggere, ella cercò di donare al ragazzo una possibilità di salvezza. La fata aveva scorto la mancanza di amore nel cuore del nobiluomo; ma allora perché non scelse di punire altri che in futuro si dimostreranno ben più crudeli di lui? Come mai non castigò il vile Gaston? E’ presto detto: Gaston non avrebbe mai potuto trarre in salvo la propria anima da quella trasformazione, non avrebbe cambiato il proprio essere né avrebbe raccolto i purificatori effetti di una tale catarsi. La fata, in quanto essere magico, percepì il barlume di dolcezza che Adam celava nel suo cuore, nascosto sotto un cumulo di rabbia e vanità. La trasformazione è pertanto l’atto estremo per salvare una vita meritevole d’essere salvata. Mediante un percorso di sofferenza, Adam avrebbe scoperto l’amore di Belle, e sarebbe, pertanto, migliorato come essere umano. In lui vi era del buono sin dal principio, ma doveva essere portato alla luce. E quel briciolo di bontà poteva essere intuito soltanto da un essere d’incantevole natura: una “strega” dalle ali fatate, abile nel notare quello che sfugge ad una occhiata epidermica. Probabilmente, la fata sapeva cosa il futuro avrebbe riservato!

In inverno, Adam fu punito e divenne un mostro; invero, tutte le molteplici trasformazioni che riguardano l’anima e il corpo della Bestia avvennero durante la stagione invernale.

Belle è appena fuggita dal castello, spaventata dall’ira esternata dal principe maledetto, quando incappa in un branco di lupi. La Bestia corre a salvarla, affrontando coraggiosamente le fameliche creature. A seguito di questo episodio, si rompe l’astio tra i due protagonisti e inizia ad instaurarsi una timida amicizia che farà da preludio all’amore. Proprio in quel paesaggio nevoso, la Bestia, che rischiò la propria vita per difendere la ragazza, compì il primo gesto d’altruismo della propria esistenza. Il cambiamento del protagonista è appena cominciato, ed è ancora pieno inverno!

Circondati da uno scenario favolistico, i due futuri innamorati camminano l’uno accanto all’altra, lasciando, ad ogni passo, le loro impronte sulla neve. Le orme di Belle appaiono minute, delicate, lievi come se lei, col suo incedere etereo, avesse appena sfiorato la soffice distesa candida, quelle della Bestia, invece, sono larghe e profonde, prove impresse sul “suolo niveo” come testimonianze di una diversità esteriore che più non importa ad entrambi. Belle, che porta sulle spalle un mantello rosso e in testa un cappuccio, impreziosito da ricami canuti, osserva, con sguardo affascinato, la Bestia, intenta a dar da mangiare a dei minuscoli volatili d’intenso colore. L’innamoramento è appena sbocciato, come la calendula germogliata in un mite dicembre.

In quei giorni, racconta Mrs. Bric, il Natale era alle porte ma Adam, come tutti gli anni, aveva vietato ogni festeggiamento. Nel castello della Bestia tutto ha vita, persino gli addobbi natalizi che riposano, rinchiusi, nella soffitta. Le palline di vetro colorato, i festoni multicolori, persino gli angioletti, con le loro belle ali dorate e le loro guance piene di brillantini, possiedono briosità, vivezza e capacità di movimento. Il maestro Forte, direttore di corte, tramutato in un imponente organo a canne, influenza, con le sue note soggioganti, lo spirito della Bestia. Nessun canto natalizio si ode provenire dall’ala Ovest, soltanto arie meste e accorate. Il fascino della caduta copiosa della neve non rincuora l’animo crucciato del principe, neppure la vicinanza di Belle riesce a farlo gioire.

La dama tenta così di condurlo fuori, all’aria aperta. Quand’ella lo invita a distendersi sul terreno innevato e a scuotere le braccia, così da simulare l’immagine di un angelo, la Bestia mira l’ombra della creatura mostruosa che è. Il corpo di Belle, impresso nella neve, mostra un’essenza celestiale, quello di Adam la sagoma di un essere dalle demoniache fattezze. Nulla sembra poter destare la Bestia da un così immenso torpore.

La magia del Natale è racchiusa nei piccoli gesti d’affetto, come il donare agli altri. Belle offre alla Bestia un libro molto speciale. Leggendolo, il principe riscopre il significato del Natale, e la speranza si riaccende in lui. Quello scelto da Belle era un regalo dal profondo valore. I libri, per la fanciulla, sono varchi schiusi su regni immaginari. Lo specchio magico permette al principe di vedere il mondo esterno, allo stesso modo, i libri consentono a Belle di contemplare un mondo fantastico, attraverso cui interpretare, con un cuore ripieno di sentimenti evocati dalla lettura, il reale. Belle ha donato alla Bestia un mezzo per sostenere il proprio dolore con il potere delle parole scritte, le quali dissolvono i patimenti generati dall’immagine visiva proiettata nello specchio, raffigurante un luogo che, in quel tempo, il principe non poteva in alcun modo raggiungere. Ancor prima dell’amore, Belle ha donato alla Bestia la speranza. Un Natale ha arrecato dolore alla Bestia, ma è vero anche che un altro Natale le ha ridato la fiducia. Quando fu maledetto, quando venne salvato dalla disperazione, quando si innamorò, si pentì e ottenne la redenzione, e quando tornò umano e sposò la sua Belle, per Adam fu sempre inverno! Dal freddo, la Bestia poté trarre il caldo ristoro di un amore incondizionato.

Un anno dopo, Belle e Adam ricordano, felici, quel particolare Natale. Un grande albero verde si staglia al centro del salone, proprio dove Belle e Adam avevano ballato il lento più emozionante della loro vita. Allora, il tempo sembrava essersi fermato, e un cielo blu, abitato da graziosi putti con ali d’argento, vegliava sui loro passi di danza. E’ di nuovo Natale: il primo da quando Adam ha riavuto le sue sembianze umane. Gli addobbi non sono più vivi, giacciono immobili ma colmi di quel calore famigliare che solo il Natale sa propagare.

"Adam e Belle nello specchio magico" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

Mentre si soffermano ad osservare il cielo cosparso di corpi luminosi dalla balconata del maniero, il principe dona alla sua principessa una rosa rossa intrisa dell’incanto di un magico Natale.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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"Babbo Natale" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Molti secoli or sono, esisteva un uomo che era solito percorrere, in lungo e in largo, l’antica Grecia. Tespi, era questo il suo nome, vagava per l’Attica a bordo di un cocchio trainato da una coppia di cavalli. Il suo era un viaggio che compendiava innumerevoli tappe, tuttavia non prevedeva una meta finale. Tale viandante, raggiunta una città e radunata una folla di curiosi, ergeva sul suo carro un palco su cui esibirsi; Tespi diveniva un attore, e quel suo mezzo di trasporto, “simile” alla biga di un valoroso soldato, un teatro. “Calcando” quel suo esiguo palcoscenico, Tespi faceva germogliare la creatività teatrale, diffondeva la bellezza della scrittura, il fascino dell’interpretazione, la meraviglia dell’immaginato. Il carro di Tespi veicolava l’incanto della recitazione, effondeva lo stupore della tragedia, promanava l’intrinseca magia dell’arte, un qualcosa di prezioso da erogare alle persone che abitavano le terre elleniche. Quel carro non era un comune mezzo per spostarsi, quanto una “slitta” da cui venivano generate amenità da donare al prossimo.

Nella Grecia di un tempo, proprio negli anni in cui questo “nomade del teatro” svolgeva la sua attività, viveva, su nell’Olimpo, una divinità che, tutto il giorno, errava nel cielo. Apollo, dio del sole e di tutte le arti, guidava una quadriga, tirata da quattro cavalli bianchi che soffiavano lingue di fuoco dalle narici. In cima a quella quadriga giaceva, splendente, il sole. Il figlio di Zeus dirigeva il suo carro alato nel firmamento, sancendo la venuta dell’alba e la discesa del crepuscolo. Come narrava il culto di Elio, la dea Aurora si destava prima che il sole sorgesse, e al calar della sera, sua sorella Selene avvolgeva la volta celeste con un buio preponderante; Selene faceva poi brillare la tavola azzurra con l’intensità delle stelle accese. Apollo, in “sella” al suo cocchio, illuminava le giornate dei mortali, donando agli stessi il calore e la gioia di una luce divina. Anche il carro di Apollo potremmo oggi paragonarlo ad una sorta di “slitta” volante, la quale elargiva un regalo d’importanza vitale. “Offrire” ai bisognosi doni inaspettati da un carro sembra essere un’usanza che affonda le proprie radici nell’arcaico.

 

Il mito è un racconto fantastico che, a sua volta, trae le proprie origini dalla leggenda; da quest’ultima si genera la tradizione e dalla tradizione fioriscono le memorie e le usanze di un popolo. Babbo Natale, il simbolo delle festività di fine anno, è un “elemento” del credo natalizio, ma è altresì una figura mitica, la personificazione di una leggenda. Babbo Natale è nato dal remoto, la sua storia ha assunto i caratteri del mito, la sua immagine è divenuta una “fede” popolare, il suo “culto” una tradizione. In lui, pertanto, confluiscono le tre componenti del racconto più arcano: epopea, narrazione antica e classicità folkloristica. Tutte le versioni della storia concordano nell’attribuire la vera “identità” di Babbo Natale a San Nicola, vescovo di Myra. Un’importante caratteristica religiosa è dunque riscontrabile nella genesi del personaggio. A tale peculiarità si abbina il suo potere soprannaturale, per certi versi divino. San Nicola, come le storie riportano, era capace di compiere miracoli, e proteggeva i poveri, gli indifesi, i disperati e i defraudati.

San Nicola, sovente, faceva doni ai bisognosi e agli infanti.  Tra i numerosi prodigi che compì in vita, si riporta l’avvenuta resurrezione di alcuni bambini assassinati. Da quel giorno, fu considerato il protettore dei bimbi. Con il passare dei secoli, l’iconografia del santo mutò ed incontrò i favori del folklore. Per tutti, San Nicola era il più caro amico dei bambini, aveva una barba candida come coltre innevata, una faccia paffuta e una giacca scarlatta. Le sue amiche erano le renne, animali “stregati” dalla sua dolcezza e “magici”, poiché riuscivano a sollevarsi da terra e a librare in aria così da trainare il “carro alato”. L’appellativo con cui San Nicola è oggi universalmente conosciuto ha un significato profondo. Babbo Natale è un papà per tutti i piccoli che confidano in lui. Compito, infatti, della figura del padre del Natale è quello di educare i bambini ad essere buoni durante tutto l’anno.

Babbo Natale vive al Polo Nord, insieme agli elfi, i suoi fedeli aiutanti che lo supportano nel fabbricare i giocattoli. Egli è un lettore zelante, ma non di libri e neppure di testi teatrali tanto cari a Tespi; Babbo Natale legge le lettere che i giovani gli inviano, le confessioni, colme di speranze, dei fanciulli. Babbo Natale non trasporta il sole con sé, agisce solamente con l’ausilio delle tenebre. La sera del 24 dicembre, quando l’unica luce ad illuminare la via è quella emanata della luna opalina che scintilla, tonda, nel cielo come una moneta argentea, Babbo Natale si materializza, interrompe il fluire dei barrocci del tempo, e attraversa, in una sola notte, il mondo intero per portare gioia a tutti i pargoletti. Babbo Natale semina felicità, speranza, letizia e una fatata beatitudine. Gli incantevoli doni elargiti dalla sua slitta ricordano, per valore, l’arte che poteva essere ricevuta nei pressi del carro di Tespi e la gloria dell’astro luminoso della quadriga di Apollo.

Seppur non esista, la sua sagoma panciuta, le sue guance rosate, il suo volto contornato da una barba bianca, soffice al sol tocco come se fosse fatta da batuffoli di neve, e i suoi capelli argentati simbolizzano il periodo più lieto e l’essenza stessa della stagione natalizia. Babbo Natale non esiste, è una menzogna, un’illusione, eppure egli perdura nelle decorazioni che abbelliscono le nostre case, nelle consuetudini festive, nelle costumanze del periodo. Babbo Natale non è reale, cionondimeno è presente, non è vero, tuttavia figurato nella nostra mente, non ha forma, ciononostante il suo aspetto è evocato dal nostro credo. Egli esiste nonostante non viva davvero, è visibile sebbene permanga nell’invisibilità. Babbo Natale staziona nel cuore dei piccini, non è che un sogno, una speranza, un’ebrezza ineffabile, un sentimento puro e un’emozione sincera. Crescendo, i bambini smettono di credere in lui perché comprendono che non c’è alcun vecchietto in grado di volteggiare nel cielo sconfinato. Eppure, Babbo Natale esiste realmente, ma in tutt’altre fattezze.

Babbo Natale può essere accostato ad una “maschera” indossata da persone sempre differenti. Nel lungometraggio della Walt Disney “Santa Clause”, Babbo Natale è un’idea, un concetto, una figurazione che passa di generazione in generazione. Quando Scott Calvin, la notte della vigilia, incontra l’anziano dal dolce sorriso che si accinge a scendere lungo il camino, non crede ai suoi occhi. Sbraita, per paura che sia un ladro, verso quel tipo bislacco vestito di rosso e questi cade inaspettatamente giù dal tetto e…Muore. Di lui non resta che il vestito, il suo corpo svanisce come se fosse stato una visione, una percezione, un’immaginazione. Scott Calvin subentra al suo predecessore, divenendo il nuovo Babbo Natale. E’ questa la particolarità di tale classico del cinema natalizio: l’aver rappresentato Babbo Natale come una maschera del teatro antico, un simbolo da indossare da attore in attore. Scott, dopo aver accidentalmente fatto scomparire il papà del Natale, è legato contrattualmente ad una clausola, un termine, quest’ultimo, che richiama proprio il nome di Santa Claus. Come mostrato nella suddetta pellicola, Babbo Natale è una “effige”, una figurazione, un “sigillo” che passerà di persona in persona così da durare per sempre. Il suo vestiario, che irradia il cielo come una cometa cremisi, alla stregua di quello di un supereroe, è una allegoria del bene.

Babbo Natale può considerarsi un pensiero affettuoso, nonché un’ispirazione incoraggiante. Egli alberga proprio laggiù, nella sfera intima del pensiero e del sentimento di ognuno di noi, precisamente tra l’intenzione e l’attuazione, tra la volontà e la messa in pratica. In un pensiero buono, riservato ad una persona amata, vive infatti Babbo Natale. In un gesto, in una carezza, in un abbraccio, nel compimento di un’azione altruistica trova ristoro, per l’appunto, San Nicola. Babbo Natale alloggia nella sfera affettiva, e diviene concreto nell’adempimento della bontà e della generosità. Egli è, conseguentemente, un fervore, un’influenza positiva dell’animo umano. La realtà è la seguente: Babbo Natale rappresenta il buono che c’è in ognuno di noi e che, agli ultimi scampoli dell’anno solare e al principio di un nuovo corso, trova il modo per palesarsi nell’agire prodigo di una persona.

E’ questa la spiegazione razionale circa l’esistenza di questo curioso essere. Cionondimeno, parlare di lui significa accantonare la ragionevolezza per viaggiare, a vele spiegate, con la fantasia. Babbo Natale fugge da una spiegazione sensata. Egli, come già detto, è tanto mito che leggenda, e custodisce tra le sue mani la gloria dei miracoli e la magia inspiegabile di un evento portentoso. Se la Befana ha i tratti somatici di una strega buona o, forse, di una fata travestita da vecchia dal misero aspetto, Babbo Natale può essere considerato uno stregone. Nelle mie fantasie, sovente, immagino che egli arrivò sulla Terra centinaia e centinaia di anni fa. Già allora portava la barba bianca, indossava i suoi abiti punicei, e vegliava sugli uomini col fare di un guardiano. Era il “sesto” stregone, colui che si smarrì nelle ere del mondo e che nessuno degli altri cinque nominò mai.

Che Babbo Natale sia un saggio Istari? Vale a dire un Maiar, nato dall’inchiostro immaginifico di J.R.R.Tolkien, rimasto a vigilare sulle epoche degli uomini? In questo caso, dal suo bastone scaturirebbero poteri di natura protettiva nei confronti dei bambini. Come gli Istari, egli indossa un abito con un colore caratterizzante, ha una fitta peluria che gli nasconde una parte delle sue espressioni facciali, ed è dotato di longevità e poteri magici. La letteratura fantasy di Tolkien racconta la storia di uno stregone grigio, di uno stregone bianco, caduto preda dell’oscurità, di uno stregone bruno e di due stregoni blu, dei quali, però, si persero le tracce.

Là, dove l’occhio umano non può scorgere, nel freddo e tra la neve, vive il sesto mago: uno stregone rosso. E’ ciò che, con un bel pizzico d’ironia, la mia immaginazione vuol suggerirmi.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Molto tempo fa esisteva un uomo che condivideva la bislacca peculiarità di una lettera dell’alfabeto. Egli viveva nell’indifferenza, c’era ma era come se non ci fosse mai stato. Similmente alla consonante “H”, presente all’interno di una parola ma mai pronunciata come se nessuno potesse notarla, in molti lo conoscevano ma in pochi proferivano il suo nome. Non aveva veri amici né una famiglia, non era amato e neppure stimato, tanto meno rispettato. Per tutti era quasi un estraneo, una presenza fuggevole ed inconsistente. Camminava tuttavia non lasciava alcuna traccia, spiccicava argute parole che però non suscitavano la benché minima attenzione di alcun interlocutore. Suo malgrado, era anonimo nel carattere e indistinguibile nell’aspetto. Non si capacitava della sua situazione e, ad essere sinceri, neppure se ne rendeva conto. Nick Halloway, già è proprio questo il suo nome, sbarcava il lunario come un arrivista ed epidermico agente di cambio di San Francisco.

La storia di questo “bizzarro” essere umano comincia in maniera alquanto originale. Siede dietro una scrivania, parla a voce alta e si rivolge ad una videocamera pronta a riprenderlo. In altre parole, comunica ad una macchina, fredda e impersonale, e ad un destinatario che non può vedere. Sembrerebbe una scena come tante, tuttavia, il vero paradosso di questa “sequenza iniziale” è da ricercarsi nel fatto che neppure la “persona” a cui è destinata la registrazione può vedere in faccia Nick (Chevy Chase). Ciò accade perché il protagonista della vicenda è invisibile! Tale rivelazione però non deve trarre in inganno. Quanto scritto nelle righe iniziali è valevole per la parte antecedente a quando quest’uomo divenne “incorporeo”. Nick era invisibile anche e soprattutto quando non lo era davvero.

L’occhio meccanico di Carpenter scruta con rispetto la sagoma astratta di Halloway, inquadrando dapprima la telecamera utilizzata dal personaggio e in seguito il protagonista, il quale permane nell’invedibile. Il film inizia ascoltando le ultime confessioni enunciate da una voce di provenienza ignota dinanzi ad una (doppia) “cinepresa”. Da principio, neppure noi spettatori riusciamo a scrutare le fattezze di Nick. Attraverso questa abile messinscena, Carpenter compone le prime strofe del suo saggio sulla visibilità contenuta nell’invisibilità. Nick si accinge a raccontare il proprio triste vissuto, cogliendo a piene mani dalle sue intime memorie.

Nick, come già detto, passava facilmente inosservato. Era uno dei tanti arroganti che popolano questa Terra, l’ultimo da notare in mezzo a una marmaglia di sbruffoni. Una mattina, Nick si era recato ai Magnascopic Laboratories per prendere parte ad una conferenza. Non potendo partecipare alla presentazione per un lancinante mal di testa, causato da una sbornia, Nick lascia la stanza per cercare un luogo appartato dove potersi appisolare. Caduto in un sonno profondo, non si accorge del suono della sirena che segnala un’emergenza in atto: i laboratori vengono, infatti, evacuati in fretta e furia per via di un’imminente esplosione. Nick viene investito da una “tempesta” di bagliori e di scariche elettriche che scompongono le sue molecole. Al risveglio, si accorge d’essere diventato invisibile. Trasformatosi improvvisamente in un essere speciale, Nick diviene una preda, e Jenkins (Sam Neill), un funzionario dei servizi segreti, assume il ruolo del suo inesorabile cacciatore. Dall’essere perennemente ignorato e trascurato, Nick diventa “la persona più ambita”, viene ricercato, bramato e inseguito dai malvagi.

Avventure di un uomo invisibile” è un film gradevole, un racconto visivo appassionante, divertente e piacevolmente riflessivo. Un blockbuster leggero, ricco di fantastici effetti speciali, in grado di tratteggiare un’affascinante analisi su un “potere” soprannaturale. Carpenter reinterpreta l’invisibilità come una dannazione ma anche un’opportunità di “redenzione”, e traccia gli aspetti spigolosi e purificatori di un’esistenza “immateriale”.

Nick può muoversi liberamente senza destare alcuna attenzione, ma non può prendere un taxi per tornare a casa, comprare da mangiare, parlare con qualcuno senza suscitare terrore, chiedere aiuto, neppure tenere in mano un oggetto se si trova in presenza di terzi, perché questo parrebbe sospeso in aria. I lati più inquietanti di tale condizione fisica vengono portati alla luce dal cineasta e dal dramma del protagonista, il quale cede allo sconforto, senza però perdere la speranza.

Halloway patisce un isolamento dalla duplice natura: estetica, perché gli altri, non potendolo più vedere, neppure si curano della sua figura, e psicologica, poiché anch’egli, non riuscendo più ad osservarsi, prova il terrore d’impazzire. Nick giace vittima di una solitudine estrema, non può scorgere le mani, fatica a dormire perché vede attraverso le proprie palpebre, non ha la possibilità di nutrirsi senza stare a vedere lo stomaco che attua il processo digestivo o di fumare senza costatare il “grigiore” che avviluppa i propri polmoni. Il regista pone l’accento su tale emarginazione, senza mai trascendere dal mantenimento di un ritmo avventuroso, e da uno stile ironico e fantastico. Prigioniero di un aspetto etereo, Nick volge, con rammarico, le proprie attenzioni alle piccole cose della vita di ogni giorno che lui stesso aveva ignorato, pentendosi dei suoi comportamenti, e comprendendo quanto l’esser solo sia stata una sorte che lo aveva condotto all’esclusione ben prima del fatidico incidente.

Gli specchi non riflettono la sua immagine, come se non esistesse, il sole non proietta più la sua ombra, come se fosse ridotto ad un’essenza sfumata, la sua silhouette non ha più connotati, ciò che rimane di lui è soltanto un’anima priva di un corpo in cui incarnarsi. E’ soltanto la voce a dare parvenza alla sagoma difforme di Nick, sono solamente gli abiti che sceglie di indossare a dare consistenza alla sua essenza corporale, ma nulla di più. Senza un volto né una maschera, il protagonista trova rifugio nelle proprie memorie, riannodandole come se fossero riconducibili a un lungo filo srotolato da un gomitolo di lana, per mezzo del quale è possibile ritrovare la via d’uscita all’interno di un dedalo, una volta affrontato e sconfitto un ineludibile Minotauro rappresentato dal folle Jenkins. Nick tenta così di aggrapparsi alle sicurezze del passato per affrontare le incertezze e le minacce del presente, e venire via da un tunnel buio. I ricordi sono frammenti sparsi di un mosaico, una volta raccolti e posti nei loro rispettivi angoli danno compattezza ad una figura imprecisata e rendono visibile quello che era celato. L’intera opera è un viaggio a ritroso per dare sembianza e personalità ad un uomo costretto a scampare al senso della vista. Pur restando per sempre invisibile, Nick tenta d’apparire per quello che è stato e per ciò che vorrà essere, conferendo alle proprie memorie la valenza della tangibilità.

Il futuro di Nick, sfuggito alle grinfie di Jenkins, si profila sul volto roseo della bionda Alice (Daryl Hannah), la sola donna ad averlo considerato quando era ancora percepibile al senso della vista e l’unica ad amarlo da invisibile. Come Arianna attende sull’isola di Nasso il ritorno dell’eroe che, grazie a lei, trionfò sul mostro, così Alice confida in Nick, aspettando, colma di una speranza che verrà appagata, che lui riesca a sconfiggere il rivale e poter vivere insieme una curiosa avventura romantica.

Alice è stata la sola ad ascoltare la voce di Nick, a scorgere in lui il vero cambiamento, una catarsi non riscontrabile esteticamente poiché avvenuta nella sfera intima del protagonista. In una delle sequenze della pellicola, la donna, con l’ausilio di un po’ di trucco, ha ridato il volto al suo amato. Restando stretta a lui in un abbraccio, sorpresi da un violento acquazzone, lei è riuscita addirittura a vederlo per un’ultima volta, delineatosi sotto la pioggia battente che lo ha reso, solo per qualche istante, cristallino come acqua tersa.

La felicità si trova nelle piccole cose, quelle che spesso eludono i nostri interessi tanto da sembrare “invisibili”. E nell’invisibilità Nick ha ritrovato la propria felicità.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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