"Coraline e la porta magica" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
Un’esile figura svolazzava,
tutta sola, in mezzo al blu. Il vento la sosteneva, cullandola tra le sue
invisibili braccia. Continuava a trotterellare su se stessa, librandosi tra la
terra e il cielo. Il respiro di un’essenza indefinita l’avvicinava a sé, chiamandola a gran voce. Ma come aveva fatto a
finire lassù quella donzelletta tanto silenziosa?
Nessuno se lo era chiesto, poiché nessuno ebbe mai modo di vederla davvero. Quella piccola “volteggiatrice” aveva i capelli bruni, raccolti in due treccine e indossava un grazioso vestitino rosa. Vagava tra le stelle, leggera come una candida piuma. Faceva sì che le correnti la trasportassero senza opporre resistenza. Giaceva sospesa e priva di forze. Le braccia fragili scivolavano verso il basso, le gambette facevano altrettanto e lo sguardo restava impassibile, fissando il vuoto. La sua era un’espressione impietrita, mortificata da due occhi tondie neri ottenuti con dei bottoni. No, costei non era una bambola come tutte le altre. Non possedeva uno sguardo raggiante, tanto meno iridi cromatiche. Sorrideva, ma il suo sorriso era falso e spento.
Terminò presto il suo cammino, irruppe da una finestra e venne accolta da due mani argentee. La bambola fu poggiata su un banco da lavoro, pronta per essere messa a nuovo. Il vestito le venne tagliuzzato, la chioma corvina strappata via, la bocca scucita. La parte interna della sua esigua massa, fatta di semplice cascame, venne prontamente sostituita dalla misteriosa restauratrice. I suoi arti metallici seguitavano ad armeggiare con ago e filo. Utilizzando gli appositi strumenti, costei rimodellò le labbra del tenero balocco e gli appuntò due occhi lindi, anch’essi ricavati da due bottoni. La bambola riacquistò il suo smalto, ma l’aspetto era decisamente cambiato.
Ora i capelli apparivano azzurri, l’abito rosa non c’era più, rimpiazzato da un impermeabile giallo. Ben più di qualche lentiggine era stata posta su entrambe le gote. Quando la bambola fu ultimata, sospinta dalla restauratrice, oltrepassò la soglia e quindi volò via.
In un clima autunnale, tra
gli alberi di un bosco, in un giorno come un altro, una ragazzina si aggirava
curiosa di scorgere i paraggi della sua nuova abitazione. Il grigio del cielo cosparso
di nubi l’avviluppava. Il giallo smorzato delle foglie formava un tappeto sul
terreno, scintillando debolmente: erano quelli gli ultimi sussurri di veglia di una natura prossima ad addormentarsi. Quel giorno, Coraline passeggiava in cerca di un
vecchio pozzo abbandonato. In quei pressi, la fanciulla conobbe Wybie, un
ragazzino timido che in seguito le donerà
una bambola, la medesima con cui è iniziata questa strana storia. “Una piccola me” – esclamò Coraline,
mirando per la prima volta il trastullo. La bambola somigliava, in tutto e per
tutto, alla stessa Coraline. Ma chi era Coraline?
Una bimbetta esuberante, coraggiosa, risoluta e tanto… stanca. Sì, si potrebbe descrivere in questo modo la protagonista di questo racconto. Coraline era stanca di non essere ascoltata, stanca di essere ignorata dai suoi genitori, costantemente presi a lavorare, assorti a comporre, battendo a macchina a ritmi frenetici. Però, che nome bislacco Coraline!
Caroline sarebbe stato
più consono, più usuale beh decisamente più appropriato - avrebbe sostenuto
qualcuno. Eppure, la mamma ed il papà preferirono “affibbiare” alla figlia tale
nome, forse per conferirle, sin da subito, un’aura
di specialità. Coraline era unica, lo si doveva capire sin dal principio,
da quando si sarebbe presentata agli sconosciuti. A Coraline il suo nome
piaceva e si arrabbiava molto quando i suoi interlocutori finivano per
“storpiarlo”, per “raddrizzarlo”, per “accomodarlo”. Solitamente, le persone
con cui la fanciulla interagiva la chiamavano Caroline, senza pensarci su due
volte. Ma non sarebbe stato giusto far loro una colpa, dopotutto i nomi più rari, quelli inusuali, unici
sono difficili da recepire nel nostro mondo.
Al contrario di Coraline,
Wybie non apprezzava particolarmente il
suo nome. Glielo appiopparono senza che potesse ribellarsi quand’era un
frugoletto. Un destino molto comune, del resto non siamo noi a scegliere i nostri nomi, ci vengono
caritatevolmente assegnati. E’ sempre qualcun altro a “imporceli” o, per meglio
dire, a farcene dono.
Dare un nome a un pargoletto, così come ad un oggetto, è una peculiarità del tutto umana. Noi uomini diamo nomi ai nostri figli per donare loro la parvenza di un’identità. A volte, i figli ricevono i nomi dei nonni per far vivere, in loro, il ricordo di una persona amata, che continua ad essere rievocata nel tempo ogniqualvolta viene pronunciato quel nome. Noi esseri umani siamo davvero strani, diamo nomi anche alle cose per sentirle più vicine, per dar loro una forma più intima, una sostanza, persino un cenno di umanità. Cosa sarebbe il mondo senza i nomi? Un luogo privo d’identità chiare e ben distinte. I nomi rendono cristallina, come acqua di sorgente, l’idea di un qualcosa, e permettono di discernere ciò che evochiamo con la mente e desideriamo custodire nel cuore. Mediante i nomi, gli esseri umani distinguono se stessi e gli altri. Ed, infatti, i nomi sono tutte singolarità umane. Lo credeva anche il gatto nero con cui Wybie era solito andare in giro. Tra i gatti, come sostenuto da questo felino dal manto scuro, non c’è bisogno dei nomi, e quindi non li usano. Soltanto le persone si servono di un nome, in mancanza del quale non saprebbero come identificarsi. Gli uomini li usano perché non sanno chi sono in realtà, mentre i gatti, al contrario, lo sanno molto bene e non lo dimenticano mai.
Coraline
aveva un nome alquanto distintivo, eppure anch’ella
non sapeva chi fosse realmente, cosa volesse dalla sua vita. Girovagando
per casa, scontenta e amareggiata, la piccola voleva trovare il proprio posto, un luogo in cui potersi sentire amata, incui
poter essere felice. In cuor suo, Coraline desiderava che i
suoi genitori le elargissero l’affetto e la vicinanza che sognava da sempre. Ma
bisogna stare sempre attenti a ciò che si desidera perché i sogni,alle volte, possono realizzarsi.
Quando l’avventura di Coraline ebbe inizio, la bambina aveva undici anni e, con i suoi genitori, si era appena trasferita in una grande casa isolata, denominata Pink Palace. L’abitazione era antica, vastissima, alquanto malconcia ma particolarmente accogliente. Il papà sosteneva che tale dimora avesse più di 150 anni. Le case tanto indietro nel tempo, si sa, nascondono sempre qualche segreto tra le proprie mura. E Coraline lo scoprirà una notte, quando aprirà una porticina incastonata in una parete.
La piccola, sgattaiolandovi dentro, seguirà un lungo tunnel che la condurrà in un’altra dimensione. Qui, Coraline incontra due persone del tutto identiche ai suoi genitori, meno che per una sinistra caratteristica dei loro volti: due bottoni cuciti al posto degli occhi.
In questa dimensione, la
protagonista riceve le premure e gli affetti che aveva sempre sognato. Notte
dopo notte, la fanciulla torna nell’Altro Mondo, oltrepassando la porta magica
e gustando le prelibatezze che l’Altra Madre prepara per lei. Tutto in questa
onirica ed ovattata realtà si mostra perfetto come Coraline ha sempre voluto. Ma la perfezione non fa parte della
tangibile realtà. Se qualcosa si mostra scevro da alcun difetto, allora quel qualcosa è finto, artefatto,
esattamente come può essere una bambola
graziosa, priva di imperfezioni e inumana.
Coraline non si pone troppe domande, è ancora piccola per dubitare dei modi caritatevoli che tutti, nell’Altro Mondo, hanno nei suoi riguardi. Invero, Coraline sente di aver trovato il reame ideale, lo spazio che attendeva da sempre, dove l’erba è verdissima e tutto perpetuamente più luminoso.
Una sera, l’Altra Madre
propone a Coraline di restare con lei. Coraline, dapprima indecisa, scopre che l’unico
modo per restare è quello di farsi cucire i bottoni e strappare via gli occhi.
Inorridita e terrorizzata, la giovane fugge via, comprendendo, così, come
quella terra pervasa da meraviglie non sia altro che una regione tenebrosa e ostile.
Nel disperato tentativo
di sfuggire alle grinfie dell’Altra Madre, Coraline s’imbatterà negli spettri
di tre bambini rapiti, in passato, dalla stessa donna e irretiti. I bambini,
accettando di restare con l’Altra Madre, hanno
smarrito i loro occhi e le loro vite sono state divorate dalla medesima, in
verità, una orripilante megera.
La dimensione in cui
Coraline giace, adesso, imprigionata si palesa, infine, per ciò che è davvero: un luogo in cui ristagna la pura malvagità.
Gli sguardi degli abitanti di questo “Altro Mondo”, soffocati dai bottoni,
queste tonde “gemme” nere come pece, non lasciano trasparire alcuna luce. Gli occhi sono lo specchio di un’anima
umana, quando non è possibile scorgere nulla, in essi, che non sia una macchia
nera, vuol dire che di umano in quel corpo non è rimasto più nulla. Ogni
cittadino di questa fittizia città non è che un’aberrazione, un mostro celato
dietro un sotterfugio d’epidermide.
La dimensione ricreata ad
arte dalla strega, dunque, è
un’illusione, una patina ingannevole, una velatura che occulta l’orrore
dietro la finta bellezza. La realtà dell’Altro Mondo è fascinosa e seducente come il male stesso che, non di rado,
si mostra, da principio, per ciò che non
è.
I
bottoni, impuntati sugli occhi, rappresentano la chiave d’accesso al regno dei
morti. Similmente all’obolo, la moneta che veniva poggiata
sotto la lingua o, in alternativa, proprio sugli
occhi chiusi dei defunti, per pagare il nocchiero Caronte, i bottoni,
anch’essi poggiati sugli occhi dei trapassati, rappresentano l’argento con cui è possibile pagare,
inconsapevolmente, il passaggio da un
mondo imperfetto ma vero, ad un mondo perfetto ma finto e ancor più crudele.
I bambini ingannati dalla strega non
potevano saperlo ma è come se, accettando i bottoni, avessero pagato il loro
obolo a Caronte per venire traghettati verso una landa desolata. Coraline lo
capirà appena in tempo, prima che sia troppo tardi.
Ma
perché la strega attira a sé i bambini? Perché vuole qualcuno da
amare? Perché vuole qualcosa da mangiare? Forse, per entrambe le ragioni.
La cura e la delicatezza con cui la strega prepara la bambola destinata a Coraline, all’inizio di tutto, evocano, sottilmente, il bisogno, la voglia di questa sinistra figura di creare una vita, di avere un figlio. Con i suoi arti, la megera plasma un’esistenza fatta di stoffa, un corpicino umano ricreato perfettamente ma incapace di animarsi, di poter essere vivo. La strega non può creare la vita, poiché non è capace di amare. Ella è una donna cattiva che può soltanto generare qualcosa di artificiale, di sintetico. Con le sue bambole, lei spia le sue incaute vittime per attrarle verso di sé, per farle innamorare, per adorarle e divorarle al contempo. L’intera sopravvivenza della strega si basa, dunque, sull’incapacità di dare la vita vera, sul bisogno di amare e sull’impossibilità di poterlo fare, data la natura contorta e mentitrice della stessa.
“Coraline e la porta magica” è un racconto letterario ed un racconto
visivo in cui la paura, l’orrore, vengono
mascherati dalla gentilezza, dalla bellezza
che inganna ogni sguardo superficiale. La musica vivace e mai greve che
accompagna i momenti più inquietanti dell’opera nasconde, di proposito, l’alone
sinistro che permea le sequenze in cui la strega rivela il proprio disgustoso
aspetto e tenta di ingurgitare Coraline, intrappolandola nella sua rete. Tutto,
in “Coraline”, non è che un continuo
paradosso: l’orrido viene inscenato con il bello, il malvagio volere
dell’antagonista viene eclissato per gran parte del tempo dalla sua cordialità,
la mostruosità del suo regno viene adombrata da un velo esteriore di spregevole
incanto. Sono soltanto gli occhi, i bottoni, a non poter essere mascherati
dalle gelide arti della strega. Essi,
con la loro buia freddezza, sussurrano continuamente la verità: l’Altro Mondo è un nucleo oscuro, in cui non
vi è salvezza per l’anima che un occhio umano è sempre in grado di far
riverberare.
Coraline riuscirà a
sconfiggere la fattucchiera grazie al provvidenziale aiuto di Wybie e del gatto
nero, e a salvare i fantasmi dei poveri bambini. Gli spiriti dei tre giovinetti
voleranno su in cielo, liberi e non più soggetti al giogo della strega, non più risucchiati dal suo fiato. Ciò
che la strega non riusciva in alcun modo ad accettare è che i bambini veri non
possono essere intrappolati, non possono restare accanto a chi non amano
davvero. I fanciulli non sono bambole senza vita, e la strega non riuscirà più
a trascinarli verso di sé, similmente a come avveniva al principio, quando
quella bambola con le fattezze di una piccina veniva trasportata via verso una finestra spalancata. Le bambole sono prive di energia, i
ragazzini come Coraline, invece, possiedono la forza per poter contrastare il
male. Proprio dinanzi a Coraline, il cielo, tinteggiato con un blu cobalto,
lo stesso colore utilizzato da Vincent Van Gogh per dipingere i gorghi
vorticosi della sua “Notte Stellata”,
accoglierà queste anime, finalmente in pace.
"Coraline e l'Altra Madre" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters
Soltanto quando sarà
salva, Coraline avrà imparato ad apprezzare la realtà per come è davvero, a
voler bene ai suoi genitori con i loro pregi e con i loro difetti. Sono questi, in particolare, a rendere una persona bella
così com’è: semplicemente umana!
"Joker" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
Arthur, l’uomo nello specchio
Cosa mostra uno specchio?
Ciò che ha dinanzi a sé, risponderebbe qualcuno.
In effetti, esso riflette
ciò che vede, l’apparenza, la pura esteriorità. Ciascun specchio possiede l’abilità
di replicare un gesto, di ricambiare uno sguardo, di duplicare semplicemente
una sagoma. E lo fa con distacco, con gelida
austerità. Lo specchio copia un’immagine, riproduce un corpo, ma non coglie
l’intimità, il carattere, la personalità
di chi si pone al suo cospetto. Esso si limita a “bissare”, a sdoppiare le
epidermiche sembianze. Talvolta, chi osserva attentamente la propria figura
davanti ad un vetro fatica a riconoscerla
come vorrebbe. Una ruga di troppo o un affanno marcato sulla pelle possono
mutare il riflesso, sino a renderlo diverso, inaspettato.
Scrutando uno specchio,
una persona nota se stessa, prigioniera
di quei contorni. In alcuni romanzi di fantasia, gli specchi sono soliti
riflettere soltanto gli esseri umani che
sono ancora in vita, o per meglio dire, i corpi che custodiscono, come
scrigni, un’anima. In tali racconti,
i vampiri non possono essere rispecchiati da una qualunque superficie
riflettente. Essi, infatti, sono deceduti, non possiedono più alcun barlume di
umanità e, per tale ragione, lo specchio decide di non rimandare i loro
aspetti, di non riprodurre i loro profili. I vampiri non esistono davvero,
hanno perduto il dono della vita e permangono sulla Terra malgrado la loro
natura. Di conseguenza, lo specchio, come se fosse un oggetto investito dal
peso della ragione, sceglie volutamente di non ricreare la loro parvenza.
La pellicola “Joker” comincia proprio con un uomo che contempla se stesso dinanzi ad una levigata superficie riflettente. Arthur Fleck siede a un tavolo da trucco e guarda dritto davanti a sé. Mira la propria faccia, pallida e triste. Prova, allora, a mutare l’espressione del suo volto accorato, spingendo le proprie labbra verso l’alto, sino alle gote, ma è tutto vano. Non appena cede allo sforzo, la bocca ritorna alla posizione naturale, e dagli occhi scendono giù gocce di liquido trasparente. Per tutta la vita, Arthur non ha vissuto un solo momento di appagamento. Costui arrivò, persino, a interrogarsi circa la propria reale esistenza. Questo dubbio non poteva avere un fondato riscontro, poiché lo specchio seguitava a mostrare la sua forma. Arthur non era un defunto che errava senza scopo, lo specchio, in tal caso, non lo avrebbe riflesso. L’immagine che vedeva nello specchio doveva garantirgli la sua tangibile esistenza ma non gli bastava.
Quella stessa superficie
palesava i suoi dolori, li rendeva nitidi,
esteriorizzava in modo cristallino i supplizi che egli tollerava giorno dopo
giorno e che gli scavavano sempre di più il viso. Arthur cercò, allora, di
coprirli con il trucco. Intrise la pelle
nel candido cerone, attorno agli occhi disegnò delle lacrime azzurre e
cosparse, infine, le labbra di rosso. Arthur si truccò da clown per celare
lo strazio, per indossare una maschera
comica che potesse occultare la mestizia
dell’animo. Lo specchio continuò a rifletterlo, ma della sua fisionomia avvilita
non era rimasto che un impercettibile accenno,
sepolto sotto l’abbondante uso del cosmetico. Adesso, la faccia gioiosa di un pagliaccio e non più di un uomo disperato veniva plagiata dal
freddo materiale sorretto da quel tavolino. A quel punto, Arthur smise
d’osservarsi, si rimise in piedi ed entrò in scena.
Arthur è un cittadino
qualunque di Gotham City. Giorno
dopo giorno, egli si trascina via, lungo strade affollate, schiavo delle
proprie turbolenti angosce. Alienato, fortemente disturbato, questi percorre
giornalmente una lunga scalinata per
tornare nella propria dimora, una sudicia casa situata nei bassifondi della
città. Per una sorta di bizzarra e cruda ironia,
Arthur soffre di un particolare disturbo mentale che lo porta a scoppiare a
ridere in maniera fragorosa ogni qual volta avverte uno stato emotivo di forte
tensione. Le sue risate appaiono come
una sorta d’incontrollabile riflesso condizionato. Arthur ride
freneticamente, senza mai volerlo, tenta di soffocare il proprio insano riso senza
poterci mai riuscire. Le risate lo torturano, si stampano sulla sua faccia nei
momenti meno opportuni e scompaiono solamente dopo un tempo lungo ed un’attesa
estenuante.
La salita scenica dalla morte alla vita
Sin dalla più tenera età,
Arthur sogna di diventare un comico e di spargere gioia e felicità in tutto il mondo.
I suoi sogni, però, sono destinati a scontrarsi con una dura e repressiva realtà. Da che ha memoria,
Arthur ha vissuto nella povertà, vittima di una società opprimente che
schiaccia i deboli sino a ridurli allo stremo. Arthur, abitualmente, si reca ad
incontrare una psichiatra, presso i servizi sociali. La dottoressa, di per sé,
non lo ascolta minimamente, sembrando del tutto incapace di comprendere i
tormenti che affliggono questo delicato
paziente. Arthur ne è consapevole ma riesce comunque a trarre conforto da
questi incontri grazie alla possibilità di poter avere accesso a delle
medicine, che tengono a bada i suoi disturbi. Tuttavia, quando il governo di
Gotham deciderà di tagliare i fondi ai servizi sociali, Arthur si ritroverà completamente solo, privo dell’accesso ai
medicinali che frenavano i suoi primordiali impulsi. Il disagio mentale,
dunque, si acuirà in lui.
Per settimane, Arthur
subisce le aggressioni dei teppisti per strada, patisce le angherie dei
colleghi. La rabbia dell’uomo, il livore verso una società assenteista che volta le spalle al cittadino più
bisognoso, che calpesta il povero divorandolo mentre giace, inerme, a terra,
fagocitandolo in una morsa, si esacerbano nel suo cuore, che continua a battere
sebbene non produca più alcun sentimento.
A lungo andare, Arthur diviene un essere freddo, distaccato, pericoloso. Egli abbraccia pienamente la “morte” per
intraprendere una nuova vita, la sua prima vita. Arthur, che non si era mai
sentito vivo, accetta definitivamente l’inesistenza della sua parte umana e
rinasce con una nuova veste. Joker vede
la luce dal buio di una società sordida. L’omicidio, la perpetuazione della
morte, divengono le fonti con cui Arthur attua la propria rivalsa. Da vittima, egli
sceglie di assurgere ai ranghi del truce, dell’assassino che perpetra un delitto per un intangibile
senso di vendetta.
Ed è proprio un agire
vendicativo quello di cui Arthur si farà dispensatore. Una vendetta che troverà
sfogo nei riguardi dei ricchi, dei potenti, di coloro che hanno genuflesso gli altri, i più deboli. Joker
diventa, così, un simbolo della lotta di
classe, un emblema per il ceto meno agiato. Sul finire delle tragiche
vicende, il personaggio cardine dell’opera conquista la fama, l’attenzione che
tanto aveva agognato, ma in un modo del tutto differente da come, in principio,
si era auspicato. Non sarà con il riso,
sarà con l’attuazione dell’orrore che egli diverrà popolare. Arthur,
infine, non porterà gioia nel mondo ma anarchia, terrore. Dinanzi ad una città
in fiamme, preda di un gregge famelico, di una mandria imbizzarrita, Arthur non
proverà disgusto, bensì riderà. Per la prima volta davvero. Egli non avrà più
bisogno di sospingere le proprie labbra con le dita, sino alla parte più alta
delle guance. Gli basterà sporcarsi la bocca di sangue e ghignare sadicamente. Il riso, per lui, sarà, finalmente, una
reazione naturale.
Nel crescendo del film, la
lenta ed estenuante trasformazione di Arthur in Joker viene inscenata come se
fosse una prolungata ascensione
piuttosto che una caduta nel vortice
della follia. La metamorfosi del protagonista viene celebrata come un trionfo. Quella
di Arthur è stata, infatti, una lunga salita verso una vetta su cui nessun
altro avrebbe potuto mai spingersi. Con fatica, rantolando, subendo le offese,
le denigrazioni, gli insulti, le prepotenze del prossimo, Arthur salirà sempre più in alto. Una volta raggiunta la cima di
questa piramide eretta dall’insoddisfazione, Arthur vedrà finalmente se stesso,
il proprio vero riflesso nello specchio,
ed otterrà la sua ambita libertà. Trasformandosi in Joker, Arthur guadagnerà il
culmine della “scalinata”, una scalinata
del tutto simile a quella che egli percorreva quotidianamente, la stessa
scalinata su cui danzerà, una volta indossate
le vesti e assunti i colori del clown, principe del crimine, sulla propria
pelle.
In quanto reietto,
abbandonato, maltrattato, Arthur inizia
la sua storia dal basso, dai ghetti, dalle periferie desuete e dismesse.
Lasciandosi andare alla propria follia, accogliendola
come l’unica possibilità di esistenza per poter affrontare un mondo oscuro e
minaccioso, Arthur giungerà alla sommità
del picco, e da lassù vedrà tutta la
realtà da una nuova prospettiva; un punto di vista aberrante, in cui la mostruosità combacia con l’ordinaria
normalità. Il vortice che trascina Arthur verso la pazzia, invece che farlo
precipitare, lo conduce sino all’acme. Pertanto, egli diviene “speciale” una
volta mutato in un pazzo omicida, un
animatore di folle che fa della violenza la propria arma di seduzione. E’
questa la schiacciante parabola di “Joker”.
L’inquietante messaggio che il film rilascia in merito al personaggio ispirato
ai fumetti DC Comics viene incarnato dalla metamorfosi di quest’uomo indigente,
di questo disagiato trascinato sino allo sfinimento, che rinnova se stesso in
qualcosa d’inaspettato, d’orrido, di abominevole.
Gotham City, una metropoli finta
“Joker” è un film confezionato a regola d’arte, un grandissimo
esempio di cinema. Una produzione coraggiosa, provocatoria, che fa breccia in maniera dirompente,
fragorosa, roboante. “Joker” è il
frutto di una lavorazione ardita, temeraria, da cui si origina una ventata
d’aria fresca in un genere cinematografico divenuto saturo e consueto. Vanta un’interpretazione
straordinaria, impressionante, decisamente coinvolgente, una regia notevole,
una fotografia estremamente suggestiva: tanti elementi che elevano il lungometraggio
su molte altre produzioni contemporanee. Senza alcun dubbio, Joaquin Phoenix
convoglia in sé l’essenza dell’intero film. La sua stupefacente, sbalorditiva,
dolorosa, conturbante e commuovente resa
scenica di Arthur costituisce il nucleo dell’intero lavoro. “Joker” è un film che colpisce, che si
appiccica addosso e non si stacca più.
"Joker" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters
L’ultima fatica del
regista Todd Phillips e della Warner Bros è da considerarsi un risultato
notevole, eccellente, un prodotto che si regge totalmente sulle spalle infossate,
gracili, del suo attore principale. Un’interpretazione magistrale, una regia
che omaggia i cult del passato, una colonna sonora da brivido, una scenografia
bellissima, una fotografia favolosa, più fredda nella prima parte, quella
introduttiva e analitica, più calda nella parte restante, in cui il Joker calcherà il suolo di Gotham col suo incedere rovinoso e
letale, sono tutti questi che ho appena elencato i punti di forza di quest’opera,
imponente nella sua realizzazione.
"Joker, ritratto in bianco e nero" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters
“Joker” è una pellicola imperdibile, ciononostante non è esente da qualche
carenza, da qualche limite, da qualche difetto sparso. Il film si concentra
quasi esclusivamente sull’approccio introspettivo. Tale approfondimento
psicologico, pur essendo lungo, attento, minuzioso,
valevole cede, in alcune scelte, alla banalità, cominciando dal modo in cui i
personaggi secondari, coloro che spingeranno Arthur verso l’orlo della pazzia,
vengono delineati sullo schermo.
Tutti i personaggi di
contorno con cui Arthur interagisce sono monodimensionali,
e hanno un solo e comun denominatore: sono
tutti cattivi. Quasi tutti i caratteri che Arthur incontra sul proprio
cammino lo trattano male, lo aggrediscono. Costoro gli negano aiuto, gli
evitano garbo e gentilezza. Ognuno di essi mostra il carattere di un egoista, di
un insensibile, di un crudele e di un irrispettoso. Che siano avventori incontrati
tra le vie di Gotham, partner di lavoro, oppure presunti amici, essi sono vere
e proprie figure malvagie, che non esitano a picchiare, ad insultare, a
svilire. Ognuno, a modo suo, finisce per arrecare dolore al protagonista,
alimentando in lui la diffidenza e l’avversione verso il prossimo. Non c’è
bontà, non c’è affetto, non c’è neppure amore nei cuori dei cittadini di
Gotham. Quasi nessuna delle personalità mostrate nel film risulta essere
diversificata.
Il cineasta Todd Phillips presenta al suo pubblico
un mondo ben preciso, tremendo, caliginoso, cupo, fosco, in cui non vi è alcuna
speranza. Un mondo sciatto, una metropoli sozza, colma di reietti, di
criminali, di parvenu corrotti, di persone comuni prive di alcuna sensibilità,
di politici che perseguono soltanto i propri interessi, di ricchi egoisti, in
altre parole: un mondo ricreato ad hoc,
finto, estremamente stereotipato.
Un padre “mortificato”
In questo scenario così
uniformato, così appianato, in cui vengono soltanto rimarcate le differenze tra
i poveri ed i ricchi, viene banalizzata la
figura di Thomas Wayne, ridotta anch’essa ad un mero stereotipo. Il padre di Bruce è una figura, sovente, citata nella
prima parte del lungometraggio, una sagoma incerta che verrà via via presentata
e rivelata. Anch’egli viene mostrato come un uomo freddo, egocentrico, aspramente
indifferente verso i problemi dei più deboli, praticamente l’esatto opposto di
come il personaggio è stato storicamente tratteggiato tra le pagine dei
fumetti. Thomas Wayne, il papà del futuro paladino di Gotham, è sempre stato
descritto come un uomo di buon cuore. La virtù identificativa dei genitori di Bruce,
Thomas e Martha Wayne, è sempre corrisposta all’incondizionata bontà. Ambedue
sono sempre stati rappresentati come persone visceralmente buone, attente, prodighe, gentili, perennemente
disposte a sfruttare il loro potere, la loro ricchezza, le proprie influenze
per supportare i più sfortunati, i
bisognosi d’aiuto. Nei fumetti, Thomas e Martha non vengono mai disegnati e
caratterizzati come i tradizionali “ricchi” che pensano solo ai propri
interessi, i miliardari che covano menefreghismo e senso di superiorità nei
riguardi dei meno abbienti.
In “Joker”, Thomas Wayne subisce un netto appiattimento, perdendo tutte
le caratteristiche che lo rendevano tanto speciale nella mitologia di Batman e,
in particolar modo, nel cuore e nei ricordi di Bruce Wayne. Thomas viene, conseguentemente, livellato,
adattato al luogo comune del magnate indifferente, superficiale, dell’uomo
disinteressato alle difficoltà della povera gente. Sebbene voglia
candidarsi a sindaco per risolvere i gravi problemi che affliggono Gotham,
Thomas, nel film, non viene mai inquadrato sotto una luce positiva, al
contrario la sua persona giace in bilico tra la superbia e l’arroganza. Ma
egli, come già detto, non è il solo ad andare incontro a questo simile fato. Sono
tutti i comprimari del personaggio principale a subire tale processo di
abbattimento. Per giustificare i cambiamenti di Arthur, per generare il
processo di “empatizzazione” tra lo spettatore ed il Joker, il regista ha
scelto di rendere gli altri simili ad esseri imperturbabili, spietati, cinici, isolati,
creature fatte di pietra, sacrificando
l’oggettività, il realismo, e minando, così, il taglio veritiero di una
storia che mira proprio ad essere più attinente al “vero” possibile. Del resto,
il regista sceglie di raccontare la storia con gli occhi di Arthur, limitando
intenzionalmente la parzialità del tutto. Gotham non è quindi facilmente
capibile se non per impressioni indeterminate.
Le follia di Arthur, da “Taxi Driver” a “Joker”
Todd
Phillips confeziona un’opera citazionista, un lungometraggio intenso, potente,
maestoso, valevole, tremendamente emozionante. Un’opera destinata a divenire
una pietra miliare del genere. “Joker”
nasce con l’intento di narrare le origini di un antagonista, mostrando, da un
punto d’osservazione piuttosto ravvicinato, l’animo, lo spirito, l’interiorità
di un uomo malato e tutto il susseguirsi degli eventi che lo hanno portato sul
baratro della pazzia. Questa analisi viene condotta con grandi intenti ma,
talvolta, finisce per arenarsi nella prevedibilità. La pellicola è
permeata da alcuni cliché, è strutturata con schemi già visti ed utilizzati (“Taxi Driver” e “Re per una notte”), da motivi ripetuti, e apporta poco di straordinariamente
originale al contenuto se non alla forma.
L’approfondimento
psicologico che l’opera esegue sul personaggio di Joker evoca il dramma, lo
spasimo, il martirio di una creatura angustiata. Emotivamente, il film
genera un senso di commozione, di pietà, d’intenerimento nei confronti
del povero Arthur fino a quando, naturalmente, egli non eccede, “tradendo” le
proprie vestigia umane per evolversi in un mostro. Le cause che spingono
Arthur a cedere alla liberatoria follia omicida vengono scandagliate
meticolosamente. I traumi infantili, il senso di abbandono, la solitudine, le speranze
disilluse, i tradimenti e gli scherni perpetrati dalle figure di riferimento,
la madre e il comico Murray, idolo di Arthur, sono questi appena riportati i
fattori scatenanti che piegano le resistenze del povero derelitto. Queste
sorgenti che provocano un acuto dolore al protagonista permettono allo
spettatore di ben comprendere la desolazione che dilania la mente ed il cuore di
Arthur, risultando efficaci ma anche leggermente scontate. Non vi sono
risvolti inattesi, eventi inaspettati o circostanze sorprendenti a generare
Joker. Sono tutti tormenti prevedibili, traumi pronosticabili, violenze
intuibili semplicemente immaginando a priori cosa potesse aver condotto Joker a
diventare ciò che tutti conosciamo. Tutto viene trattato con profondità, con
attenzione, con rispetto, ma, ad un’occhiata più arguta, si nota come questo
tutto sia un qualcosa di sensibilmente significativo ma ugualmente risaputo. Nella
sua origine, esposta in una maniera così plateale, il Joker di Phillips perde l’alone
del mistero. Pur ricercando un’accurata originalità, il copione plasma un
malvagio non prettamente diversificato dagli altri, un ennesimo pazzo divenuto
tale perché ingannato dalla madre, abusato nell’infanzia, respinto sul lavoro,
obliato dagli altri. In Arthur non si percepisce l’unicità, l’esclusività
che ha il Joker fumettistico.
“Joker”
vuol narrare la gestazione e il parto di un essere perfido, della nemesi di un
grande eroe. Ma riesce a mostrare realmente il Joker?
Cos’è che rende Arthur il
Joker? Cos’è che differenza questo
protagonista da, ad esempio, Travis Bickle, il personaggio principale di “Taxi Driver”, opera basilare a cui “Joker” si ispira nettamente nello stile
e nell’esecuzione?
L’evoluzione
che investe i due personaggi, Arthur e Travis, è molto simile, tanto da essere
sovrapponibile. Entrambi, emarginati, si trascinano, notte dopo notte, fra le
periferie cittadine. Via via che osservano la realtà sotto una nuova lente, comprendono
gli orrori, le depravazioni di una metropoli malata, repleta di cittadini
perversi ed incurabili. Entrambi vengono lasciati soli, condannati ad avere
come unica compagnia la loro voce interiore che li tormenta, li agita, li esaspera.
L’uno e l’altro hanno facilmente accesso ad un’arma che diverrà il mezzo con
cui veicolare il loro odio, il modo con cui incanalare la propria ira. Dunque,
facendo le dovute proporzioni, cosa differenzia davvero Arthur da Travis? Perché
chiamiamo Arthur “Joker”? Perché ce
lo suggerisce semplicemente il titolo? Perché Arthur decide d’appellarsi in tal
modo o perché s’impasticcia il viso come un burlone?
Qual
è il confine che separa Arthur da Travis? Dov’è la differenza tra i due se non
in un semplice espediente simbolico dato dal trucco scenico?
Arthur Fleck è
il Joker! E perché lo sarebbe?
Cosa possiede Arthur del
Joker? Poco, in realtà. Egli è una
versione alternativa, realistica, il prodotto di una società deforme, la
personificazione di un dramma intimo, di una sofferenza immane che sfocia
nell’apatia. Il Joker di Phoenix è un’incarnazione diversificata, adattata alla
realtà ordinaria, ma proprio per tale ragione dobbiamo domandarci: cosa
rende Arthur il Joker?
Arthur
non è il Joker, è un uomo qualunque. Ed è questa la “morale” più
spaventosa del film in sé. Tutti noi potremmo essere Joker! Joker è una ferita
lacerante che non può essere rimarginata, un trauma insuperabile che libera i
mostri interiori. Anche l’uomo comune, il meno adatto, può diventare Joker se
va incontro ad una serie di eventi devastanti. Il tutto può consumarsi in
una sola, nefasta giornata. E’ una grigia giornata a rompere ogni freno
inibitore e a scatenare gli anarchici desideri di libertà.
Persino
il Joker dei fumetti viene presentato come un uomo qualunque. Ma, se vi
soffermate un attimino a pensare, anche gli stessi supereroi, in genere,
sono uomini qualunque: persone ordinarie a cui accade qualcosa di
straordinario. Un incidente in laboratorio, un imprevisto, un evento inconsueto
trasformano una esistenza normale in un qualcosa di profondamente nuovo. Anche
il Joker era un essere come tanti altri. Ma il film “Joker” dimentica una parte fondamentale dell’evoluzione di questo
villan: l’incidente. Il tuffo nel vascone contenente le sostanze
chimiche è l’elemento di svolta, l’accadimento che segna la vera nascita del
Joker. La storia del famoso antagonista non deve essere vincolata a questo
episodio, naturalmente. Tuttavia, il Joker non sceglie di truccarsi, il
trucco gli viene imposto. Ed è proprio nella deturpazione estetica che il
Joker vede la propria nascita. Il suo viso imbrattato, alterato, insudiciato
in maniera irreversibile rappresenta la fine, un qualcosa da cui non si può più
tornare indietro.
Joker,
una volta emerso dalla pozza chimica, scruta il suo riflesso ed impazzisce. In
quell’attimo, la vita gli appare come un gigantesco ed assurdo scherzo.
L’uomo, disperato, si ritrova con il viso avvolto da una miscela di colori: la
pelle è chiazzata di bianco, le labbra di rosso, i capelli di verde. E’ tutto
così assurdo e grottesco che il Joker comincia a ridere. Nel proprio riflesso, Joker
vede il macabro riso maligno di un destino crudele e beffardo. Per lui, non
resta che ridere, che accettare l’ironia della situazione.
Il
trucco da clown non è un’opzione vagliata e decisa, non è una pittura da battaglia
né un simbolo da competizione, ma è una tragedia cheha mandato in
cocci la sua ragionevolezza. Joker avverte la follia dentro di sé, ma è la
bruttezza estetica a farlo inorridire, poiché da quella non vi è più scampo. Lo
stesso Joker di Heath Ledger, sebbene non avesse davvero il volto tempestato di
colori, nutriva un’ossessione per le proprie cicatrici. Esse gli avevano
eternato la faccia, l’avevano fermata in un sorriso agghiacciante. Egli pativa
una fissazione per le sue cicatrici e, di volta in volta, inventava una storia
diversa su come aveva subito tali ferite. Il Joker nasce Joker dal dolore
interno, dalla pazzia intima, ma anche e soprattutto dall’orrore esterno
mirato sul proprio corpo. Nella sua estetica deturpata, il Joker vede il
proprio squilibrio interiore, per molto tempo domato, represso, sopito, fuoriuscire
improvvisamente in tutta la sua irruenza. Nel suo volto, bloccato in un
ghigno innaturale e costante, Joker ammira l’insania che aveva all’interno e
che adesso è trasbordata fuori, attaccandosi con quei colori sgargianti alla
sua epidermide.
Al
Joker di Phoenix manca questo evento, ciò che rende Joker pienamente Joker:
l’aver subito una bizzarra disgrazia fisica. Il Joker di Phoenix non ha il
volto stretto in una risata perpetua, sceglie volontariamente di mascherare il
proprio viso. Egli non è costretto a diventare Joker, sceglie di esserlo.
Ma è la semplice la scelta a renderlo tale?
Il
Joker del fumetto subisce questa bislacca sciagura proprio perché la storia di
questo criminale vuol suggerirci che non è soltanto un uomo normale a poter diventare
Joker. Invero, è un uomo normale a cui succede qualcosa di tremendamente
anormale a poter diventare Joker. Un episodio che trasforma un volto comune
in una maschera comica partorisce Joker.
Il
“giullare” interpretato da Phoenix salta totalmente questo processo di
iniziazione. Egli sceglie di diventare Joker truccandosi semplicemente, ma è
come se non lo diventasse mai realmente. Questo perché l’ironia
sadica del Joker, la sua verve originale, il suo senso dell’umorismo crudele, cruento ma pur sempre artistico, non
emergono in lui. Tutte queste distintive caratteristiche che differenziano tale
villan dal comune sociopatico, dal
semplice “matto”, dal consueto criminale efferato, in quest’ultimo
adattamento non vengono affatto evidenziate se non per impercettibili richiami.
Il Joker di Phoenix è uno squilibrato, un maniaco, uno psicopatico con una maschera di trucco, così come possono
esserlo tanti altri disseminati per il mondo. Mirando l’azione finale del Joker
di questo lungometraggio si vede soltanto violenza, torbida, oscura,
vendicativa, ma pura e semplice violenza, nient’altro. Ed il Joker è anche di
più!
L’ironia del clown: “Niente battute?! Sharpy, ma ha letto la mia cartella clinica?”
Il Joker di Phoenix è
diverso, in svariati aspetti. Questo lo dimostra anche la scelta che il
personaggio compie nel selezionare le proprie vittime, i propri omicidi
calcolati. Egli uccide chi gli ha mosso ingiuria, chi lo ha offeso, chi è stato
scortese con lui. Fredda il proprio
idolo, reo di volerlo prendere per i fondelli e risparmia il suo vecchio
collega affetto da nanismo, poiché l’unico a non averlo mai deriso. Scelte che
poco hanno a che vedere con la glaciale indifferenza del Joker.
Con
quanto sto scrivendo non sto, di certo, affermando che il Joker del film del
2019 non sia un vero Joker. Nei fumetti, il personaggio possiede notevoli incarnazioni e non esiste
una versione univoca e totale, or dunque l’interpretazione di Phoenix va intesa
come un qualcosa di nuovo, d’apprezzare in qualunque caso. Detto questo,
la vena scherzosa, beffarda, tagliente resta un elemento che è faticoso non
riuscire a trovare in Joker. Quella di Phoenix è certamente una versione
degna, riuscitissima, potente, che verrà amata, venerata dai fan e dai cinefili
sparsi per tutto il globo terrestre. E’, a mio dire, semplicemente una versione
troppo generica, troppo poco
fumettistica, talmente realistica da far
svanire i caratteri del fumetto da cui il Joker è tratto per divenire un
personaggio non più da carta stampata ma solo e soltanto da cinema. Pertanto,
un cattivo adattabile a tanti altri film, a tante altre trame, un personaggio che non vanta l’unicità del
Joker cartaceo. L’opera finisce, di conseguenza, per creare un cattivo
sinistro, lunatico, complesso ed articolato, ma non il Joker nella sua veste
classica, conosciuta, iconica.
Il
riso misto al terrore, l’ironia miscelata alla paura, la lucidità alla follia,
il macabro all’idilliaco: è questo che rende Joker se stesso.
Senza la sua inimitabile ironia, il Joker perde la sua caratteristica di base. Sacrificando
la burla, l’insana comicità, si perde il Joker. Vi è tanto dolore, tanta
rabbia, tanta ira nelle parole proferite dal Joker di Phoenix, ma non vi è
nessuna vena macabra nella sua parola, soltanto bile, sdegno, furore. Questo è,
in parte, giustificabile tenendo presente che questo film si limita solamente a
narrare un inizio, ma non basta. Guardando questo film si vede l’agire di un disagiato,
un reietto, di un abbandonato, un disilluso con problemi psichici che trova
nella brutalità un modo per potersi sentire vivo. Se questo Arthur non avesse il volto truccato da Joker, perché dovremmo
riconoscerlo, indicarlo come tale?
Nella pellicola di Todd Phillips si avverte la paura di far ridere, di usufruire
della goliardia del Joker, come se essa fosse una caratteristica che ne mina la
serietà, il terrore che il Joker
dovrebbe alimentare. “Joker”, fotogramma
dopo fotogramma, crea e modella con grande perizia la genesi di un qualunque
disagiato, di un qualunque sofferente, sacrificando le restanti caratteristiche
di una personalità che è estremamente precisa, iconica ed unica sin
dall’esordio. Non vi è ironia,
giocosità, spirito nel Joker di Phoenix proprio perché il suo personaggio si
attiene con tutte le sue forze ad un taglio realistico. Ma così facendo, la
fantasia, l’inventiva, l’originalità del fumetto vengono neutralizzati.
Todd Phillips, pur con
tutti gli innegabili meriti della sua eccellente opera, non ha avuto l’audacia
che ebbe Tim Burton quando, con il supporto di Jack Nicholson, portò in scena
la follia artistica, senza freni, ironica, raccapricciante, funebre eppure
ugualmente in grado di strappare un sorriso, del Joker. E’ molto più facile portare
in scena la violenza, la perfidia di un personaggio che ricerca solo la
vendetta, piuttosto che mostrare un antagonista che, nell’ironia, nel surrealismo ha la propria
caratteristica imprescindibile. Anche in un contesto concreto, veritiero,
pragmatico, realistico come quello della recente opera filmica sarebbe stato
certamente possibile mostrare, sul finale, un Joker sarcastico, irridente,
sardonico, caustico nel consumare le proprie atrocità sempre col sorriso sulle labbra. Un Joker che, dal
dolore sopportato, avrebbe fatto fuoriuscire il proprio dirompente, insano e
fatale buonumore.
Il Joker di Todd Phillips
rinuncia alla comicità perché è cosciente di una grande verità: con l’ironia non si anima realmente la
folla, la si ravviva, maggiormente, con la cruda violenza.
"Arthur Fleck, il Joker umano" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
Considerazioni finali
“Joker”
non è la storia del Joker. E’ la storia di un uomo abbandonato, di un qualunque di noi esseri umani. La
sostanza del Joker, la parola del Joker, la sua immagine, non sono che una
metafora, un pretesto per
immortalare, su di un nastro di celluloide, la tragedia di un ragazzo che
voleva diffondere gioia e serenità ma finirà per elargire morte, nichilismo,
sovversivismo.
L’opera filmica
partorisce un Joker umano,
un’allegoria più che un vero carattere. “Joker”,
più che un film sul personaggio in sé, è, infatti, da considerarsi un thriller
psicologico che usufruisce dell’appellativo “Joker” per estendere la propria
analisi all’uomo normale, al negletto, al cane
di paglia stanco d’essere vessato. Una volta intuita questa verità, si può
affermare, in conclusione, che “Joker”
sia un film non rivoluzionario ma ottimamente realizzato, compassato, greve,
angoscioso, un tripudio di buonissimo cinema e meriterà gli Oscar che, con ogni
probabilità, porterà a casa. Da fan sfegatato della DC Comics ne sarò felicissimo.
Voto: 8/10
Autore: Emilio Giordano
Redazione: CineHunters
Vi potrebbe interessare il nostro articolo sul Joker di Jack Nicholson. Potete leggerlo cliccando qui.
"Stan e Ollie" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters
Ridere è un’aberrazione! Ci fu chi lo credette davvero. Costui sosteneva che il riso fosse un soffio demoniaco, alitato dal diavolo a discapito del comune zolfo. Il riso, seguitava ad affermare tal figuro, è un vento diabolico che deforma il viso degli uomini, rendendoli simili alle scimmie. Eppure, chi contraddì queste bislacche affermazioni rispose che le scimmie non ridono e che il riso è proprio dell’uomo. La burla, lo scherzo, la giocondità, l’ironia sono sinonimi dell’intelligenza, sintomi dell’acume umano. Perché, dunque, denigrare il ghigno, la beffa, la risata? Perché esso, il riso, annienta la paura!
E questo non sarebbe un
pregio? Beh, per colui che proferì quelle credenze iniziali tutt’altro. Tutto
si consumò centinaia e centinaia di anni or sono, in un’antica abbazia
benedettina. Ne “Il nome della rosa”
di Umberto Eco, Jorge da Burgos era un bibliotecario cieco. I suoi occhi dalla
sclera slavata erano vuoti, spenti, e somigliavano a frammenti vitrei su cui nessun riflesso poteva esser scorto. Il
volto di quel monaco era seminascosto da un cappuccio scuro, i suoi denti erano
gialli e per la maggior parte mancanti. Egli era austero, freddissimo,
malvagio. Ripugnava la giocosità,
l’allegria come fossero un male da estirpare. Nessuno, secondo il suo
volere, avrebbe dovuto scoprire cosa fosse il riso indotto, l’arte di far
ridere spontaneamente con sagacia e abilità. Nessuno avrebbe dovuto rinvenire e
sfogliare il Secondo Libro della Poetica
di Aristotele. Questo volume giaceva, celato, proprio nell’immensa
biblioteca di quel monastero. Fra quelle pagine, avvelenate dallo stesso
religioso, il filosofo greco esaminava la
Commedia, considerandola come uno strumento di verità, di riflessione.
Invero, non sono
pervenute a noi tracce di questo secondo manoscritto di Aristotele. La Poetica
del filosofo è, infatti, giunta incompleta, ed essa tratta la Tragedia e
l’Epica. Supponendo la tangibile esistenza di questo secondo manoscritto, Eco
stese la propria storia. In un passo del romanzo, frate Guglielmo varca la
soglia della biblioteca, un dedalo di
scale e cunicoli, e trova il libro in questione. Comincia, allora, a
leggerlo con molta cautela. In quella breve e rapida lettura, Guglielmo scopre
il presunto parere di Aristotele in merito alla Commedia. Essa, al pari della
Satira e del Mimo, suscitando il piacere del ridicolo, perviene alla purificazione di tale passione. Come la Tragedia
anche la Commedia adempie, dunque, alla catarsi.
Fantasticando sulla
possibilità che il Secondo Libro della Poetica riportasse quando è stato
ripetuto ad alta voce da Guglielmo, potremmo certamente affermare che, stando al
pensiero di Aristotele, mediante l’ilarità,
la letizia, l’uomo può giungere a comprendere, a capire il vero, il bello, la vita stessa, magari. Non è, quindi,
soltanto con la seriosità, col dramma, con le peripezie proprie della Tragedia
che è possibile guadagnare la catarsi. Anche la Commedia, la Grande Commedia aristofanea, permette di ottenere una
epurazione. Una purificazione differente, unica, generata dall’idillio gioioso
che genuflette l’uggia di una mente crucciata.
Nel secolo in cui Umberto Eco volle ambientare il proprio romanzo, ridere era un’attività proibita, poiché essa abbatteva il timore, e senza il timore non vi era fede. Il tomo occultato con rabbia, con livore, con follia dal bibliotecario, si tramuterà in uno strumento di morte, un artificio contaminato dal monaco. Chi avesse letto le parole di Aristotele sarebbe morto, come se fosse stato redarguito e punito da una fantomatica giustizia divina contraria alla perpetuazione del riso. Jorge da Burgos considerava il potere intriso nell’inchiostro di quel libro estremamente pericoloso poiché, un giorno, quelle parole sarebbero echeggiate, l’ironia sarebbe divenuta una fonte d’espressione consueta che avrebbe portato a ridere di tutto, anche di Dio. Il libro, quel Libro, secondo quanto temuto dall’anziano frate, avrebbe ucciso il credo antico. Una frase, quest’ultima, che risuona simile anche nei versi intonati da un’altra figura religiosa, in un’opera del tutto diversa. Claude Frollo, l’arcidiacono della cattedrale parigina di Notre-Dame, nel musical popolare ispirato al capolavoro letterario di Victor Hugo, esterna la propria paura sull’inevitabile forza del libro, declamando: “La stampa imprimerà la morte sulla pietra, la Bibbia sulla chiesa e l’Uomo sopra Dio”. La scrittura, al di là della Commedia stessa, dà la possibilità all’uomo di ragionare, di riflettere, di studiare, di elevare la propria cultura e non renderla più soggetta al timore reverenziale, alla paura che, nell’antichità, rendeva vana la stessa religione, abbracciata per pavidità e non per vera fede.
Il riso, come già
accennato, spezza le catene, rompe il giogo della schiavitù. Quando si
ride, quando si è felici, anche per flebili istanti, per pochi attimi d’oblio, di dimenticanza, non si è più
prigionieri della mestizia, dell’angoscia, dell’afflizione che è, anch’essa,
propria dell’essere umano. Saper ridere è un’abilità che custodisce in sé una
virtù, quella di rendere la vita lieta e piacevole. Far ridere, invece, ancor
di più, è un talento prezioso che permette di donare felicità e spensieratezza
agli altri. Cosa c’è di più generoso che
voler far sorridere qualcun altro?
Chi scrive una commedia, chi riesce ad interpretarla, è un dispensatore di gaiezza, di voglia di vivere, in altre parole: un servo di Aristofane. Con la Commedia, noi tutti riusciamo ad allontanare temporaneamente gli affanni, sorvoliamo, per pochi ma rinvigorenti attimi, i problemi che ci assillano, che rimbombano fra le pieghe della nostra coscienza. Senza commedia saremmo perduti, senza il riso saremmo gelidi automi. Aristotele lo sapeva, lo aveva dedotto, pur classificando la Commedia fra i generi inferiori. La Commedia attua una mìmesis, un’imitazione. E chi emula, quali personalità mima la Commedia stando ad Aristotele? Le persone che valgono meno. Oggi, diremmo i reietti, i non realizzati, gli esclusi, i dimenticati, i disgraziati, i poveri della società. In definitiva: le caricature interpretate da Stanlio e Ollio.
Derelitti, rifiutati, discriminati, in quanti altri modi potevano essere descritti i personaggi di Stan Laurel e Oliver Hardy? Erano i negletti, i respinti da ogni comunità, gli pseudo altruisti, gli ingenui, i sentimentali, i buoni costretti a fronteggiare gli arroganti e i maligni. Stanlio e Ollio erano soli, sempre soli, ma avevano, perlomeno, una grande fortuna: la loro amicizia.
In “Stan e Ollie”, film biografico del 2018 dedicato alla più celebre coppia comica della storia della settima arte, vi è un suggestivo momento, quello in cui Stan Laurel siede al bar di un hotel. Egli se ne resta silente, immerso tra i suoi pensieri. Viene poi raggiunto da sua moglie che lo mira, assorto nei ricordi. Stan tiene in mano un bicchiere di vetro, lo scruta con malinconia. Assorbe l’odore dell’intruglio alcolico, ne coglie il profumo che effluisce ma non lo beve. Stan rammenta il passato e confessa alla moglie l’essenza basica di ogni disavventura di Stanlio Ollio. “Guardi i nostri film e vedi soltanto noi due…” – Mormora il signor Laurel. “Nessuno ci conosce in quelle storie, siamo soltanto noi. L’uno ha solamente l’altro.” Quanto era vero!
Gironzolavano per le
strade, in città, si spostavano di appartamento in appartamento, vagavano tra i
viottoli delle montagne. Si recavano in campagna, poi al Congresso dei Figli del Deserto, tra le periferie del vecchio West
come fanciullini innocenti, finivano nei boschi, nei cui meandri rimbombava la
voce baritonale di un bandito chiamato Diavolo.
Erravano continuamente ed erano sempre insieme. Il più delle volte non avevano
spiccioli nelle loro tasche scucite, ma potevano contare l’uno sull’altro. Erano miseri nelle vesti ma nobili negli animi.
Erano indigenti, ciononostante potevano vantare la ricchezza più grande: una vera amicizia!
In ogni loro traversia, Stanlio e Ollio viaggiavano molto, si spostavano da un luogo ad un altro, cercavano i lavori più disparati per tentare di sbarcare il lunario. Bramavano l’aiuto dei più ricchi, loro che erano tanto poveri. Il copione dell’ultimo film che avrebbero dovuto girare li vedeva collaborare con Robin Hood, nella vecchia foresta di Sherwood. Questa pellicola ideata dal duo ma mai portata a termine viene spesso citata nel lungometraggio del 2018. Per Stan e Oliver il film su Robin Hood rappresentava l’ultima spiaggia, la restante possibilità di poter tornare sulla breccia attraverso il cinema. Robin Hood rubava ai ricchi per dare ai poveri. Per tale ragione, il famoso fuorilegge avrebbe aiutato ben volentieri i nostri amici, perennemente squattrinati. Nelle loro opere filmiche, erano pochi i comprimari disposti ad aiutare Stanlio e Ollio, i quali precipitavano sempre e comunque in qualche sorta di guaio. Stanlio e Ollio venivano, così, derisi dai prepotenti, offesi dagli arroganti, maltrattati dalle mogli, denigrati dagli adulti, loro che restavano eterni bambini. Continuavano a non avere nessuno, eppure andavano avanti. Insieme riuscivano a darsi forza. Stan lo sapeva, lo aveva sempre saputo. Del resto, fu lui a plasmare la coppia nelle sue più impercettibili sfaccettature.
Seduto fra quei tavoli,
Stan ricorda la verità: Stanlio non può
esistere senza Ollio. In quei giorni, la salute di Oliver era peggiorata e
la coppia comica si trovava ad un passo dal congedo. Non avrebbero più riso
insieme, non avrebbero più fatto ridere.
Con le loro vicissitudini, Stan e Oliver riuscivano sempre a strappare spontanei
e coinvolgenti sorrisi. Dopotutto, Stanlio e Ollio incarnavano le “persone che valevano di meno”, ma anche
le persone che, nel cuore, nel profondo, valevano
di più.
E dunque Stan se ne stava
solo al bar, prima d’essere raggiunto dalla propria consorte. Il signor Laurel
rimembrava quello che fu, ciò che ancora sarebbe potuto essere. Il canto del cigno era ormai imminente.
Dinanzi alla fine, non restava che celebrare il principio, la gloria di una vita trascorsa. Stan non avrebbe mai
potuto continuare a lavorare senza Oliver, pertanto anch’egli era prossimo al
ritiro. Tuttavia, Oliver lo sorprenderà di nuovo, l’indomani, come solo i veri
comici sanno fare, ed invoglierà l’amico a continuare. Lo spettacolo dovrà
proseguire.
Il film “Stanlio e Ollio” racconta l’ultimo step di questi ineguagliabili maestri della commedia americana. L’opera tenta di mostrare quello che il pubblico disconosce, inscenando l’ultimo atto della rappresentazione teatrale di questa lunga vita vissuta in coppia. La pellicola trasporta sul palcoscenico ciò che è avvenuto dietro le quinte, oltre la scenografia, al di là dell’occhio della camera. “Stanlio e Ollio” indaga il rapporto intimo tra i due attori, volge l’attenzione verso gli ultimi scampoli del lavoro di Laurel e Hardy e lo fa non mostrando nessuna scena dei loro film più famosi, eccetto una: il ballo registrato per “I fanciulli del West”. Questo per un motivo facilmente intuibile. Tutti noi abbiamo imparato perfettamente a conoscere Stan e Ollie sul grande schermo. Sui loro film non è necessario aggiungere altro che non sia stato già detto. Dunque, tale biopic, volendo perseguire intenti innovativi, sceglie sin da subito di concentrarsi su altro, evidenziando nuovi aspetti, quelli riguardanti ciò che Stanlio e Ollio hanno fatto oltre il regno della cinematografia.
Il teatro, i camerini, le
stanze d’albergo divengono i luoghi prescelti in cui si sviluppa quest’ultima
storia, quest’ultimo lungometraggio. La quotidianità di Stanlio e Ollio si
intreccia alla recita, l’esistenza alla finzione. Sul palcoscenico, i due
appaiono giovani, lievi e bravi come un tempo ma non appena il drappo rosso del sipario cala, riemergono le
difficoltà, le problematiche di una vita colma di delusioni. La pellicola
crea uno splendido equilibrio tra “il vero”, rappresentato dai momenti vissuti
lontano dalla scena, e “l’immaginario”, il modo in cui il pubblico vede Stanlio
e Ollio sul palco o sullo schermo di un cinematografo. Questi due mondi,
sovente, si uniscono.
Di stazione in stazione,
Stanlio e Ollio si spostano da una metropoli all’altra, tra momenti di quiete a
attimi esilaranti in cui la loro routine
fa il verso a quella dei loro personaggi impressi sui nastri di celluloide.
A tal proposito, la scena in cui Stan si fa sfuggire dalle mani un ingombrante
baule che precipita giù da una lunga scalinata, richiama, magicamente, le
sequenze di uno dei loro massimi capolavori: “La scala musicale”. Con Stanlio e Ollio si comprende questa verità: la vita è un teatro ed il giorno non è che
un singolo atto.
“Stanlio e Ollio” racconta la fine ma parte dall’inizio, o per
meglio dire dal “mezzo”. Il sipario si alza all’interno di un camerino. Siamo
negli anni d’oro, nel mezzo della loro
prolifica carriera. Entrambi discutono del più e del meno, dinanzi a due
specchi. I loro copricapi, le loro bombette, sono appoggiate su di un appendi
cappelli. I due dialogano, Ollio confida all’amico di aver perduto molti soldi
col suo ultimo divorzio, Stanlio, dal canto suo, confessa d’essere intenzionato
a mandare al diavolo il produttore Hal Roach per una sola ed emblematica
ragione: i film di Stanlio e Ollio incassano milioni su milioni, eppure né Laurel
né Hardy beccano un singolo quattrino. In
quel tempo, le stelle di Stanlio e Ollio sono tra le più sfavillanti del
firmamento hollywoodiano.
Di lì a poco, i due raggiungono
il set e iniziano a danzare. Passano
sedici anni da quel giorno. Entrambi sono visivamente invecchiati. Ollio è più
largo e ben più corposo di prima, Stanlio più spossato. Il cinema, lentamente, si è dimenticando di loro. Per racimolare
qualche soldo, ambedue sono costretti ad intraprendere una lunga e stressante tournée.
Le platee a teatro, però, sono semivuote. Dopo qualche settimana buia, tutto comincia
a cambiare ancora. Il loro talento resta trasbordante, immune al sopravanzare dell’età.
Di teatro in teatro,
Stanlio e Ollio tornano a far ridere, ed il passaparola diviene inevitabile. Le
persone sparse per l’Europa li accolgono festanti, le sale si riempiono. La gestualità, la pantomima, le cadute rovinose
a terra, i canti, i balli costituiscono ancora il cuore del loro repertorio; un repertorio immortale, mai volgare,
mai banale, insuperabile. Stanlio e Ollio avevano creato una comicità destinata
a non conoscere la resa, e se il cinema li aveva ripudiati, il teatro era il luogo in cui potevano ancora
donarsi agli altri.
L’esibizione per un artista è tutto. Lo era per Stanlio, lo era per Ollio. Il biopic, diretto da Jon S. Baird e con protagonisti gli straordinari Steve Coogan e John C. Reilly, analizza questo senso dell’esibizione. Stanlio e Ollio agognavano esibirsi ancora ed ancora, non potevano cedere, arrendersi al tramonto di un’era. Desideravano ardentemente andare avanti, far ridere la gente, interpretare un nuovo film. Eppure, come accaduto ai loro personaggi, accadde a loro stessi nella vita vera: i più forti, i più ricchi, li avevano ignorati e lasciati soli.
Ridere è una cosa seria,
tutt’altro che un’aberrazione! Stanlio e Ollio lo sapevano, Stan, in modo
particolare. Era sempre serio dietro la
sua macchina da scrivere, quando concepiva e imprimeva su carta gli sketch.
Ridere e far ridere è una cosa
maledettamente seria e difficile. E a Stanlio e ad Ollio non fu mai
impedito di regalare la loro ironia, davvero. Nulla poté impedirglielo né l’età
né gli studi cinematografici. Il film lo sussurra continuamente, volgendo
l’attenzione al teatro, il luogo in cui tanti fortunati riuscirono ad ammirare
le performance di Laurel e Hardy. In
quelle sale, era possibile ammirare i due comici senza il velo della telecamera,
senza il filtro di un occhio meccanico, in modo unico. Ed è proprio un punto
di vista nuovo, originale, esclusivo quello che la pellicola ci propone. Essa indugia lì dove nessuno si era
soffermato, portando in scena anche il loro complesso rapporto d’amicizia.
Stanlio e Ollio, molto
legati e affezionati l’uno all’altro, avevano caratteri e interessi differenti.
Fuori dal set, entrambi si frequentavano di rado. Stan era dedito al lavoro,
alla cura maniacale del dettaglio. Oliver, al contrario, era amante del
divertimento, dello spasso. Le malelingue ipotizzarono addirittura che i due
riuscivano ad essere veri amici solamente dinanzi
ad una cinepresa.
La vita di Stanlio e
Ollio, come ogni vita che merita d’essere vissuta, è stata un continuo oscillare dal dramma alla commedia, dal vero al
fantastico. L’ultimo periodo, in particolare, vide incrinarsi il loro rapporto.
Il biopic analizza anche quest’ultima questione. Ciò che Ollio fece sedici anni
prima, quando era al verde, vale a dire girare un film in coppia con un altro attore
mentre Stanlio cercava di strappare un contatto ben più cospicuo con un'altra
casa di produzione, gravava come una
lesione, una lacerazione che avrebbe potuto strappare e separare
definitivamente il duo.
Per settimane, Stanlio e Ollio si esibirono a ritmi frenetici, inseguendo la chimerica illusione di poter ricominciare, di non arrendersi al progredire del fato. Essi volevano guardare al futuro, ma il dolore del passato non si era ancora attenuato, la ferita non si era ricucita. Una sera, si riaprì del tutto. Stanlio e Ollio litigarono pesantemente, rievocando quel triste momento. Nella scena più cruda dell’opera, i due si offendono pesantemente, arrivando ad affermare ciò che alcuni giornali erano soliti dire di loro: che non erano degli autentici amici. In quel triste momento, quando Stanlio e Ollio discutono animosamente, a pochi passi, qualcuno scoppia anche a ridere. Costoro avevano scambiato il tutto per una gag, uno dei tanti siparietti. Il destino di molti comici: essere sempre ritenuti giullari di corte, non avere la possibilità di poter soffrire, non essere considerati come uomini comuni, che sanno quando ridere e quando, invece, poter piangere perché ben conoscono il dolore. Ma Laurel e Hardy non rimarranno lontani a lungo, torneranno insieme, per gli ultimi spettacoli. Le cattiverie che erano state sibilate dalle loro bocche avvelenate, dai loro animi frustrati e inappagati, non corrispondevano alla verità. Né l'uno né l'altro potevano credere in quelle affermazioni espresse oralmente e, pertanto, portate via dal vento con rapidità. Stan e Oliver erano davvero degli amici inseparabili e lo sarebbero stati sino all'epilogo, dalla finzione alla tangibilità.
Tra un cambio di scena e
l’altro, Ollio si asciuga il sudore dalla fronte con un fazzoletto, respira
affannosamente, cerca disperatamente di recuperare le energie. Stanlio lo
sostiene, aiutandolo a rimettersi in piedi. Gli affanni, le stanchezze, le tristi avvisaglie della vecchiaia che
deturpano i loro visi spariscono non appena tornano dinanzi al pubblico. La
realtà, quella del dietro le quinte, che abbiamo assaporato noi spettatori di
questo meraviglioso film biografico si disperde, e torna la finzione, la commedia, quella del palcoscenico,
che vede Stan e Ollie festanti, giocherelloni, come se nulla li turbasse mai
realmente. E’ questa la magia di un comico manifestata in un sol battito:
accantonare la sofferenza per mascherarla
con il riso che diffonde altro riso.
Al cospetto di una platea
stracolma, Stanlio e Ollio balleranno un’ultima volta. “Ci siamo divertiti, non è vero, Stan?” – Borbotta Ollio.
“Certo che sì!” – Replica Stanlio.
L’essenza della commedia viene
qui espressa in un semplice scambio di battute: divertirsi e far divertire, sconfiggere, anche per degli ineffabili
secondi, lo scoramento dell’animo.
Il film si chiuderà come
era cominciato: con un passo di danza.
Ollio, grande e grosso, apparirà, sotto i riflettori, leggiadro come una piuma mossa dal vento. Stanlio, così minuto, sembrerà, invece, più grande ad ogni giravolta, come se
lui stesso fosse carico di una gioia incontenibile, pronta per essere esternata.
In quell’attimo, le luci si spegneranno, lo spettacolo giungerà veramente a
conclusione.
Finì quella sera, tra le
risate, le gioie, i caldi applausi, i rintocchi strepitanti, i sorrisi. Quel riso che i due comici avevano donato
al mondo perdurava sui volti di tutti. Attraverso la commedia in bianco e
nero, Stanlio e Ollio avevano scoperto la
verità, il miglior modo in cui poter vivere. Essi avevano compreso,
carpito, fatto proprio il potere insito nella vera Commedia. Un potere che avvicina ed unisce.
Non vi è cosa più dolce
che vedere il volto di chi amiamo mutare, le
guance contrarsi, le labbra aprirsi
nel generare un sorriso schietto, sincero. Poter ridere è un dono, far
ridere un’arte. Non vi è nulla di diabolico in tutto questo. Il riso è proprio un regalo di Dio. Esso
avvicina e non divide. Ed infatti, Stanlio e Ollio, sul finale, riusciranno a
far avvicinare anche le loro mogli, spesso aspre, discordi e litigiose. Le
donne, felici, si terranno per mano, contemplando l’eterea magia di uno
spettacolo comico.
Far ridere è il potere
più bello, il potere più desiderato, il
potere più temuto. Col riso si dà felicità, si può persino fare innamorare.