(Rilettura personale della fiaba di Hans Christian Andersen)
Era l’ultimo giorno dell’anno e faceva tanto freddo. Il vento soffiava forte forte dalle montagne, giungendo fino alla città. Quella sferza glaciale, sin dalle prime luci dell’alba, avviluppava i corpi dei viandanti con le sue mani invisibili, stringendoli in un gelido abbraccio.
La gente trotterellava di
gran fretta lungo strade serrate da mucchi
di neve. Gli uomini che si attardavano per quelle vie, sebbene fossero grandi
e grossi, solevano rannicchiarsi di
continuo tra le pieghe dei loro cappotti, celando il proprio volto dietro gonfie
sciarpe di lana. Le donne, dal canto loro, si coprivano le mani con guanti di
pelle scura, velando, al contempo, il viso sotto spessi cappucci. Qualche ciocca arricciata dei capelli di queste donne fuoriusciva,
comunque, dal copricapo e veniva lambita dai fiocchi bianchi che scendevano dal cielo.
Venne la sera, e la folla che rallegrava la grande piazza si dissolse. Le persone rientrarono nelle proprie dimore, dove avrebbero atteso la venuta del nuovo anno. Da un misero vicolo, spuntò una bimbetta. Costei procedeva fiacca, col capo chino. Levava gli occhi di tanto in tanto da terra e guardava gli adulti, imponenti, fuggire via verso il tepore del focolare domestico. La bambina provava ancora a farsi ascoltare da chi le veniva incontro, pronunciando fioche parole con la sua voce debole. Nessuno accostò l’orecchio. Nessuno si curò di lei. Tutti passarono oltre.
La bimba era molto
triste. Sapeva che non poteva assolutamente fare ritorno a casa. Vagò sola per
tutta la sera, disperata e a piedi nudi.
In una manina stringeva una scatola di
fiammiferi. Avrebbe dovuto venderli tutti entro la fine della giornata, ma
non era riuscita a venderne neppure uno. Non aveva incassato un singolo
scellino, e non osava fare marcia indietro. Ella sapeva che il patrigno l’avrebbe
punita. Le mani nodose e forti del genitore l’avrebbero colpita in viso, le
avrebbero fatto male. Per lei, il freddo
della notte avrebbe avuto un tocco più lieve.
La piccola fiammiferaia
si allontanò dal piazzale, dileguandosi nell’ombra. Trovò un angolino in cui
riposare, formato da due case molto vicine tra esse. Si rannicchiò in quella
porzione di spazio, tirò verso di sé le gambette e si sfregò le mani. Alitava su di esse nel vano tentativo di
riscaldarle. Ad ogni respiro affannoso, vedeva dinanzi a sé il soffio della vitache le stava scivolando via nel freddo.
Il vento continuava a brontolare, oltrepassando le mura ghiacciate che racchiudevano il corpicino della giovane venditrice di fiammiferi. La piccola non aveva di che coprirsi. La sua veste azzurra e minuta era per gran parte scucita, rattoppata alla meglio, e non aveva alcun cappuccio per proteggere il capo. I fiocchi di neve le cadevano addosso, fermandosi tra i boccoli della sua chioma dorata. Era tanto bella, nonostante fosse pallida. Le guance purpuree le erano diventate ceree, le labbra apparivano di un rosso slavato e i piedi avevano assunto un colore violaceo. La bimba raccolse un fiammifero, lo sfregò contro la parete grezza ed esso si accese. Una tenue fiammella si alzò alta davanti ai suoi occhi, illuminando l’esiguo giaciglio su cui la piccola se ne stava adagiata. Che dolce luce che era quella prodotta dal fiammifero!
Per la piccina, quel
riverbero era un raggio di sole giallo, ancor
più luminoso delle candele di Natale accese
e lasciate sui davanzali delle finestre o sulle balconate delle case. Da
quella luce, la piccola vide scaturire un’immagine nitida, come se fosse giunta
in un sogno.
La bambina vide una stufetta giacere proprio lì, ferma e pullulante di calore, con il focherello che si muoveva ondulante al centro. Protrasse la mano che non teneva il fiammifero e provò a godere un po’ di quel calore. Le parve di avvertirlo sulla pelle smorta. Quel caldo tenue le ricordò una sensazione passata, la stessa che la piccola avvertiva quando la nonna la svegliava, dandole un bacio sulla fronte al mattino.
Il fiammifero si spense.
La fanciullina, allora, ne prese un altro. Lo sfregò nuovamente, ma questo non
si accese. Era da molto che vendeva fiammiferi e sapeva che, quando la
capocchia di un fiammifero non si accende al primo sfregamento, non si accende
più. Un fiammifero è come un pezzetto di
vita umana: nasce una sola volta, arde luminoso e si consuma di gran fretta,
dopo di che muore, si estingue come una modesta vampa su cui è stata versata
dell’acqua.
La piccola fiammiferaia ne raccolse un altro, e poi un altro ancora. Finalmente uno si accese al primo tentativo, e materializzò un nuovo ritratto: una tavola imbandita e un albero di Natale che s’innalzava lì vicino. Era ciò che sognava la fanciullina: del buon cibo e un albero rigoglioso, riccodi colori. La giovane guardò con più attenzione, e scorse un camino dentro cui bruciavano ceppi di abete. Era il camino della nonna, non poteva non ricordarlo. Lo riconobbe dalle pietre grigie che ne ornavano la base. Le toccava sempre quelle pietre quand’era ancora più piccola e se ne stava a giocare sul pavimento caldo. La nonna la prendeva in braccio e la metteva a sedere quando era pronto in tavola. Ma quella visione non era che un idillio, l’eco di una memoria ormai svanita.
Allora, la bimba volse lo sguardo all’insù. La neve precipitava copiosa su di lei, impedendole di vedere distintamente. Ma ella riuscì lo stesso a scrutare un bagliore improvviso scuotere il buio del cielo. Una stella cadente lo aveva appena attraversato. “Un’anima è pronta a salire in paradiso” – sussurrò la piccola fiammiferaia, con la poca voce che le era rimasta. La nonna le raccontava sempre questa storiella. “Quando vedi una stella cadente, nipotina mia, vuol dire che un’anima è pronta a volare in cielo.”
Le erano rimasti
pochissimi fiammiferi. Ne accese un
altro. Adesso, vide il volto della sua amata nonna. Ella la salutava, sorridendole con amore. La nonna teneva gli occhi
chiusi, sbarrati da un nugolo di rughe. Stupefatta, la piccola fiammiferaia si
mosse, e accarezzò i capelli d’argento della nonna; poi le poggiò le mani sulle
guance. La nonna non batté ciglio, e
sorrise ancora.
“Non
senti il freddo delle mie mani, nonna?” – bisbigliò subito. E la
nonna scomparve nell’oscurità.
"Ofelia e Pan" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters. Anche Ofelia, la protagonista del "racconto" di Guillermo del Toro, è una piccola fiammiferaia. Per saperne di più cliccate qui.
Il fiammifero si era
spento. Di tutta fretta, la bambina raccolse i fiammiferi rimasti. Li sfregò
uno ad uno. La nonna le sembrava più
vicina di volta in volta. In un attimo la prese in braccio, tenendola a sé
come faceva quando era appena nata. La
piccola fiammiferaia si emozionò così tanto che cominciò a piangere, ma le
gocce che le scendevano lungo le gote svanivano al contatto con l’aria gelida.
La nonna la cullava pian piano, e la piccola era finalmente felice. Dondolando tra le braccia della nonna, la bambina si sentì lieve come se le paure e i tormenti si fossero staccati dal suo spirito, cadendo al suolo, disperdendosi. La piccola fiammiferaia era tanto emozionata, eppure il suo cuore non batteva velocemente come si sarebbe aspettata. Quando ci fece caso, si accorse di non sentir più alcun battito. La nonna le baciò la fronte e la piccola fiammiferaia chiuse gli occhi. Entrambe volarono via.
La notte passò rapida. L’indomani, gli uomini e le donne, imbacuccati sotto dense pellicce, accorsero per le strade, lieti di festeggiare il primo giorno del nuovo anno. Alcuni di loro ritrovarono la bambina in quell’angolo tra le due case, addormentata per sempre. I capelli biondi erano coperti di pioggia nivea. Sul visino brillava un sorriso sereno. Era morta di ipotermia, e tra le dita stringeva ancora l’ultimo fiammifero liso nella notte.
Tutti la piansero dopo
averla ignorata. Un nuovo anno era
sorto, una vita se n’era andata con quello appena trascorso.
In cielo, la piccola passeggiava mano nella mano con la nonna. Su quei pascoli di nuvole, la bambina scorse molte altre anime. Due, in particolare, danzavano alle porte del paradiso. Smisero solo per un attimo, quando volsero lo sguardo verso la piccola fiammiferaia, appena approdata. Erano due anime molto speciali queste due. La prima apparteneva ad un valoroso soldatino fatto di stagno, la seconda ad una ballerina di carta, dalle fattezze di porcellana, la sposa del militarino. Entrambi, come la piccola fiammiferaia, avevano trovato la pace dopo la morte, lassù, in quel mondo luminoso e puro.
La bambina intravide,
poi, una fanciulla dai capelli d’oro
e la pelle bianchissima correrle
incontro. Si trattava di una donna molto
bella, tanto felice nel correre libera con
le sue gambe lisce come seta.
Costei, in passato, fu una sirena del mare. Scelse
volontariamente di diventare un’umana per amore, e per il desiderio di ottenere
un’anima immortale. Sin da quando
era una principessa giovane e garbata, la
sirenetta era consapevole che, un giorno, sarebbe morta. Le sirene vivono
molto più a lungo di un comune essere umano, ciononostante quando esse muoiono si dissolvono in spuma del mare.
Di esse non resta che un sibilo dimenticato tra la correnti dell’oceano.
"La sirenetta e Re Tritone" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters. Per saperne di più cliccate qui.
La sirenetta voleva ottenere un’anima immortale, così diventò umana e, prima di morire tragicamente per un amore non corrisposto, fu tramutata in uno spirito dell’aria. La sirenetta visse tra i refoli per 300 anni, aiutando i bambini buoni e versando lacrime per i bambini monelli. Fu la piccola fiammiferaia l’ultima bambina aiutata dalla sirenetta. La donna venuta dai fluttui vide l’angoscia della bimbetta, e scortò la nonna della piccina giù, attraverso l’etere. Salvando l’anima della piccola fiammiferaia, la sirenetta ottenne l’immortalità.
Erano
tutte in paradiso le creature di Hans Christian Andersen.
Il soldatino, la sirenetta, la piccola fiammiferaia, allo scoccare dell’anno,
si erano incontrati nel candore del regno dei cieli, felici, distanti dalle
tenebre del mondo terreno.
Autore: Emilio Giordano
Redazione: CineHunters
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"Rey, Kylo Ren, Leila e Darth Sidious" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters
Attenzione pericolo SPOILER!!!!
Non ho intenzione di
scrivere una vera recensione sul nono episodio della saga di “Star Wars”. Non riuscirei a farlo.
Per quest’ultimo
capitolo, dubito valga veramente la pena di sprecare gocce d’inchiostro, seppur di inchiostro “virtuale” io
stia parlando. Mi ero ripromesso di non spendere più alcuna frase per questa
trilogia sequel, tanto il malumore e lo
scontento avevano avuto la meglio nel mio animo. Con un pizzico di
ingenuità, in tutti questi mesi, ho seguitato a ripetermi che i sequel non mi appartengono e che ciò
che mostrano non può scalfire il ricordo della storia che ho amato perdutamente.
Cronologicamente
parlando, “Star Wars”, per me, comincia
con un bambino scoperto su Tatooine e termina molti anni dopo con la morte di
quello stesso “bambino”, divenuto un uomo adulto, racchiuso in un elmo scuro.
Durante l’evolversi di
questa storia, il “bambino” di cui faccio menzione si era tramutato in un
terribile servitore del male, genuflesso
ad un dolore che non avrebbe mai avuto fine. Il biondo dei suoi capelli era
scomparso così come il candore del suo volto. Dall’episodio I all’episodio VI, di
Anakin non è rimasto che un viso paonazzo, saturo
di sofferenza. Quella faccia demolita dal patimento veniva osservata con
dolcezza dal figlio Luke, poco prima che Anakin spirasse tra le sue braccia. Che splendido finale era quello!
Anakin Skywalker, il prescelto dei Jedi, era un personaggio torturato dal rimorso, ottenebrato, sconvolto tanto nel corpo quanto nello spirito. Un uomo che, nel periodo più buio della sua vita, quando aveva perso ogni speranza e si era, da tempo, allontanato dal bene, scopre d’essere un padre. Anakin era un eroe caduto, eternamente in conflitto con se stesso, che cercava di risorgere dalle tenebre. Darth Vader era il “malvagio”, ma anche il vero protagonista delle vicende. Un protagonista che otteneva la redenzione salvando il figlio dalla morte, sottraendolo allo strazio del “vero” antagonista, vale a dire l’Imperatore Palpatine. I fulmini scagliati dal tiranno all’indirizzo dell’inerme Luke riaccesero l’umanità mai del tutto sopita nel cuore del cavaliere jedi. Anakin tornò in sé, riemerse verso la luce. Uccidendo il “cattivo”, ovvero il Signore dei Sith, Anakin compì la profezia teorizzata dal creatore di questo racconto immortale, George Lucas. “Star Wars” finiva in tal modo. La storia era stata conclusa, non vi era altro da raccontare.
L’epilogo della saga era
perfetto, talmente soddisfacente da non lasciare alcuno spiraglio. Qualunque
cosa fosse stata imbastita per un “fantomatico” seguito, avrebbe assunto i toni
della “forzatura”. E’ il destino delle grandi storie: hanno un inizio ed una
fine, proseguirle quando esse hanno già mostrato tutto significa rischiare di
rovinarle.
Tutto ciò che è stato prodotto dopo la fine dell’emozionantissimo “La vendetta dei sith”, non incontrando i miei favori, ho preferito abbandonarlo, ignorarlo, cosciente che avrebbe fatto felice qualcun altro.
Ad oggi, però, mi sento in dovere di scrivere qualche altra riga su questo strampalato proseguimento dell’esalogia ideata da Lucas, e per un motivo molto chiaro: il finale di “Star Wars: episodio IX” non può essere tralasciato, obliato, trascurato poiché inficia maledettamente l’arco narrativo dei capitoli precedenti, quello stesso arco narrativo sceneggiato in sei splendidi film, i quali materializzavano, sotto i nostri occhi, il fato di due cavalieri Jedi, Anakin e Luke Skywalker, ad oggi resi completamente inutili da una sciagurata prosecuzione firmata Walt Disney e Lucasfilm.
Riflettere sul “come” si
siano sviluppati questi bizzarri sequel, colmi
di una storia già vista e repleti di incongruenze e trame imbastite senza
un’intenzione precisa, fa sorridere amaramente. Con pacatezza, cercherò di
tirare le somme di questa “mirabolante” e “stupefacente” trilogia targata “Topolino”. Partiamo dall’inizio, “dall’originalissimo”
e “audace” episodio VII. Il nuovo
corso, infatti, comincia da lì.
E’ il 2015. I propositi
sono ambiziosi, il marketing pervasivo. Il seguito de “Il ritorno dello jedi” viene pubblicizzato come l’evento cinematografico più importante
degli ultimi dieci anni. La regia è stata affidata al noto J.J. Abrams. Con
una ruffianeria per nulla celata, il cineasta dimostra di voler appagare e
compiacere il pubblico di devoti, riportandolo a rivivere le identiche atmosfere
della prima trilogia. Abrams plasma, così, un’opera
filmica studiata a tavolino: stucchevole, prevedibile, scontatissima ed
estremamente scimmiottata. L’impatto per molti è spiazzante: episodio VII non è
un seguito, o per meglio dire è un seguito furbo e potenzialmente irrispettoso.
La trama introdotta dal
settimo episodio della saga è un allucinante copia-incolla. Più che un sequel, J.J. Abrams confeziona un
remake/reboot delle opere di George Lucas, non
osando nulla e non compiendo nessuna innovazione stilistica e narrativa. Il
sequel di un film che era terminato con la caduta dell’Impero Galattico e la
vittoria dell’Alleanza Ribelle, non
presenta alcunché di moderno, “inaspettato”, nuovo. L’ambientazione è la medesima, l’approccio è identico, i
conflitti lo sono altrettanto, il canovaccio, inoltre, calca in tutto e per
tutto quello di “Una nuova speranza”.
Ne “Il risveglio della forza” non
vengono mostrate le dinamiche di un universo evoluto, necessariamente cambiato in trenta e passa anni dall’ultima volta
che noi tutti gli avevamo dato un’occhiata.
Nessun contesto politico viene indagato, nessun aspetto sociale vagliato.
Il tutto si presenta come se nulla fosse mai variato.
Il Primo Ordine (la copia
mal fatta dell’Impero) viene rappresentato come l’organismo dominante, la
“cellula” più forte di questa realtà incerta e indefinita. La Resistenza (che
resiste non si sa a cosa visto che dovrebbe essere la milizia della Nuova
Repubblica e, dunque, del sistema politico dominante) vanta un esercito
risicato, abbozzato. Praticamente
Abrams, pur di farci vivere le medesime guerre stellari della tanto adorata trilogia
classica, ripropone, come in copia carbone, i medesimi conflitti battaglieri
dei film precedenti, senza aggiungere nulla di nuovo, senza contestualizzarli.
Ma non solo!
L’intera struttura del
film fa il verso ai passi più importanti della trilogia originale, perseguendo
un maldestro tentativo di rifacimento.
Non si può parlare d’altro che di un’operazione
retrò codarda e astuta. L’episodio VII è, a mio umile parere, l’anticinema!
Abrams fa proprio
l’opposto di ciò che dovrebbe fare un regista, un autore, “accontentando” il
pubblico con un mero rifacimento,
senza mai tentare di sorprenderlo. Cosciente
che la maggior parte dei fan aveva contestato a Lucas le troppe innovazioni
stilistiche della trilogia Prequel, Abrams
si nasconde dietro saldi scudi di fanservice, dando in pasto agli
appassionati lo stesso film di
quarant’anni fa. Così, J.J. inscena una continuazione che non è una vera
continuazione per paura di subire le critiche che George Lucas incassò ai suoi
tempi con episodio I, II e III, sinceri e cristallini esempi autoriali di rinnovo, di
sperimentalismo, di ampliamento, di coraggio.
Per come la storia viene
presentata in episodio VII, la lotta dei
ribelli, di Luke, di Leia e di Han risulta essere stata del tutto vana. La
Repubblica, rimessa in piedi col sangue e il sacrificio di eroi e combattenti
nei tre film della trilogia originale, viene spazzata via in tre secondi netti
dal “raggio di luna” scagliato da “Sailor
Abrams”. Tutto viene riportato al
punto di partenza, come se i film classici non avessero raggiunto alcuna meta.
Non si è voluto parlare di qualcosa di nuovo, di diverso, si è voluto, invece, annullare il “vecchio” e copiarlo.
La pellicola, così facendo, fa regredire la crescita di alcuni personaggi storici. Ne è un esempio l’evoluzione di Han Solo che, da contrabbandiere solitario, testa calda, alla fine della trilogia originale era diventato leader della ribellione ed eroe altruista, temerario e senza macchia. In “Il risveglio della forza”, la progressione di Han viene completamente annullata. Han Solo, a settant’anni suonati, si rimette a fare le stesse cose che faceva quando era giovane e avventato. Si gingilla con questioni di poco conto, truffa alcune fazioni malavitose con Chewbacca, dimostrando di non aver perso per nulla il vizio. Il punto in cui era arrivato al termine di episodio VI è stato spazzato via. Han e Leia che, come ricordavamo, erano diventati una cosa sola, nell’episodio VII appaiono lontani, distanti, separati da un brutto risvolto. Abrams ha, così, mandato in frantumi una delle coppie più simboliche dell’universo di Star Wars. Leia, poi, in tutta la trilogia sequel si limiterà ad essere una comparsa stanca e assuefatta su un altrettanto fiacco sfondo.
Nel medesimo film, Luke
pare essersi “smarrito”, ma per trovarlo viene consegnata alla Resistenza una
mappa (?). Abrams ha poi la sfrontatezza di inserire la terza “Morte Nera”
consecutiva che presenta lo stesso tallone d’Achille della prima.
Nel 2015 fu personalmente
scioccante assistere al cinema a una tale e becera scopiazzatura del lavoro originale e artistico di Lucas. Da
fan di lunga data mi sentii preso per i fondelli.
Nessuno dei personaggi proposti in questo nuovo corso ebbe l’abilità di “acchiapparmi”, di conquistami. Poe Dameron fungeva da “clone” difforme di Han Solo e Finn era del tutto privo di carisma. Rey, pur reggendo il peso della pellicola con un certo spessore, non fece altro che infastidirmi. Bella, intelligente, dolce, coraggiosa, forte, disinvolta, era tutto ciò che si poteva sperare contenuto in un solo corpo. Era troppo, a dire la verità. Rey era brava a duellare con la spada laser senza averne mai impugnata una, era capace di fare trucchi mentali jedi grazie ad una virtù incompresa, era, insomma, l’emblema del nuovo corso Disney: una donna praticamente perfetta sotto ogni aspetto, la degna depositaria dell’eredità disneyana di Mary Poppins.
Kylo Ren, colui che
doveva fungere da antagonista della prima opera, sembrava sin da subito
dilaniato da un conflitto interiore. Diviso tra luce e oscurità, Ben Solo era un
buono che avrebbe voluto essere un cattivo (?). Un personaggio insicuro,
complessato, che sognava d’essere forte come il nonno e seguire le sue orme verso
il lato oscuro. Per tale ragione, Kylo Ren, nel primo lungometraggio di questo bislacco
corso, compie il parricidio, per abbracciare definitivamente le tenebre. Anche
questa mi sembrò una scelta narrativa ingiustificabile.
Evidentemente, Ben credeva
che solo attraverso il male avrebbe potuto eguagliare il suo “mito”,
raggiungere la potenza di Darth Vader. Una domanda, però, sorge spontanea: come è possibile che il fantasma di Anakin
non si sia palesato dinanzi al nipote, indirizzandolo sulla retta via sin da
subito? Kylo Ren voleva finire ciò che Darth Vader aveva iniziato, ma
cos’era questo progetto rimasto incompiuto?
Bene, a trilogia conclusa,
non si riesce a capire quale fosse questo arduo compito. Ben Solo si avvicina
al male perché vorrebbe essere come suo nonno, eppure non sa che quello stesso
nonno che venera assiduamente ha, per l’appunto, dato la sua vita per annientare il simbolo di quel male che lui,
adesso, insegue furiosamente. Com’è possibile che nessuno gli abbia riferito
della redenzione di Darth Vader?
Ma, ancor di più, come è
concepibile che Anakin non sia mai intervenuto per vegliare sul destino di suo
nipote? Non gli abbia mai parlato come un’eco? Incongruenze come queste rendono
la trilogia disneyana piena di no-sense.
Nell’episodio 7, viene introdotto
il misterioso Snoke, figura enigmatica che verrà eliminata senza uno straccio
di presentazione nell’episodio successivo. Proprio così, ex abrupto,
all’improvviso, esattamente come avrebbero immaginato gli sceneggiatori
presenti nella serie tv “Boris”.
E, una volta nominatolo, giungiamo,
dunque, al “rivoluzionario” e “dissacrante” episodio VIII.
Rian
Johnson viene presentato al pubblico come il regista illuminato, il “Robespierre”
di “Star Wars”.
Johnson è pronto a ghigliottinare teste, a tagliare i ponti con il passato, a
mozzare con una lama affilata le corde che legano i nostalgici al trascorso. Johnson
pare essere categorico: bisogna
accantonare il fanservice di J.J. Abrams. E’ ora di cambiare rotta. Purtroppo
per lui, la rotta di navigazione di questi seguiti era ormai bella che
indirizzata. L’episodio VII era il nucleo fondamentale di questa trilogia.
Partendo in quel modo, con uno scenario
che in toto sapeva di già visto, non c’era più niente da fare. E’, di
fatto, impossibile apportare “migliorie” e schiette novità in un contesto platealmente ripetitivo come quello
architettato da J.J. Abrams. L’errore di questa trilogia è a monte, e comincia
proprio con il numero “7”.
Il
risultato del lavoro “innovativo” di Johnson è una dissacrazione del concetto
stesso di Forza. Johnson tratta e inscena la Forza
Unificante come se fosse un potere da fumetto, prestato ad ogni necessità di
sceneggiatura. Nella pellicola, allora, assistiamo, inermi, a momenti
stralunati e balordi.
Rey e Kylo Ren cominciano
a dialogare a distanza, come in una fantomatica “videochiamata” a carattere
fantascientifico. I due parlano, si
osservano, si toccano. Qualcosa di mai visto prima. Invero, in episodio V,
Leila riesce a sentire Luke, ma come un’impercettibile sensazione. Nel caso di
episodio VIII, la Forza abbatte ogni barriera, ogni dogma, ogni limite imposto tanto
accuratamente in più di trent’anni di curata elaborazione dal creatore George
Lucas, rendendo plausibili teletrasporti, sdoppiamenti, ologrammi a distanza. Il tutto senza uno straccio di spiegazione.
Accade questo perché è così e basta!
Nel suddetto
lungometraggio, Luke Skywalker viene trattato come un reietto, un vagabondo, un
maestro che non ha compiuto nulla di
tangibile nella sua esistenza. Luke non ha ricreato un nuovo ordine jedi, è
fuggito dai pericoli, dagli obblighi. Colui che riusciva a intravedere il buono
custodito nel corpo contorto e meccanico
di suo padre è, oramai, un disilluso, un essere che ha dubitato di suo
nipote per un semplice sentore, valutando, addirittura, l’idea di assassinarlo nel
sonno. Qualcosa di aberrante e
inspiegabile. Com’è possibile che un personaggio come Luke sia diventato
quello che ci è stato mostrato? Un anacoreta sventurato, stanco, l’opposto di ciò che era sempre stato.
Johnson, poi, per tutto
il film non fa che calcare la mano con l’ironia. Non vi è una singola scena che
non sia stemperata da una battuta stupida, da
un’ironia grossolana che affligge ogni dannato personaggio. Tutti cadono
preda della febbre della comicità, persino Luke che in tre film interi non
aveva mai palesato alcuna inclinazione comica. Lo “Star Wars” della Disney si adegua, così, allo stile Marvel in cui
non si può prendere seriamente una singola scena che subito deve essere
annacquata con una battuta.
Rian Johnson, reputato dagli estimatori di episodio VIII come “un grande innovatore”, si limita, per il resto, a riproporre la trama de “L’impero colpisce ancora”. Alcune sequenze sono, addirittura, identiche a quelle de “Il ritorno dello Jedi”, specialmente quella in cui Rey, accompagnata da Ben Solo, raggiunge Snoke. La stessa scena è possibile scorgerla, naturalmente, quando Darth Vader conduce Luke al cospetto dell’Imperatore. In questo caso, ancora una volta, non si tratta di semplici citazioni ma di vere e proprie riproposizioni, inscenate per mancanza di idee di fondo.
Un’intera parte del film,
quella relativa a Poe e Finn, è completamente inutile ai fini della trama. Ogni evento che accade non porta, di fatto,
a niente. Se l’episodio VII, col suo delirante citazionismo, aveva diviso
il fandom tra chi si aspettava un vero seguito e chi, invece, si era
accontentato del sicurissimo remake
senza infamia e senza lode, episodio VIII genera una spaccatura ulteriore,
senza precedenti.
Arriviamo, infine, ad episodio
IX, la “degna” chiusura di questa improbabile
trilogia.
Dopo le pesanti critiche
ricevute da “Gli ultimi Jedi”, la
Disney richiama Mr. Fanservice: J.J. Abrams.
Al cineasta più citazionista e scopiazzatore del globo terrestre non frega nulla di raccontare una storia, anche perché non è in grado di farlo se non attraverso l’ispirazione del cinema spielberghiano e lucasiano. Così, Abrams fa quello che, secondo lui, il pubblico vuole: annulla completamente l’episodio VIII. Sin dal primo frame, il compito di Abrams è quello di prendere le distanze dall’opera antecedente, correndo all’impazzata per tappare buchi, rattoppare tagli, ricucire strappi insanabili. Il tutto con un piglio imbarazzante, con la disperazione di chi non sa cosa diamine sta combinando. Abrams fa peggio di Johnson, e trasforma la Forza in un potere che sembra essere uscito da alcuni episodi di “Dragon Ball”.
Nel vano tentativo di rendere appetibile l’operazione, Abrams ha la brillante idea di resuscitare l’Imperatore Palpatine, rischiando di distruggere il meraviglioso arco narrativo che ha visto Anakin ascendere al suo ruolo di Prescelto e portare equilibrio nella Forza. Perpetrando ciò, Abrams tenta di cancellare, con una gomma immaginaria, l'operato del collega Johnson e rinnega tutta la mitologia di Guerre Stellari, imbrattando il lavoro stesso di George Lucas.
La trilogia disneyana di Star Wars credo sia l’unico esempio cinematografico di una trilogia in cui gli episodi si rinnegano tra loro. L’episodio 7 rinnega l’episodio 9, l’episodio 8 sconfessa il 7 e l’episodio 9 rigetta sia l’ottavo che il settimo. Ma non solo, quest’ultimo capitolo distrugge la narrazione dell’intera storia concepita nei sei film da Lucas.
Per quanto Abrams si
sforzi a premere il piede sull’acceleratore e sommerga lo spettatore con scene
d’azione, con battaglie e con nozioni frettolose, è ormai troppo tardi: i
personaggi di questa trilogia sono piatti,
sbiaditi, insulsi perché mai sviluppati con un’intenzione chiara e
definita. A pochi importa veramente cosa possa accadere loro. Questi personaggi
non sono mai evoluti, non sono mai stati resi interessanti o delineati in modo
nitido. Sono pallide comparse, rese centrali
in una trama inesistente, caratteristi infimi, imparagonabili rispetto a
Luke, a Leila, a Han, ad Anakin a Padmé, a Obi-Wan, a Yoda, a Qui-Gon Jinn.
Della maggior parte dei personaggi della trilogia sequel non resta neppure un
briciolo, nessuna emozione particolare. Ogni passo, ogni risvolto è telefonato, privo
di pathos, blando, sciatto, ripetitivo, inguardabile
ed inqualificabile.
La pellicola di Abrams
tocca le più alte vette dell’imbarazzo quando rivela la reale origine di Rey. Un qualcosa di talmente ridicolo, osceno e
difficilmente commentabile che sarebbe meglio glissare se non fosse una parte
così fondamentale. Rey è… la nipote di Palpatine.
In parole povere, noi,
gli spettatori, dovremmo immaginare che Palpatine abbia avuto una relazione con
una donna e abbia avuto degli eredi, il che, di per sé, è già ostico da
valutare senza scoppiare a ridere
freneticamente. Quando, come, perché sarebbe accaduto questo?
A me, francamente, sembra
di vivere in un grosso incubo. Questi
sceneggiatori hanno veramente gettato sul tavolo la carta della “nipote”.
Ma nemmeno in “Beautiful” è
ammissibile un colpo di scena del genere. Siamo al ridicolo, al raschiamento
del fondo del barile, siamo alla parodia.
Kylo Ren, l’unico
personaggio che poteva sperare su uno sviluppo più accurato, compie, invece,
l’ennesimo andirivieni della sua mal sfruttata presenza in questa trilogia. Da
cattivo a buono, da buono a cattivo, e ancora da cattivo a buono, Ben Solo sceglie
di tornare al Lato Chiaro in maniera sbrigativa, sciocca. Il figlio di Han e
Leia finisce per svanire, non prima di aver baciato, in una delle scene più forzate di sempre, Rey. Una
scelta, quest’ultima, realizzata senza alcuno scopo narrativo ma soltanto per
far applaudire le ragazze presenti in sala, molto devote sui social all’hashtag
“Reylo”. Ma che disagio!
Il nono capitolo della
saga vede, come già accennato, la presenza di Palpatine. La morte di Darth Sidious costituiva il culmine della storia di George
Lucas. Il suo ritorno, giustificato in maniera vergognosa, decreta “la
fine” di ogni pretesa logica riservata a quest’ultima trilogia.
In trent’anni, Palpatine
è rimasto nascosto non si sa dove, probabilmente tra la carta colorata di un
uovo di Pasqua, ha mosso lui i fili del Primo Ordine (era tutto ponderato sin
dall’inizio, come no!) e ha creato anche Snoke. Così, senza motivo. Ogni cosa abbozzata in questa trilogia è stata
liquidata con delle spiegazioni che sembrano estrapolate da una fanfiction scritta a quattro mani durante
qualche oretta di svago.
Palpatine verrà ucciso da
Rey e ciò segnerà un confine netto da cui non si tornerà più indietro: gli Skywalker non hanno fatto nulla di
veramente valevole in questo universo. E’ ciò che hanno deciso, con
quest’ultimo episodio, l’accoppiata Disney/Lucasfilm. Gli Skywalker,
dall’essere la famiglia più importante della galassia, sono stati ridotti ad
essere vacue ed ingenue entità di
passaggio. E’ Rey la vera fautrice degli eventi, è una Palpatine il vero perno della storia finale. Una Palpatine
che sceglie di ribattezzarsi Skywalker. E’ questa la grande ascesa a cui
abbiamo assistito: la dissoluzione dei
veri Skywalker, l’annientamento di un leggendario lignaggio e la celebrazione
di una Palpatine.
Al termine della trilogia
disneyana, tirando le somme, gli storici protagonisti della saga, Anakin e
Luke, non hanno compiuto niente di rilevante. Con questa scelta, la
Disney/Lucasfilm ha annientato la profondità delle due trilogie precedenti.
Il
sacrificio di Anakin è stato vanificato. L’intera storia della profezia,
del Prescelto, è stata soppressa. Vi
soddisfa un finale del genere? Com’è possibile? Che storia abbiamo visto
fino a pochi anni fa, allora? Vi aggrada
aver assistito al logorio e allo sgretolamento dei personaggi cardine della
trilogia originale?
La saga di “Star Wars”, per come si è evoluta negli
anni, è diventata la storia di Anakin Skywalker, dalla sua scoperta sino alla
sua morte. Non si poteva prescindere da una tale verità. Con questa orribile
trilogia, la Disney ha adombrato la figura di Darth Vader, rivelando di non aver minimamente compreso la maestosità del racconto
di Lucas, un racconto fatto di fallimenti, di errori, di redenzione,
incentrato sempre sulla figura di un
eroe, di un caduto, di un marito e di un
padre. Tutto nell’esalogia di Lucas si combinava perfettamente, era una
storia amalgamata che faceva rima come
una sola, lunga e meravigliosa poesia. Era la storia di un padre e di un
figlio, di una famiglia, gli Skywalker, ad oggi completamente rovinata. Il
finale di episodio VI è stato neutralizzato.
Era ciò che temevo e
profetizzavo, preoccupato, nel novembre del 2015, quando l’ultima fatica della Lucasfilm
era imminente e doveva ancora sbarcare al cinema. Com’è possibile farsi andare
bene una roba del genere? Con questa trovata, l’intera storia della saga di
Star Wars non ha più alcun senso. Difatti,
non sono più gli Skywalker a riportare equilibrio nella Forza ma è… una Palpatine
a farlo. E’ orribile! E’ indecente!
L’intera trilogia sequel
non è stata diretta e coordinata da un vero narratore. Manca totalmente una
visione univoca e d’insieme. Sembrano tutti film sconnessi, sconclusionati, che
si rifiutano tra loro. Ogni lungometraggio è passato di mano in mano, da
un’idea all’altra, senza seguire un pensiero di base. E’ qualcosa non soltanto
di palese, ma di tremendamente oggettivo.
Sin dal principio, nessuno aveva tracciato una strada da intraprendere, una
direzione da seguire. Si è andati a tentoni, navigando a vista e prendendo come metro di giudizio il parere reazionario
del fandom, direttamente dal web. Abbiamo
assistito a tre episodi fatti con cose buttate a casaccio, con discordanze,con repentini cambi di visione che
annullano ogni tentativo di sospensione dell’incredulità. Ogni pellicola è
stata cancellata e reinventata come se si trattasse di un progetto autonomo. Questa trilogia poggiava su sei film
precedenti, tutti coordinati da un’unica presenza autoriale. L’esalogia di
Lucas è stata barbaramente insozzata, deturpata.
Qual è stato il senso di
questi tre episodi?
Questa è stata la trilogia del riciclo, del ricalco, della scopiazzatura, il simbolo della mancanza di idee, del cattivo modo di fare cinema, dell’improvvisazione, del riadattamento, del pessimo modo di allungare ed espandere una mitologia. Tutto è stato vigliaccamente rabberciato, arrangiato come si poteva, senza un benché minimo senso logico.
In passato, fu aspramente
criticato Lucas, un genio, un visionario, un autore, un vero artista per aver commesso errori umani ma sempre dettati
dalla volontà di ammodernare, di esplorare un mondo vasto ma sempre
armonico, unito da un filo conduttore e portante. Lucas, verso ogni suo film,
verso ognuno dei suoi “figli”, ha sempre
infuso guizzo, magia. Le sue opere erano pregne di meraviglia, di quello
stupore che la Disney e Lucasfilm, nei riguardi di Star Wars, possono soltanto
inseguire e agognare. Oggi, Lucas andrebbe rimpianto, richiamato a gran voce.
Lungi da me mancare di
rispetto verso chi ha apprezzato quest’ultima trilogia. Potete esserne fieri e orgogliosi. Sono veramente felice per voi, anzi vi
invidio. Fatico, però, a capire cosa vi sia piaciuto in tre prodotti confusi, nebulosi, che si contraddicono tra
loro e che annullano i precedenti sei film rendendoli vani. Cosa vi è piaciuto di una trilogia che sconfessa
continuamente ciò che ha proposto essa stessa? Che copia e distrugge?
Non mi resta che
aggrapparmi forte a quei sei lungometraggi, illudendomi che quanto sia accaduto
recentemente si sia verificato in una
realtà parallela. In fondo è proprio così che è andata: il vero finale è
ancora lì, cristallizzato sulla luna boscosa di Endor.