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"Dorothy" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters

Il Professor Tolkien ci mise tutti in guardia. No, non lo fece ad alta voce. Già, perché declamarlo se poteva scriverlo?

Or dunque, su di un foglio di carta immacolata trascrisse un pensiero indelebile come inchiostro. Beh, più che un pensiero si trattava di un “monito”, di un avvertimento che tutti i suoi lettori avrebbero dovuto tenere bene a mente. Così, per bocca di uno dei suoi personaggi di fantasia, il Professore tenne a ricordarci quanto possa essere pericoloso uscire dalla porta della propria casa. E perché mai sarebbe rischioso, vi starete chiedendo?

La risposta vien da sé. Quando si lascia il proprio alloggio ci s’incammina per un sentiero incerto, verso un orizzonte tutto da scoprire. Ci si mette in strada, per dirla alla buona, e se non si poggiano bene i piedi al suolo non si può mai sapere dove si finisce spazzati via dal vento.

"Bilbo Baggins" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

La casa è uno spazio sicuro, ciò che alberga là fuori, invece, nasconde ben più di quanto possiamo supporre. Quella del Professore non voleva essere, di certo, un’intimidazione, più che altro un invito a restare accorti, vigili sulle insidie del mondo esterno. Le parole di Tolkien riecheggiano forti e cariche di valore in questi tempi bui, nei quali trattenersi in casa, più che un piacere, è un serio dovere da rispettare.

Fu Bilbo Baggins a pronunciare quanto scritto da Tolkien e non per puro caso. Bilbo era uno hobbit scaltro e decisamente coraggioso. Gli hobbit, i mezzuomini concepiti dalla fervida immaginazione dello scrittore inglese, amavano starsene belli comodi a poltrire nei loro accoglienti rifugi. Erano dei tipetti abitudinari, piuttosto “pantofolai” sebbene non portassero né scarpe né alcunché che potesse definirsi tale. Tolkien aveva una certa predilezione per gli hobbit. Il suo stile di vita somigliava molto a quello dei piccoli abitanti della Terra di Mezzo. Anche Tolkien, come Bilbo, adorava trastullarsi in casa, dormire fino a tardi, fumare la pipa sprofondato in una poltrona morbida, guardando dinanzi a sé, rimuginando, riflettendo, immaginando.

Tolkien concepì gli hobbit come creature pigre eppur straordinarie, “figli” a lui molto cari, esseri che avevano gli stessi pregi e “difetti” del loro “padre”. Tutta la gente della Contea sapeva bene che venir fuori da quel caldo e confortevole “buco” scavato nel terreno poteva costituire un pericolo. Gli hobbit non erano soliti andare in cerca di guai, non si allontanavano mai troppo dai dintorni della loro amatissima terra verde. Solo qualcuno, ogni tanto, si dava all’intraprendenza, spinto da una sana e crescente curiosità. Tra questi si distinsero i Tuc e i Baggins, che divennero proverbiali per la loro grande abilità nel cacciarsi in strane storie.

Bilbo Baggins, per l’appunto, che si armò di coraggio nell’uscir di casa per accompagnare un drappello di intrepidi nani, era ben conscio dei tranelli e dei rischi che attendono coloro che errano per strade sterrate, verso mete tutt’altro che esplorate. Pertanto volle più volte avvisare il nipote, Frodo. “Stai in allerta, Frodo. E’ pericoloso uscire dalla porta. Controlla bene i tuoi piedi o, spinto dalla brezza, finirai in un luogo lontano”.

Aveva proprio ragione il vecchio hobbit. I venti sanno essere infidi e possono sospingere un’incauta vittima verso una zona molto remota. E’ ciò che, per certi versi, accadde a una bella fanciulla in un racconto molto diverso. Costei si era messa in strada, vogliosa di lasciar la propria casetta. Il vento la ghermì con il suo forte abbraccio e la condusse verso un regno misterioso.

Con l’immaginazione questa giovinetta sognava di viaggiare verso l’orizzonte, oltre l’arcobaleno. Lo agognava con tutta se stessa, lo voleva, eccome se lo voleva!

Prima d’essere afferrata dal soffio dell’aria, Dorothy, questa graziosa damigella dai capelli scarlatti, raccolti in due lunghe e folte code, si sentiva sola, inascoltata. I suoi zii non le davano retta, i suoi amici non le stavano dietro. Solamente Totò, il suo adorato cagnolino, le prestava la dovuta attenzione.

Eppure lei ci provava, ci provava con tutte le sue forze a farsi ascoltare. Ogniqualvolta era lì per lì, decisa a interloquire con Zeke, Hickory e Hunk, i tre contadini che lavoravano presso la sua abitazione, Dorothy si trovava costretta a scontrarsi con la dura realtà. Per quanto buoni e gentili, i suoi amici erano fin troppo ingenui, totalmente incapaci di comprenderla fino in fondo.

Il suo amico Hickory non aveva la sensibilità adatta per far sue le aspettative sommessamente proferite dalla graziosa Dorothy. Ad ogni farfugliamento della fanciulla, Hunk replicava prontamente, rimproverandole, in maniera scherzosa, di avere un batuffolo di paglia al posto del cervello. Zeke, poi, la interrompeva prima che potesse finire di esprimere il suo pensiero, spronandola ad agire, ad avere coraggio nel compiere le sue scelte, sebbene egli stesso non eccellesse per nulla in quella virtù.

La mente di Dorothy viaggiava senza conoscere confini, spaziava con eccessivo vigore da un angolo all’altro, sorvolando luoghi sconfinati e sempre più distanti.

Per certi versi, Dorothy nutriva gli stessi desideri e le stesse frustrazioni della dolce Belle, la protagonista della fiaba disneyana de “La bella e la Bestia”. Entrambe desideravano vivere delle avventure intense, e volevano fuggire da un villaggio di campagna troppo ristretto per contenere le speranze di una donna tanto giovane da somigliare a un bocciolo di rosa prossimo a schiudersi. Sia Belle che Dorothy provavano a instaurare un rapporto sincero con gli abitanti del luogo, ma dovevano cedere dinanzi all’ottusità di chi si poneva loro difronte: nessuno era in grado di decifrare le loro anime.

Se Belle vivrà la più grande delle sue avventure in un castello maledetto che un tempo fu splendente, Dorothy, dal canto suo, vivrà una vicenda del tutto diversa, in un mondo dove il cielo è sempre azzurro, gli alberi sono verdi e le strade costellate di diamanti.

La bizzarra peripezia di Dorothy avrà inizio un bel dì. A seguito dell’ennesimo scontro con la signorina Almira Gulch, una perfida megera che odia il tenero Totò per la sua attitudine a combinare pasticci, la giovane prende finalmente la decisione di andar via. Lungo il sentiero, s’imbatte in un bislacco stregone da quattro soldi, il signor Meraviglia, che la convince a far ritorno alla sua fattoria. Dorothy, ancora adirata, accetta il consiglio del “mago” e inverte la marcia. Durante il cammino di ritorno, Dorothy viene sorpresa da un improvviso temporale, preludio all’arrivo di un rovinoso tornado. La fanciulla fa appena in tempo a rincasare.

Rimasta sola nella sua camera, Dorothy batte la testa e perde i sensi. Il tornado si abbatte con tutta la sua forza distruttrice sulla casetta di legno, risucchiandola all’interno del vortice e trasportandola lontano, alle porte del regno di Oz.

Dorothy era giunta laggiù, oltre l’arcobaleno, nel posto che tanto aveva sognato. Oz era molto diverso dal Kansas, non era un luogo nebbioso, cupo, in cui un grigio perpetuo dominava ogni dove. Tutt’altro, Oz appariva, agli occhi della bella fanciulla appena arrivata, come un mondo sfavillante, dipinto con colpi di pennello pregni di accesi colori. Ma non tutto ciò che sembra bello lo è realmente.

Dorothy intuirà, sin da subito, che Oz nasconde molti pericoli, soprattutto quelli portati dalla malvagia strega dell’Ovest, una fattucchiera dal naso adunco e dalla pelle verde, che vola in sella ad una scopa. Dorothy, spaventata, vuol far ritorno a casa ma non sa cosa fare. Allorché Glinda, una strega buona dal bianco vestito, le indica il cammino da intraprendere: la giovincella dovrà raggiungere la città di Smeraldo, la capitale del regno di Oz, lì dove vive il grande e potente mago, che saprà cosa fare per darle ausilio.

Spronata dai consigli della strega, Dorothy comincia il suo viaggio su di una stradina luccicante d’oro. Lungo il percorso, la fanciulla incontra tre particolarissimi personaggi: uno spaventapasseri, un uomo di latta ed un felino dalla spessa criniera che non ha per nulla un cuor di leone. Tutti e tre diverranno suoi amici e compagni d’avventura.

Più trascorrerà il tempo, più Dorothy sentirà la mancanza della sua casa. “Mi manca il Kansas…” - sussurrerà, dispiaciuta, al suo Totò, il cucciolo che non l’ha mai lasciata. Il distacco dal mondo a cui era sempre appartenuta porta la ragazza a riflettere tra sé e sé. Quel desiderio di voler andar via dalla sua terra è ormai svanito.

Dorothy soffre terribilmente la lontananza dalla sua “abitazione” che giace, semidistrutta, alle appendici del regno. Ella teme di non poter più rivedere la sua casa innalzarsi, bella e solida, nella sua fattoria. Non è, naturalmente, soltanto una semplice “dimora” a mancarle, bensì ciò che quel mucchio di legna reca in sé: gli affetti, le carezze, le voci dei suoi zii, l’odore dei campi, il profumo dei fiori, tutte le cose che, attorno a quell’edificio, ella sentiva giorno per giorno e che ora non sente più. Oz è un mondo radioso, splendente, che seduce ogni sguardo, eppure, con i suoi colori, non è in grado di rubare il cuore di Dorothy, ancora legato alla sua terra natia, ancora devoto a quel mondo reale che, sebbene in bianco e nero, le dona una sensazione di tepore che nessun colore potrà mai sostituire.

Il mago sarà ben disposto ad aiutare la damigella, ma prima vorrà che lei e i suoi simpatici amici annientino la strega dell’Ovest. Con un grande cuore, tanto coraggio e altrettanta astuzia, i quattro riusciranno a sconfiggere la diabolica creatura e torneranno, trionfanti, dal mago. Questi si rivelerà nient’altro che un imbroglione, ciononostante saprà come accontentare Dorothy, desiderosa, più che mai, di far ritorno a casa.

Soltanto quando tutto sarà finito, la protagonista si risveglierà da quel brutto colpo in testa e scorgerà davanti a sé i suoi zii, preoccupati per lei, assieme a Zeke, Hickory e Hunk, i suoi tre amici, e perfino il signor Meraviglia. Ma è stata soltanto un’illusione, un’immagine onirica e nulla di più? Oppure è stata un’avventura vissuta realmente, in un luogo che giace tra il sonno e la veglia e in cui è possibile giungere soltanto se lo si vuole davvero? Esiste davvero quella regione che tutti chiamavano “Oz” e che permane laggiù, al di là del temporale, dove il cielo risplende e l’arcobaleno svetta imponente come un arco su di un portale da oltrepassare? E’ stato tutto vero o solo un sogno?

Dorothy non lo saprà mai. Saprà solo che lei, così come i suoi tre amici, volevano tutti qualcosa che già possedevano. Lo spaventapasseri voleva un cervello ma, senza accorgersene, vantava già una certa sagacia che gli aveva permesso di proteggere la sua Dorothy da tutte le minacce a cui erano andati incontro. L’uomo di latta voleva un cuore, ma lo aveva già sebbene esso non battesse ritmicamente sotto la sua scorza arrugginita. Ci vuole un gran cuore, infatti, per far da scudo ad una dolce giovinetta. Il leone codardo, quel grande e grosso carnivoro che viveva nella foresta e temeva qualunque altro animale, voleva il coraggio. Che ironia. Un felino che ha paura. E che ci sarebbe di strano? Aver coraggio, del resto, non significa non aver mai paura, significa non lasciare che la paura prenda il sopravvento. Il leone non tornò mai indietro, non lasciò mai soli i suoi amici, ebbe il coraggio di restare accanto a loro. Era anche lui un impavido, senza esserne consapevole.

Dorothy, infine, voleva raggiungere un luogo in cui sarebbe stata felice, ma lo aveva già trovato, perché nessun posto era bello come la sua stessa casa. Dorothy lo dedurrà durante il suo tortuoso e impervio viaggio.

In quei frangenti, ella ricorderà proprio che la parte più bella di ogni viaggio è sempre quella in cui si sta per far ritorno a casa.

Nessun posto è bello come casa mia!” - Lo disse Dorothy e sono certo che Bilbo sarebbe stato d’accordo. Ricordiamolo anche noi, in questi giorni preoccupanti in cui la nostra casa non è altro che il nostro Kansas e la nostra Contea.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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"Vincent Price, l'ultimo uomo della Terra" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters

Ricordo ancora il giorno in cui lessi quella pagina di giornale. Come potrei dimenticarlo. Si trattava di un giorno speciale. Kathy, mia figlia, la mia bambina, compiva gli anni, e le avevo preparato una festicciola di compleanno nel giardino della nostra casa. Sapeste quant’era graziosa! Se ne stava seduta buona buona, davanti ad una tavola imbandita, con tante candeline accese. Sul capo portava un cappellino a punta, guarnito con nastri colorati. Sorrideva, sorrideva per tutto il tempo.

Virginia, mia moglie, era indaffarata, tutta presa a tagliare la torta vicino ai bambini che la circondavano felici. La miravo da lontano. Era tanto bella. Aveva i capelli raccolti su di un lato. Un’acconciatura particolare che sfoggiava giusto per l’occasione. Sapeva che l’avrei ripresa, che avrei immortalato ogni momento con la stessa cinepresa che ero solito tirar fuori dalla confezione nelle ricorrenze più importanti. Lei lo sapeva. Si era fatta bella anche per questo.

Di tanto in tanto, sollevava lo sguardo e lo rivolgeva verso di me. Avvicinava la mano alla bocca e poi la lasciava cader giù. Mi mandava un bacio, ogni qual volta poteva. Ed io, con il volto velato dietro quella vecchia macchinetta da ripresa, ero lieto di riceverlo. Ricordo poi che me ne stavo in disparte, a sfogliare il giornale. Lessi la nota di un rotocalco, ma non diedi troppa importanza a quanto vi era riportato. Ciò che c’era scritto non aveva alcun valore, né fondamento. Era pura teoretica.

La malattia è portata dal vento” – recitavano quei fogli. Come avrei potuto crederci? Ero un uomo di scienza, allora. Confidavo soltanto in ciò che era stato già ampiamente dimostrato. Un germe che viaggiava nell’aria, che si spostava rapido sfruttando il soffio della brezza, non era una verità ma soltanto un’ipotesi, un’approssimazione semplicistica, priva di alcun riscontro scientifico. Ne ero fermamente convinto. Ben presto, però, tutto cambiò.

Venne il freddo, inatteso e subdolo. Il vento soffiava forte dall’Europa, come non aveva mai fatto prima. Gli alberi danzavano senza fermarsi, sollecitati dai soffi sempre più intensi e gelidi. I tronchi si flettevano, tormentati dall’alito malsano di una natura inquieta e malata. Le foglie cadevano, venivano sollevate dai forti refoli e si levavano sino al cielo, ripiombando poi giù, persistenti come una pioggia battente, ancor più veementi di una grandine incessante. Il virus era giunto in città.

Tanti si ammalarono senza neppure accorgersene. Non vi era scampo possibile. Il batterio aleggiava nell’aria, poteva essere dappertutto, così da contagiare chiunque. Era un qualcosa di invisibile, una minaccia non palpabile e, per questo, ancor più temibile.

Quando scoppiò l’epidemia, le persone reagirono nei modi più disparati. Taluni cedettero alle più estreme escandescenze, altri si abbandonarono al panico trincerandosi in casa. Molti, però, minimizzarono la questione, come se il male non fosse mai esistito. Ai loro occhi, il virus non era un nemico tangibile, pertanto si illusero che esso non rappresentasse una minaccia alla salute. Morirono uno dopo l’altro.

Rinchiuso nel mio studio, in quelle settimane, filosofeggiai. Pensai, sin da subito, che l’impercettibilità era la forza intrinseca di ogni virus o batterio. La sua “infima” dimensione, e di conseguenza la sua invisibilità, rende il virus un pericolo imprevedibile che getta nello sconforto chiunque. L’essere umano ha paura di ciò che non può vedere sin dall’alba dei tempi, da quando si rifugiava nelle caverne per sfuggire alle predazioni dei grandi carnivori che si celavano nelle foreste. Padroneggiando il fuoco, l’uomo poté sostenere gli attacchi degli animali lesti, dei predatori abili a mimetizzarsi nell’ombra. L’uomo, brandendo la fiamma, rese nitida l’immagine del proprio avversario, ed iniziò a vedere. Da ciò che vedi riesci a difenderti ma da ciò che non puoi scorgere non puoi reagire prontamente.

Il virus è un predatore misterioso, occulto, da cui non possiamo scappare perché non ci accorgiamo neppure della sua presenza. Esso è un parassita, un essere che vìola la nostra scorza. E’ questo che lo rende così spaventoso. La malattia rivela se stessa solamente quando è già entrata in noi, quando ha oltrepassato le nostre resistenze, insinuandosi al di là delle nostre difese. Così fece questo batterio. Arrivò attraverso l’aria, penetrò dalle vie respiratorie, infettò tutto il mondo.

Si ammalò anche la mia Kathy. Dapprima, avvertì una stanchezza strana e smise di giocare all’aperto. In seguito, si rintanò nella sua stanza poiché la luce del sole le arrecava dolore. Accadde così che un giorno perse definitivamente le forze e svenne. La raccolsi tra le braccia e si abbandonò alla mia presa, come se stesse dormendo profondamente. La posi a letto e la coprii con un velo bianco, trasparente. Seguitò a giacere tra la veglia e il sonno. Perse la vista e delirò. Virginia era disperata. Continuai a recarmi giorno e notte in laboratorio. Impiegai tutto me stesso per trovare una cura, per sintetizzare un siero che potesse fungere da vaccino. Non ci riuscii.

Centinaia di persone morirono dopo aver accusato i medesimi sintomi provati dalla mia piccina. Alle propaggini della città, fu scavata una gigantesca fossa comune dentro cui un fuoco ardeva perennemente. Non permettevano ai cittadini di seppellire i propri cari. Tutti noi dovevamo consegnare i nostri morti a delle unità di trasporto che, come cortei funebri, procedevano di quartiere in quartiere. Essi conducevano i morti alla rovina, per ridurli in cenere.

Non potei dire addio a Kathy. La presero e la portarono lontano. Non ebbi un luogo in cui poterla piangere. Riflettei su quanto le tombe potessero essere significative e indugiai sulle memorie che vissi da fanciullo, tra i banchi di scuola, quando lessi il carme di un grande poeta italiano, un tal Foscolo, il quale dedicò un toccante tributo all’importanza di un sepolcro. Una tomba, a suo dire, offre riparo ad un corpo la cui anima è volata via, ma dà, in particolar modo, un conforto al vivo, a colui che piange la perdita. Ci pensai continuamente. Io che ero rimasto in vita non avevo un tumulo in cui visitare la mia Kathy. Non potevo recarmi a trovarla, non potevo parlare sommessamente dinanzi alla sua lapide fredda. Fu il più grande tormento che patii.

Quando anche Virginia morì, ignorai l’ordine del Governo. Non la portai alla fossa, in quell’inferno orripilante ma le diedi una degna sepoltura. Le voci dei pochi sopravvissuti vagavano come un'eco per le vie. Si diceva che i morti scampati alle fiamme si destassero dalle loro fosse e tornassero a reclamare i sopravvissuti. Una sera sentii una voce flebile e spettrale chiamarmi fuori, in strada.

La mandata della porta compiva più di un singolo giro sotto il mio sguardo attonito, come se qualcuno stesse cercando di entrare. Chiesi chi fosse ma non ottenni risposta. Furioso, aprii e la vidi. Virginia, cerea di morte, irruppe in casa e cercò di afferrarmi. Fu allora che capii. Il virus non uccideva le persone, le mutava. Le rendeva schiave della notte, di una tenebra sovrannaturale. In molti evitarono le fiamme e caddero nel tempo. Poi si alzarono e vagarono per le strade. Rimasi soltanto io. Non seppi mai il perché. Provai a supporlo, ma non ebbi mai alcuna sicurezza. Il germe non mi infettò mai, rimasi immune.

Sono passati tre anni da allora. Ad ogni sorgere del sole un altro giorno ha inizio, lo stesso.

Il mondo intero, oramai, è una landa desolata e taciturna. Dai viottoli di montagna ai marciapiedi delle vie cittadine, carcasse di vampiri putrefatti campeggiano distese. Il sole è mio alleato, perché mi permette di dar loro la caccia. Quando ne trovo uno ancora “vivo”, nascosto in qualche edificio adibito a cripta, lo trafiggo con un paletto senza provare la benché minima pietà. Da uomo di scienza qual ero, sono divenuto un cacciatore del soprannaturale, di ciò che la scienza ha sempre ignorato. Che buffo scherzo del destino!

Loro sanno chi sono. Mi conoscono. Sono consapevoli che io rappresento l’ultimo uomo sulla Terra. Al calar del sole, si riuniscono nei pressi della mia casa. Mi chiamano. Mi intimano d’uscir fuori. Vogliono uccidermi. Raccolgono legna, armi e quant’altro e cercano di forzare la porta, di entrare attraverso le finestre. Ho rinforzato ogni angolo della mia abitazione per difendermi. Se mi spostassi in un’altra casa sarei al sicuro, non saprebbero dove cercarmi. Eppure, non riesco a spostarmi. Non posso lasciare questa casa. No, non la abbandonerò!

Una casa non è una fredda struttura di malta e mattoni. L’ho sempre sostenuto. E’ un rifugio dove le ansie e i timori non riescono a introdursi, a fare breccia. E’ un luogo sicuro, in cui poter vivere al riparo dai rischi del mondo esterno. Tra le mura di questo mio alloggio, perdurano le voci, le risate di mia moglie e di mia figlia. Nelle camere avverto ancora il loro odore, sento ancora la loro presenza. Questa è casa mia, l’unica cosa che mi è rimasta di una vita perduta. Nessuno potrà mai strapparmi via da qui.

Un altro giorno ancora. Un’altra caccia. Sfreccio per le strade a bordo di un carro nero, trascinando corpi diabolici e innaturali per dar loro una fine nel rosso delle vampe. Ad ogni tramonto, rientro. Rinforzo la porta con collane di aglio e grandi specchi lucenti. I vampiri non riescono a tollerare la loro immagine riflessa, li ripugna. Le superfici riflettenti possono tenerli a debita distanza. Sbarro ogni possibile via di accesso. Mi siedo sul divano e aspetto. La solita marmaglia si raduna e si avvinghia alle pareti esterne. Ragliano e ringhiano, pronunciano il mio nome tra un verso animalesco ed un altro.  Cerco di distrarmi, per quanto possibile.

Riprendo la mia cara cinepresa e guardo vecchie pellicole che ritraggono i miei cari. Scoppio a ridere sonoramente, una risata che si protrae in un ghigno esasperato, che si stende sino a scemare in un pianto lacrimoso e funereo. Nulla potrà mai darmi conforto. Il trambusto, il disordine, il frastuono di quei dannati tortura le mie orecchie stanche. Accendo il giradischi, illudendomi che la musica possa sovrastare il rumore dei vetri che si infrangono, dei legni che cedono. E’ tutto vano.

Un nuovo mattino si presenta all’orizzonte, e per la prima volta porta con sé una novità. Nella mia triste ronda mi imbatto in una figura di donna, mite e sana. Il suo corpo si staglia lontano leggiadro ed elegante. Ella cammina serena su di una collina, ed i raggi solari non le danno disturbo. Non credo a ciò che vedo. Riesco ad avvicinarla, sebbene tema il mio incedere. La porto a casa mia e scopro la verità: celata, in un angolo imprecisato della metropoli, una comunità di infettati ha trovato il modo di tenere a bada la malattia mediante l’assunzione di un farmaco che attenua gli effetti del morbo, ma solo temporaneamente. Per questi cittadini mutati solo in parte, io sono un mito da annientare, un “mostro” da eliminare.

Quale ironia, in questo mondo distorto io, il solo ad aver mantenuto la proprio normalità, sono divenuto, per coloro che dominano questa Terra, un essere anormale. E’ forse stato questo lo scopo della malattia? Distruggere la normalità per crearne una nuova, deforme, deturpata, assurda, impossibile per me da comprendere realmente. La donna è gentile nonostante paventi la mia aggressività. La invito a riposare in una stanza e, durante le ore successive, le somministro un antidoto ottenuto col mio sangue immune al male che ha fiaccato l’umanità intera. Ruth, così ha rivelato costei di chiamarsi, riprende lentamente colore, fisionomia, vivezza. L’antidoto funziona. Vi è un futuro per la razza umana, un futuro che io posso far sì che si adempi. Ruth, d’improvviso, mi intima di scappare. Loro stanno arrivando.

Fuggo via e vengo braccato. Raggiungo la prossimità di una chiesa e guadagno il sagrato. Sono circondato. Urlo la verità: io posso salvarvi tutti! Fermi! Fermi! Non odono le mie parole. Vibrano un colpo verso il mio cuore. Una lama mi trafigge. Cado al suolo con le braccia stese, come Cristo colpito dalla lancia che ha segnato il Suo destino.

Ruth mi raggiunge appena prima che cali il buio. Avrei potuto salvarli, ma non me lo hanno permesso. Non mi davano ascolto, non mi credevano. Non potevano fidarsi di un essere umano. Esso è ingannatore, violento, assassino per natura. Per loro, io ero una leggenda e mi hanno ucciso. Avevano paura di me. Erano loro ad avere paura di me.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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