
Era solamente un cane, col suo musetto dolce. Aveva un manto brizzolato, folto, che lo proteggeva dal freddo. Quel mattino in Antartide, quel cane scorrazzava sulla radura innevata, senza confini, e la sua andatura copriva diversi metri.
Pareva vagare senza una meta, ma era alla ricerca di qualcosa.
Un elicottero volava a bassa quota. Le pale roteavano vorticosamente e il velivolo scendeva più giù che poteva. L’intento del pilota era evidente: tallonare quel cane. Un colpo di fucile partì dall’elicottero. Il cane lo schivò. Era agile, veloce, e compiva tutta una serie di balzi senza avvertire alcuna fatica.
La pallottola del fucile trafisse la coltre di neve. Seguì un altro colpo e poi un altro e un altro ancora. L’animale eludeva con destrezza quel folle e disperato assalto alla sua vita.
Dopo una fuga estenuante, il siberian husky raggiunse la base scientifica U.S. Outpost #31. Coloro che erano di stanza in quel luogo lo accolsero stupiti e allarmati dal frastuono che echeggiava in quella landa candida e deserta. L’elicottero atterrò alla meglio, qualcuno ne venne fuori. Questi tentò nuovamente di colpire il cane, di eliminarlo, ma per errore ferì uno degli uomini della stazione. I ricercatori, convinti di avere a che fare con una persona furiosa che aveva perso il senno, reagirono, freddando il malcapitato.
Il cane era sopravvissuto. Ce l’aveva fatta.
Quell’essere aveva scelto un aspetto confacente e benvoluto: quello di un animale da compagnia, il migliore amico dell’uomo. Ne aveva imitato perfettamente le sembianze, il passo, perfino l’atteggiamento. Quando giunse nei pressi della base scientifica il cane – che non era realmente un cane - saltò in braccio ad uno dei membri del centro operativo, cominciando a leccargli le guance. Si era mostrato affettuoso, docile, spaventato. Era furbo… Tanto da emulare il tipico comportamento di un cane qualunque. Esso scodinzolava festoso, a volte tremante, ricercando l’aiuto dei suoi nuovi “padroni”.
Insinuatosi all’interno dell’edificio, il cane ebbe così modo di camminare liberamente per la struttura. Venne poi condotto in un recinto, insieme ad altri cani. Qui rivelò la propria vera natura. Nel silenzio, il corpo del quadrupede cambiò, guastandosi, mutando in una “bestia” orripilante che attaccò gli altri animali…

"Ci troviamo di fronte ad un organismo che imita le altre forme viventi. E le imita perfettamente... Questa Cosa ha attaccato i nostri cani ed ha tentato di digerirli, di assimilarli. E nel frattempo ha tentato di plasmarsi in modo da imitarli... Quella Cosa vuol diventare come noi. Se le sue cellule si diffondono potrebbero imitare qualunque essere sulla faccia della Terra.”
La creatura extraterrestre del lungometraggio di John Carpenter non è altro che paura. Paura nella sua essenza più pura, basica, primordiale. Essa rievoca l’atavico timore dell’ignoto, di quello che è sconosciuto, di ciò che non si può vedere né discernere. La Cosa è il buio, la Cosa è la notte senza il giorno, la Cosa è sfiducia, è il pessimismo cosmico, la totale assenza di speranza, l’incertezza, il dubbio martellante e atroce. La Cosa è morte, estinzione.

- Il primo volto: la paura dello stupro
La Cosa si manifesta per la prima volta quando crede d’essere sola, lontana dallo sguardo dell’équipe. La creatura emerge dal proprio “guscio” ingannevole, tentando di uccidere gli altri cani, di fagocitarli e, al contempo, di fare proprie le loro sembianze. Viene colta in flagrante dagli studiosi, che assistono, inermi e sconcertati, alla metamorfosi di quello che credevano essere un semplice canide: la creatura appare improvvisamente dinanzi a loro come un agglomerato orrido, un ibrido informe e spaventoso, prima di dividersi da esso e fuggire per nascondersi, in attesa di attaccare un essere umano per sostituirlo.
La storia della pellicola si svolge in Antartide, nel gelo più avverso, in un ambiente circoscritto, isolato, avulso dal mondo esterno, dalla civiltà. Tutti i personaggi presenti sulla scena sono uomini, che vivono in un contesto dallo spazio esiguo, separati dalla realtà cittadina, dalla vita comune.
Non vi sono donne tra loro.
L’unica voce femminile udibile in quelle camere appartiene ad un computer, non a caso doppiato dalla procace Adrienne Barbeau. Il timbro vocale della Barbeau evoca l’immagine di una donna bellissima e desiderabile. Ma ella è solo una voce, una figura astratta, recondita, che non può essere osservata e soprattutto toccata. Il protagonista MacReady gioca una partita a scacchi con quell’aggeggio elettronico e perde, non prendendola affatto bene, sintomo di un nervosismo e di una stanchezza che nello spirito del protagonista risiedono ancor prima dell’incontro con la temibile Cosa.
La bellezza di un corpo femminile, la sua rotondità, le sue forme sono un ricordo, un sogno bramato dagli uomini che da molto, forse troppo tempo svolgono il proprio lavoro fra quei ghiacci, abbandonati a loro stessi in una sorta di microcosmo ostile, senza calore né conforto.

In un contesto simile le donne non esistono, non vengono intraviste, scrutate, ascoltate, sfiorate.
La Cosa che terrorizza gli uomini del campo può essere quindi reinterpretata come la paura di perdere virilità, se non di intaccare il proprio orientamento sessuale. Per rivelare sé stessa, per attaccare la propria vittima fino a assoggettarla, inglobarla e rimpiazzarla, la Cosa necessita di riservatezza, per non dire di intimità. Essa, celandosi dietro un volto di uomo, avvicina un compagno, nel momento in cui esso è solo e indifeso, e lo fa suo. La Cosa sembra agire come un predatore sessuale, che aggredisce la sua vittima, la sottomette dominandola, prima di prendersi tutto di lei, financo il suo corpo.
La violenza sessuale - che nel mondo reale viene subita nella maggior parte dei casi dalle donne - riduce il corpo ad un oggetto di piacere, spogliandolo di ogni altro valore, svilendolo, umiliandolo, martoriandolo. L’uomo che commette questo tipo di sopruso carnale prende con la forza quello che desidera, lo vìola, se ne appropria. Ne “La Cosa” questo tipo di aggressione che richiama in parte il modus operandi dello stupro viene patita dal sesso maschile; gli uomini vengono afferrati e risucchiati, le loro difese penetrate, vengono poi assorbiti dall’alieno che abusa di loro, fino a seviziarli, strappando loro la dignità e l’individualità.

- Il secondo volto: la paura dell’infezione
La Cosa agisce altresì come un virus. In un momento della pellicola, un componente della squadra suggerisce che ciascuno di essi dovrebbe prepararsi il cibo da solo onde evitare il contatto con la Cosa. Nessuno sa come agisce quell’essere, se esso sia in grado di contagiare gli uomini attraverso il tocco o il respiro. L’alieno si configura così come una specie di patogeno e la stazione diviene il centro di una epidemia incontrollata.
La paura dell’agente infettivo, del virus invisibile che giace celato alla vista, la paura del batterio che può depositarsi su oggetti, posate, attanaglia tutti i personaggi. Col passare delle ore, ognuno di essi sospetta che l’altro sia stato infettato. Per scoprire chi sia realmente stato contaminato dall’essere occorre fare un controllo del proprio sangue. Questa scelta narrativa sembra fare riferimento al virus dell’HIV, che può essere rivelato mediante un controllo del sangue. L’HIV è inoltre un tipo di virus che può essere preso con un rapporto sessuale non protetto, ecco che il tema della violenza fisica e del danno che essa causa al corpo di chi la patisce pare ripresentarsi.
Quando MacReady esamina il sangue di ciascun compagno, alcuni di essi una volta appurato di non essere stati infettati sospirano, visibilmente sollevati. Perché lo fanno?
Dovrebbero sapere di non essere divenuti delle “Cose” essendo coscienti, vigili, consapevoli del loro essere, dei loro pensieri, dell’autenticità del loro corpo. Perché, dunque, tirano un sospiro di sollievo non appena apprendono concretamente di essere sani, normali?
Gli uomini della spedizione non comprendono ancora come agisce quella creatura, temono forse che essa si possa intrufolare sotto l’epidermide, restare in incubazione prima di manifestarsi pienamente. La paura che la Cosa sia dentro di loro, che possa spuntare di colpo e controllarli, togliere loro il libero arbitrio, è predominante e terrificante.
La Cosa riesce a replicare l’esatto aspetto di un essere vivente, nonché la voce e apparentemente anche il carattere. La Cosa, quando fagocita le proprie prede, ne ottiene anche i ricordi? Gli affetti? I legami? Il talento?
L’uomo è fatto di emozioni, sensazioni, ricordi, esperienze, affetti, amori e soprattutto ha dalla sua la consapevolezza del proprio agire. La Cosa, rubando l’aspetto di un soggetto, toglie ad esso la propria identità, la propria personalità, la propria libertà, tutto. Come una malattia interna, altresì, la Cosa consuma il proprio “ospite”, deformando i tratti e la fisicità, trasformando gli uomini in rappresentazioni grottesche, ripugnanti, deturpando un corpo fatto a immagine e somiglianza di Dio per renderlo un miscuglio innaturale e repellente di facce e arti.

- Il terzo volto: la paura del tradimento
L’alieno de “La Cosa” è un “mutaforma”, una creatura indecifrabile che, come già detto, assume i contorni degli esseri viventi che ha inghiottito. Una volta divorato il suo pasto, l’alieno si maschera camaleonticamente tra gli uomini della base, che cercano di stanarlo. Ne “La Cosa” vi è una progressiva perdita di fiducia nel prossimo che si concretizza attraverso l’impossibilità di lottare contro un nemico chiaro e distinto. In una visione più ampia, l’alieno potrebbe essere considerato una metafora della sfiducia verso i propri simili, gli esseri umani egoisti, arroganti, traditori, per nulla empatici, che voltano le spalle al proprio fratello. Ancor di più la creatura, data la sua natura infida e fraudolenta, potrebbe simboleggiare la disgregazione degli ideali tradizionali, il totale abbandono della fede, del rispetto, della credibilità verso le istituzioni, la società con le sue convenzioni, verso ogni forma di governo ritenuta falsa, corrotta, indifferente o pericolosa. Nel progredire del film i personaggi precipitano in uno Stato di Natura, non disciplinato da alcun apparato governativo, in cui regna il disordine, la furia, l’instabilità e tutti si reputano nemici tra loro pur avendo mantenuto fino a poche ore prima della comparsa dell’entità extraterrestre rapporti cordiali e amichevoli, perlomeno di facciata.
In un celebre episodio di "Ai confini della realtà" intitolato “Mostri in Maple Street”, un clima paranoico si fa strada tra le persone di una ridente zona residenziale. Maple Street è un quartiere tranquillo, molto bello a vedersi: tante villette lo arricchiscono, vi è un viale alberato, vi sono altalene sulla veranda, barbecue in giardino, le risate dei bambini risuonano dappertutto e la campanella di un venditore di gelati trilla la mattina e a metà del pomeriggio, giusto in tempo per guastare l’appetito ai più piccoli prima dell’ora di cena.
Al tramonto di un sabato come tanti, Maple Street si trova improvvisamente senza elettricità. Le macchine non partono più, i telefoni saltano, le falciatrici si fermano, l’oscurità discende dappertutto.
Rimasti soli, gli abitanti di quelle villette si riversano in strada confusi, privi di notizie dal resto della città. Un bambino si lascia andare ad una fantasia bizzarra: e se fosse tutto opera di alcuni extraterrestri? Se questi visitatori avessero volutamente emarginato Maple Street per farne il loro primo punto d’atterraggio? E se fosse il principio di una invasione?
Quella che dovrebbe essere una fantasticheria sciocca si tramuta presto in un sospetto fondato e ansiogeno. Il presentimento che un extraterrestre si nasconda in Maple Street mette gli uni contro gli altri.
Gli alieni, che osservano lo svolgersi della situazione dall'alto, nella loro astronave, adoperano alcuni espedienti per testare la fiducia che gli esseri umani nutrono nei confronti dei loro pari: iniziano così ad accendere e spegnere le luci di certe abitazioni, attivano alcuni elettrodomestici per poi farli tacere.
Tra i residenti di Maple Street cresce l’angoscia, l’ira.
Gli abitanti iniziano ad attaccarsi, dicono apertamente ciò che non avevano mai osato dire, dimostrando di provare antipatia o addirittura odio nei riguardi dei propri vicini. Uno di essi, su tutti, rivela d'essere un guardone indiscreto, prendendosela col protagonista, reo di trascorrere le notti sul portico, ad osservare le stelle come se attendesse che qualcuno o qualcosa venisse giù dall'arazzo celeste.
L'amicizia apparente che legava questa piccola comunità viene disfatta in pochissimo tempo, al primo segno di pericolo, al primo equivoco, e i più danno il via ad una lite sull’asfalto, colpendosi e ferendosi brutalmente. A quel punto, gli alieni prendono il decollo e si allontanano. Essi sanno che per colonizzare la Terra non occorrerà imbastire una vera guerra: basterà inculcare un brutto sentore, una sgradevole congettura, una terribile ipotesi, un pregiudizio e l'essere umano farà il resto, eliminerà colui che più gli somiglia. Perché, in fondo, è l’essere umano il vero mostro.

Ne "La Cosa" i personaggi sono alle prese con un’entità aliena che mina apertamente i loro rapporti. I personaggi del film però danno l'impressione di non essere mai stati amici l'uno dell’altro ma solamente colleghi, a stento conoscenti. Nel momento in cui la Cosa appare, disgregando la già flebile unità del gruppo, i vari protagonisti delle vicende si dividono, schierandosi ben volentieri l'uno contro l'altro. La Cosa sembra ricordare che molte persone, nonostante trascorrano molto tempo a stretto contatto, finiscono per non provare nessun sentimento, nessun attaccamento reciproco.
Ne “La Cosa da un altro mondo”, il primo film che traspose il romanzo fantascientifico di John W. Campbell pur discostandosene liberamente, la presenza dell’alieno, un avversario cristallino, con un fisico imponente e minaccioso, obbliga gli esseri umani, gli uomini e le donne, a riscoprire la propria fratellanza per sconfiggere un nemico comune. Il lungometraggio si faceva portatore di un messaggio ottimistico, trionfante.
Al contrario ne “La Cosa” di Carpenter, adattamento più attinente alla versione cartacea di Campbell, vi è una visione del mondo e dell’esistenza nichilista, spietata. I valori di vicinanza, di unità, nonché i principi etici e morali del genere umano vengono erosi, sfaldati. L'uomo regredisce ad uno stadio animalesco, in cui conta sopravvivere, ed è scettico e guardingo verso chiunque. Eppure, perfino in un quadro così deprimente, in cui ognuno pensa a sé, MacReady pone attenzione al destino della razza umana. Egli sa che se la Cosa riuscisse a scappare e a raggiungere il centro urbano potrebbe propagarsi come una pandemia, fino a generare una estinzione. Pur di fermarla, il protagonista è disposto ad accettare un esito infausto per sé stesso e per tutto il corpo di ricerca. Una flebile luce di altruismo che scintilla, fiocamente, in un mondo di ombre e di nebbia.

Sul finire delle vicende, MacReady, che ha eliminato le ultime manifestazioni della Cosa dando loro fuoco, giace stremato all’esterno della struttura dove viene raggiunto da Childs: i due sono gli unici scampati al massacro. MacReady non si fida di Childs perché aveva perso le sue tracce nella bufera e d’un tratto lo ha visto ritornare. E se anche lui fosse diventato una Cosa?
MacReady non può saperlo e, oramai stanco, si arrende all’evidenza: non vi è modo di scoprirlo. I due siedono l’uno difronte all'altro, esposti al gelido soffio del vento. MacReady attende, sapendo che il domani non ci sarà. Pertanto offre da bere a Childs, rassegnato a permanere nell’ignoranza.
Entrambi non sanno nulla l'uno dell'altro. Un destino che attanaglia gli esseri umani, tutti, da sempre.
Gli uomini e le donne che interagiscono tra loro, giorno dopo giorno, nelle città, in ambienti neutrali, in luoghi comuni, provano ad avvicinarsi, a conoscersi, ad aprirsi, ma più spesso di quel che si vuole ammettere la gente non riesce mai a ravvisare, ad apprendere realmente nulla del prossimo.
Le persone, talvolta, possono essere involti, facce anonime, simulacri che si perdono nella pioggia o che si confondono nella tormenta; la stessa che sta per abbattersi su MacReady al termine della sua lotta.
Autore: Emilio Giordano
Redazione: CineHunters
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