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"Neytiri" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

Un padre protegge la sua famiglia, è quello il suo scopo e non vi è nulla di più importante per lui. Jake Sully se lo ripeteva con costanza. Specialmente in quei giorni, quando la minaccia portata dalla gente del cielo si abbatté nuovamente sulla sua dimora.

Aveva vissuto degli anni sereni, felici, gioiosi. Con la compagna, Neytiri, Jake aveva creato una famiglia meravigliosa: quattro figli, due maschi e due femmine, erano divenuti il centro del suo mondo. Con loro trascorreva le giornate immerso nell’ecosistema di Pandora, dove si sentiva tutt’uno con la natura, con l’ambiente che lo avvolgeva, abbracciandolo come una madre amorevole. Jake volteggiava tra le montagne volanti di Pandora, correva fra i rami robusti, lassù, sugli alberi secolari delle foreste verdeggianti, pescava negli stagni e nei ruscelli con Neteyam, il suo primogenito e probabilmente il figlio con cui Jake riusciva a relazionarsi più facilmente, capendolo al volo e apprezzandolo per la sua pacatezza e il suo senso del dovere.

Fu un periodo di felicità, di pace, di spensieratezza assoluta e indimenticabile.

Poi arrivarono. Fecero ritorno.

Nel cielo balenò un chiarore abbagliante, che coprì il tenue e rasserenante riverbero delle stelle che adornavano l’arazzo di Pandora. Questa luce brillava minacciosa. Essa significava soltanto una cosa: astronavi in avvicinamento, che rallentavano prima di fiondarsi sul pianeta.

Una nuova invasione stava per cominciare. La gente del cielo era tornata per portare morte e annientamento.

Il fuoco avvampò ovunque, i boschi furono dati alle fiamme, le piante arse si disperdevano in polvere, gli animali raggiunti dalle lingue incandescenti divennero carcasse fumanti.

Neytiri urlò, colma di rabbia e di sofferenza. Gli uomini, che tutto distruggono, erano giunti ancora una volta nella sua casa, ne avevano violato la sacralità, profanato la bellezza. Come predoni, gli esseri umani erano decisi a strappare con la forza quello che volevano, a neutralizzare ciò che ostacolava il loro cammino.

Fra quegli invasori vi era un demone tornato dall’aldilà: il colonnello Miles Quaritch. Questi era morto, perlomeno così tutti credevano. Diversi anni addietro, il colonnello si era scontrato con Jake e Neytiri e i due lo avevano sconfitto, avevano annichilito le sue armi avanzate, il frutto della tecnologia messo al servizio della guerra e della morte, uccidendolo solo con arco e frecce.

Ma la coscienza di Quaritch era sopravvissuta, custodita su di un’unità meccanica, un sistema hard drive, ed era stata inserita nella mente di un Avatar. Quaritch era resuscitato, con la stessa coscienza di prima, il medesimo carattere, la stessa sete di sangue; ma aveva ora assunto l’aspetto dei suoi nemici, coloro che maggiormente odiava, i Na’vi.

Il colonnello era pronto a dare la caccia, a fare del male, ad uccidere coloro che adesso gli somigliavano, ma solamente nelle sembianze. Quaritch non era un Na’vi, era una riproduzione, un “clone”, un essere che replicava in tutto e per tutto le caratteristiche fisiche dei Na’vi ma non avrebbe mai potuto comprenderli. Dentro di lui pulsava l’odio, l’ira, la malvagità.

Anche Jake proveniva dalla gente del cielo, anch’egli inizialmente aveva ottenuto la fisionomia di un Na’vi attraverso l’ausilio del proprio Avatar ma non si era solamente soffermato a questo; egli si era indissolubilmente legato agli abitanti di Pandora. Dapprima aveva appreso la loro cultura, i loro usi e costumi, poi, entrando sempre più in contatto con la natura del pianeta, si innamorò di quel mondo. Jake aveva voltato le spalle alla razza umana, quella specie egoista, cruenta, che sovente devasta ciò che la circonda invece di prendersene cura. Jake si era perdutamente invaghito di Pandora, amava i suoi colori vivaci, i suoi luoghi che parevano plasmati da un sogno.

Era ciò che provava nel cuore a rendere Jake un Na’vi, ancor prima dell’aspetto che aveva ottenuto in principio con il suo Avatar e in seguito diventando a tutti gli effetti un membro degli Omaticaya.

Il nemico di Jake, Quaritch, sembrava ora simile allo stesso Jake esteriormente, ma quell’apparenza non era che un inganno, un espediente sfruttato dal colonnello per mimetizzarsi sul pianeta: dentro di lui albergava una oscurità profonda, del tutto priva di luce, che nulla avrebbe mai potuto dileguare.

Jake era un guerriero, come sua moglie Neytiri. Erano entrambi decisi a combattere, a difendere i propri villaggi. Ma quando Jake vide Quaritch minacciare i suoi figli con un coltello, qualcosa nello spirito indomito del protagonista cominciò a cambiare. Subentrò la paura, un timore paralizzante. Dopo che Jake riuscì a salvare la sua prole durante uno scontro a fuoco, questi decise di non lottare più, smise di “ribellarsi”, di attaccare.

Jake voleva fuggire. Voleva solamente proteggere la sua famiglia.

"Jake Sully" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

Tenere al sicuro la propria compagna, i propri figli, era diventata per Jake la sola ragione di vita.

Neytiri non era cambiata, ella voleva seguitare a battersi, mossa da un tenace animo guerriero. Neytiri non voleva allontanarsi, volgere le spalle alla propria casa, nascondersi, assecondare un’esistenza da rifugiata eppure la donna comprese le ragioni di Jake; questi era terrorizzato all’idea che qualcosa di irreparabile potesse capitare ai suoi cari. Pertanto, Jake preferì dimenticare il suo trascorso di guerriero, di accantonare il suo passato di combattente.  

Jake guidò la sua famiglia verso una nuova meta, sulla costa orientale di Pandora, chiedendo ospitalità al clan della barriera corallina denominato Metkayina.

"Tonowari, la guida dei Metkayina" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

I Metkayina vivono a stretto contatto con l’acqua, in villaggi che sorgono nei pressi delle rive del mare. Gli Omaticaya, il clan da cui provengono Jake e Neytiri, conducono le loro esistenze in simbiosi con le piante e gli animali delle grandi foreste, i Metkayina invece vivono in reciproco beneficio con le distese marittime e lacustri, e con gli animali che sotto la superficie nuotano liberi e beati. I Metkayina hanno un aspetto diverso dagli Omaticaya: hanno una coda più grossa e spessa, come una pinna, e mani palmate, che permettono loro di nuotare più agevolmente.

Jake e gli altri devono dunque vincere i limiti dettati dal loro fisico per essere accettati pienamente. Per far parte della popolazione, essi dovranno imparare le abitudini dei Metkayina, il loro modo di vivere e soprattutto come entrare in contatto con l’acqua e gli esseri viventi che fanno parte di essa.

Il mare di Pandora è ovunque. Esso è un’entità sconfinata, una sostanza pura, incontaminata. Si presenta come un’immensa distesa azzurra che bagna le sponde della terra, come un manto limpido e cristallino. Esso è una porta da valicare, un passaggio che può essere filtrato, un mondo da esplorare, popolato da una flora stupefacente e da una fauna incredibile, da ambienti splendidi e misteriosi.

Il mare circonda, accoglie e nutre. Il mare elargisce i suoi doni e prende ciò che vuole. Il mare culla i suoi figli o ne reclama la loro vita. Esso va amato, rispettato, temuto come un universo a sé, una realtà repleta di splendori e insidie.

Per Jake e la sua famiglia intraprendere la “via dell’acqua” significa imboccare un percorso di rinascita, di riscoperta, di mutamento, di riadattamento di sé. Essi devono ampliare le proprie conoscenze, espandere i propri orizzonti, accantonare ciò che conoscevano della terraferma per arricchire la loro mente, il proprio spirito con il sapere che solo il mare può elargire

Nei giorni a seguire la famiglia Sully inizia le sue immersioni, interagisce con l’acqua, si confronta con le bellezze situate al di sotto dello specchio liquido, osserva l’incanto del microcosmo subacqueo.

Il figlio minore di Jake e Neytiri, Lo'ak, con cui Jake ha un rapporto complesso e travagliato, fatto di incomprensioni e incomunicabilità, fa amicizia con Payakan, un giovane Tulkun che ha una pinna laterale tagliata a metà, e porta sul corpo un arpione da cui non è riuscito a separarsi. Lo’ak libera il Tulkun dal proprio flagello ed esso gli è molto grato.

I Tulkun sono dei grandi cetacei dotati di intelligenza e di una vasta sfera emozionale. Sono creature pacifiche, non attaccano mai, neppure si difendono quando vengono cacciate e predate dai “balenieri” che bramano la sostanza nascosta in loro. I Metkayina considerano i Tulkun una sorta di famiglia spirituale con cui rapportarsi, comunicare e nuotare all’unisono in quel reame vergine e puro che è il mare.

Payakan è chiamato “il reietto”. Esso naviga solitario, escluso dal resto dei cetacei, poiché viene ritenuto un “assassino”, responsabile della morte di molti suoi simili. Lo’ak non si ferma alle apparenze, alle dicerie che circolano tra la popolazione indigena. Desidera scoprire cosa è accaduto nel passato di Payakan. Collegandosi mentalmente con l’animale, egli scopre che il Tulkun era stato inseguito dai cacciatori umani di cetacei, i quali avevano ucciso sua madre.

Payakan non riuscì a tollerare quel dolore, a sopportare quel gesto tanto crudele quanto ingiusto, così chiamò a sé altri Tulkun, capitanandoli ad una rivolta contro i balenieri. Questa azione andava contro i comportamenti della specie, la quale ha una natura sommessa e mansueta. Molti Tulkun perirono sotto le lance e gli arpioni dei balenieri. Payakan venne ferito e la sua pinna mutilata. Da allora fu scacciato via, reo di aver dato luogo ad un’azione violenta e vendicativa.

I Tulkun sono creature bonarie, docili, gentili, miti. Esse non riescono a concepire la violenza, la vendetta, né sembrano possedere un istinto di conservazione che dovrebbe spingerli ad offendere e colpire una insistente minaccia per difendere sé stessi e gli altri membri del loro branco. Quando vengono sorpresi dai balenieri, i Tulkun si limitano a continuare a nuotare, ad immergersi se riescono, senza reagire nei tragici frangenti in cui vengono catturati e uccisi.

Come già detto, Jake Sully era un combattente. Non indietreggiava mai dinanzi al pericolo, non si “immergeva” per eludere l’incursione di un rivale. La paura, tuttavia, aveva spezzato le sue resistenze, parte del suo ardore. Jake paventava la possibilità di perdere un componente della propria famiglia, e di conseguenza aveva optato per deporre le armi, per “arrendersi”, decidendo di nascondersi.

Jake vuole evitare a tutti i costi il pericolo, accetta remissivamente di starsene in disparte, celato, se questo può garantire la sopravvivenza dei propri affetti. Per gran parte della storia, Jake agisce come i Tulkun: sceglie di non muovere contro il nemico, di non prendere in esame alcuna forma di violenza. Egli vorrebbe vivere in pace, anche se ciò, purtroppo per lui, non è possibile. Come i Tulkun vengono braccati e colpiti, allo stesso modo anche Jake viene tallonato da un cacciatore che vuole il suo scalpo.

"Jake e Neytiri" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

Il nemico di Jake è implacabile e non smetterà mai di dargli la caccia. Per i Tulkun, avere un atteggiamento “arrendevole” è un tratto comportamentale, tipico della loro specie, abituata, senza la presenza dell’uomo, a non temere alcun pericolo. Per Jake, invece, rinunciare a combattere è una scelta ponderata, influenzata da un profondo senso di protezione che avvolge il suo amore più grande, la sua famiglia. Egli sa che se sua moglie e i suoi figli dovessero combattere potrebbero cadere, perire. Jake preferisce non uscire allo scoperto, restare nell’ombra.

Ma durante il progredire della storia, Jake ricorderà che combattere per proteggere la propria famiglia, per difendere la propria casa, è alle volte necessario e ineluttabile. Payakan, in passato, quando cercò di rinvigorire lo spirito dei suoi simili, aveva tentato di far capire questo, anche se ciò gli era costato l’esilio.

In “Avatar – La via dell’acqua”, James Cameron inscena una tematica già trattata nel suo “Terminator”: scegliere se fuggire da un nemico oppure se affrontarlo a viso aperto, anche a costo di perdere qualcosa di estremamente prezioso.

Difendersi da un avversario crudele, violento e spietato è un atto necessario che ogni essere vivente può compiere. Questo concetto andava contro l’atteggiamento istintivo dei Tulkun che non conoscevano la violenza fino a che essa non gli è stata portata dall’essere umano. I Tulkun vivevano in pace, in serenità, vicini ai loro fratelli e alle loro sorelle della terraferma e dell’acqua, i Metkayina.

Fino a quando i balenieri non hanno generato la morte e il dolore, i Tulkun non avevano mai concepito azioni di rivalsa, desideri di vendetta. E nemmeno dopo lo fecero, essendo contro la loro natura. Solamente Payakan, che aveva sperimentato un dolore tanto grande da accendere in lui la fiamma della ribellione, aveva scelto consapevolmente di muovere contro un antagonista feroce e impietoso.

In “Terminator”, i protagonisti, Sarah e Kyle, fuggono per gran parte del tempo da colui che sta dando loro la caccia come un instancabile predatore: il cyborg T-800. Quest’ultimo non si sarebbe mai fermato fino a che non avesse portato a termine il proprio obiettivo.

Kyle trascinò Sarah con sé, strappandola alla presa del Terminator e difendendola ad ogni costo. Nel momento in cui Kyle trovò la morte, Sarah, che si era sinceramente innamorata di lui, smise di correre, di allontanarsi.

La donna guarderà il Terminator nei suoi occhi rossi, simili a rubini incastonati in un teschio di metallo, e troverà il modo di schiacciare quella macchina assassina sotto gli ingranaggi di una pressa idraulica. Fu la perdita di Kyle a mettere Sarah con le spalle al muro, a infondere in lei la forza e il coraggio necessari per rivolgere lo sguardo al Terminator e combatterlo senza più paura.

In “Avatar – La via dell’acqua” la morte di Neteyam, l’adorato figlio di Jake e Neytiri, scuote il protagonista. Egli avrebbe potuto cedere al dolore, allo sconforto, allo strazio di una morte ingiusta e terribile. La perdita di un figlio è per un padre e una madre il peggiore di tutti i mali, la più devastante delle sofferenze.

In quei frangenti, Jake e Neytiri cercano dentro il loro cuore la forza per tornare a combattere. Una forza che scaturisce in loro ancora una volta da un desiderio di protezione. Ambedue vogliono infatti proteggere la famiglia che è rimasta, trarre in salvo le due figlie che si trovano lontano, tra le mani del “demone” loro nemico.

Stringendo il corpo del figlio morente tra le braccia, Jake capisce di aver fallito. Si rende conto che per quanto un essere vivente si possa impegnare nel fare da scudo alla propria famiglia, la morte può colpire comunque, può strappare quanto di più caro si possiede. Realizzando questa amara verità, Jake torna ad essere un guerriero e sprona Neytiri a seguirlo, a riprendere arco e frecce per salvare le sue figlie.

Proteggere: è questo l’unico scopo del padre, l’unico scopo di Jake.

Payakan aveva mosso contro la nave del colonnello Quaritch. La forza di quell’essere che appartiene ad una stirpe pacifica si abbatté come uno tsunami che tutto travolge e sommerge.

Il mare incarnato da Payakan si era ribellato con tutta la sua potenza, giustiziando gli uomini che arrecano distruzione e dolore.

"Kiri" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

Nel volgere della battaglia finale, la “nave” viene ferita, diverse aperture si formano nella struttura. Jake e il colonnello duellano mentre l’acqua invade le stanze, flagellando lo “scafo”. Nel frattempo, Neytiri è rimasta prigioniera in una camera con la figlia più piccola e l’acqua sale, inghiottendo i loro corpi. Sia Jake che Neytiri non trovano una via di fuga, sono prigionieri di uno spazio stretto e circoscritto, mentre l’acqua avanza senza sosta, implacabilmente.

Il mare, fino ad allora considerato come uno spazio meraviglioso, una finestra aperta su di un regno sottostante, colmo di delizie da amare e ammirare, viene adesso scrutato come un’insidia, come un luogo che può annientare una vita. L’acqua che invade ogni zona, che occupa ogni angolo, che aumenta senza fermarsi, che non conosce pietà, viene mostrata in tutta la sua gloria terrificante. La nave dove avviene lo scontro conclusivo tra Jake e il colonnello e dove i protagonisti rischiano di morire annegati rievoca per certi versi il Titanic, tanto amato dallo stesso Cameron, che affonda, martoriato dai marosi, trascinando con sé vittime ignare e per nulla colpevoli di ciò che sta accadendo.

Jake è stremato, è prossimo ad arrendersi. L’acqua lo ha quasi raggiunto, sta per fagocitare il suo volto non permettendogli più di respirare, ma suo figlio Lo’ak, proprio il figlio con cui Jake ha sempre avuto difficoltà a interagire e verso cui ha sempre mostrato maggiore severità e inflessibilità, lo raggiunge, gli sta vicino, lo calma, gli rammenta ciò che è l’acqua, i segreti e il potere in essa contenuti.

Al contempo, Kiri, la figlia adottiva di Jake e Neytiri, invoca delle piccole creature marine che sfavillano come lucciole del mare e illumina la strada sott’acqua, raggiungendo la madre e la sorellina e traendole in salvo. 

Jake nuota con Lo’ak, fidandosi completamente di lui, ma ugualmente fatica a risalire in superficie. Verrà aiutato da Payakan, che trascinerà entrambi su. In quell’attimo, Jake comprende quanto si fosse sbagliato. Non aveva dato la giusta attenzione al proprio figlio, non lo aveva riconosciuto, non aveva visto quanto fosse maturo. Lo’ak non si era soffermato alle voci del villaggio, aveva dato fiducia a Payakan. Jake aveva preferito fidarsi ciecamente del popolo che lo aveva accolto, non mettendo in discussione nulla del loro credo. Payakan li aveva aiutati a riemergere, li aveva salvati entrambi. Tutto ciò non sarebbe successo senza l’amicizia che Lo’ak aveva intessuto con tale creatura. Jake smette di giudicare il proprio figlio, lo vede finalmente per ciò che è e non per ciò che avrebbe voluto lui fosse. In quel mare, Jake e suo figlio hanno percorso la loro via, riscoprendosi e ritrovandosi.

Il defunto Neteyam verrà affidato all’abbraccio del mare. Il fondale diverrà la sua tomba, la sua dimora eterna. Per rivederlo, per piangerlo, a Jake e Neytiri basterà immergersi fra quelle dune d’acqua: lì dove vivrà per sempre una parte di loro, del loro amore, della loro carne, divenuta tutt’uno con quel mare che tutto accoglie e custodisce gelosamente.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Cosa scriveva Gordie Lachance alla fine di “Stand by Me”?

Quella frase che componeva davanti al computer e che concludeva il suo racconto, quello che aveva dedicato ad un ricordo d’infanzia condiviso con gli amici di un tempo, qual era?

Ma sì, certo, scriveva questo: “Non ho mai più avuto amici come quelli che avevo a dodici anni. Gesù, ma chi li ha?”.

Una frase decisamente ad effetto e, sotto sotto, molto veritiera. Quanti di noi si sono ritrovati in quella “affermazione”?

In fondo, l’amicizia che sboccia quando si è ragazzini è talmente sincera, schietta, disinteressata, travolgente che difficilmente può essere replicata. Quando si è bambini e si ha la fortuna di far parte di un gruppo di amici, ebbene quegli amici divengono una seconda famiglia, il nucleo delle varie giornate, compagni di cui ci si fida ciecamente, con cui ci si diverte senza remore e si resta uniti da un solido legame che sembra destinato a non esaurirsi mai. Eppure, col passare del tempo e il volgere dell’età adulta spesso e volentieri le amicizie intessute da ragazzi si disfano. La vita divide, allontana, e le strade conducono verso sentieri a volte diversi, inaspettati, sorprendenti. Delle amicizie maturate durante l’infanzia resta solo una gradevole e malinconica reminiscenza.

Chissà se crescendo anche i giovani amici di “Ci hai rotto papà” avrebbero concordato con quella frase elaborata e trascritta da Gordie al culmine del suo testo. Secondo me sì! Eccome!

A proposito di reminiscenze: fra le memorie personali che riecheggiano dal passato, quelle che risuonano come un’eco, fa spesso capolino nella mia mente, per l’appunto, “Ci hai rotto papà”. O per meglio dire: “Gli Intoccabili”.

Eh già, perché per quelli della mia generazione “Ci hai rotto papà” è sempre stato anzitutto “Gli Intoccabili”. Molti di noi allora chiamavano quel film in tal modo, con quell’appellativo piuttosto che con il titolo appropriato. Ci veniva spontaneo. D’altronde erano loro il fulcro della nostra attenzione, quella banda, gli amici che trascorrevano i pomeriggi andando in bici per le vie della città, giocando, facendo scherzi anche un po’ pesanti agli adulti, colpevoli di non comprendere più quella particolare fase della vita, di essere divenuti troppo grandi per rammentare la spensieratezza di quando si è ragazzi. Quel film parlava degli Intoccabili e per noi era semplicemente questo!

Ci hai rotto papà” è stato un piccolo classico della nostra infanzia, un lungometraggio sovente registrato sulla videocassetta dall’amico di turno, una videocassetta che veniva quasi venerata e che passava di mano in mano, da un compagno di scuola ad un altro.

Paolo (Adriano Pantaleo) e il suo papà (Antonio Allocca) nella mitica scena delle pagelle

Concedetemi il paragone azzardato ma “Ci hai rotto papà” è stato il nostro “Stand by Me”. Fermi tutti, so di averla sparata grossa!

Ne sono ben conscio, è un confronto che non può essere preso troppo sul serio. Dunque, chiarisco immediatamente: “Stand by Me” aveva una narrazione stratificata, che esplorava il contesto drammatico e miserabile in cui si svolgeva l’avventura estiva di una combriccola di ragazzini ben caratterizzati; una narrazione che sviscerava le ansie, i tormenti, le sofferenze di quei personaggi che si affacciavano lentamente ad una prima maturazione. Il nostrano “Ci hai rotto papà” si accontentava di essere una commedia scanzonata, fracassona, grezza eppur frizzante e piena di cuore, che aveva dalla sua un fascino difficile da descrivere per noi giovincelli di allora che cantavamo “Noi siamo Gli Intoccabili e voi ci avete rotto”, quell’indimenticabile motivetto che ci faceva sentire ingenuamente ribelli e che tutt’oggi sappiamo intonare a memoria. Il paragone va dunque interpretato in un’ottica adeguata, preso con le dovute e giuste proporzioni, si intende.

Ci hai rotto papà” non aveva la pretesa di affermarsi come un film seminale e di formazione, voleva unicamente divertire, e con il suo piglio si è imposto come una sorta di cult generazionale, amato non certo per la sua qualità bensì per quella sua efficacissima capacità di catturare l’atmosfera e il sapore di un periodo italiano tutto nostro, nel quale ci si poteva identificare con estrema facilità.

Ebbene, l’ultima pellicola di Castellano e Pipolo era dedicata all’amicizia. Quella più bella, più lieta, sincera e allegra, quella che coinvolgeva una comitiva di ragazzetti: Marco, Stefania, Fabrizio, Andrea, Paolo, Zibbo e Carletto.

"Gli Intoccabili" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters

Le vicissitudini dei 7 giovanotti vengono raccontate, per lo più, da Andrea, arrivato in città da poche settimane e ancora alla ricerca di nuovi amici. Un pomeriggio, Andrea prova ad avvicinarsi agli “Intoccabili”, i quali si intrattengono nel cortile del suo palazzo. Tutti gli Intoccabili, ad eccezione di Zibbo, vivono nello stesso condominio. Già, un po’ come i Goonies che abitavano nello stesso quartiere. Concedetemi questo sottile parallelismo, suvvia.

Dunque Andrea irrompe d’un tratto, mentre gli altri sono intenti a giocare a calcio, raccoglie il pallone tra i piedi e inizia a fare qualche dribbling, venendo però ignorato dagli altri che proprio non vogliono accettarlo fra le loro fila.

Vattene che è meglio!” – grida uno di loro.

Sì, vattene, che è proprio meglio!” – grugnisce qualcun altro.

Andrea, il protagonista, avverte sulla sua pelle ciò che molti altri ragazzini sperimentano in quella fascia d’età: la difficoltà ad inserirsi in un gruppo, a fare amicizia avendo l’etichetta del “nuovo arrivato”, visto, frequentemente, come una “minaccia” per un team ben affiatato. Andrea però non si dà per vinto e alla sua maniera si prende la sua rivincita sugli Intoccabili, rei di avere atteggiamenti presuntuosi, architettando una rivalsa coi fiocchi. Quasi inaspettatamente, dopo un confronto goffo e burlone, Andrea viene finalmente accolto dagli altri, che ridono delle sue inventive argute.

Per dirla tutta Andrea si ritrova a fronteggiare in un “vero e proprio duello” Fabrizio, il quale dà sfoggio della sua tecnica sopraffina, mimando tutte le temibili mosse di Karate che è in grado di applicare in una singolar tenzone. Andrea assiste con un fare imperturbabile a quei gesti minacciosi, poi estrae una pistola giocattolo che spruzza vernice “inchiostrata” e sporca la faccia di Fabrizio.

Tutti scoppiano in una fragorosa risata e Paolo commenta: “Avete visto? Lo ha fregato come Indiana Jones!”.

In effetti, la dinamica degli eventi ricorda uno dei combattimenti più simbolici (e brevi) de “I predatori dell’Arca perduta”, quello in cui l’archeologo si imbatte in uno spadaccino che lo sfida apertamente; questi si pavoneggia, palesando l’invidiabile destrezza che possiede nel dimenare la propria lama. Indiana Jones non si lascia impressionare e, quasi annoiato, estrae il revolver e con un secco e preciso colpo si disfa del suo rivale. L’ironia della sequenza è evidente e ha contribuito alla sua iconicità.

Come Indy anche Andrea si è dunque “liberato” dell’avversario che si dava tante arie con una mossa rapida e “indolore”. Gli Intoccabili se la fanno sotto dalle risate, perfino Fabrizio si fa conquistare dall’arguzia di Andrea e gli porge la mano. Come per magia, esattamente come accadeva un po’ a tutti durante quegli anni d’infanzia e preadolescenza, l’amicizia tra Andrea e gli altri Intoccabili nasce tra un sorriso e una burla.   

Ci hai rotto papà” non aveva una trama ma una raccolta di momenti, un insieme di frammenti, di spaccati di vita quotidiana in cui i protagonisti dopo la scuola si incontravano al cinema Esperia, la loro “base”, una sala cinematografica rimasta in disuso, con la platea abbandonata a sé stessa, il palcoscenico che cadeva a pezzi; ciò nonostante per quei ragazzini quel cinema costituiva un riparo, un rifugio, il loro mondo grazie al quale isolarsi da tutto il resto e vivere la loro intensa amicizia. Il cinema, del resto, è un luogo intriso di un’astratta magia: in esso vengono materializzati i sogni, prendono vita le immaginazioni, le fantasie impresse su di un nastro di celluloide. E così il cinema è per Gli Intoccabili il posto ideale in cui ritrovarsi, in cui progettare e dare seguito a tutte le loro fantasticherie, a tutte le loro marachelle punitive verso gli adulti indifferenti.

L’ultimo film trasmesso presso il cinema Esperia è “Gli Intoccabili” di De Palma, la cui locandina campeggia all’ingresso della sala. Tutti i ragazzini avevano modificato il poster inserendo sul volto dei personaggi del film i loro visi di bambini. Quella “base” recava in tutto e per tutto il loro tocco irriverente.

Ci hai rotto papà” è stato un film sull’amicizia che quelli come me, che appartengono agli anni ’90, oppure coloro che sono nati negli anni ’80, hanno adorato incondizionatamente durante le elementari e le medie, e hanno continuato a guardare e riguardare con inalterato affetto una volta raggiunto il traguardo dell’età adulta. Si tratta certamente di una commedia sconclusionata, caratterizzata da un montaggio scompigliato, caotico, che sembra inconsapevolmente richiamare il disordine, la frenesia, il ritmo incalzante che cadenzava le giornate della preadolescenza, fatte di corse e divertimenti fino a sera, di appuntamenti con i compagni, di compiti a casa, di ore noiose passate in classe e di pagelle mostrate con timore ai genitori.

La fatica cinematografica finale di Castellano e Pipolo metteva in scena trovate stupidotte, puerili, ma anche genuinamente esilaranti.

Una sequenza, fra tutte, vantava una grazia rimasta immutata: quella in cui Paolo e Zibbo si incontrano e stringono amicizia.

È buio, la luce nel condominio è saltata, Paolo, per le scale, sente qualcuno o qualcosa singhiozzare nel silenzio, come il miagolio di un gatto. È così che conosce Zibbo, rimanendo a lungo nell’oscurità: i due non si vedono, non sanno che faccia hanno, ma chiacchierano come se potessero guardarsi negli occhi. Paolo conforta Zibbo, che ha paura del buio, lo tranquillizza, fino a che la luce non torna improvvisamente. In quell’istante Paolo vede chi ha davanti a sé: un ragazzino di colore. Si allontana di scatto, quasi scioccato. Ma che andate a pensare!

Paolo non indietreggia di certo perché Zibbo ha la pelle scura, bensì perché Zibbo indossa un cappello e una sciarpa targate Juventus.

Paolo, napoletano doc, mugugna: “Sei della Juve?”.

Zibbo risponde prontamente e con una nota di fierezza: “Sì!”.

E Paolo, sornione, replica: “E vabbè, dai, nessuno è perfetto”.  E i due da quel momento divengono amici per la pelle.

Questa scena possiede un garbo evidente: mostra, con una trovata geniale, come i bambini siano incapaci di provare alcuna forma di odio razziale. Quando Paolo vede per la prima volta Zibbo resta stupito, malamente impressionato dalla sua fede calcistica, non certo dal colore della sua pelle. Nel buio erano uguali esattamente come lo sono alla luce.

Quando guardavamo “Ci hai rotto papà” da piccoli ci immedesimavamo in tante situazioni: nelle partite di calcio in cortile, quando il pallone calciato di punta toccava la finestra del vicino iracondo, che si affacciava e sbraitava. Ci immedesimavamo nelle attività degli Intoccabili, come lo scambio delle figurine dei calciatori al ritmo di “Ce l’ho! Ce l’ho! Mi manca!”, così come nei giri in bicicletta, nei gelati mangiati in compagnia, nei citofoni suonati per poi correre di gran carriera nonché nelle letture dei fumetti di Dylan Dog.

E da adulti, “Ci hai rotto papà” si lascia guardare con malinconia, generando nello spettatore una sana sensazione di rimpianto per un mondo che non c’è più, un mondo senza social, senza scatti fotografici pubblicati con filtri che ne abbelliscono il contorno deturpandone però il realismo, senza “storie” ritmate da brani musicali, senza spunte blu a sottolineare una visualizzazione su Whatsapp, un’epoca fatta unicamente di galoppate all’aria aperta, di partite a pallone giocate con quello che si trovava, con le porte fatte con gli zainetti usati come pali, pomeriggi di ritrovi al “solito posto”, serate consumate a registrare film su nastri di VHS evitando accuratamente la pubblicità, ad ascoltare la musica con le cuffie e il compact disc, a fare gli squilli per dire “ti sto pensando”; nostalgia dei computer antidiluviani, quelli con gli schermi grandi grandi, dei Game Boy grossi come mattonelle, della prima Playstation e della sua versione Slim, dei match a Pro Evolution Soccer in cui i nomi dei giocatori della Nazionale venivano storpiati, delle gare condotte su circuiti d’asfalto a Gran Turismo introdotte da “My favourite game” dei The Cardigans o dei campionati a Fifa intervallati da “Complicated” di Avril Lavigne. Nostalgia dei primi amori. Eh sì, “Ci hai rotto papà” parlava anche di quello.  

Andrea e Stefania interpretati da Elio Germano e Francesca Martana

Andrea si innamorava dell’amica Stefania e non sapeva come dichiararsi, come esprimere quel sentimento nato con naturalezza, tanto forte da essere nascosto con fatica e un certo imbarazzo. Dinanzi agli occhi di Stefania, Andrea voleva apparire forte, impavido, tanto da correre verso di lei per strapparla alle grinfie di una donna adulta e “cattiva” che l’aveva colta in flagrante durante uno dei loro soliti e “perfidi” scherzi. In quei momenti, Andrea incarnava tutti i ragazzini che si prendono la loro prima cotta, e che farebbero i gesti più sciocchi, audaci e altruistici pur di far ridere e pur di impressionare la ragazza che ha rubato il loro cuore.

Stefania fu il sogno proibito di molti ragazzini, me compreso. Una cotta sincera e appassionante. Ancora oggi, quando sento quel nome, Stefania, non posso fare a meno di pensare che sia un nome bellissimo, qualcosa che mi riporta alla mente l’immagine di una ragazzina graziosa e sorridente, dai lineamenti delicati, dai lunghi capelli biondo cenere, bravissima nel suonare il violino, coraggiosa e abile nel congegnare e nel perpetrare gli scherzi più arguti e divertenti; ancora oggi ogni qualvolta mi sovviene quel nome non posso che pensare ad un’infanzia perduta, ad un primo amore, ad un dolce e tenero ricordo.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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