
- Quiete e tempesta
E’ una giornata uggiosa. Hermione si trova nella sua camera, tutta sola. Fuori la pioggia viene giù abbondante come un lacrimare del cielo, picchiettando contro il vetro della finestra. Il sole è schermato e le strade sembrano permeate da un alone grigio, un velo d’ardesia.
La strega più brillante della sua età sta leggendo le ultime notizie riportate su di un quotidiano. Un’altra famiglia di babbani è stata brutalmente aggredita e assassinata. Hermione adagia il giornale sul letto, è visibilmente preoccupata. Un regime di terrore si sta progressivamente instaurando.
Una voce risuona dal piano inferiore. “Hermione, il the è pronto tesoro!”.
“Arrivo, mamma!” risponde la ragazza, preda dei suoi pensieri.
Una volta scesa in soggiorno Hermione si sofferma alle spalle dei genitori, punta la bacchetta su di loro e pronuncia con voce rotta un incantesimo. La strega altera i ricordi del suo papà e della sua mamma, “confondendo” le loro menti, facendo in modo che non si ricordino più di lei. Il signore e la signora Granger sono ora convinti di essere Wendell e Monica Wilkins e che il loro più grande desiderio sia quello di andare a vivere in Australia.
Hermione compie questo sacrificio con estrema sofferenza. Pur di salvaguardare i suoi genitori, ella è disposta a rimuovere la sua stessa esistenza dalle loro memorie.
Quanto coraggio, quanta forza manifesta Hermione nell’espletare un’azione simile? Quanta solitudine avrà patito nell’emettere quella magia reversibile?
In quei giorni bui e spaventosi Hermione non poteva contare su suo padre e sua madre, confidarsi con loro, raccontare in maniera più approfondita quello che stava accadendo. Non poteva trarre conforto e sicurezza dalle loro carezze, differentemente da come avrebbe potuto fare qualunque altra ragazza della sua stessa età. Doveva proteggerli, a costo di rinunciare alla loro vicinanza. Un atto tragico ed eroico che pochi altri sarebbero riusciti a portare a termine.
Se tutto fosse andato come sperava, se il bene, infine, avesse prevalso, Hermione li avrebbe ritrovati. Se invece l’impresa avesse richiesto la sua vita, beh i suoi genitori non avrebbero sofferto, non avrebbero versato neppure una lacrima, avrebbero seguitato a vivere sereni, in una incantevole bugia, nella cornice di un lieto sogno plasmato dalle arti magiche di una figlia che li aveva amati così tanto.
All’orizzonte si profilava una tempesta. La più grande battaglia per la libertà del mondo magico si sarebbe combattuta fra non molto. Harry, Ron e Hermione sapevano quello che si stagliava laggiù all’orizzonte, il pericolo che li attendeva. Presto sarebbero partiti per un viaggio che non aveva una meta certa.

Nel frattempo, Harry si trovava al numero 4 di Privet Drive. Per l’ultima volta. I suoi zii e suo cugino Dudley erano prossimi ad evacuare l’abitazione e di gran carriera.
Nel romanzo di J.K. Rowling, mentre Vernon e Petunia si lasciano alle spalle l’uscio della loro casa, Dudley se ne resta irto sul posto, titubante, indeciso nel salire in auto e sfrecciare via. Cosa lo trattiene?
Di punto in bianco, Dudley confessa il dubbio che lo attanaglia: “Perché lui non viene con noi?”. Con quel “lui” Dudley si riferisce ad Harry. Quest’ultimo non sembra credere alle sue orecchie.
Cosa diavolo stava passando nella mente dell’odioso cugino?
Quello stesso cugino che non aveva fatto altro che dargli il tormento durante tutta l’infanzia, adesso si preoccupava di Harry, voleva sapere dove sarebbe andato, cosa ne sarebbe stato di lui, perché non montava in macchina con loro?
Sorprendentemente sì.
In quello specifico giorno, Dudley rivela un lato di sé che Harry non si sarebbe mai aspettato.
Com’è che recita quel vecchio adagio?
“Ci rendiamo conto di quello che abbiamo quando lo perdiamo”, qualcosa del genere, ecco.
Ebbene, Dudley viene fulminato da una epifania che ha molto a che fare con la “massima” riportata qualche rigo più su. Egli aveva sempre dato per scontato il fatto che Harry vivesse sotto il suo stesso tetto, ritenendolo un impiccio, un fastidio. Ma Harry non era un peso, era molto molto di più: un ragazzo coraggioso, buono, che aveva salvato la vita dello stesso Dudley quando questi venne assalito dai Dissennatori. Adesso che entrambi erano sul punto di salutarsi, forse per sempre, Dudley non sapeva come reagire. Harry era impassibile, aveva sofferto troppo fra quelle mura per avere rimpianti o per lasciarsi andare ad un addio alquanto ipocrita.
Eppure, Dudley non mentiva in quel contesto. Era veramente dispiaciuto, toccato, il suo volto paonazzo era chiaramente interpretabile.
Soltanto in quel frangente, Dudley realizza che Harry, quel ragazzo magrolino e occhialuto, non era uno spreco di spazio ma un membro della famiglia a cui non era stato donato l’affetto che avrebbe meritato.
Proprio alla fine Dudley si rende conto che suo cugino ha lasciato qualcosa in lui, e si congeda da Harry stringendogli la mano. Un gesto banale nella sua semplicità ma che assume i contorni di una richiesta di scuse, di perdono.
Harry non può cancellare tutti i brutti ricordi che lo legano ai Dursley, ma ha un cuore tanto grande da non portare rancore. Salutando “Big D.” Harry apprende una lezione inaspettata: le persone, anche quelle verso cui egli stesso non avrebbe scommesso un singolo galeone o qualche zellino, possono riscattarsi, cambiare, perché non è mai troppo tardi per tornare indietro, per provare a ricominciare tutto da capo, per conoscersi nuovamente.
La scena che vede Harry e Dudley ricongiungersi è stata girata per l’adattamento cinematografico ma scartata dal montaggio finale, sebbene nel libro costituisca una circostanza così sorprendente da prendere in contropiede tanto il protagonista quanto il lettore.

Quando Harry resta solo a Little Whinging, i membri dell'Ordine della Fenice giungono in suo soccorso per scortarlo fino alla Tana.
Il piano è presto svelato: sei di loro assumeranno le sembianze di Harry mediante l’utilizzo della Pozione Polisucco, per rendere le cose più difficili ai Mangiamorte che attendono in agguato.
Ron, Hermione, Fleur, Fred, George e Mundungus Fletcher bevono quel “decotto”, trasformandosi nel ragazzo che è sopravvissuto. Il vero Harry sale sulla motocicletta di Hagrid, sprofondando in quel capiente sidecar. Proprio lui, il mezzogigante, aveva portato Harry al numero 4 di Privet Drive quando non era che un batuffolo, e ora lo faceva montare in sella al suo bolide volante per lasciare quel quartiere una volta per tutte.
Inizia, pertanto, la fuga.
Di lì a poco i Mangiamorte appaiono fra le nubi oscure, imbastendo una battaglia in volo. Ron duella con ardore salvando la vita a Tonks, mentre Alastor Moody ed Edvige muoiono nello scontro.
In quel cielo brumoso, Edvige, quella civetta delle nevi che Harry aveva ricevuto in regalo all’inizio della sua storia, fece il suo ultimo volo. Edvige sacrificò la sua vita per proteggere il suo padrone, restandogli fedele fin proprio alla fine.
Quel “gufo” dal piumaggio niveo si accostò ad Harry quando questi valicò la soglia del mondo magico, quando scoprì di appartenere ad una realtà nuova, splendida, ricca di meraviglie, in cui Harry poteva finalmente sentirsi accettato; Edvige simboleggiava una parte bellissima dell’animo di Harry: quella fanciullesca, innocente, sognante, piena di speranze, che viene brutalmente ferita, annientata, spazzata via dalla furia di Voldemort e dei suoi implacabili seguaci, che non fanno che distruggere quanto di bello, di vergine e di incontaminato, circonda Harry.
Nel racconto di J.K. Rowling la civetta viene colpita dalla maledizione fatale scagliata da un Mangiamorte mentre è rinchiusa nella gabbia che Harry porta con sé, sulle gambe. Edvige non si libra in volo, si affloscia all’interno di quella stretta “prigione”.
In genere Harry non sopportava di vedere Edvige in gabbia, avrebbe sempre voluto farla volteggiare libera. Anni addietro, quando lo zio Vernon, perfidamente, gli impediva di farla uscire dalla sua piccola “voliera”, Harry si infuriava perché sapeva che la sua Edvige soffriva, veniva assalita dalla noia, si agitava, beccando il ferro freddo della sua cella.
Harry vede morire Edvige in quella minuscola “uccelliera”, dolendosi ancor di più, non potendo vederla volare un'ultima volta con le ali spiegate. Il ragazzo verrà inoltre obbligato a far esplodere il sidecar, riducendo in cenere i resti del suo adorato animale che in un solo battito di ciglia verrà spazzato via dal fragore dell’esplosione, trascinando con sé le reminiscenze di un candore che si dissolve con lei, con la sua Edvige.

Durante il proseguimento del conflitto, Voldemort riesce a individuare il protagonista, discernendolo fra tutti grazie ad un incantesimo di disarmo che il “prescelto” è solito utilizzare preferendolo agli incantesimi più violenti. Il Signore Oscuro lancia un anatema su Harry, che reagisce: la bacchetta del protagonista riconosce il proprietario della sua gemella, respingendo fortunatamente l’attacco.
Hermione arriva tra le prime alla Tana e attende con molta apprensione che tutti gli altri raggiungano la proprietà dei Weasley per mettersi in salvo.
D'un tratto, la strega intravede Tonks accompagnata da uno dei sette Harry. Hermione realizza che quell'Harry altri non è che Ron, che questi ce l'ha fatta, che è vivo e sta bene, quindi trae un respiro profondo e gli corre incontro per abbracciarlo. Nell'esatto momento in cui i due si stringono, l'effetto della Pozione Polisucco svanisce: i capelli rossi rispuntano sul capo di Ron, che riottiene i suoi connotati. Sentendo la presa travolgente di Hermione, Ron sorride, grato.
E pensare che qualche anno prima entrambi non erano riusciti ad abbracciarsi, pur desiderandolo. Allora erano solamente due amici insicuri, incerti sul da farsi, nulla più di due ragazzini che forse si amavano già, senza saperlo davvero, senza riuscire a dedurlo con consapevolezza, troppo intimiditi per riuscire a toccarsi.
Rammentate quel momento?
Verso l’atto finale de “La camera dei segreti”, Harry e Ron sono intenti a parlottare nel mentre Neville richiama la loro attenzione: Hermione si è risvegliata, è stata curata dagli effetti della pietrificazione del Basilisco, e ha appena guadagnato l’entrata della Sala Grande. Hermione corre piena di gioia verso di loro, abbraccia Harry senza mostrare alcun problema, poi si rivolge a Ron per circondarlo con le sue braccia ma si interrompe, arrestandosi improvvisamente, tentennante, come se qualcosa le impedisse di sentirsi completamente sciolta e a suo agio.
Al contempo, Ron, lì per lì, non sa come comportarsi, come rispondere a quell’abbraccio che anch’egli ha accennato prima di indugiare, lasciandolo incompiuto.
Ne è passato di tempo da quella sera, e molto è cambiato.
Hermione e Ron adesso si abbracciano senza remore, pienamente consapevoli del sentimento che provano.
Ron ed Hermione sono maturati, sono diventati adulti, e presto il loro amore si rivelerà completamente.

Giorni dopo quella notte in cui si combatté la Battaglia dei Sette Potter, il nuovo Ministro della Magia, Rufus Scrimgeour, fa visita alla Tana portando l’eredità che Albus Silente ha lasciato ad Harry, Ron ed Hermione. Il Preside dà al personaggio cardine il boccino d'oro - quello che egli aveva quasi inghiottito nella sua prima partita di Quidditch - e la spada di Godric Grifondoro, al momento però andata perduta; Silente elargisce a Ron il Deluminatore e a Hermione un libro di raccolte fiabesche, Le fiabe di Beda il Bardo.
Harry, Ron e Hermione sanno che il tempo stringe, che la tempesta si delinea lì dove l’occhio comincia a distinguere le cose, e che non possono tardare né rimandare ancora il loro pellegrinaggio.
Prima del sopraggiungere della tempesta, però, una patina di serenità si deposita sul corpo e sullo spirito dei protagonisti, permettendo loro di rilassarsi, donandogli nuove energie, nuovi stimoli, nuova fiducia.
Una quiete confortante benché illusoria pervade l’atmosfera iniziale dell’ultima avventura di Harry Potter.
Al principio de “I Doni della Morte” vi è infatti un clima di festa. Bill Weasley e Fleur Delacour stanno celebrando il loro matrimonio, tra canti e balli. Sebbene là fuori, in lontananza, le tenebre si stiano propagando, i maghi vogliono continuare a vivere la loro vita, il loro presente, cercando di estrarre da esso una sensazione di letizia, che possa alleviare le loro ansie.
Proprio perché la guerra incombe, un matrimonio assume ancor più valore e significato. Esso simboleggia l’unione tra una coppia di innamorati, è un auspicio per un futuro roseo, un inno all’amore, alla vita coniugale. Il matrimonio tra Bill e Fleur, festeggiato insieme ai familiari, agli amici più cari, è un’occasione per dimenticare momentaneamente il buio che si sta avvicinando a grandi passi e che su tutto fa calare la sua ombra.
Harry e Ginny, Ron e Hermione, Luna e il suo papà si concedono qualche passo di danza, sorridono, beati, si abbandonano per qualche ora fugace, ricordando quello che rende la vita meravigliosa.
Come accade ne “Il padrino” e ancor di più ne “Il cacciatore”, due pietre miliari della storia del cinema, anche in “Harry Potter e I Doni della Morte – Parte Prima” la storia ha inizio con una cerimonia, un festeggiamento che precede l’avanzata dell’oscurità, della guerra.
Ne “Il padrino” il sipario si alza nel giorno in cui si sta consumando un fastoso ricevimento per il matrimonio di Constanzia, unica figlia di Carmela e Vito Corleone, il più potente tra i boss mafiosi di New York.
Mentre all’esterno tutti gli invitati festeggiano contenti questo sposalizio, all’interno della casa, in una stanza in penombra, illuminata solamente da un lumicino, il “male” sta operando velatamente.
Un uomo, tale Amerigo Bonasera, sta implorando il padrino di perpetrare una vendetta. Dopo essersi fatto incensare, gratificare col rispetto che “gli si deve concedere” Corleone acconsente a soddisfare le richieste di Bonasera, ordinando ad alcuni suoi uomini di adempiere al compito. Poco dopo, lo stesso capofamiglia esce dalla stanza dove si era svolta la conversazione e riprende a festeggiare il lieto evento con il resto della sua famiglia. Mentre laggiù gli invitati ballavano allegri, ignorando tutto, nell’interno dell’edificio il male incarnato dalla criminalità mafiosa si muoveva di soppiatto, pianificando le proprie mosse, mostrandosi compassionevole nel soddisfare le suppliche disperate di un uomo a cui era stata sfigurata la figlia e da cui la stessa mafia avrebbe tratto vantaggio, chiedendo un “favore” a sua volta.
La festa per il matrimonio di Connie costituisce un evento giulivo, che unisce e fortifica una famiglia appagata e commossa in un’occasione speciale. Ma quella dei Corleone non è una famiglia come un’altra. E quella festa è soltanto una fase momentanea di gioia e spensieratezza. Di lì a breve riprenderanno le attività malavitose, le faide con le altre fazioni, gli attacchi per strada, gli attentati violenti che arrecheranno morte e dolore. Quella cerimonia è soltanto un brevissimo lasso di tempo in cui la normalità si accosta al male che, invece, non smette mai di gravitare su tutti i presenti.
Ciò che differenzia il clima festoso de “Il padrino” rispetto a quello di “Harry Potter e I Doni della Morte Prima Parte” è che il male, nel primo caso, è attuato dalla stessa famiglia, che è quindi artefice del proprio nebuloso destino, mentre nel secondo caso i protagonisti che cercano di divertirsi e di onorare una coppia di innamorati sono vittime essi stessi di un male che vogliono respingere a tutti i costi.
Anche nella prima parte de “Il cacciatore” si svolge un matrimonio. La festa per tributare le nozze è lunga e intensa. Tutti sollazzano allegri, si lasciano trascinare dalla musica e dai fiumi di alcool, scatenandosi fino a tarda notte. Quell’atmosfera distesa, gioviale e serena si contrapporrà all’atmosfera dura, aspra, terrificante che alcuni dei protagonisti, in procinto di partire per il Vietnam, vivranno una volta che diverranno soldati e andranno a combattere. Nelle ore in cui si dilettano, i protagonisti non possono neanche immaginare l’orrore che li attende. Il male incarnato dalla guerra si profila distante, dall’altra parte del mondo. Eppure tutti loro vi andranno incontro, facendosi travolgere dall’atrocità di un conflitto scellerato.
Anche ne “Il Signore degli anelli – La Compagnia dell’Anello” il racconto parte da un giorno di festa, da una ricorrenza molto importante. Nella Contea fervono i preparativi per celebrare i centoundici anni di Bilbo Baggins. La serata di baldoria, ricca di prelibatezze culinarie e impreziosita da fuochi d’artificio, precede l’avanzata delle tenebre, il ritorno di una forza oscura che irrompe nella vita di Frodo Baggins, il nipote di Bilbo, cambiandola per sempre. A quella spensieratezza, quella gaiezza che si percepisce durante la baraonda per il compleanno di Bilbo, seguiranno il sospetto, la paura, la presa di coscienza che l’Oscuro Signore, Sauron, è ancora vivo e vuole rimpadronirsi dell’Anello che Frodo ha ereditato e porta con sé. Il male promanato dal Sire di Mordor si estende come un artiglio su tutta la Terra di Mezzo, coinvolgendo, fra tanti, quattro hobbit che in quel giorno di settembre apparivano senza alcuna preoccupazione, euforici nel tributare a Bilbo i giusti onori per la sua veneranda età.

In “Harry Potter e I Doni della Morte”, il matrimonio tra Bill e Fleur si fa carico di una valenza importantissima: è il festeggiamento di un sentimento vero, sincero, duraturo. I due innamorati si promettono amore eterno sull’orlo della guerra, prossima a scoppiare. Proprio perché la battaglia e la morte incombono, aleggiando come avvoltoi sulle teste di tutti i maghi che hanno a cuore la libertà e l’uguaglianza e che quindi vogliono opporsi agli eserciti di Voldemort, l’amore assume una consistenza ancora più grande, una virtù meritevole d’essere onorata.
Durante il rinfresco, improvvisamente, accade qualcosa: Kingsley Shacklebolt, un membro dell'Ordine della Fenice, avverte gli ospiti, dicendo loro che il Ministero della Magia è caduto nelle mani di Voldemort e che i seguaci del Signore Oscuro sono prossimi ad arrivare alla Tana da un momento all'altro.
La felicità degli istanti precedenti svanisce in un baleno. La festa è giunta al termine, quella magica illusione si è disciolta. Il male ha fatto la propria mossa, avanzando sulla scacchiera. Gli invitati cadono vittime della paura. I Mangiamorte piombano sul luogo di colpo. Ron corre verso Hermione, Harry li raggiunge e i tre si smaterializzano. Comincia così il loro viaggio. La quiete è stata spodestata dalla tempesta.
- Il Medaglione di Salazar Serpeverde
I tre si recano a Grimmauld Place, il quartier generale dell’Ordine della Fenice, che è anche divenuta la casa di Harry, ereditata da Sirius. Qui, il trio apprende dall'elfo domestico Kreacher che il vero Medaglione di Serpeverde - che Harry e Silente avevano cercato di scovare tempo prima - è stato sottratto a Voldemort da un pentito Regulus Black e che è stato a sua volta afferrato delle sudicie mani di Dolores Umbridge.
Assunti i panni di impiegati ministeriali, Harry, Ron ed Hermione penetrano all'interno del Ministero della Magia riuscendo a trafugare il Medaglione, ma sono costretti a una fuga rocambolesca. I tre precipitano in una foresta e nell’impatto Ron si ferisce in modo grave. Hermione lo cura immediatamente, ma per rimettersi pienamente in sesto Ron avrà bisogno di qualche settimana. Passano i giorni, e i tre prendono sempre più consapevolezza che il Medaglione è protetto da una magia che lo rende pressoché impenetrabile. La rabbia, il nervosismo e un sentore opprimente di impotenza si impadroniscono di loro. Per non perdere mai di vista il Medaglione, Harry impone che venga portato al collo a turno da ognuno di loro. L’Horcrux emana un’energia negativa, che rende irascibili, annebbia la lucidità, esacerbando paure sopite in fondo al petto.

- Ron Weasley: umanità e pentimento
In questa fase della storia, il personaggio di Ron emerge per la sua fragilità e, al contempo, per la sua immensa umanità. In passato Ron si era più volte dimostrato un amico fedele, leale, incorruttibile. Ma durante il periodo in cui i tre devono restare a stretto contatto con il Medaglione di Serpeverde e con la malvagità che esso promana, le ansie e le frustrazioni dell’ultimo figlio maschio di Arthur e Molly Weasley crescono, inasprendosi irrimediabilmente.
Col trascorrere dei giorni Ron comincia a dubitare di sé stesso, a rimuginare, a osservare quella situazione di stallo con astio e con una sempre crescente negatività. Il ragazzo si sente inutile. La ferita che ha rimediato e che impedisce al gruppo di muoversi più rapidamente gli fa provare la sensazione d’essere un fardello. Oltre ciò Ron è preoccupato per la sua famiglia. Egli non ha più notizie dei suoi fratelli e dei suoi genitori da tempo e ascolta ossessivamente la radio, sperando di non sentire il nome di un familiare tra l’elenco giornaliero dei caduti nella guerra contro Voldemort.
Più passano le ore più Ron osserva Harry e Hermione che dialogano con quella che, ai suoi occhi, ha tutta l’aria d’essere una evidente complicità e questo lo spaventa.
Una sera, Ron, accecato dal male emanato dal Medaglione, viene vinto dalla furia. Il giovane si lascia soffocare dai dubbi, dalle insicurezze, dai tormenti che lo stritolano come una tenaglia. Ron litiga con Harry, come mai era accaduto prima di allora, rinfacciandogli di non sapere cosa fare, di non avere alcun piano, perfino di non patire le preoccupazioni che crucciano lo stesso Ron.
Il mago comunica ad Harry d’essere intenzionato ad andarsene; a quel punto, Ron si volta verso Hermione domandole che cosa voglia fare, se vuole seguirlo o se preferisce restare. La strega è distrutta ma sa di non poter lasciare Harry da solo. Ron interpreta questa decisione della fanciulla in un modo netto, inequivocabile, dandosi un’unica risposta: “Scegli lui!”.
Ron fugge via, correndo con una falcata infrenabile, seminando le grida di Hermione che lo scongiura di restare; il giovane si dilegua nel nulla, salvo pentirsene subito dopo. Una volta smaterializzatosi, cessato l’effetto del Medaglione, Ron torna in sé. Il mago realizza d’essere stato soggiogato da un’ira che gli ha offuscato il giudizio, da un sentimento che ha annebbiato la mente come accade nelle notti tanto fitte da alterare quegli stessi pensieri che al mattino si schiariscono.
Sarebbe voluto tornare all’istante, ma l’imprevedibilità degli eventi glielo impedì. Ron cadrà preda di un assalto dei ghermidori e dovrà combattere per liberarsi. Passeranno settimane prima che l’ultimo dei maschi della famiglia Weasley ritrovi il suo migliore amico e la donna che ama.
Nel romanzo di J.K. Rowling, dopo l’addio di Ron, Harry e Hermione piombano nello sconforto. La ragazza piange per giorni interi, ed Harry si chiude nel silenzio. Questi prende tristemente coscienza della realtà dei fatti: il suo migliore amico, il suo alleato fin dal primo giorno se n’è andato.
Al contrario, nell’adattamento cinematografico Harry e Hermione, dopo un’iniziale fase di shock, si abbandonano ad un momento spontaneo di rilassatezza e di svago. Ascoltando una sinfonia che proviene dalla radio, Harry prende per mano Hermione trascinandola, ironicamente, in un ballo improvvisato.
I due amici, con quei passi di danza, tentano di stemperare la tensione, di non pensare alla solitudine che li affligge. Tra una giravolta ed un abbraccio, entrambi si lasciano andare ad un dolce risolino scanzonato e per qualche minuto scordano le loro paure, smettono di pensare al loro compito gravoso. E’ una scena molto dolce. In un contesto drammatico, due amici, schiacciati dalla loro missione, si prendono una pausa, cedono all’illusione che la musica, con il potere delle sue arie, possa allontanare l’onere che pesa su di loro.
D’un tratto Harry e Hermione smettono di ballare, si guardano per un istante e poi si allontanano. La tristezza torna ad impadronirsi di loro e il ricordo delle responsabilità fa capolino nelle loro menti. Hermione va via, con un’espressione afflitta. Molto probabilmente la giovane si rimette a pensare a Ron, al loro addio funesto.
Quando “Harry Potter e i Doni della Morte – Parte Prima” approdò al cinema, la scena del balletto arrangiato, assolutamente non presente nei libri, divise gli appassionati. I più dissero che quella sequenza non catturava una reazione veritiera, che non corrispondeva a ciò che i veri Harry ed Hermione avrebbero fatto, troppo stravolti dalla partenza di Ron. Ad altri la scena piacque, considerandola come una sequenza che rappresentava un’ode all’amicizia: Harry ed Hermione si sostengono a vicenda, in un periodo di grande incertezza, scherzando, imbrogliando sé stessi, provando a convincersi di poter sgomberare il proprio cuore e la propria mente da ogni affanno. Alcuni insinuarono che la scena volesse sottintendere una possibile attrazione tra Harry ed Hermione, scoccata solamente in quella contingenza e poi spentasi immediatamente; una sorta di “contentino” da dare ai fan che speravano che Harry e Hermione finissero per mettersi insieme salvo poi capire che Ron ed Hermione, per come sono stati scritti nell’arco di sette libri, si appartengono l’uno all’altra.
Per quel che mi riguarda, la scena non mi è mai dispiaciuta. Sin dal momento in cui la vidi, la interpretai per quello che è: un balletto distensivo tra un fratello e una sorella, che giocano per obliare almeno per qualche attimo la notte scura e senza alba che gravita attorno a loro. Gli istanti finali, quando il ballo termina ed Hermione abbassa il capo, andando via, certificano questa realtà: la scena non contiene nulla di più, Hermione sa di amare Ron, soffre terribilmente la sua lontananza e non può sorridere e mostrarsi felice a lungo senza di lui. Lo stesso varrà per Harry, che appartiene a Ginny.
Dopo alcune settimane, una sera, Harry scorge tra i boschi un Patronus che ha le sembianze di una cerva. Harry segue quella creatura dai filamenti argentanti ed evanescenti che lo guida fino ai limiti di un lago ghiacciato. La spada di Grifondoro giace al di là della lastra congelata, scintillando nel buio del fondale. Harry apre un varco e si immerge nelle gelide acque. Il Medaglione che porta al collo, avvertendo il pericolo, si anima, tentando di strangolare il suo portatore, di annegarlo. Harry sarebbe morto fra quei fluttui se Ron non lo avesse agguantato e riportato sulla terraferma.
Ron torna con fare propizio in uno dei momenti più delicati della storia. Egli ricompare con il tempismo che contraddistingue i prodi, salvando Harry da morte certa. I due, recuperata la spada di Godric Grifondoro, si accingono a distrugge il Medaglione. Una volta aperto, esso fa echeggiare la voce di Voldemort. Il “Ciondolo” legge nell’animo di Ron e materializza i suoi tormenti, i suoi incubi più terrificanti.
Ron sentiva in cuor suo d’essere il figlio meno amato, concepito quando la madre voleva una bambina e pertanto accolto come una piccola, graziosa, adorabile… delusione. I suoi fratelli maggiori avevano ottenuto i successi che lui al massimo avrebbe potuto eguagliare ma mai superare. In aggiunta a tutto questo, Ron era il migliore amico del giovane mago più famoso al mondo e della strega più brillante della sua età.
Dentro di lui Ron presumeva d’essere un’ombra, senza fattezze né caratteristiche, un contorno scevro di tratti somatici e di segni particolari, a cui nessuno dava valore, credito, che nessuno avrebbe mai guardato.
Negli attimi seguenti le arti oscure di Voldemort danno forma e spessore alla più grande paura che Ron serba nella propria interiorità: che perfino Hermione possa non ricambiare il suo amore e preferire Harry a lui. Il Medaglione rende corporee e visibili le sagome di Harry ed Hermione che lo insultano, lo sviliscono, per poi unirsi in una morsa appassionata davanti agli occhi attoniti di Ron, che ne resta inorridito. Il ragazzo non si fa raggirare nuovamente, raccoglie tutta l’audacia che ha in corpo, brandisce la spada e trafigge l’Horcrux.
Nel racconto di J.K. Rowling, Ron si prostra in ginocchio, si getta sul terriccio, in lacrime. Harry comprende l’angoscia del suo migliore amico, lo tira su, lo rassicura, riferendogli che si è fatto perdonare, poi aggiunge che Hermione per lui è sempre stata una sorella e che le ha sempre voluto bene come tale e che anche per lei è lo stesso. Ron si volta verso Harry e i due si abbracciano come fratelli riuniti.
Ron domanda perdono, ammettendo tutta la fragilità, la debolezza del suo carattere.
E’ questa la grandezza di Ron, il suo essere eccezionalmente reale. Ron sbaglia, fa sì che i suoi traumi e i suoi complessi affiorino, li manifesta, non li affoga dentro di lui con falsità, li fa effluire proprio come un essere umano vero, come un amico sincero e mai bugiardo. Egli si mortifica, chiede venia, fa quanto deve per redimersi immediatamente. Ron non è un valoroso dal manto intatto, un cavaliere probo che non arretra mai, che non perde la retta via, è un eroe irresoluto eppur pieno di coraggio, ferocia, ardimento, un uomo insicuro eppur mai arrendevole, un guerriero che si defila dal sentiero per poi riguadagnarlo. Ron commette un errore, ma espia il suo peccato.
Quando fa ritorno all’accampamento Ron rincontra Hermione, salutandola con un sorriso sgargiante e un’espressione inebetita e decisamente inopportuna viste le circostanze ed il modo in cui si era accomiatato bruscamente da lei. La ragazza lo accoglie, come ci si aspetterebbe, malamente. Lo aggredisce, lo tempesta di colpi, lo rimprovera aspramente per essere sparito e non aver dato più sue notizie. Hermione non aveva la minima idea di dove fosse finito, poteva anche essergli accaduto qualcosa di terribile e lei lo avrebbe saputo troppo tardi.

Ron incassa poiché sa di meritarselo, ma anche questa volta si affida alla verità per rimediare. Dunque, confida ad Hermione tutto quello che ha passato e cosa ha fatto per ritrovarli. Il ragazzo dai capelli rossi racconta che una notte, nel buio, ha udito un’armonia sommessa echeggiare da una fonte imprecisata, da un luogo remoto: la voce di Hermione, l’unica ragazza che Ron abbia mai amato, l’unica donna che amerà per sempre.
Hermione pronunciava il nome di Ron, ed esso risuonava nell’aria, sospeso nella brezza, come se fosse stato bisbigliato e trascinato dal vento fino a giungere presso i suoi sensi. Questi aprì il Deluminatore e una bolla di luce volteggiò al suo cospetto, penetrandogli nel petto fino a toccare il suo cuore. Ron chiuse gli occhi, non pensò a nulla, si consegnò a quel suono, a quel sussurro, quindi si smaterializzò e comparve in un bosco brumoso. Avanzò senza sapere dove fosse, sperando, poi intravide Harry in pericolo, e lo strappò alla gelida presa della morte.
Fu la voce di Hermione a guidare Ron; essa schiarì l’oscurità, dileguò le tenebre, abbatté le distanze, permettendo al ragazzo di evitare ogni altro luogo che non fosse quello che egli voleva scovare fra tutti.
Ron agì col cuore, come aveva sempre fatto, si lasciò trasportare da esso: un cuore che batte anzitutto per Hermione e che, animato da quel raggio di luce fuoriuscito dal Deluminatore, lo riportò da lei.
Con questa confessione, Ron dichiara implicitamente a Hermione di amarla e che proprio quell’amore che egli prova per lei lo ha salvato, lo ha accompagnato e condotto fin lì come per magia. Una magia speciale, sconosciuta, che non è trascritta sui libri di testo, un incantesimo che non conosce spazi né confini, che combacia con il sentimento più intenso e vivido e che può far accadere un miracolo.

L’amore che Ron nutre per Hermione non contempla limiti. Egli darebbe la vita per lei, senza pensarci un solo istante. Questo viene dimostrato e rimarcato nel libro quando il trio è prigioniero a Villa Malfoy ed Hermione viene presa in disparte da Bellatrix, per essere torturata. In quei frangenti Ron tenta di opporsi, si offre al posto di Hermione, pretende che i Mangiamorte scelgano lui piuttosto che la sua amata. Ron è pronto a sostituirsi a lei, a soffrire e morire per lei.
Quando Ron verrà confinato in una prigione, legato ad Harry, e udirà le urla di Hermione, tremerà, ritenendole insopportabili. Ron prenderà a lottare, si contorcerà, proverà a sciogliere il nodo delle funi che tengono a freno le sue mani, non riuscendo a ragionare né a trarre respiro. Griderà il nome della ragazza più e più volte: “Hermione!! Hermione!!”.
I lamenti della strega echeggiano fino alle segrete, udendoli Ron non resta in sé, singhiozza, a stento trattiene le lacrime, colpisce a pugni i muri che lo separano da Hermione.
Amare significa volere il bene dell’altro al di sopra del proprio, sperare che l’oggetto del nostro amore non soffra mai, che stia sempre bene. In quella specifica circostanza, Ron avverte su di sé un supplizio che non può essere spiegato: egli non riesce a sopportare che Hermione venga ferita, e questo simboleggia la più autentica e profonda testimonianza dell’amore che il ragazzo ha per lei.

- L’amore tra Ron ed Hermione
Il rapporto tra Ron ed Hermione negli scritti di J.K Rowling è un legame delineato con cura e minuziosità. Esso si sviluppa pagina dopo pagina, capitolo dopo capitolo, anno dopo anno.
Tutto ha avuto inizio su quei binari ferroviari, in quel viaggio in treno. Allora, i due si guardarono straniti, curiosi e scettici. Il loro intuito e loro percezioni vennero tradire da una prima impressione che non fu la più consona. Hermione sembrava agli occhi di Ron tanto altezzosa e pedante, invadente e saputella, e Ron, sottoposto al giudizio di lei, fu etichettato come un fessacchiotto dai modi lievemente impudenti, che si esprimeva con la bocca piena di dolci e altre ghiottonerie.
Qual è la frase che pronuncia Ron dopo aver dialogato con Hermione per la prima volta? Ma sì, certo:
“Qualunque sia la mia Casa, spero che non sia anche la sua!”.
Eh già, Ron proprio non voleva averci niente a che fare con quella ragazzina dalla voce squillante, dai capelli sconvolti e spettinati, dall’ardire impertinente. Le ultime parole famose, come si suole dire. Se già in quel dì Ron potesse supporre, sapere che Hermione diventerà il centro del suo mondo.
Ebbene superate alcune burrascose settimane, Hermione e Ron diventano amici. Ma amici molto particolari, che il più delle volte proprio non possono fare a meno di infastidirsi, stuzzicarsi, provocarsi a vicenda, improvvisando baruffe evitabili, tafferugli coinvolgenti, dispute chiassose e parecchio divertenti. Ma alla fine di ogni bisticcio, al termine di ogni ingenuo ed impulsivo litigio, Ron ed Hermione si rintracciano e si ritrovano, non potendo stare lontani troppo a lungo. Nulla sembra mai allontanarli realmente, poiché entrambi non desiderano che la vicinanza dell’altro.
Fin dal principio, ambedue si cercano con lo sguardo, di continuo, si individuano, si scrutano e colgono dettagli dei loro volti che agli altri sfuggono. Negli adattamenti cinematografici hanno sempre avuto questa bislacca peculiarità, sin dal loro primo incontro.
Sull’Espresso per Hogwarts, la piccola Hermione si volta, getta un’occhiata all’indirizzo di Ron e gli rivela ciò che aveva riscontrato poco prima: “Hai dello sporco sul naso, lo sapevi? Proprio qui!”.
Questo stravagante modo di fare dei due, questo guardarsi e riguardarsi notando ogni piccolo cambiamento del viso dell’altro, ogni “particolare estraneo” che si deposita inavvertitamente sui loro volti, si ripeterà nel tempo, ancora e ancora.
A tal proposito ne “Il principe Mezzosangue”, nel bel mezzo di un pomeriggio di svago, Ron fa presente a Hermione di avere dei residui di burrobirra sulle labbra. Ben prima di questo episodio, quando i due sono alla Tana, Ron si accorge che a Hermione è rimasto un po’ di dentifricio vicino alla bocca. Così lo riferisce alla ragazza e cerca involontariamente di rimuovere quel rimasuglio con la sua stessa mano. I due non sono soli, con loro vi sono anche Ginny, la signora Weasley ed Harry. Hermione sorride, imbarazzata, e Ron torna in sé dopo un attimo di incomodo.
Sempre durante il sesto anno scolastico, nel pieno svolgimento di una lezione di Pozioni, Hermione annusa il profumo dell’Amortentia, un potente filtro d’amore che emana flagranze differenti per ogni persona in base a ciò che più la attrae. Hermione sente odore di erba appena tagliata, di pergamena nuova e di pasta dentifricia alla menta. Quest’ultimo aroma è un evidente riferimento all’episodio accaduto alcuni giorni prima con Ron. Nel testo letterario, invece, Hermione, mentre sta elencando a cosa corrispondono per lei i vapori che scaturiscono dalla Pozione, si interrompe bruscamente, tace, non concludendo la frase. In realtà, ella sentiva il profumo dei capelli di Ron.

Hermione e Ron hanno sempre avuto un rapporto speciale, interagiscono in un modo tutto loro, che nessun altro può capire o decifrare del tutto. Forse, soltanto Harry che era sempre stato loro accanto. Dietro i loro soliti battibecchi si cela un affetto smisurato che viene occultato, represso da quei bisticci che assomigliano sempre di più a tentativi neanche troppo velati di sublimare una tensione fisica che aumenta di pari passo alla loro maturazione. Infastidendosi, solleticandosi, beccandosi quotidianamente, Ron ed Hermione si tengono testa a vicenda, fanno valere le proprie posizioni, talvolta contrarie, attirandosi come due calamite, due opposti che si attraggono proprio a causa dei loro caratteri tanto diversi eppur complementari. Perché è questa la verità: Ron ed Hermione si completano vicendevolmente.
Talvolta nelle storie e nei racconti le coppie che lasciano il segno, le più belle e le più indimenticabili sono proprio quelle in cui i due innamorati hanno caratteri divergenti, personalità agli antipodi. Prendiamo, ad esempio, Paul e Corie, i protagonisti della splendida commedia di Neil Simon “A piedi nudi nel parco”. Al principio della loro storia, Paul e Corie si stanno trasferendo nella loro nuova casa situata all’ultimo piano del Greenwich Village. Per raggiungere l’alloggio, i due devono scalare cinque rampe di scale. Per onor di cronaca sarebbero sei, ma Corie preferisce non contare la rampa dabbasso.

L’appartamento è stato scelto da Corie fra tutti quelli che aveva preso privatamente in visione pur essendo minuscolo. La decisione fu presa in un brevissimo intervallo di tempo, su due piedi, come Corie era solita agire: quando vide quella spoglia dimora, la fanciulla si sentì subito intenerita e in quel preciso “stacco” sognò di arredarla e metterla in ordine come la sua mente, costantemente in subbuglio, le suggeriva di fare.
Non appena Paul osserva il suo piccolo domicilio si dimostra più che peritoso. L’abitazione possiede solamente due stanzette e un soggiorno sovrastato da un lucernaio, per di più danneggiato, con un vistoso foro dal quale nelle giornate di pioggia l’acqua viene giù inzuppando il tappeto e nelle notti in cui infuria la tormenta la neve si deposita lungo tutto il divano.
Lì per lì Paul avrebbe qualcosa da obiettare ma nel momento in cui realizza che Corie adora quell’appartamento così disadorno, e che la sua immaginazione si è già messa in moto, egli si placa e inizia a guardare quel luogo per come sarà e non per come è, persuaso che Corie lo trasformerà in un nido d’amore molto accogliente e confortevole.
L’entusiasmo di Corie è debordante. Nei giorni a seguire la ragazza si mette all’opera, sfruttando ogni angolo di quella esigua dimora, rendendola un appartamento sì piccino ma in cui non manca nulla, una graziosa e accattivante “bomboniera”.
Paul e Corie si sono piaciuti, si sono innamorati e sono convolati a nozze pur non avendo nulla in comune: Paul è un tipo preciso, accorto, scrupoloso, dedito alla stabilità e all’equilibrio. Corie, al contrario, è impulsiva, passionale, precipitosa, un vulcano di iniziative frivole e incontenibili. I due non potrebbero essere più diversi e per tale ragione, alle volte, finiscono per litigare. Secondo il parere degli altri, Paul e Corie potrebbero addirittura risultare incompatibili.
La madre di Corie, però, sa cosa provano entrambi e non dubita mai della solidità della loro relazione: “Non ho mai visto due persone innamorate come voi!”.
Nei loro litigi Paul e Corie si pungolano a vicenda: la donna vorrebbe che il marito fosse più spontaneo, meno rigido e impettito com’è di solito, tanto da rassomigliare a un “quacquero”. Allo stesso modo l’uomo vorrebbe che la moglie fosse meno esuberante, esplosiva, eccentrica e spiazzante.
Una sera Corie avrebbe voluto passeggiare a piedi nudi nel Washington Square Park, in pieno inverno, con le raffiche che soffiavano gelide. Del freddo non le importava, voleva soltanto sorridere alla vita, mano nella mano con Paul, avverando una fantasia sciocca ma irresistibilmente eccentrica e spiritosa. Paul si era però rifiutato, dopotutto la temperatura era scesa sotto lo 0 e avrebbero rischiato di contrarre un brutto malanno. Corie non pensava mai alle conseguenze delle sue azioni dilettevoli, per lei esisteva solo l’attimo fuggente, non prendeva mai in considerazione il domani. Paul, al rovescio, era prudente e, con un pizzico di ansia, badava sempre al dopo.
Durante uno dei loro più amari litigi Corie rinfaccia al consorte l’accadimento: scegliere di non camminare a piedi nudi nel parco nella stagione invernale è molto accorto, logico, ma non è divertente. Corie vorrebbe che Paul si rilassasse, che si sciogliesse, che smettesse di essere tanto zelante, di fare sempre la cosa giusta e di dire sempre la frase adatta ad ogni circostanza. Un giorno, debilitato dal malanno che ha contratto dormendo sul divano mentre la neve veniva giù a grandi fiocchi depositandosi sulle coperte, Paul, febbricitante, si lascia andare ad una bizzarria, compiendo quella che per lui è a tutti gli effetti una “follia” pur di far contenta Corie: si toglie le scarpe, rimuove i calzini e cammina a piedi nudi nel parco, balzando di qua e di là, da una panchina all’altra, inseguendo i piccioni come un forsennato mentre Corie, scioccata, gli va dietro, preoccupata da quel cambiamento repentino. E’ in quel momento che la donna capisce di amare Paul per il suo vero carattere, proprio perché egli è diverso da lei e non farebbe mai qualcosa di assurdo, di insensato, di pericoloso. Corie non vuole che Paul cambi.
In realtà quello che i due dicevano durante quei loro contrasti, le richieste che avanzavano, non erano che inganni, perché loro si amano per come sono realmente: Paul ama Corie perché porta brio, freschezza e imprevedibilità nella sua vita, che senza di lei sembrerebbe vuota e monotona; Corie ama Paul perché la fa sentire protetta, al sicuro, serena con la sua affidabilità e perché sa porre un freno alla sua vivacità, sovente sproporzionata.
Paul e Corie non si lascerebbero mai proprio come Ron ed Hermione, che si amano perdutamente perché trovano nell’altro quello che più desiderano, ciò che completa le loro anime.
Hermione, così arguta, diligente, seria e puntigliosa ha bisogno di Ron che la fa ridere, che la distrae dalle ansie, che le toglie il fardello di dosso facendola sentire più leggera, che la tira su e la sostiene, che pone attenzione alla sua salute, assicurandosi che dorma a sufficienza, che mangi e si riposi nei giorni in cui è oberata dagli impegni; e a sua volta, Ron, sveglio ma pigro, necessita di Hermione affinché lo scuota e lo redarguisca, esortandolo a credere di più in sé stesso, nelle proprie comprovate abilità, nel proprio coraggio.
Hermione ama Ron anche per la grande bontà di cui il ragazzo dispone. In una fase particolare del libro "I Doni della Morte", quando Ron si mostra assorto e preoccupato per il destino a cui potrebbe andare incontro una coppia di innamorati che i tre hanno visto in pericolo al Ministero della Magia, Hermione getta al suo Ron un tenero sguardo, ammirato e commosso. Harry si accorge che Hermione osserva Ron con gli occhi di un’innamorata, rapita e colpita dal cuore puro e prodigo del suo amato.
Al contempo, Ron ama Hermione anche per la sua intelligenza e per il suo talento nella magia. Si evince ciò più volte nel corso della lettura. Ne “L’Ordine della Fenice”, mentre entrambi si allenano nella Stanza delle Necessità, Ron si dice soddisfatto di essere riuscito a disarmare Hermione in una singola occasione, durante un duello, sottolineando quindi come egli sia consapevole che la strega è più in gamba di lui negli incantesimi e sia fiero di lei. Ancora ne “Il principe mezzosangue”, Ron ammette candidamente che Hermione è la migliore del loro corso. Infine, nell’epilogo de “I Doni della Morte”, Ron afferma con orgoglio che Rosie, la figlia, ha ereditato il cervello della madre, ed è felicissimo di questo. Ron adora Hermione anche per il suo acume, che lui ha sempre trovato una splendida caratteristica della sua amata.
Ron e Hermione si amano incondizionatamente anche grazie ai loro temperamenti tanto contrari ma non solo, i due si migliorano venendosi sempre incontro, trovando sempre un punto comune. Per amore di Hermione, Ron pone attenzione a delle questioni che, se non avessero coinvolto la sua innamorata, egli avrebbe di sicuro ignorato.
Nel settimo libro, Hermione e Ron si scambiano il loro primo bacio in un momento estremamente simbolico: durante la Battaglia di Hogwarts, Ron invita Harry ed Hermione a pensare agli elfi domestici, che si trovano nelle cucine del castello.
La questione riguardante gli elfi domestici ha interessato Hermione sin dal quarto anno. La condizione di schiavitù di queste creature agghindate con abiti che rassomigliano a federe bigie e rattoppate ha impietosito la ragazza, che da allora si è sempre fatta in quattro per tentare di far capire agli elfi concetti importanti come la libertà, l’indipendenza, la dignità che appartiene loro in quanto esseri viventi, dotati di intelligenza, di sentimenti, di coscienza. Gli elfi domestici, ad eccezione di Dobby, hanno sempre ignorato queste verità fondamentali, anzi si sono sempre dimostrati lieti e soddisfatti d’essere servi dei loro padroni. Hermione non riusciva a capire il perché e si batteva per modificare quella realtà che riteneva tanto ingiusta. Ron, inizialmente, faticava a comprendere l’impegno profuso da Hermione. Gli elfi erano felici in tal modo, perché tentare di cambiare qualcosa che a loro stava bene?
Passò qualche anno e, proprio durante la battaglia finale tra il bene e il male, Ron si attardò a riflettere circa il fato degli elfi domestici. Presumibilmente gli elfi erano rimasti nelle cucine, in attesa di ricevere qualche comando dall’alto, un ordine che probabilmente non sarebbe mai arrivato. Gli elfi sarebbero potuti morire soli, trascurati, dimenticati da tutti. Nel bel mezzo di una guerra, chi avrebbe mai pensato a degli schiavi?
Ron esorta così Hermione ed Harry a recarsi con lui nelle cucine, a salvare gli elfi, a dir loro di fuggire via. Hermione resta sbalordita. Fa cadere a terra la zanna di Basilisco che teneva fra le dita, corre verso Ron e lo bacia. Ron risponde al bacio, cingendo Hermione con le sue braccia, sollevandola in aria e compiendo un giro che sembra infinito. Il bacio tra Ron ed Hermione sugella una passione, un amore che i due provavano fin da piccoli e che avrebbero provato per sempre.
Nel libro, il bacio di Ron ed Hermione si avvale di un significato molto profondo: la ragazza si accorge che Ron ha capito la grandezza, l’importanza delle azioni portate avanti dalla ragazza, il valore della sua lotta per migliorare la qualità della vita degli elfi domestici. Nel pieno della battaglia, quando la mente di Ron indugia sul destino di quelle creature indifese, Hermione si rende conto che Ron le aveva sempre dato ascolto, e che ora stava mettendo in pratica ciò che da lei aveva appreso. La bontà di Ron, l’altruismo che egli nutre nei riguardi degli elfi, sciolgono definitivamente il cuore di Hermione.

Nell’adattamento cinematografico, Ron ed Hermione condividono il loro primo bacio nella camera dei segreti. Ron consegna alla fanciulla una zanna di Basilisco che ha appena asportato dai resti della creatura. Hermione, in quegli istanti, è insicura, spaventata, Ron la incoraggia, vuole che sia lei a distruggere l’Horcrux custodito nella Coppa di Tassorosso che hanno portato con loro fin laggiù. Ron avvicina il dente avvelenato del serpente alla mano di Hermione, esortandola a colpire l’artefatto. Hermione lo fa. L’Horcrux viene annientato e la camera dei segreti sembra reagire a quell’accadimento. Le acque che scorrono nella stanza si agitano, si infuriano, effluendo verso l’alto sino a travolgere Ron ed Hermione. I due, zuppi ed esausti, restano fianco a fianco, fino a farsi sopraffare improvvisamente da quell’impulso che tenevano a bada da tanto, troppo tempo. Ron ed Hermione si uniscono in una stretta infuocata e si baciano appassionatamente. Quando le loro labbra smettono di incontrarsi, i due si guardano negli occhi e ridono felici. Finalmente non devono più far finta di nulla, nascondere ciò che era tanto ovvio. Finalmente possono amarsi.

- Ginevra, Stella del Vespro
In un particolare momento del libro Harry sonnecchia racchiuso in un sacco a pelo, disteso sul pavimento. Il protagonista si sveglia qualche minuto prima dell’albeggiare, si mette in piedi e osserva Ron e Hermione che riposano vicini. Hermione dorme sui cuscini del divano, innalzandosi su Ron. Harry nota che il braccio di Hermione ciondola verso il basso, quello di Ron se ne sta poggiato a pochi centimetri.
Le mani dei due sono tanto vicine che sembrano essersi staccate da poco. Harry comprende che Hermione e Ron si sono tenuti per mano durante la notte, abbandonando la presa solamente quando il sonno si è impadronito di loro facendo venir meno le reciproche forze. In quell’attimo, Harry viene posseduto da una tremenda solitudine. Vorrebbe anch’egli avere il suo amore vicino a sé. Vorrebbe avere Ginny. Ma lei non è lì con loro, è lontana. Harry non può vederla, parlarci, toccarla, può soltanto rimembrarla, immaginarla con la sua mente, rimirarla con i ricordi.
Harry pensa sempre a Ginny durante il suo estenuante pellegrinaggio. Nel libro questo aspetto viene rimarcato. Harry è solito cercare il nome di Ginny nella Mappa del Malandrino. Vedere le impronte della ragazza che si spostavano lo faceva stare bene.

In quei frangenti, Ginny diviene per il protagonista un pensiero confortante, una motivazione per andare avanti, per procedere nel proprio tortuoso e arduo cammino dove esitare significa cadere. L’idea di ricongiungersi a Ginny, di rivederla, di poterla abbracciare e riavere con sé, permette ad Harry di incanalare la vigoria necessaria per resistere. In questa parte del testo, la figura di Ginevra può essere paragonata a quella di Arwen, l’eterno amore di Aragorn, uno dei personaggi principali de “Il Signore degli anelli”. Quando Aragorn intraprende il suo viaggio, costellato di pericoli, per distruggere l’Unico Anello, per liberare la Terra di Mezzo dal male che la opprime, per riconquistare la corona che gli spetta di diritto e il regno che gli appartiene, Aragorn è spronato da un solo, predominante obiettivo: quello di poter sposare Arwen all’adempimento del proprio compito.
La dama di Gran Burrone è per il ramingo un’ispirazione, un incitamento a non arrendersi, una speranza che scintilla di una luce inestinguibile come una stella del vespro che brilla nell’arazzo celeste, guidando il suo tragitto come una bussola che punta costantemente verso il luogo che egli anela raggiungere. Aragorn ha un solo desiderio nel proprio cuore, quello di ottenere la mano di Arwen, un sogno che vive in lui sin da quando egli la vide diversi anni or sono mentre camminava fra le verdi betulle.
Arwen possedeva una bellezza eterea, celestiale, i suoi passi a piedi scalzi ed il suo incedere effondevano la medesima grazia di Lúthien Tinúviel. Quando Aragorn la contemplò credette di essersi smarrito in un sogno, allietato da una melodia elfica, leggiadra e soave come le note di una arpa pizzicata con tocchi lesti ma morbidi. L’erede di Isildur si innamorò a prima vista di lei.
Aragorn si affida all’immagine di Arwen, al ricordo del suo volto, dei suoi lineamenti, per cavare da sé stesso la tempra e non arrendersi. Quando è costretto ad intraprendere il Sentiero dei Morti, ad addentrarsi in un dominio tetro, spaventoso, un regno di ombre, di fantasmi, di anime dannate, Aragorn potrebbe vacillare ma non lo fa. Un dono pervenutogli a ridosso della cavalcata e quindi mentre egli è in procinto di intraprendere quella traversata nel reame dei defunti che permangono sul suolo dei viventi, instilla in lui una nuova speranza.
Nel testo di Tolkien, l’erede al trono di Gondor e Arnor riceve in regalo un Vessillo che ritrae un albero bianco su fondo nero, sormontato da sette stelle e una corona regale. Il Vessillo è stato cucito da Arwen. Vedendolo, lo spirito di Aragorn viene ricolmato da una luce rigenerante, abbagliante, che gli conferisce altra linfa. Raccogliendo fra le mani quel tessuto, il capitano dei Dúnedain avanza impavido, verso il Dimholt.
Anche Harry, quando si sente solo, sopraffatto dai dubbi, dalle paure, si accosta ad un panno, ad una pergamena, quella Mappa del Malandrino che, differentemente dallo stendardo di Arwen, non è stata realizzata e non gli è stata offerta in pegno dalla donna che ama, eppure essa reca in sé la sua presenza. Leggendo quel nome, seguendo quell’andatura, Harry si sente vicino a Ginny, la mira in vita, la scruta, rammentando la sua chioma ardente come il fuoco, i suoi occhi luminosi come fiaccole, le sue guance ricoperte da lentiggini che la adornano come le stelle decorano una galassia.
Al pari di Arwen, il pensiero di poter avere Ginny è per Harry un impulso, un incoraggiamento, uno stimolo per non farsi genuflettere dal panico, dallo sconforto. Se Aragorn deve marciare su di un sentiero oscuro che precede la guerra sui Campi del Pelennor, Harry deve spingersi su di una landa desolata, piena di incertezze, per scovare e distruggere gli oggetti che conservano l’anima del suo nemico, una missione da ultimare e che precede la guerra vera e propria che si combatterà nel castello di Hogwarts. L’amore che Harry nutre per Ginny lo sostiene, costituisce per lui una speranza che divampa.
L’amore è quella forza che permette ad un essere umano di reggere, di andare oltre le proprie capacità. L’amore permise ad Harry di sopportare la croce che la fatalità pose sulle sue spalle, gli diede ardore, pazienza; la pazienza necessaria per ricongiungersi a Ginny, per completare il suo cammino con lei.

- La storia dei tre fratelli
Durante la faticosa e snervante ricerca degli Horcrux, Harry, Ron e Hermione incespicano su di un insolito racconto breve, una fiaba dalle tinte sinistre e suggestive: “La storia dei tre fratelli”.
Or dunque, questi tre fratelli, al volgere del crepuscolo o, perché no, ben oltre la tarda sera, quando la mezzanotte rintocca, si imbattono in una strana figura, una “persona” abbigliata con una veste lunga e ampia, simile ad una cappa; questo essere altri non è che la Morte, che si interpone sulla loro strada, vogliosa di esigere la vita dei tre, colpevoli di essersi serviti di un “trucco”, di uno stratagemma magico per scansare le sue insidie. La Morte è gentile, garbata, accetta quella sconfitta momentanea, si complimenta con i tre fratelli e vuol mostrarsi generosa, riferendo loro che potranno godere di tre doni. La Morte comincia così a tessere la sua vendetta, il suo piano per ghermire le tre anime che le spettano.
La Morte, si sa, è un’essenza eterna, vecchia come le fondamenta della Terra, antica come il creato. Essa reca in sé la saggezza di tutte le epoche, del tempo immemore e inestinguibile, quindi troppo astuta per essere ingannata.
Il primo fratello scelse come dono la bacchetta più potente che il mondo avesse mai conosciuto. Dunque la Triste Mietitrice estrasse del materiale dalla corteccia di un albero di sambuco che sorgeva nei paraggi, modellando una bacchetta pregevole e poderosa. Il secondo fratello, invece, optò per un artefatto che potesse umiliare ancor di più la Morte stessa, eluderla nuovamente, aggirarla: la Pietra della Resurrezione. Anche in questo caso la smunta e ineluttabile creatura acconsentì ad elargire questo omaggio, avvalendosi della pazienza che ogni buon predatore deve avere. D’altronde la Morte sapeva che bisognava solamente attendere, i fratelli sarebbero finiti tra le sue mani ossute, morendo, in un modo o nell’altro, a causa di quegli stessi doni che stavano riscuotendo in maniera sprezzante.
Il terzo fratello, il più parco fra i tre, scelse un presente che colse di sorpresa la Morte: egli chiese un grosso lembo di stoffa estratto dall’abito che la Morte indossava.

Nessuno, a meno che essa non voglia manifestarsi, può vedere la Morte che erra tra i vivi, perché essa cela il proprio corpo sotto un manto invisibile. Il terzo fratello vuole quella striscia di tessuto per ricavarne una “coperta”, sotto la quale potersi riparare dallo sguardo della Morte.
La Triste Mietitrice acconsente con riluttanza, taglia dalla sua veste uno strato creando il Mantello dell’Invisibilità.
Il primo fratello troverà presto la fine, un mago lo ucciderà per strappargli la Bacchetta di Sambuco. Quest’ultima darà via ad una scia di sangue che perdurerà nei secoli: molti maghi, di volta in volta, la brameranno, uccidendo il custode della bacchetta per impadronirsene, in un ciclo di assassinio e cordoglio che si ripeterà nel corso delle ere.
Il secondo fratello si toglierà la vita, impiccandosi. La Pietra della Resurrezione ha sì il potere di rianimare un cadavere, ma non può realmente riportare dall’oltretomba un’anima trapassata, poiché essa appartiene all’aldilà e non può più calcare il suolo dei mortali.
Il secondo fratello cercò di riavere con sé la dama di cui era innamorato e che era spirata quando era ancora giovane e bella. Adoperò la Pietra della Resurrezione ma la donna che si pose al suo cospetto non era quella che ricordava, era un corpo avvizzito a cui il calore era stato sottratto, con occhi inespressivi, un baccello vacuo, privo di sentimenti ed emozioni. Questa donna camminava vicino a lui senza la benché minima emotività, amorfa, bigia come una nuvola carica di pioggia, fredda come una giornata d’inverno permanente, impassibile come una statua di terracotta.
Inorridito, il secondo fratello si uccide per provare a riunirsi concretamente alla sua adorata e la Morte ne reclama il corpo e lo spirito.
Nel corso degli anni, la Triste Mietitrice tenterà invano di localizzare il terzo fratello, occultato ai suoi occhi dallo stesso drappo che lei gli aveva donato. Un giorno, quando il terzo fratello, ormai anziano e stanco, è pronto a congedarsi dalla vita, si sveste di quel mantello per accogliere la “Livellatrice” come una vecchia amica che prima o poi sarebbe giunta a bussare alla porta.
Il terzo fratello accoglie la Morte non temendola, e con lei parte per un ultimo viaggio.
La sequenza cinematografica che immortala la storia dei tre fratelli è probabilmente, insieme all’eccellente montaggio che concerne i ricordi di Severus Piton, la scena più bella dei film di David Yates; una sequenza che evoca suggestione, magia, intrigo e timore. Lo stile con cui vengono tratteggiati i personaggi della fiaba è incredibilmente malioso.
I personaggi sono ombre elusive, impronte sbiadite, orme di persone che furono, senza facce poiché la loro mansione è quella di educare, di essere delle metafore viventi, dei personaggi didascalici che rivelano, attraverso il proprio vissuto, le proprie scelte, gli sbagli con cui si sono insudiciati e che non devono essere ripetuti o, nel caso del terzo fratello, le decisioni giuste che devono essere prese a modello. I tre fratelli non hanno un vero volto in quella sequenza perché, come molti altri personaggi dei racconti popolari, hanno una funzione universale, non devono essere identificati propriamente in quanto la morale che mettono in evidenza deve appartenere a tutti. Gli errori che commettono i primi due fratelli sono errori che potrebbe fare chiunque, irretito dalla cupidigia, offuscato dalla smania di riavere con sé un amore perduto. In questo racconto nel quale leggenda e verità si intrecciano vi è contenuta una importante lezione per i maghi, una morale come si concerne ad ogni fiaba che si rispetti: “La storia dei tre fratelli” mette in guardia il lettore dal desiderio di schivare la Morte, rappresentata come un essere senziente, dal fare mansueto e accondiscendente, una entità furba, vendicativa, ma anche giusta e clemente, che non deve essere temuta né ingannata, bensì accettata e rispettata in quanto parte naturale dell’ordine vitale.
Nel corso della sua intera esistenza, Voldemort ha fatto quanto era in suo potere per raggirare la Morte, per allontanarla. La scelta di ridurre la sua anima in pezzetti, di nasconderli in oggetti preziosi e screziati, di rendersi immortale dannandosi per l’eternità non è che un tentativo disperato e utopistico che lo condurrà comunque verso la rovina.

- Lo stregone bianco ed il principe grigio
Nella prima metà de “La pietra filosofale”, quando Harry giunse per la prima volta ad Hogwarts, venne smistato nella Casa di Grifondoro e prese posto nella Sala Grande per la cena, lo sguardo del protagonista, che si guardava intorno, che osservava ogni dettaglio, ogni minuzia di quel castello, cadde a un certo punto sul volto di un docente che sedeva al tavolo degli insegnanti.
Questi aveva i capelli corvini, lisci e unti, e occhi simili a sfere nere e impenetrabili. Harry domandò chi fosse costui e ricevette una risposta esauriente: Severus Piton, il professore di Pozioni.
Presto, il giovane Harry avrebbe fatto la conoscenza di quell’insegnante acido e arcigno, cupo e intrattabile, che veste sempre di nero come se vivesse un lutto perenne.
Qualcosa, sin dal primo giorno alla scuola di magia e stregoneria, aveva attirato la curiosità di Harry. La sua vista si soffermò proprio su di lui, su Piton, su quella sagoma dall’espressione ambigua, col naso arcuato e la carnagione giallastra, che errava per le aule del maniero come un pipistrello con le ali avvolte su di sé.
Piton sembrò, fin dall’inizio, al giudizio di Harry qualcuno da tenere sott’occhio, un tipo sospetto, enigmatico, inquietante, forse pericoloso. Severus era un insegnante che metteva in soggezione la maggior parte degli studenti e che riusciva persino a mortificarli. Harry ne subiva passivamente le angherie e gli innumerevoli rimproveri.
Ma chi era Severus Piton in realtà? Era un alleato o un nemico? Vi era altro di lui da scoprire?
Harry smise di chiederselo, smise altresì di interrogarsi sulla presunta malvagità del professore. Per lui tutto divenne lampante quando Piton uccise Albus Silente: quella notte, Harry dedusse che Piton era un Mangiamorte, che lo era sempre stato, e che in lui non vi era altro che male.
Il vissuto di Severus Piton è avviluppato da un fitto strato di nebbia, da un alone di emarginazione, di rabbia, di dolore. In quel passato burrascoso come un mare in tempesta vi è una sola luce, un unico faro a fendere l’oscurità e indicare la via per una terraferma sicura e felice che si staglia lontana: Lily Evans.
Durante la settima e ultima avventura di Harry Potter, la storia del principe mezzosangue emerge in tutta la sua emozionante tragicità.
Come già sottolineato, una coltre di caligine e una velatura di mistero dissimula il personaggio per tutti e sette i libri e altrettanto negli adattamenti cinematografici.
Per la maggior parte della narrazione, Piton riveste il ruolo dell’avversario. Egli è un professore accigliato, cinico, inflessibile. La sua immagine viene ribaltata nel libro finale della saga, precisamente nel capitolo a lui dedicato “La storia del Principe”, in cui vengono portati alla luce segreti sul suo trascorso che rovesciano la figura di Piton, trasformandolo da antagonista ad infausto antieroe.
Piton e Silente sono due personaggi che hanno, per certi versi, due percorsi contrapposti, sia per lo sviluppo che per l’esito. Il Preside di Hogwarts viene presentato dall’autrice J. K. Rowling sin dal primo libro come un potente alleato delle forze del bene, un mago sfavillante di luce, incorruttibile e di animo nobile. Verso la parte conclusiva de “Il principe mezzosangue”, la percezione dei lettori nei riguardi di Silente subisce un’incrinatura. Qualcosa tormenta l’animo di Silente, un peccato che ha segnato irrimediabilmente la sua esistenza. Quando Silente beve il filtro di una potente maledizione per provare a recuperare quello che crede essere un Horcrux, egli perde la propria lucidità.
Silente si lascia andare ai ricordi logoranti, ai sensi di colpa, cadendo preda dei rimorsi. Dalle sue labbra effluiscono frasi come “E’ tutta colpa mia”, suppliche devastanti come “Uccidimi!”. In quei frangenti Silente ripensa alla sua amata sorella, morta a causa di un incidente avvenuto a seguito di un alterco tra lo stesso Albus Silente, il fratello Aberforth e Gellert Grindelwald, il mago oscuro che un tempo aveva in Silente uno stretto alleato, un compagno, un amante. Albus non si era mai dato pace per ciò che era accaduto. Lo “stregone bianco” che sembrava essere senza macchia aveva commesso un peccato grave a cui non poteva porre rimedio.
Nel settimo libro, i lettori sapranno di più: Albus Silente, da giovane, seguì Grindelwald per amore, lo aiutò a perseguire i propri propositi, sposando la sua oscura causa, per poi pentirsene amaramente e tentare di porvi riparo.
Nelle intenzioni dell’autrice, la percezione del lettore nei confronti di Silente deve subire un contraccolpo: pur rimanendo un mago buono, Silente perde la sua aura di indulgenza e purezza. Al contempo, la Rowling seguita a stupire il proprio “pubblico” attuando un altro “ribaltone” per quanto concerne la figura di Severus Piton. I lettori reputavano Piton un personaggio criptico, enigmatico, tendente all’insensibilità, alla crudeltà. Questa considerazione verrà notevolmente mutata nel capitolo che narra l’avvenuto di Piton.
Severus Piton era un ragazzino introverso, strano, un animo solitario. Sua madre era una strega e suo padre un comune mortale dall’indole violenta. Piton incontrò Lily quand’era un fanciullo. L’ovale delicato di Lily e i suoi occhi verdi entrarono nel cuore di Piton e lì albergarono per sempre.
Piton amò Lily, la madre di Harry. La amò senza tregua, incondizionatamente. I due si conobbero da bambini e crebbero insieme, in amicizia. Alla scuola di magia e stregoneria di Hogwarts vennero però divisi: Severus fu smistato nella Casa di Serpeverde, Lily in quella di Grifondoro. Ciò nonostante, continuarono a frequentarsi ogni qualvolta ne avevano l’occasione.
Severus amava Lily in maniera piena ed assoluta. Non si dichiarò mai, forse per paura d’essere respinto.
Nell’adattamento cinematografico, durante la sequenza che mostra le rimembranze di Piton, vengono omessi due ricordi molto importanti che contribuiscono a rendere ancor più complesso e drammatico il suo trascorso. Il film non fa vedere la circostanza in cui Piton, schernito dai Malandrini, viene difeso da Lily, e lo stesso Piton, furibondo per le umiliazioni, si scaglia inaspettatamente contro di lei, definendola “Sporca Sanguemarcio”. E’ l’evento che rompe l’idillio platonico tra Severus e Lily, la causa che pone fine alla loro amicizia, sebbene il “principe” faccia di tutto per chiederle perdono.
In seguito, Severus si unirà a Voldemort, diventando un Mangiamorte.
L’altro ricordo che getta una ulteriore ombra sul trascorso di Piton riguarda la scelta di informare Colui-Che-Non-Deve-Essere-Nominato circa l’esistenza di una Profezia che svela la nascita di un bambino che potrebbe, in futuro, contrastare il potere dell’Oscuro Signore, e sarà lo stesso Voldemort ad eleggerlo quale suo avversario.
Voldemort ha la possibilità di scegliere tra due bambini, venuti al mondo allo scadere del settimo mese: Harry Potter o Neville Paciock. Ponderando, Voldemort individua nel figlio di Lily il bambino della Profezia. Colui-Che-Non-Deve-Essere-Nominato seleziona un mezzosangue come lui e ignora il piccolo Neville, un mago purosangue.
Neville era figlio di due Auror, Frank e Alice Paciock, che subiranno un destino peggiore della morte. Neville crebbe nella sofferenza, vedendo sua madre e suo padre ridotti in stato di semi-incoscienza, sul baratro della pazzia a causa delle torture patite dai Mangiamorte. Verso la sua mamma, Neville nutriva un amore smisurato. Ogni qualvolta andava a trovarla presso il San Mungo, il ragazzo riportava a casa e conservava gelosamente le carte delle caramelle che Alice gli offriva con ingenua dolcezza. Per Neville significavano tanto, forse tutto. Erano un dono della mamma, “scarti insignificanti” per gli altri ma che per lui conquistavano un valore immenso.
Quanta sensibilità serbava Neville nel cuore!
Inizialmente timido e goffo, Neville avrà più volte l’opportunità di dimostrare il proprio coraggio, contribuendo anch’egli in maniera decisiva alla sconfitta di Lord Voldemort.
Severus Piton detestava Neville, lo maltrattava quotidianamente a scuola e c’era un bruttissimo motivo dietro questo orribile comportamento: se Voldemort, un tempo, avesse scelto Neville come vittima, Lily sarebbe sopravvissuta. Sull’innocente Neville, Severus gettò un odio che il lettore non può né comprendere né perdonare.
Quando Piton verrà a sapere che Voldemort ha designato il figlio di Lily quale sua nemesi, chiederà al Signore Oscuro di risparmiare la sua amata, ammettendo di non provare pena né per il marito della donna né per il figlio. Non immortalando sul grande schermo queste parti della storia, la figura di Piton, nei film, viene addolcita, delineata come maggiormente “buona”, quando in realtà la grande complessità del personaggio è sita proprio nel suo “grigiore”, nell’impossibilità di stabilire se in lui vi sia più male o bene.
Le sequenze della pellicola in cui riaffiorano i ricordi di Piton, in un dato momento, mostrano Severus che avanza nella casa dei Potter. Egli sa che Voldemort ha già fatto irruzione ed assassinato James Potter. Severus scavalca il suo corpo, procede con una fitta nel cuore, consapevole che potrebbe assistere a quello che più teme nel profondo. Una volta varcata la porta della camera del piccolo Harry, Piton scorge il corpo esanime di Lily. E’ in quel preciso istante che Severus prende piena consapevolezza di ciò che è avvenuto, di ciò che ha, inavvertitamente, contribuito ad attuare. Severus crolla a terra, si lascia andare ad un pianto disperato, a un lamento straziante. Raccoglie il corpo di Lily tra le braccia, lo stringe a sé.
Nella parte finale del romanzo di Victor Hugo – Notre Dame de Paris – Quasimodo abbraccia le spoglie di Esmeralda, devastato dal dolore, e si lascia morire. L’uomo non abbandonerà più la sua amata, reggendola in un abbraccio insistente, in un amplesso senza epilogo, in una stretta che si protrarrà nell’inesorabile scorrere del tempo. Molti e molti anni dopo, quando gli scheletri dei due verranno rinvenuti, alcuni tenteranno di separare i resti di Quasimodo da Esmeralda. Una volta allontanatolo dalle ossa della sua amata, ciò che restava di lui si disgregherà in polvere.
Se avesse potuto scegliere, Piton avrebbe preferito lasciarsi morire con Lily. Sarebbe voluto rimanere laggiù, perdendosi in quelle braccia che cingevano la sua amata, spegnendosi lentamente lì accanto.

Per certi versi, Severus morì quella notte insieme alla donna. Andò avanti senza più prospettive, sogni, facendosi carico di un pentimento dilaniante per tutto il suo avvenire. Il corpo di Piton si mantenne integro perché egli con la mente e con il cuore restò eternamente confinato in quell’abbraccio sempiterno. Se qualcuno avesse provato a staccarlo da lei, se qualcuno avesse tentato di obliare la mente di Severus e cancellare il ricordo di Lily, egli si sarebbe dissolto in tanti pulviscoli spazzati via dall’algido soffio del vento.
La vita di Severus sarà devota ad un unico scopo: proteggere il figlio di Lily. Piton, tuttavia, non svilupperà mai un autentico affetto nei riguardi del protagonista. Questo viene sottolineato in un rapido scambio di battute nel testo letterario, quando Silente domanda espressamente a Piton se questi si sia affezionato al ragazzo. Severus risponde con un rabbioso: “A lui?”, generando poi il suo Patronus che prende le sembianze di una cerva, lo stesso Patronus di Lily: il suo unico pensiero felice.
Nella sequenza filmica, Piton produce il suo Patronus dinanzi a Silente e quella cerva dal colore argenteo, dai contorni limpidi, dalla consistenza evanescente, inafferrabile come un amore perduto, si manifesta nell’ufficio del Preside di Hogwarts, librando per la stanza con un incedere irrefrenabile, colma di vigoria, di dinamismo: era così che Piton rammentava Lily, come una donna piena di vitalità, di energia, di passione e di sentimento. La cerva incede con passo travolgente, calpestando l’astrattezza dell’aria, trottando incontenibile verso la finestra, fuggendo via, svanendo oltre la vetrata.
Piton osserva quell’immagine scaturita dalla sua bacchetta, la vede andare via, correre lontano da lui, esattamente come accadde, in passato, con la stessa Lily che si allontanò per non tornare più. Albus capisce ciò che Piton vuole comunicargli con quell’incantesimo: sta proteggendo e seguiterà a proteggere il ragazzo a scapito della sua stessa vita per devozione a Lily. La donna che ha amato, la donna che ama e che continuerà ad amare in eterno. Per sempre.
Ne “La pietra filosofale”, le prime parole che Severus Piton rivolge ad Harry formano un interrogativo che il professore escogita per mettere in difficoltà il giovane dinanzi a tutta la classe, reo di avere l’aspetto dell’odiato James Potter. Ciò nondimeno, quel quesito che il professore pone al protagonista contiene fra le righe dei riferimenti sibillini, acuti, dotti.
Piton incalza Harry chiedendogli: “Cosa ottengo se verso della radice di asfodelo in polvere in un infuso di artemisia?”
L’asfodelo è una pianta che appartiene alla famiglia delle Liliaceae, come il giglio, termine che in inglese corrisponde a “lily”.
Nell’Antica Grecia, l’asfodelo era interconnesso con l’Oltretomba, col regno delle anime scomparse. Secondo la mitologia greca l’asfodelo è un fiore che cresce nei Campi Elisi, beneficiato dall’immortalità, poiché le sue foglie vantano la capacità di rigenerarsi.
L’asfodelo simboleggia il rimpianto, nonché il ricordo oltre la morte; l’artemisia, dal canto suo, esprime in forma simbolica l’assenza, la mancanza. In quella estemporanea interrogazione, Piton comunica in maniera sottintesa ad Harry, mediante il proprio sapere, l’amore che egli prova per Lily, il vuoto che patisce quotidianamente per la di lei morte prematura, il rimorso che lo affligge.
Nel cinema, l’asfodelo è stato, talvolta, associato al corteggiamento, all’amore sognante.
Nell’opera di Tim Burton “Big Fish – Le storie di una vita incredibile”, il protagonista Edward Bloom per conquistare Sandra Templeton, la donna di cui si è innamorato, le fa recapitare sotto casa un cospicuo numero di piante di asfodelo, che riempiono il giardino facendolo apparire color dell’oro, come un cerchio di sole che tutto irradia. In inglese, i fiori che Edward porta in dono a Sandra sono detti “Daffodils”, che somigliano più precisamente ai narcisi gialli. Nell’adattamento italiano, “asfodeli” corrisponde ad una traduzione arcaica di “Daffodils”.

Il nome asfodelo deriva dal greco e significa “la valle di ciò che non è stato ridotto in cenere”. Si tratta di un riferimento ai tuberi della pianta che resistono al calore e alla vicinanza del fuoco.
L’asfodelo rappresenta pertanto anche ciò che resiste, che perdura, come un amore vero e imperituro. Di fatto, il sentimento che Edward avverte per Sandra è grande, duraturo, inesauribile e lo accompagnerà per tutta la sua vita. Per Edward esisteranno al mondo solamente due donne: Sandra e poi tutte le altre, ovvero particolari femminili generici che non distoglieranno mai i suoi pensieri dalla sua adorata moglie.
In egual modo, anche per Severus Piton esisteranno due sole donne: Lily, il cui ricordo si manterrà intatto senza mai disfarsi in cenere, e poi tutte le altre che incontrerà lungo il suo arco vitale e che non significheranno mai nulla per lui.
Quando la situazione precipita, nella parte conclusiva de “Il principe mezzosangue”, Piton è costretto ad adempiere il volere dello stesso Silente: ucciderlo. Con un tale gesto, Severus si sarebbe nuovamente e definitivamente guadagnato la fiducia di Lord Voldemort e avrebbe evitato a Draco Malfoy di compromettere la propria anima con un delitto. Silente era già stato condannato a morte dal destino, un morbo generato dallo stesso Signore Oscuro. Prova ne è che lo stava annientando un brutto male. Questo, però, non faciliterà il compito a Piton, che dovrà uccidere a sangue freddo l’unico amico che aveva, il solo che conosce la parte più bella e nobile della sua persona, quella parte che arde ancora d’amore, e poi ancora, per un’unica e sola donna.
Piton nascose a tutti il lato migliore di sé stesso, fino a che non esalerà l’ultimo dei suoi respiri. Piton resterà al fianco dell’Oscuro Signore tentando di impedirne il trionfo permanendo tra le schiere del nemico. L’impresa, tuttavia, esigerà la sua vita. Piton si spegnerà lentamente. Prima di spirare, chiederà ad Harry di custodire alcune gocce delle sue lacrime nella cui sostanza sono racchiuse le sue memorie.
Piton muore chiedendo ad Harry di guardarlo: l’ultimo preside di Hogwarts si tufferà in quello sguardo di Harry, in quegli occhi che erano identici a quelli di Lily. Severus proverà la confortevole illusione di rimirare la sua adorata, che lo guarda e lo accompagna, rasserenandolo mentre il respiro viene a mancare.
L’amore di Severus Piton per Lily – incastonato tra il romantico e la fedeltà assoluta, tra la malsana ossessione e il tormento struggente - era profondo come gli abissi dell’oceano, vasto come un mare di stelle, illimitato come l’universo, inesauribile come il tempo che scorre, che tutto avvolge e divora, che da sempre esiste e in eterno esisterà.
Piton è certamente il personaggio più intricato della saga di Harry Potter; un essere grigio, adombrato da un cappuccio di tenebre e ridefinito da una luce che balena dal profondo.
Severus era un mago di eccezionale bravura. Era addentro nelle arti oscure, possedeva notevoli conoscenze nell’ambito delle pozioni, ed era un occlumante di spiccata abilità. Nessuno riusciva a penetrare la sua mente, carpire le sue riflessioni. L’abilità di Piton nell’Occlumanzia simboleggia l’essenza stessa del personaggio.
Così come nessuno dei protagonisti della storia riesce a valicare la mente di Piton, leggere i pensieri che in essa fluiscono liberi, scoprire cosa prova davvero nella sua intimità, nel suo cuore, allo stesso modo nessuno dei lettori può realmente riuscire a tradurre completamente l’animo, il cuore, la mente di Piton.
Tutti noi possiamo provare a farlo, sforzarci, tentare di insinuarci in lui ma sbatteremmo contro una cortina impenetrabile, un macigno che sbarra l’accesso.
Piton è un personaggio racchiuso in un costume che non può essere strappato, un uomo cinto da uno scudo infrangibile, da una muraglia che rende impercorribile l’accesso al suo vero Io. Di Piton, tutti noi possiamo intuire e scoprire tanto e al contempo molto poco.

- Colui che salutò la Morte
I sei Horcrux creati volutamente da Lord Voldemort verranno annientati nei modi più disparati e da soggetti sempre diversi.
Il Diario di Tom Riddle, come ben sappiamo, venne trafitto da Harry nell’atto finale de “La camera dei segreti”. In seguito, l’Anello di Orvoloson Gaunt verrà mandato in frantumi da Albus Silente, il Medaglione di Salazar Serpeverde sarà infilzato da Ron, la Coppa di Tosca Tassorosso danneggiata irreparabilmente da Hermione, il Diadema di Priscilla Corvonero verrà dato inavvertitamente alle fiamme da Vincent Tiger e infine Nagini verrà decapitata da Neville.
Vi è però un settimo Horcrux, creato involontariamente da Voldemort la notte in cui tutto ebbe inizio, quando cercò di uccidere il piccolo Harry, protetto dalla più potente delle magie, l’amore di una madre: quello scudo invisibile si frappose e fece rimbalzare la maledizione senza perdono indirizzandola su Voldemort stesso; un frammento dell’anima del Signore Oscuro, allora, si attaccò ad Harry. Nell’interiorità del protagonista si trova, dunque, un tassello dell’anima di Voldemort.
Harry infine lo capirà. Intuirà la verità durante una tregua nel conflitto e saprà cosa fare.
Harry andrà incontro alla morte per eliminare quello che giace, latente, in lui.
Nel libro Harry prende la decisione di accettare l’inevitabile e di accogliere il “sonno eterno” in solitudine. Harry indossa il Mantello dell'Invisibilità per sgattaiolare via, per passare inosservato, per evitare lo sguardo dei suoi amici, che egli guarda per l'ultima volta prima di percorrere da solo il sentiero che lo condurrà al bacio del crepuscolo.
Harry non dice nulla a Ron e neppure ad Hermione perché sa che entrambi se ne fossero a conoscenza non gli permetterebbero mai di andare, di consegnarsi a Voldemort.
Nel film, Hermione ha intuito da tempo che un pezzo dell'anima del Signore Oscuro risiede in Harry. La scena in cui Hermione abbraccia il suo migliore amico, dicendogli addio, mentre quest'ultimo rivolge un ultimo sguardo anche verso Ron, che ricambia la sua espressione triste, è certamente toccante e pregna di emozioni, ciò nonostante risulta essere una scena priva di senso, che mal si adatta al carattere dei personaggi.
Per come li conosciamo, Ron e Hermione non avrebbero mai permesso che Harry lasciasse la scuola, e si recasse a morire. Per nessuna ragione al mondo. Avrebbero soppesato altre possibilità, pur sapendo che non ve ne erano, vagliato altre soluzioni, anche se ciò avesse significato mentire a sé stessi, avrebbero fatto qualunque altra cosa ma non avrebbero mai lasciato che Harry si “arrendesse”. Ecco perché nel libro il tutto si verifica in quel modo, ecco perché Harry cela sé stesso sotto il mantello.
Come il terzo fratello della fiaba, Harry, il ragazzo che reca con se proprio quella cappa che lo rende invedibile, si incammina per guardare la Morte negli occhi, per riceverla, per salutarla come un’amica che non può essere respinta.
Qualche minuto prima di scorgere la sagoma del Signore Oscuro e dei suoi accoliti, Harry si rende conto che il boccino donatogli da Silente, quell'oggetto che ha una memoria tattile e che porta con sé un enigma, "Mi apro alla chiusura", è ora pronto a schiudersi, proprio nel momento in cui tutto si sta chiudendo attorno ad Harry. Nel boccino vi è serbata la Pietra della Resurrezione. Harry la guarda, e poi la lascia cadere. Non la vuole. Egli è pronto ad acconsentire al volere della Morte senza lottare. È questo ciò che fa di lui un Padrone della Morte.
La leggenda popolare recita che colui che riunisce i tre Doni diventa una sorta di “Signore della Morte”, un suo “Proprietario”, come se essa potesse obbedire e sottomettersi a qualcuno. Invero solamente chi accetta la sua natura mortale, che ricambia lo sguardo della Livellatrice senza provare repulsione è un Padrone della stessa, poiché acconsente alla sua ineluttabilità, rivolgendosi ad essa da pari a pari. Voldemort non ci sarebbe mai riuscito, avrebbe tremato dinanzi a quella essenza smunta che reclamava la sua anima troncata in 7 schegge. Harry no, pur essendo soltanto un ragazzo è pronto a dire addio al creato, ai suoi affetti, al suo amore, alla sua vita.
Il protagonista, con un coraggio senza eguali, si addentra nella Foresta Proibita. Lì, poco prima della fine, vede gli spiriti dei suoi genitori, James e Lily, del suo padrino Sirius, del suo professore più caro, Lupin. Costoro sono apparsi per dargli sostegno, per infondergli ulteriore coraggio, per dirgli che resteranno accanto a lui.
Harry è terrorizzato, ma le sue gambe non smettono di muoversi. Egli avanza e raggiunge il Signore Oscuro. Al cospetto di Voldemort, Harry non batte ciglio, vede la Morte riflessa negli occhi serpentiformi del suo acerrimo nemico e la approva. Harry si fa lambire dall’Avada Kedavra di Voldemort e muore.
Hagrid, che ha assistito alla scena, prigioniero dei Mangiamorte, non riesce a cederci, e non ha più la forza di ribellarsi. Il mezzogigante viene incaricato di trasportare il corpo esanime di Harry fino alla scuola. Hagrid porta quei resti con sé.
Era cominciata così, la storia.
Quando Harry non era che un frugoletto, se ne stava infagottato fra le braccia di Hagrid, appisolato come un bimbo indifeso. Adesso, Hagrid portava con sé le spoglie di quel giovane sopravvissuto e cresciuto come ragazzo, come uomo, sacrificatosi per salvare il mondo magico. E’ un passo estremamente simbolico: il mezzogigante, che ha condotto Harry all’alba della sua storia, trasporta ora quello che egli crede essere il cadavere del mago, senza più un alito di vita fra le proprie membra. Il principio e la fine che si intrecciano drammaticamente.
All’inizio della storia, Hagrid portava fra le sue mani un nascituro che aveva tutta l’esistenza davanti a sé, ora reggeva fra le braccia un ragazzo a cui quella vita era stata strappata via. Ma non era così. Harry respirava ancora. Il sangue di sua madre lo aveva protetto di nuovo. Fu l’Horcrux a perire.
Harry si ridesterà, e riprenderà a combattere.

- La Battaglia di Hogwarts
Nel girare su pellicola la guerra per la conquista e la difesa della scuola di magia e stregoneria di Hogwarts, Yates non riesce del tutto a dare quel tocco di epicità, quel tratto memorabile, quell’elemento grandioso ed eroico che si percepisce, pagina dopo pagina, nel romanzo.
Lo scontro tra Harry e Voldemort è avvincente ma altresì caotico, frettoloso, spogliato da quella maestosità che nel libro fuoriesce dalle pagine, essendo tanto sovrabbondante.
Nel romanzo, Harry fronteggia Voldemort nella Sala Grande, dinanzi a molti presenti. Lo appella come Tom, sdrucendogli quella astratta tunica divina che Voldemort col suo nome inventato si era messo indosso, lo ammonisce, lo mette in guardia dal pericolo a cui lo stesso Signore Oscuro si sta avvicinando, poiché la sua potentissima bacchetta lo tradirà. Harry giganteggia con la sua oratoria, rimpicciolendo quel nemico potentissimo, spaventoso, ma pur sempre soggetto all’errore, alla tracotanza, alla morte che sta sopra di lui. Harry sguaina la bacchetta, controbatte all’incantesimo di Voldemort. Nel loro ultimo scontro, Harry riesce a prevalere e la Bacchetta di Sambuco, ingannatrice, rivolge l’incantesimo mortale contro colui che la tiene in mano. Voldemort cade in terra e muore.
Nel film, la scena in cui Harry incrocia gli incantesimi con Voldemort è visivamente molto bella e regala anche una certa tensione. Le fasi in cui, contemporaneamente, Ron e Hermione fuggono da Nagini, stremati e terrorizzati, cadono tra i ruderi, stringendosi in lacrime, e Neville neutralizza il serpente, sono certamente d’effetto. Eppure, la caduta di Voldemort e i successivi momenti finali lasciano il sentore che tutto avrebbe potuto avere una messa in scena di maggiore impatto, in cui dilungarsi oltre.
Nel lungometraggio, quando Voldemort viene abbattuto, Harry passeggia per i corridoi senza ricevere il giusto tributo, l’entusiasmo della sua gente, dei suoi compagni. Questi ultimi se ne stanno in disparte, feriti, sconvolti dall’orrore della guerra, dalle perdite subite, ma impassibili nei suoi confronti. La scena risulta emotivamente debole e deludente. Nessuno degli studenti di Hogwarts raggiunge Harry, nessuno lo accoglie, lo porta in trionfo, gioisce insieme a lui per ciò che egli ha appena compiuto. Harry ha battuto il più grade mago oscuro di ogni tempo, ha liberato il mondo magico da un male che pareva invincibile. Eppure Harry avanza solitario, come se nulla fosse successo.
Il regista non riesce a restituire agli spettatori il senso di trionfo, la vittoria soffertissima che Harry e i suoi amici hanno ottenuto.
Pensiamo, ad esempio, a ciò che riuscì a fare Peter Jackson nei momenti più concitati de “Il ritorno del re”. Durante la battaglia davanti al Nero Cancello, tramite una regia di alta scuola e ad un montaggio impeccabile, Jackson trasmette agli spettatori una sensazione di sofferenza, di strazio, di fatica. Aragorn, Legolas, Gimli, Gandalf si battono senza sosta, sfiniti, fiaccati da un conflitto senza un’apparente conclusione. Nello stesso tempo, Frodo e Sam lottano con Gollum, tra le fiamme del Monte Fato, per gettare nel fuoco l’Anello. Jackson suscita tensione, comunica al pubblico l’immane fatica che i personaggi stanno tollerando, rendendo la distruzione dell’Unico Anello per ciò che è: un’impresa senza eguali, insperata e per questo incredibile.
Le inquadrature che Jackson dedica ai volti dei vari guerrieri quando l’Anello viene gettato nel baratro infuocato sono eloquenti. Tutti i personaggi appaiono commossi, stupiti, increduli dal bene che sta prevalendo. Nelle riprese successive, il regista si concentra su Frodo e Sam, sulle loro gesta, sul merito di ciò che hanno portato a termine, sulle lacrime che scorrono sulle loro guance. I due hobbit ce l’hanno fatta, hanno adempiuto alla loro missione, hanno scritto la pagina più importante delle cronache della Terza Era.
Ne “I Doni della Morte Parte Seconda”, la Battaglia di Hogwarts è trasposta con un ritmo travolgente ma anche con una velocità eccessiva, che non permette di cogliere l’intensità della fase culminante dell’opera di Harry Potter. Alcuni personaggi come Lupin, Tonks, Fred, muoiono senza che il regista indugi a sufficienza sulla drammaticità della loro perdita. Yates si limita a delle inquadrature rapidissime, semplici, prive di empatia, confermandosi un regista freddo, che il più delle volte esegue senza interpretare.
La parte terminale de “I Doni della Morte” meritava, in pellicola, una trasposizione altrettanto epica, che desse più peso all’impresa realizzata da Harry, Ron e Hermione, che mostrasse maggiormente il valore di quella vittoria soffertissima. La sequenza immediatamente successiva al tracollo dell’Oscuro Signore è troppo “ingessata”, spedita, piatta, così distante dalla bellezza, dall’emozione, dalla imponenza del testo da cui il film è tratto. Sembra che sia stato sbaragliato un rivale qualunque, e non la più terrificante minaccia che seguitava a ripetersi, che continuava a ripresentarsi, che nessun mago e nessuna strega che avevano a cuore la libertà riuscivano ad estinguere.

- Dio e uomo
Nel libro, il corpo del Signore Oscuro cade a terra e lì resta fermo, a giacere con una solenne banalità. Col passare dei minuti, molti si avvicinano al cadavere del Signore Oscuro. Questi ha ancora un aspetto inquietante, ma più lo si scruta più esso risulta un guscio normale. I resti di Voldemort sono spoglie umane, che possono essere scrutate, toccate, e non possiedono nulla di straordinario, nulla di divino.
La salma di Tom Riddle se ne resta inerme al suolo. Un che di incredibilmente simbolico: Voldemort, nonostante tutti i tentativi di divenire un essere superiore, di elevare il proprio corpo al di sopra dell’umana fragilità, era morto e appariva come un uomo qualunque. Non vi era nulla di speciale, in fondo in lui, se non la malvagità più pura.
Voldemort si era dannato inutilmente: i suoi resti mortali, che potevano essere ammirati, disprezzati da tutti, erano gettati lì per terra, senza nulla di regale né di divino ad avvolgerli. Voldemort era un mortale, dopotutto, non era un essere superiore, un dio da temere.
Per lunghi anni, quasi tutti gli abitanti del mondo magico non volevano neppure pronunciare la parola Voldemort, come se le orecchie di questo essere potessero udire ogni cosa, sentire chiunque osasse pronunciare il suo nome invano; per questo la comunità magica si riferiva a lui come “Tu-Sai-Chi” o “Colui-Che-Non-Deve-Essere-Nominato”, perché i più temevano che il mago oscuro possedesse una natura sconosciuta, superiore, forse onnisciente. Anche nell’Antica Grecia vi era un credo simile. I greci preferivano parlare raramente di Ade, per non attrarne la collera. Pochi erano i miti che coinvolgevano la sua figura e la maggior parte delle persone tendeva a non pronunciare mai il suo nome.
Ade era il Signore degli Inferi, pertanto i vivi sceglievano di non pronunciare il suo nome, paventando la possibilità che il dio potesse vendicarsi. Talvolta, per non chiamarlo direttamente in causa, i greci erano soliti riferirsi ad Ade con molteplici soprannomi, uno era piuttosto diffuso: Aïdoneus, che significa Colui che non si vede.
I greci, dunque, nominavano raramente Ade. Questa paura legata ad un singolo nome aleggia anche nel mondo magico partorito da J.K. Rowling. Il termine Voldemort era sinonimo di terrore, di disgrazia, di morte.
Invero, Lord Voldemort era soltanto un appellativo, un anagramma che il mago oscuro ottenne dal nome che sua madre aveva scelto per lui: Tom Orvoloson Riddle. Non vi era nulla di sovrumano, di divino in lui. Voldemort era un mago potentissimo, che più di tutti si avvicinò ad un limite su cui nessun altro si era mai saggiamente spinto, ma pur sempre un uomo. Voldemort voleva divenire un dio, essere venerato e temuto dalle altre persone. Ma restò un mortale. Nel film questo passaggio simbolico e profondissimo viene meno: Voldemort assume i contorni dell’essere soprannaturale, e quando muore il suo corpo si disfa in coriandoli d’epidermide, spazzati via dal gelido soffio della morte.

- Il serpente che rinasce e quello che muore, il serpente che ama e quello che non prova nulla
Citando nuovamente la figura del dio Ade si potrebbe aggiungere che il Signore dell’Oltretomba veniva sovente raffigurato mentre sedeva su di un trono e ai suoi piedi strisciava un serpente, un animale minaccioso, fatale, che richiamava il pericolo e la fragilità dell’esistenza umana.
Il serpente è una bestia strettamente legata a Voldemort, come è ben noto. Il Signore Oscuro era un discendente diretto di Salazar Serpeverde, era un rettilofono ovvero possedeva la capacità di parlare con i serpenti; essi lo trovavano ovunque fosse, sibilavano frasi, suggerimenti, moniti, e lo stesso Signore Oscuro era solito aggirarsi con un enorme colubro costrittore al seguito, Nagini, uno dei suoi Horcrux.
Ma il serpente cosa rappresenta in genere?
Nell’Antica Grecia il serpente assumeva significati ambivalenti: era un essere temuto per il suo veleno ma comunque ammirato come metafora di aggressività, destrezza, di vita stessa in quanto propiziatore di fertilità.
Il rettile veniva associato altresì ad Asclepio, il dio della medicina, poiché veniva inteso come un simbolo di guarigione: la muta del serpente esprimeva il concetto della ciclica rinascita. Ancora, l’uroboro, il serpente che si morde la coda formando un cerchio senza fine, è un’icona antichissima presa a modello da molteplici culture, come gli antichi egizi. In genere, l’uroboro rappresenta il potere che divora e riforgia sé stesso, l’ineluttabile ritorno, il tempo infinito, l’eternità, l’immortalità: tutti elementi che possono essere accostati al percorso dello stesso Lord Voldemort, colui che ricercò il potere, che si fece divorare e fortificare da esso, che inseguì la vita eterna, colui che fece ritorno dopo aver perso il proprio corpo, che si rigenerò tentando di mantenere la propria invulnerabilità.
Voldemort bramava la vita immortale e il serpente, che era il suo emblema, rimarca anche il concetto del cambiamento di pelle, della rinascita e quindi della vita perpetua, del male che si protrae.
Nella tradizione cristiana il serpente è un’espressione del Diavolo. Esso è un animale subdolo, strisciante, tentatore, manifestazione del male nel suo aspetto più insinuante e viscido. Voldemort è proprio l’incarnazione di un male primordiale.

Ma il serpente può essere inteso come una creatura capace di amare?
La figura del serpente come simbolo di rinascita, di cura, di rigenerazione e, quindi, di amore è stata a mio avviso trattata in una nota opera di un grande drammaturgo.
Nel 1957 fu portato per la prima volta in scena a teatro il dramma di Tennessee Williams “La discesa di Orfeo”, da cui nel 1960 fu tratto un adattamento cinematografico intitolato “The Fugitive Kind”, in italiano “Pelle di serpente”.
Protagonista di quest’opera, ambientata negli anni ’50, è Valentin Xavier, un musicista che sussiste nel mistero, senza radici, senza passato, un nomade in perenne peregrinazione. Valentin vaga di città in città con una chitarra a tracolla – strumento musicale a cui è visceralmente affezionato e che mantiene incise sulla cassa armonica le firme di tanti musicisti Jazz che hanno il proprio nome “scritto nelle stelle” - e una giacca ricavata dalla pelle di un serpente, da cui non si separa mai.
Per questo suo modo di vestire, egli viene soprannominato dai pochi che lo conoscono “Pelle di serpente”. Val approda in una contea di campagna, una cittadina avulsa dal mondo esterno in cui regna il benessere ma anche la discriminazione, la misoginia, il razzismo, la violenza.
Val è un uomo disilluso, rassegnato, quando incontra Lady Torrance, una signora più grande di lui di qualche anno, che si trascina tristemente in un contesto scialbo e slavato. Lady sembra essere una donna priva di calore, senza sogni né speranze dal giorno in cui il padre, a cui era molto legata, è perito in un incidente.
In quel luogo, tempo prima, Lady gestiva insieme al genitore una florida fattoria, ricca di vigne, di coltivazioni e di alberi da frutto rigogliosi. Con loro lavoravano diversi braccianti dalla pelle scura che Lady e il padre trattavano in modo paritario, con la dignità, il rispetto e la benevolenza che si doveva loro. Nel cuore di Lady e del proprio genitore non vi era l’odio razziale né tantomeno alcun senso di superiorità. Tutto questo non era ben visto dagli altri cittadini, dagli uomini soprattutto, che giudicavano le persone di colore immeritevoli di alcuna considerazione, nulla più che semplici schiavi da sfruttare e da percuotere costantemente. Una notte, un manipolo di uomini, la cui identità restò sempre un mistero, si avviò verso il podere dandolo alle fiamme. Accortosi di ciò che stava accadendo, il padre di Lady corse alla fattoria, tentando disperatamente di spegnere le fiamme. Fu in quella circostanza che perse la vita, in quelle stesse vampe infernali che non gli lasciarono scampo.
Lady è morta con lui, quel giorno, anche se il suo corpo si ostina ad andare avanti e il suo cuore a battere. L’anima di Lady non si è più ripresa, gironzola raminga in quell’inferno sulla Terra. La donna prova dubbio e diffidenza verso tutti coloro che la circondano, compreso l’anziano e violento marito, che potrebbe essere stato tra i carnefici del padre di Lady. Questo costante dubbio (che verrà purtroppo confermato) lacera lo spirito della protagonista, che sospetta di vivere accanto ad un essere losco e crudele, verso cui non ha mai provato alcunché, se non il disgusto.
Val incontra Lady nel corso di una notte insonne. I due parlano in maniera sciolta, confidandosi, scoprendo un’intesa, una sintonia, una connessione estrema e rovente tanto da innescare un evidente stato di tensione sessuale tra i due.

In quei loro discorsi, Pelle di serpente esprime la sua personale visione del mondo, la sua riflessione sulla gente, sulle categorie in cui si dividono gli esseri umani. Molti credono che esistano due tipi di persone: i compratori e coloro che vengono comprati. Pelle di serpente è convinto che esista anche una terza tipologia: gli erranti, quelli che non possono fare sosta ovunque vadano.
Stando a quello che Val afferma, vi sono in natura degli uccelli che non hanno le zampe e sono costretti a trascorrere tutta la loro vita standosene su, in aria. Val ne ha visto uno, tempo prima. Lo vide morire e precipitare al suolo. Lo raccolse tra le mani, era leggero come un corpo senza ossa né carne, le sue piume erano blu, era poco più grande di un dito ma la sua apertura alare era sorprendentemente ampia. Quelle ali non avevano colore, erano trasparenti.
Quell’uccello era un’anima libera, invisibile, appena percettibile poiché inconsistente come l’alito del vento e poteva volare senza stancarsi, senza mai venire catturato da alcun predatore. I falchi, infatti, non riescono a ghermire questi uccelli, perché non li vedono. Il corpo blu permette loro di mimetizzarsi, essi si confondono con il cielo divenendo tutt’uno con esso nelle mattine in cui il sole splende luminoso. E nei giorni di pioggia, quando le nuvole oscurano i raggi solari e la volta celeste si fa cinerea, questi uccelli volano ancora più in là, tanto in alto che ai falchi verrebbero le vertigini.
Quegli augelli non hanno “gambe”, vivono sorreggendosi con le loro ali, dormendo sull’aura, per non planare mai. Scendono una volta soltanto, quando muoiono.
Pelle di serpente si vuol paragonare a quei volatili: vaga con perseveranza da un posto ad un altro, non vuole soffermarsi, indugiare, perché allontanandosi dal mare, da quella corrente che lo trasporta dappertutto, e mettendo i piedi sulla riva sentirebbe d’esser finito, di morire. In quel posto dove è appena giunto, però, vi è qualcosa che può arrestare il suo volteggiare perpetuo, il suo incedere inarrestabile, il suo navigare a vele spiegate: una donna, Lady.
Costei è un aquila a cui sono state spezzate le ali. Ha bisogno d’essere curata, di guarire, per poter tornare a spiccare il volo. Val può aiutarla, sostenerla, spingerla a tornare a vivere. E così accadrà: i due si innamoreranno, diverranno amanti e un giorno Lady scoprirà di essere incinta. Per Lady questa rivelazione assumerà il valore di un autentico prodigio. Era stata dichiarata sterile, ma ecco che un figlio, una nuova vita che aveva a lungo desiderato stava crescendo in lei nonostante la sua età avanzata. Come gli Antichi Greci credevano che il serpente potesse divenire simbolo di rigenerazione, di rinascita, così avviene nell’opera di Williams in cui un uomo, che porta sempre addosso la pelle di un serpente, salva una donna, la tira via dalla sua sofferenza, le dona calore, conforto, amore, passione, rendendola anche madre.
La vita che sboccia nel grembo di Lady è un miracolo, una “fioritura” che germoglia in un campo infertile, un prodigio che riporta alla memoria della donna un accadimento del suo passato, quand’ella vide spuntare un frutto su un albero vecchio e rinsecchito.
I due amanti pianificano di fuggire da quella cittadina pericolosa, ma non ci riusciranno. La crudeltà umana, la cattiveria, la violenza li fermerà. Val e Lady saranno vittime di un tragico destino, insieme. Eppure, nulla di ciò che hanno vissuto è stato vano: Lady è tornata in superficie, è emersa da quell’Ade diabolico, anche se per poco tempo, Valentin ha amato con intensità anche se brevemente. Entrambi potranno rincontrarsi nell’aldilà, distanti da quel mondo ingiusto e cruento. Le loro anime, forse, voleranno libere come quegli uccelli che nessun predatore alato riusciva a vedere, oltre il cielo, oltre la vita terrena.
Il titolo originale dell’opera di Williams, “La discesa di Orfeo”, è un evidente richiamo al mito greco. Orfeo oltrepassò la soglia degli Inferi per riottenere la sua amata Euridice, morta proprio a causa del morso di un serpente. Il suonatore di Lira, facendo echeggiare le arie del suo strumento, persuade Ade e Persefone, muovendo a compassione il re e la regina del regno dei morti, i quali gli permettono di portare via l’anima di Euridice a patto che Orfeo non la guardi mai negli occhi finché entrambi non saranno ben oltre le sponde dell’Acheronte. Orfeo resisterà per tutto il tragitto, cedendo alla tentazione di riammirare la sua amata proprio alla fine, quando le luci dell’alba irradieranno l’ingresso dell’Oltretomba. Euridice allora scomparirà sotto lo stesso sguardo impotente di Orfeo, morendo per la seconda volta. Il cuore di Orfeo smetterà di battere in quell’istante: egli non amerà mai più un’altra donna. Non vivrà più come prima.
Valentin era anch’esso un musicista, non recava con sé una piccola lira ma una chitarra. Anch’egli come Orfeo discenderà in un inferno, quella cittadina di campagna circondata da esseri dannati e meschini, spiriti vendicativi e malvagi, e proverà a riportare sul piano esistenziale l’anima della sua amata. Sia Val che Lady, però, moriranno, e forse al di là del tempo e dello spazio, in un magico paradiso si riuniranno, ritrovando la pace.
Valentin incarnava le caratteristiche del serpente che porta nuova vita con sé, guarigione, amore.
Lord Voldemort, differentemente da Val, da quell’uomo che aveva sulle spalle quella pelle di serpente, non è capace di amare. Egli non prova nulla, né affetto né attrazione né bramosia fisica.
Voldemort non desiderò mai una donna, non agognò nessuna compagna, non volle mai unirsi carnalmente, né per voluttà né per generare un’altra vita, poiché l’unico piacere che egli poteva provare derivava dalla ricerca di un sempre maggiore potere. Tom Riddle provava solamente interesse per sé stesso, personificando il carattere egoista, insensibile del serpente solitario.
I tre protagonisti principali della storia generata dalla penna di J.K. Rowling, Harry, Ron ed Hermione, amano con tutte le loro forze. Amano i loro cari, la loro famiglia, i loro amici. L’amore che essi provano li sprona a lottare, perfino a sacrificarsi se necessario.
L’amore è quel sentimento che domina le scelte, le azioni, le decisioni, i gesti di molti personaggi della saga. Lily e James Potter morirono per tentare di proteggere la testimonianza vivente del loro amore, Harry. Frank e Alice Paciock lottarono contro le forze del male per cercare di offrire al figlio che tanto amavano un futuro in cui Voldemort non avrebbe regnato incontrastato.
Anche Severus Piton sacrificò parte della sua esistenza per un amore non corrisposto. L’amore provato da molti dei personaggi della saga li rende superiori a Voldemort, un essere che non sa cosa sia l’amore.
Ron era deciso a morire per amore. Quando furono attaccati dai Mangiamorte, in un locale, si gettò sul tavolino spingendo Hermione via, per evitare che venisse colpita, incurante di quello che sarebbe potuto succedere a lui. Ancora, in seguito, implorò gli aguzzini di scegliere lui per torturarlo e ucciderlo se necessario purché lasciassero Hermione. E la stessa Hermione, quando Ron andò via per quelle lunghe e devastanti settimane, non riusciva a trovare conforto, una flebile gioia, tanto era il senso di vuoto, la carenza che si era formata in lei. L’amore come quello di Hermione e Ron è una forza immensa come il firmamento.
Harry, il principale avversario del Signore Oscuro, sapeva cosa voleva dire amare. Egli amò perdutamente i suoi genitori, anche se non poté conoscerli. Quando riguardava una loro fotografia, un’immagine incantata che li eternava in movimento, sereni e sorridenti, Harry sentiva il suo cuore sommerso da un amore che non si poteva attenuare. Harry amava i suoi amici, Ron ed Hermione. Durante la sua crescita, si invaghì di una giovane ragazza, Cho, per poi innamorarsi perdutamente di Ginny. L’amore ha sempre fatto parte della vita di Harry. E’ questa la cosa che differenzia maggiormente il personaggio cardine dell’opera di J.K. Rowling dall’antagonista Voldemort: la facoltà di amare.
Voldemort non ebbe amori, amicizie, spezzò la sua anima, la deturpò. Morirà solo. Di lui resterà un ricordo, terribile, ma pur sempre un ricordo. Il terrore che voleva promanare in eterno si disperderà gradualmente non appena egli morrà, fino a scomparire del tutto.

- Fine e principio
Durante le ultime sequenze, a battaglia ormai conclusa, Harry procede solitario finché vede Hermione e Ron camminare mano nella mano. Il giovane comprende che i due, finalmente, si sono dichiarati reciprocamente il loro amore, e si sono uniti. Ron ed Hermione ridono, intimiditi, ed Harry risponde a sua volta con un sorriso radioso e appariscente. Una circostanza che ricorda ciò che accadde verso la fine de “La pietra filosofale”. Allora, Harry aveva sconfitto Raptor e si era risvegliato nell’infermeria della scuola. Lì aveva avuto un toccante scambio di battute con il professor Silente. Poco dopo, il ragazzino avanzò solo soletto e mirò Hermione e Ron che stavano parlottando assiduamente e sogghignando senza freno. Harry li ammirò felice. Ron ed Hermione si accorsero di lui, e lo salutarono.
Questa stessa scena, che si è svolta al principio della storia di Harry Potter, si ripete, con le dovute differenze, nel finale. Harry rivede Ron ed Hermione da una certa distanza, ancora insieme, ancora felici, questa volta in veste di fidanzati.
Le due scene sono le strofe di una splendida poesia a cui sono state composte le ultime rime.

- Hai dello sporco sul naso…
Diciannove anni dopo, Harry e Ginny sono sposi. I due stanno accompagnando i loro figli al binario 9 ¾. Harry si accorge che il suo secondogenito, Albus Severus, è piuttosto intimidito.
Harry gli si affianca con dolcezza, lo guarda e gli sussurra: “Insieme!”. Quanto tempo è passato dalla prima volta in cui Harry percorse quella stazione!
Chissà se Harry ci stava pensando su, in quei momenti. Chissà se la sua mente si era messa a rivangare il passato, a ripensare, più precisamente, a quando quel mattino di tanti anni prima vagava senza una meta chiara, confuso e perplesso, alla ricerca del fatidico binario 9 ¾.
Quel giorno, Harry poteva contare solo su sé stesso. Non aveva nessuno accanto, né un padre né una madre a dirgli cosa fare. Per sua fortuna, incontrò la signora Weasley e un bambino dai folti capelli rossi che sarebbe diventato suo amico. Da adulto, la situazione era notevolmente diversa. Harry era un padre ora, ed era pronto più che mai ad aiutare suo figlio a eseguire quel primo passo, ad attraversare la barriera che li avrebbe portati all’Espresso per Hogwarts. Pronunciando quella esortazione, “Insieme!”, Harry fa capire al figlioletto che non è solo, che c’è lui al suo fianco e che uniti possono avanzare senza paura. Da bambino, Harry dovette fare tutto in solitudine. Da padre, sapeva quanto la sua vicinanza sarebbe stata importante per il proprio ragazzo. Albus Severus prende coraggio e insieme ad Harry supera il muro di mattoni. Ma le paure del piccolo non sono terminate.
Questi si ferma per allacciarsi una scarpa, ma il suo volto non mente: qualcosa lo preoccupa.
Egli teme di deludere il suo papà. Glielo dice espressamente: “Papà, e se mi mettono in Serpeverde?”. Harry lo tranquillizza subito: Albus Severus non ha nulla da temere, non potrà mai deluderlo, dopotutto egli porta il nome di due presidi di Hogwarts e uno di essi era proprio un Serpeverde ed era uno degli uomini più coraggiosi che Harry avesse mai incontrato.
Laggiù, vicino ad uno dei vagoni, vi sono Ron ed Hermione. Sono anch’essi sposi, e stanno accompagnando la loro primogenita Rosie. Hermione, con il suo solito piglio e con la sua proverbiale cura per i dettagli, sta aiutando la figlia a portare con sé tutto ciò che le potrà occorrere. D’un tratto, la bacia sulla fronte e la stringe a sé con tutto l’amore che una madre può dare. Ron se ne sta lì accanto, tiene sotto braccio il piccolo Hugo, e osserva sua moglie e Rosie travolto dall’emozione.
Harry li raggiunge. Il trio si riunisce, poco prima che l’Espresso inizi a sferragliare sui binari. Rosie, seduta vicino ai cugini, raccoglie nella mano una cioccorana che se ne stava “aggrappata” al finestrino.
Che buffa coincidenza: durante il loro primo viaggio per Hogwarts, quando Ron ed Harry si trovavano nel vagone, anch’essi videro una cioccorana venir via da una figurina streghe e maghi famosi e balzare sul finestrino, per poi volare oltre, trascinata da un soffio di vento.
Harry, Ron ed Hermione, osservando i propri figli cominciare la loro avventura, indugiano sui loro ricordi. Con ogni probabilità, ripensano a quando si incontrarono a bordo di quel treno. Là dove tutto è cominciato, là dove tutto finirà.

A quel tempo Ron ed Harry mangiavano, affamati, dolciumi su dolciumi.
Improvvisamente Hermione si introdusse nello scompartimento e si presentò. E prima di andar via, si voltò notando subito come Ron avesse una macchia di sporco sul naso.
Già in quel momento i due si guardavano con curiosità e attenzione, senza sapere che, anni dopo, sarebbero divenuti marito e moglie e non avrebbero mai più smesso di guardarsi.
Autore: Emilio Giordano
Redazione: CineHunters
FINE
Ricordi folgoranti come un Flipendo – Harry Potter e la pietra filosofale (2001), potete leggerlo cliccando qui.
Ricordi folgoranti come un Flipendo – Harry Potter e la camera dei segreti (2002), potete leggerlo cliccando qui.
Ricordi folgoranti come un Flipendo – Harry Potter e il prigioniero di Azkaban (2004), potete leggerlo cliccando qui.
Innocenze spezzate – Harry Potter e il calice di fuoco (2005), potete leggerlo cliccando qui.
Un dolore soffocato – Harry Potter e l’Ordine della Fenice (2007), potete leggerlo cliccando qui.
Il collezionista – Harry Potter e il principe mezzosangue (2009), potete leggerlo cliccando qui.
Vi potrebbero interessare i seguenti prodotti: