"Naru" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
Attenzione pericolo SPOILER!!!!
Quando ebbi modo di guardare il capolavoro di Werner Herzog “Nosferatu, il principe della notte” – remake a sua volta del classico immortale “Nosferatu il vampiro” di Friedrich Wilhelm Murnau – colsi una frase, pronunciata dal protagonista dell’opera, che mi restò particolarmente impressa nella mente.
La scena è la seguente: Jonathan Harker è appena giunto nei pressi del castello del Conte Dracula, a notte inoltrata. La porta principale dell’antica reggia si apre dinanzi a lui e dai meandri bui affiora una figura esile, quasi scheletrica avvolta in un nobile mantello. Il volto era pallido di morte, le orecchie appuntite come quelle di un pipistrello, gli occhi apparivano come due orbite incassate in fori contornati di nero, le mani erano ossute, oblunghe con unghie appuntite, mentre dalle labbra semichiuse fuoriuscivano due canini ravvicinati e vistosamente aguzzi.
“Il Conte Dracula?” – Chiese con fare retorico il giovane Harker, vedendosi davanti quella spettrale presenza che altri non poteva essere che il padrone del maniero.
“Jonathan Harker…” – Rispose con un filo di voce il Conte. “Lei era atteso, sia il benvenuto nel mio castello. Si accomodi, la notte è fredda e dev’essere stanco e affamato”.
Dracula, nonostante la sua parvenza sinistra e inquietante, si mostrò cortese come si conviene ad ogni nobiluomo e accolse con gentilezza il proprio ospite all’interno della sua austera ma decadente dimora.
Durante la cena offerta dal Conte, un lauto banchetto che Harker consuma avidamente, Dracula siede a pochi passi da lui. Lo scruta con i suoi occhi penetranti come spade, lo osserva impassibile con la sua espressione glaciale e spaventosa. D’un tratto, fuori dalle mura, nei boschi lontani, si ode un ululato.
“Ascolti…” – Sussurra Dracula con la sua voce smorzata, espressione di un essere stanco e affaticato, che si trascina tristemente da secoli e secoli, sperimentando giorno dopo giorno sempre le medesime, futili cose.
“Ascolti…” – Ripete il Conte. “Le creature della notte fanno la loro musica”.
Harker, stranito, interrompe il pasto ma non comprende ciò che il padrone di casa vuole comunicargli, tutt’altro ne resta interdetto, confuso e intimorito. Dopotutto, perché il verso di un lupo, di un predatore che intona il proprio canto alla luna, dovrebbe attirare la sua attenzione, turbarlo, scuotere qualcosa in lui?
Nosferatu se ne accorge amaramente: “Oh giovanotto, lei è come la gente del villaggio che non riesce mai ad entrare nello spirito di un cacciatore”.
Dracula "preda" Lucy in una scena di "Nosferatu, il principe della notte"
È questo, proprio questo il dialogo che più mi colpì, la frase che il Conte pronuncia per ammonire Harker, reo di essere un ragazzo immaturo, “cieco”, privo di “empatia”, impossibilitato ad immedesimarsi nei confronti di una creatura che deve cacciare per vivere. Dracula, in fondo, era costretto a “cacciare” per nutrirsi. Al volgere del crepuscolo, predava proprio l’incauta gente del villaggio che, a suo dire, non riusciva a comprendere, a tollerare, e a perdonare la sua natura animalesca, la sua dannazione eterna. Nosferatu succhiava loro il sangue per perdurare, per seguitare a restare l’inestinto che era: un mostro condannato a vagare sulla Terra per tutte le ere che il mondo avrebbe riservato. Col trascorrere del tempo, i villici della Transilvania capirono la natura demoniaca del Conte, e la notte restavano fra le mura domestiche, lì dove Dracula non poteva raggiungerli. Rimasto senza prede, il cacciatore si vide costretto a spostare il proprio “terreno di caccia”: così entrò in contatto con Jonathan Harker, nella speranza di acquistare una nuova dimora, in un luogo diverso, situato al di là del mare, lì dove nessuno lo conosceva, lì dove avrebbe potuto tornare a vigilare con predatoria pazienza durante le ore notturne.
La frase di Nosferatu, riguardante lo spirito di un cacciatore, mi tornò alla mente quando pensai ad un altro lungometraggio, un classico della fantascienza e del genere action.
Nel 1987 uscì nei cinema di tutto il mondo “Predator”. Il film racconta la vicenda di un gruppo di militari, capeggiati dal berretto verde Dutch Schaefer (interpretato da Arnold Schwarzenegger), che si trova costretto a combattere per la propria sopravvivenza contro una creatura ignota.
Tale creatura è un’entità extraterrestre, un alieno sceso sulla Terra per andare a caccia di esseri umani. I vari personaggi dell’opera, militi forti ed orgogliosi, rozzi e fieri delle loro potentissime attrezzature, verranno ad uno ad uno predati e eliminati dall’alieno, che li osserva dall’alto, mimetizzandosi con l’ambiente circostante, anzi divenendo tutt’uno con esso, come una macchia trasparente ed invisibile che non può essere individuata. I soldati perderanno progressivamente le loro granitiche certezze, la loro arroganza e la loro alterigia, quando si renderanno conto di avere a che fare con un contendente superiore alle loro capacità tattiche. Le armi, a cui i personaggi davano un peso ed un riguardo maniacale, si riveleranno inutili contro la tecnologia di cui è fornito il Predator, che avrà modo di annichilire la presunta potenza dell’essere umano.
Via via che la pellicola scorre sotto gli occhi dello spettatore, ci si rende conto che il Predator è una creatura astuta e intelligente, che caccia solamente prede armate, e che quindi reputa stimolanti per testare la propria abilità.
La storia di “Predator” si svolge in una fitta giungla dell’America Centrale. Questa ambientazione che vede per l’appunto la vegetazione, le piante, gli alberi della giungla divenire parte integrante dello svolgersi delle vicende e teatro del combattimento tra “predatori”, fa sì che in “Predator” la lotta per la sopravvivenza tra uomo e alieno, tra essere umano e “mostro”, assuma sempre più un contorno primitivo, ancestrale. Nell’atto finale, infatti, lo scontro tra Dutch e l’alieno si svolge con armi “antiche”, lance, archi e frecce, trappole escogitate dal protagonista, il quale si è altresì ricoperto di fango per nascondere il proprio corpo alla vista del Predator. Dutch si è quindi “unito” alla terra, si è rivestito di essa, divenendo tutt’uno con quella natura primordiale che lo sprona a combattere, a sopravvivere con la forza del proprio spirito e il guizzo del proprio ingegno.
Ripensando alla frase di Nosferatu, potremmo tentare di comprendere l’essenza che alberga all’interno di un cacciatore apparentemente feroce e spietato come il Predator. Questa creatura extraterrestre, per come è stata concepita, non caccia per vivere ma caccia per puro divertimento. Egli concentra i propri sforzi per affrontare l’avversario che reputa più potente, mette in gioco la sua stessa vita per sfidare il nemico più forte. Il Predator vive per testare sé stesso, per misurare le proprie capacità, per migliorare e acuire il proprio istinto predatorio. In ogni combattimento, il Predator trae un’esperienza, studia il comportamento difensivo e offensivo della razza che affronta, impara dai propri errori. Questo personaggio, questa specie aliena fittizia, che fa della caccia lo scopo della propria esistenza, parrebbe non attribuire alcun rispetto alla vita, sia essa la propria o quella delle sue “prede”. Invero, questa creatura onora la sua vita e quella del suo oppositore in un modo contorto: attraverso la lotta, il trionfo o la sconfitta.
Il Predator, difatti, è un cacciatore che caccia, come già sottolineato, per diletto e non per bisogno, caccia per sperimentare su di sé una particolare adrenalina. Nelle sue lotte all’ultimo sangue, il Predator sembra sperimentare sensazioni inebrianti date proprio dal rischio di soccombere e dalla possibilità di prevalere: il Predator si sente più vivo proprio quando è a pochi passi dalla morte, quando può uccidere la sua preda o essere ucciso a sua volta da essa. Uno stato d’animo che potrebbe essere comparato a ciò che provano i matador nell’arena, quando si trovano al cospetto del toro che carica a testa bassa. Un concetto astratto, sospeso tra vita e morte che Ernest Hemingway sviluppò nel suo libro “Morte nel pomeriggio”.
"Predator" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
Il Predator, proprio per questo, ha un codice comportamentale: egli non attacca mai una vittima indifesa, un essere innocente. Già nel primo lungometraggio, ad esempio, mostra pietà nei confronti di una donna inerme. Altresì, il Predator appare spietato se il suo rivale è armato. Lo spirito di questo cacciatore è quello di un predatore che non va a caccia di prede, bensì solo ed esclusivamente di altri predatori: un che di paradossale che rende questo personaggio unico e diabolicamente affascinante.
“Predator” fu un successo commerciale e critico, divenendo col passare degli anni un film di culto che diede vita ad un imponente franchising. L’opera filmica ebbe una serie di sequel: un discreto secondo capitolo (“Predator 2”), un accettabile terzo episodio (“Predators”) ed un orripilante atto quarto (“The Predator”). Oltre ai seguiti diretti, i predator furono protagonisti di due film spin-off: un gradevole “Alien vs Predator” e un obbrobrioso “Alien vs Predator 2”.
Nell’anno corrente, a circa 35 anni dal Predator originale, è uscito il quinto capitolo della saga: “Prey”. Diretto dal regista Dan Trachtenberg, con Amber Midthunder nei panni del personaggio cardine, “Prey” può essere definito come il film che i fan di Predator stavano aspettando da tanto, troppo tempo.
La pellicola di Trachtenberg funge da prequel della saga, e ambienta le proprie vicissitudini nel 1700. La scelta di raccontare una storia in un’epoca passata, con protagonista Naru, una ragazza facente parte di una tribù indiana, riporta il franchising alle origini, dando al racconto visivo quel carattere atavico, “primitivo”, tipico del primo, intramontabile classico. “Prey” è infatti il sequel migliore della saga, perché ne riscopre il suo più profondo significato e lo riporta in scena: il confronto tra l’essere umano (una giovane donna in questo caso) e l’alieno, tra predatore e predatore, in un ambiente in cui la natura fa da silente spettatrice e giudice imparziale degli accadimenti.
Come già detto, “Prey” racconta parte del vissuto di Naru, una nativa americana che desidera affermarsi come cacciatrice della sua tribù. Naru è una giovane testarda ed intraprendente, molto brava a seguire le tracce, e possiede un istinto naturale per fiutare le prede nonché i pericoli che si celano nei boschi e nelle vaste praterie. Nessuno, però, sembra prenderla sul serio né considerarla meritevole di poter ascendere al rango di cacciatore. Nessuno ha fiducia in lei, neppure sua madre né tantomeno suo fratello. Naru è dunque una donna che deve farsi strada nella sua realtà sociale, superare con la sola forza di volontà i pregiudizi, gli scetticismi dei suoi simili.
La tribù in cui Naru è cresciuta dà una grande importanza alla caccia. Quest’ultima è un’attività necessaria per il sostentamento e la sopravvivenza di ogni membro della comunità. Gli indiani cacciano per vivere, al contrario del Predator atterrato sulla Terra a loro insaputa, il quale vive per cacciare. È proprio Naru ad accorgersi per prima del suo misterioso arrivo: seguendo le tracce di un leone, la ragazza si rende conto che qualcos’altro si cela nel verde delle pianure, o lassù sui rami degli alberi della foresta. Qualcosa di ancor più temibile e che sta predando gli animali più efferati.
Il predator di “Prey” esplora il pianeta Terra e la sua fauna, studiando le prede e i predatori del nostro ecosistema. Esso inizia cacciando proprio gli animali: in una sequenza, l’alieno osserva con i suoi stessi occhi una testimonianza di come funziona la catena alimentare sulla Terra: egli vede una formica che viene addentata da un roditore, il quale a sua volta viene mangiato da un serpente. Scrutando l’avvenimento, il Predator comprende che è il serpente l’animale più dominante in quel frangente, il predatore superiore del momento, così lo affronta e lo uccide in un istante, ottenendo la sua pelle. L’alieno continua a comportarsi così nelle ore successive: vede un grosso canide rincorrere una lepre, pertanto intuisce che è il primo il predatore, dunque lo sfida, dilaniandolo e prendendo la sua testa.
Un mattino, nei pressi di un ruscello, Naru vede un orso cibarsi di un cervo. La ragazza viene fiutata dall’orso, che l’attacca furiosamente. Naru fugge via ma viene comunque raggiunta dal gigantesco predatore onnivoro: d’un tratto qualcosa si materializza. L’acqua del fiume bagna il corpo dell’alieno che appare cristallino eppur trasparente. Il Predator assale l’orso, lo affronta a mani nude e, pur restando ferito, lo uccide, sollevando la carcassa dell’animale sopra il suo capo. Il sangue che sgorga dal manto dell’orso inzuppa il Predator, rendendolo parzialmente visibile allo sguardo attonito di Naru. Sembra che la “natura” stessa, l’acqua del ruscello che scorre limpida, e il sangue dell’animale, linfa vitale degli esseri viventi, stia lì a dare contorno e consistenza all’alieno senza faccia, giunto dal remoto. È la natura a rivelare parte dell’aspetto del Predator, come se volesse avvisare Naru, un’indiana che vive a stretto contatto con quella natura silenziosa che avvolge ogni cosa, della presenza di questa minaccia sconosciuta.
Quando il Predator scopre l’essere umano, imbattendosi nella tribù di Naru, l’alieno deduce che sulla Terra il predatore in cima alla piramide è l’uomo, conseguentemente sceglie di predarlo in scontri sempre più duri ed estenuanti. L’extraterrestre decima parte della tribù di Naru e uccide senza pietà gli uomini bianchi che si erano avventurati fino ai territori controllati dai nativi.
“Prey” si svolge con un ritmo serrato, avvincente come un thriller di alto livello. “Prey” è un lungometraggio coinvolgente e suggestivo, privo di punti morti. L’opera segue l’ascesa e il battesimo del fuoco di una donna che afferma sé stessa, di una cacciatrice che si oppone con impavidità ad un cacciatore ben più forte e pericoloso di lei.
"Il Predator di Prey" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
Il Predator agisce nell’ombra, occulta sé stesso con un apparecchiatura che lo rende invisibile. Naru fa lo stesso: ella escogita un modo per “scomparire”, per rendersi invedibile agli occhi del suo sfidante. Ingerisce così dei fiori che gelano il sangue del proprio corpo, facendole sparire ogni traccia di calore. Faccia a faccia con il Predator, Naru lo affronta con astuzia e coraggio, sconfiggendolo e reclamando il suo “scalpo”.
Tornata al campo, presso i tepee della sua gente, Naru porta con sé la testa del Predator, il trofeo che testimonia la sua forza, il suo ardore, la prova di sopravvivenza più ardua che ha voluto lei stessa sostenere e superare per ottenere il proprio posto nel gruppo.
Qual era lo spirito di questa cacciatrice? Potremmo provare a comprenderlo? Lo spirito che guidava Naru era lo spirito di una donna indomabile, che cacciava per conquistare ciò che altri le volevano negare. Lo spirito di Naru è quello di un’eroina moderna, di una instancabile lottatrice che combatte per realizzare i suoi sogni e appagare i propri desideri.
"Rey, Kylo Ren, Leila e Darth Sidious" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters
Attenzione pericolo SPOILER!!!!
Non ho intenzione di
scrivere una vera recensione sul nono episodio della saga di “Star Wars”. Non riuscirei a farlo.
Per quest’ultimo
capitolo, dubito valga veramente la pena di sprecare gocce d’inchiostro, seppur di inchiostro “virtuale” io
stia parlando. Mi ero ripromesso di non spendere più alcuna frase per questa
trilogia sequel, tanto il malumore e lo
scontento avevano avuto la meglio nel mio animo. Con un pizzico di
ingenuità, in tutti questi mesi, ho seguitato a ripetermi che i sequel non mi appartengono e che ciò
che mostrano non può scalfire il ricordo della storia che ho amato perdutamente.
Cronologicamente
parlando, “Star Wars”, per me, comincia
con un bambino scoperto su Tatooine e termina molti anni dopo con la morte di
quello stesso “bambino”, divenuto un uomo adulto, racchiuso in un elmo scuro.
Durante l’evolversi di
questa storia, il “bambino” di cui faccio menzione si era tramutato in un
terribile servitore del male, genuflesso
ad un dolore che non avrebbe mai avuto fine. Il biondo dei suoi capelli era
scomparso così come il candore del suo volto. Dall’episodio I all’episodio VI, di
Anakin non è rimasto che un viso paonazzo, saturo
di sofferenza. Quella faccia demolita dal patimento veniva osservata con
dolcezza dal figlio Luke, poco prima che Anakin spirasse tra le sue braccia. Che splendido finale era quello!
Anakin Skywalker, il prescelto dei Jedi, era un personaggio torturato dal rimorso, ottenebrato, sconvolto tanto nel corpo quanto nello spirito. Un uomo che, nel periodo più buio della sua vita, quando aveva perso ogni speranza e si era, da tempo, allontanato dal bene, scopre d’essere un padre. Anakin era un eroe caduto, eternamente in conflitto con se stesso, che cercava di risorgere dalle tenebre. Darth Vader era il “malvagio”, ma anche il vero protagonista delle vicende. Un protagonista che otteneva la redenzione salvando il figlio dalla morte, sottraendolo allo strazio del “vero” antagonista, vale a dire l’Imperatore Palpatine. I fulmini scagliati dal tiranno all’indirizzo dell’inerme Luke riaccesero l’umanità mai del tutto sopita nel cuore del cavaliere jedi. Anakin tornò in sé, riemerse verso la luce. Uccidendo il “cattivo”, ovvero il Signore dei Sith, Anakin compì la profezia teorizzata dal creatore di questo racconto immortale, George Lucas. “Star Wars” finiva in tal modo. La storia era stata conclusa, non vi era altro da raccontare.
L’epilogo della saga era
perfetto, talmente soddisfacente da non lasciare alcuno spiraglio. Qualunque
cosa fosse stata imbastita per un “fantomatico” seguito, avrebbe assunto i toni
della “forzatura”. E’ il destino delle grandi storie: hanno un inizio ed una
fine, proseguirle quando esse hanno già mostrato tutto significa rischiare di
rovinarle.
Tutto ciò che è stato prodotto dopo la fine dell’emozionantissimo “La vendetta dei sith”, non incontrando i miei favori, ho preferito abbandonarlo, ignorarlo, cosciente che avrebbe fatto felice qualcun altro.
Ad oggi, però, mi sento in dovere di scrivere qualche altra riga su questo strampalato proseguimento dell’esalogia ideata da Lucas, e per un motivo molto chiaro: il finale di “Star Wars: episodio IX” non può essere tralasciato, obliato, trascurato poiché inficia maledettamente l’arco narrativo dei capitoli precedenti, quello stesso arco narrativo sceneggiato in sei splendidi film, i quali materializzavano, sotto i nostri occhi, il fato di due cavalieri Jedi, Anakin e Luke Skywalker, ad oggi resi completamente inutili da una sciagurata prosecuzione firmata Walt Disney e Lucasfilm.
Riflettere sul “come” si
siano sviluppati questi bizzarri sequel, colmi
di una storia già vista e repleti di incongruenze e trame imbastite senza
un’intenzione precisa, fa sorridere amaramente. Con pacatezza, cercherò di
tirare le somme di questa “mirabolante” e “stupefacente” trilogia targata “Topolino”. Partiamo dall’inizio, “dall’originalissimo”
e “audace” episodio VII. Il nuovo
corso, infatti, comincia da lì.
E’ il 2015. I propositi
sono ambiziosi, il marketing pervasivo. Il seguito de “Il ritorno dello jedi” viene pubblicizzato come l’evento cinematografico più importante
degli ultimi dieci anni. La regia è stata affidata al noto J.J. Abrams. Con
una ruffianeria per nulla celata, il cineasta dimostra di voler appagare e
compiacere il pubblico di devoti, riportandolo a rivivere le identiche atmosfere
della prima trilogia. Abrams plasma, così, un’opera
filmica studiata a tavolino: stucchevole, prevedibile, scontatissima ed
estremamente scimmiottata. L’impatto per molti è spiazzante: episodio VII non è
un seguito, o per meglio dire è un seguito furbo e potenzialmente irrispettoso.
La trama introdotta dal
settimo episodio della saga è un allucinante copia-incolla. Più che un sequel, J.J. Abrams confeziona un
remake/reboot delle opere di George Lucas, non
osando nulla e non compiendo nessuna innovazione stilistica e narrativa. Il
sequel di un film che era terminato con la caduta dell’Impero Galattico e la
vittoria dell’Alleanza Ribelle, non
presenta alcunché di moderno, “inaspettato”, nuovo. L’ambientazione è la medesima, l’approccio è identico, i
conflitti lo sono altrettanto, il canovaccio, inoltre, calca in tutto e per
tutto quello di “Una nuova speranza”.
Ne “Il risveglio della forza” non
vengono mostrate le dinamiche di un universo evoluto, necessariamente cambiato in trenta e passa anni dall’ultima volta
che noi tutti gli avevamo dato un’occhiata.
Nessun contesto politico viene indagato, nessun aspetto sociale vagliato.
Il tutto si presenta come se nulla fosse mai variato.
Il Primo Ordine (la copia
mal fatta dell’Impero) viene rappresentato come l’organismo dominante, la
“cellula” più forte di questa realtà incerta e indefinita. La Resistenza (che
resiste non si sa a cosa visto che dovrebbe essere la milizia della Nuova
Repubblica e, dunque, del sistema politico dominante) vanta un esercito
risicato, abbozzato. Praticamente
Abrams, pur di farci vivere le medesime guerre stellari della tanto adorata trilogia
classica, ripropone, come in copia carbone, i medesimi conflitti battaglieri
dei film precedenti, senza aggiungere nulla di nuovo, senza contestualizzarli.
Ma non solo!
L’intera struttura del
film fa il verso ai passi più importanti della trilogia originale, perseguendo
un maldestro tentativo di rifacimento.
Non si può parlare d’altro che di un’operazione
retrò codarda e astuta. L’episodio VII è, a mio umile parere, l’anticinema!
Abrams fa proprio
l’opposto di ciò che dovrebbe fare un regista, un autore, “accontentando” il
pubblico con un mero rifacimento,
senza mai tentare di sorprenderlo. Cosciente
che la maggior parte dei fan aveva contestato a Lucas le troppe innovazioni
stilistiche della trilogia Prequel, Abrams
si nasconde dietro saldi scudi di fanservice, dando in pasto agli
appassionati lo stesso film di
quarant’anni fa. Così, J.J. inscena una continuazione che non è una vera
continuazione per paura di subire le critiche che George Lucas incassò ai suoi
tempi con episodio I, II e III, sinceri e cristallini esempi autoriali di rinnovo, di
sperimentalismo, di ampliamento, di coraggio.
Per come la storia viene
presentata in episodio VII, la lotta dei
ribelli, di Luke, di Leia e di Han risulta essere stata del tutto vana. La
Repubblica, rimessa in piedi col sangue e il sacrificio di eroi e combattenti
nei tre film della trilogia originale, viene spazzata via in tre secondi netti
dal “raggio di luna” scagliato da “Sailor
Abrams”. Tutto viene riportato al
punto di partenza, come se i film classici non avessero raggiunto alcuna meta.
Non si è voluto parlare di qualcosa di nuovo, di diverso, si è voluto, invece, annullare il “vecchio” e copiarlo.
La pellicola, così facendo, fa regredire la crescita di alcuni personaggi storici. Ne è un esempio l’evoluzione di Han Solo che, da contrabbandiere solitario, testa calda, alla fine della trilogia originale era diventato leader della ribellione ed eroe altruista, temerario e senza macchia. In “Il risveglio della forza”, la progressione di Han viene completamente annullata. Han Solo, a settant’anni suonati, si rimette a fare le stesse cose che faceva quando era giovane e avventato. Si gingilla con questioni di poco conto, truffa alcune fazioni malavitose con Chewbacca, dimostrando di non aver perso per nulla il vizio. Il punto in cui era arrivato al termine di episodio VI è stato spazzato via. Han e Leia che, come ricordavamo, erano diventati una cosa sola, nell’episodio VII appaiono lontani, distanti, separati da un brutto risvolto. Abrams ha, così, mandato in frantumi una delle coppie più simboliche dell’universo di Star Wars. Leia, poi, in tutta la trilogia sequel si limiterà ad essere una comparsa stanca e assuefatta su un altrettanto fiacco sfondo.
Nel medesimo film, Luke
pare essersi “smarrito”, ma per trovarlo viene consegnata alla Resistenza una
mappa (?). Abrams ha poi la sfrontatezza di inserire la terza “Morte Nera”
consecutiva che presenta lo stesso tallone d’Achille della prima.
Nel 2015 fu personalmente
scioccante assistere al cinema a una tale e becera scopiazzatura del lavoro originale e artistico di Lucas. Da
fan di lunga data mi sentii preso per i fondelli.
Nessuno dei personaggi proposti in questo nuovo corso ebbe l’abilità di “acchiapparmi”, di conquistami. Poe Dameron fungeva da “clone” difforme di Han Solo e Finn era del tutto privo di carisma. Rey, pur reggendo il peso della pellicola con un certo spessore, non fece altro che infastidirmi. Bella, intelligente, dolce, coraggiosa, forte, disinvolta, era tutto ciò che si poteva sperare contenuto in un solo corpo. Era troppo, a dire la verità. Rey era brava a duellare con la spada laser senza averne mai impugnata una, era capace di fare trucchi mentali jedi grazie ad una virtù incompresa, era, insomma, l’emblema del nuovo corso Disney: una donna praticamente perfetta sotto ogni aspetto, la degna depositaria dell’eredità disneyana di Mary Poppins.
Kylo Ren, colui che
doveva fungere da antagonista della prima opera, sembrava sin da subito
dilaniato da un conflitto interiore. Diviso tra luce e oscurità, Ben Solo era un
buono che avrebbe voluto essere un cattivo (?). Un personaggio insicuro,
complessato, che sognava d’essere forte come il nonno e seguire le sue orme verso
il lato oscuro. Per tale ragione, Kylo Ren, nel primo lungometraggio di questo bislacco
corso, compie il parricidio, per abbracciare definitivamente le tenebre. Anche
questa mi sembrò una scelta narrativa ingiustificabile.
Evidentemente, Ben credeva
che solo attraverso il male avrebbe potuto eguagliare il suo “mito”,
raggiungere la potenza di Darth Vader. Una domanda, però, sorge spontanea: come è possibile che il fantasma di Anakin
non si sia palesato dinanzi al nipote, indirizzandolo sulla retta via sin da
subito? Kylo Ren voleva finire ciò che Darth Vader aveva iniziato, ma
cos’era questo progetto rimasto incompiuto?
Bene, a trilogia conclusa,
non si riesce a capire quale fosse questo arduo compito. Ben Solo si avvicina
al male perché vorrebbe essere come suo nonno, eppure non sa che quello stesso
nonno che venera assiduamente ha, per l’appunto, dato la sua vita per annientare il simbolo di quel male che lui,
adesso, insegue furiosamente. Com’è possibile che nessuno gli abbia riferito
della redenzione di Darth Vader?
Ma, ancor di più, come è
concepibile che Anakin non sia mai intervenuto per vegliare sul destino di suo
nipote? Non gli abbia mai parlato come un’eco? Incongruenze come queste rendono
la trilogia disneyana piena di no-sense.
Nell’episodio 7, viene introdotto
il misterioso Snoke, figura enigmatica che verrà eliminata senza uno straccio
di presentazione nell’episodio successivo. Proprio così, ex abrupto,
all’improvviso, esattamente come avrebbero immaginato gli sceneggiatori
presenti nella serie tv “Boris”.
E, una volta nominatolo, giungiamo,
dunque, al “rivoluzionario” e “dissacrante” episodio VIII.
Rian
Johnson viene presentato al pubblico come il regista illuminato, il “Robespierre”
di “Star Wars”.
Johnson è pronto a ghigliottinare teste, a tagliare i ponti con il passato, a
mozzare con una lama affilata le corde che legano i nostalgici al trascorso. Johnson
pare essere categorico: bisogna
accantonare il fanservice di J.J. Abrams. E’ ora di cambiare rotta. Purtroppo
per lui, la rotta di navigazione di questi seguiti era ormai bella che
indirizzata. L’episodio VII era il nucleo fondamentale di questa trilogia.
Partendo in quel modo, con uno scenario
che in toto sapeva di già visto, non c’era più niente da fare. E’, di
fatto, impossibile apportare “migliorie” e schiette novità in un contesto platealmente ripetitivo come quello
architettato da J.J. Abrams. L’errore di questa trilogia è a monte, e comincia
proprio con il numero “7”.
Il
risultato del lavoro “innovativo” di Johnson è una dissacrazione del concetto
stesso di Forza. Johnson tratta e inscena la Forza
Unificante come se fosse un potere da fumetto, prestato ad ogni necessità di
sceneggiatura. Nella pellicola, allora, assistiamo, inermi, a momenti
stralunati e balordi.
Rey e Kylo Ren cominciano
a dialogare a distanza, come in una fantomatica “videochiamata” a carattere
fantascientifico. I due parlano, si
osservano, si toccano. Qualcosa di mai visto prima. Invero, in episodio V,
Leila riesce a sentire Luke, ma come un’impercettibile sensazione. Nel caso di
episodio VIII, la Forza abbatte ogni barriera, ogni dogma, ogni limite imposto tanto
accuratamente in più di trent’anni di curata elaborazione dal creatore George
Lucas, rendendo plausibili teletrasporti, sdoppiamenti, ologrammi a distanza. Il tutto senza uno straccio di spiegazione.
Accade questo perché è così e basta!
Nel suddetto
lungometraggio, Luke Skywalker viene trattato come un reietto, un vagabondo, un
maestro che non ha compiuto nulla di
tangibile nella sua esistenza. Luke non ha ricreato un nuovo ordine jedi, è
fuggito dai pericoli, dagli obblighi. Colui che riusciva a intravedere il buono
custodito nel corpo contorto e meccanico
di suo padre è, oramai, un disilluso, un essere che ha dubitato di suo
nipote per un semplice sentore, valutando, addirittura, l’idea di assassinarlo nel
sonno. Qualcosa di aberrante e
inspiegabile. Com’è possibile che un personaggio come Luke sia diventato
quello che ci è stato mostrato? Un anacoreta sventurato, stanco, l’opposto di ciò che era sempre stato.
Johnson, poi, per tutto
il film non fa che calcare la mano con l’ironia. Non vi è una singola scena che
non sia stemperata da una battuta stupida, da
un’ironia grossolana che affligge ogni dannato personaggio. Tutti cadono
preda della febbre della comicità, persino Luke che in tre film interi non
aveva mai palesato alcuna inclinazione comica. Lo “Star Wars” della Disney si adegua, così, allo stile Marvel in cui
non si può prendere seriamente una singola scena che subito deve essere
annacquata con una battuta.
Rian Johnson, reputato dagli estimatori di episodio VIII come “un grande innovatore”, si limita, per il resto, a riproporre la trama de “L’impero colpisce ancora”. Alcune sequenze sono, addirittura, identiche a quelle de “Il ritorno dello Jedi”, specialmente quella in cui Rey, accompagnata da Ben Solo, raggiunge Snoke. La stessa scena è possibile scorgerla, naturalmente, quando Darth Vader conduce Luke al cospetto dell’Imperatore. In questo caso, ancora una volta, non si tratta di semplici citazioni ma di vere e proprie riproposizioni, inscenate per mancanza di idee di fondo.
Un’intera parte del film,
quella relativa a Poe e Finn, è completamente inutile ai fini della trama. Ogni evento che accade non porta, di fatto,
a niente. Se l’episodio VII, col suo delirante citazionismo, aveva diviso
il fandom tra chi si aspettava un vero seguito e chi, invece, si era
accontentato del sicurissimo remake
senza infamia e senza lode, episodio VIII genera una spaccatura ulteriore,
senza precedenti.
Arriviamo, infine, ad episodio
IX, la “degna” chiusura di questa improbabile
trilogia.
Dopo le pesanti critiche
ricevute da “Gli ultimi Jedi”, la
Disney richiama Mr. Fanservice: J.J. Abrams.
Al cineasta più citazionista e scopiazzatore del globo terrestre non frega nulla di raccontare una storia, anche perché non è in grado di farlo se non attraverso l’ispirazione del cinema spielberghiano e lucasiano. Così, Abrams fa quello che, secondo lui, il pubblico vuole: annulla completamente l’episodio VIII. Sin dal primo frame, il compito di Abrams è quello di prendere le distanze dall’opera antecedente, correndo all’impazzata per tappare buchi, rattoppare tagli, ricucire strappi insanabili. Il tutto con un piglio imbarazzante, con la disperazione di chi non sa cosa diamine sta combinando. Abrams fa peggio di Johnson, e trasforma la Forza in un potere che sembra essere uscito da alcuni episodi di “Dragon Ball”.
Nel vano tentativo di rendere appetibile l’operazione, Abrams ha la brillante idea di resuscitare l’Imperatore Palpatine, rischiando di distruggere il meraviglioso arco narrativo che ha visto Anakin ascendere al suo ruolo di Prescelto e portare equilibrio nella Forza. Perpetrando ciò, Abrams tenta di cancellare, con una gomma immaginaria, l'operato del collega Johnson e rinnega tutta la mitologia di Guerre Stellari, imbrattando il lavoro stesso di George Lucas.
La trilogia disneyana di Star Wars credo sia l’unico esempio cinematografico di una trilogia in cui gli episodi si rinnegano tra loro. L’episodio 7 rinnega l’episodio 9, l’episodio 8 sconfessa il 7 e l’episodio 9 rigetta sia l’ottavo che il settimo. Ma non solo, quest’ultimo capitolo distrugge la narrazione dell’intera storia concepita nei sei film da Lucas.
Per quanto Abrams si
sforzi a premere il piede sull’acceleratore e sommerga lo spettatore con scene
d’azione, con battaglie e con nozioni frettolose, è ormai troppo tardi: i
personaggi di questa trilogia sono piatti,
sbiaditi, insulsi perché mai sviluppati con un’intenzione chiara e
definita. A pochi importa veramente cosa possa accadere loro. Questi personaggi
non sono mai evoluti, non sono mai stati resi interessanti o delineati in modo
nitido. Sono pallide comparse, rese centrali
in una trama inesistente, caratteristi infimi, imparagonabili rispetto a
Luke, a Leila, a Han, ad Anakin a Padmé, a Obi-Wan, a Yoda, a Qui-Gon Jinn.
Della maggior parte dei personaggi della trilogia sequel non resta neppure un
briciolo, nessuna emozione particolare. Ogni passo, ogni risvolto è telefonato, privo
di pathos, blando, sciatto, ripetitivo, inguardabile
ed inqualificabile.
La pellicola di Abrams
tocca le più alte vette dell’imbarazzo quando rivela la reale origine di Rey. Un qualcosa di talmente ridicolo, osceno e
difficilmente commentabile che sarebbe meglio glissare se non fosse una parte
così fondamentale. Rey è… la nipote di Palpatine.
In parole povere, noi,
gli spettatori, dovremmo immaginare che Palpatine abbia avuto una relazione con
una donna e abbia avuto degli eredi, il che, di per sé, è già ostico da
valutare senza scoppiare a ridere
freneticamente. Quando, come, perché sarebbe accaduto questo?
A me, francamente, sembra
di vivere in un grosso incubo. Questi
sceneggiatori hanno veramente gettato sul tavolo la carta della “nipote”.
Ma nemmeno in “Beautiful” è
ammissibile un colpo di scena del genere. Siamo al ridicolo, al raschiamento
del fondo del barile, siamo alla parodia.
Kylo Ren, l’unico
personaggio che poteva sperare su uno sviluppo più accurato, compie, invece,
l’ennesimo andirivieni della sua mal sfruttata presenza in questa trilogia. Da
cattivo a buono, da buono a cattivo, e ancora da cattivo a buono, Ben Solo sceglie
di tornare al Lato Chiaro in maniera sbrigativa, sciocca. Il figlio di Han e
Leia finisce per svanire, non prima di aver baciato, in una delle scene più forzate di sempre, Rey. Una
scelta, quest’ultima, realizzata senza alcuno scopo narrativo ma soltanto per
far applaudire le ragazze presenti in sala, molto devote sui social all’hashtag
“Reylo”. Ma che disagio!
Il nono capitolo della
saga vede, come già accennato, la presenza di Palpatine. La morte di Darth Sidious costituiva il culmine della storia di George
Lucas. Il suo ritorno, giustificato in maniera vergognosa, decreta “la
fine” di ogni pretesa logica riservata a quest’ultima trilogia.
In trent’anni, Palpatine
è rimasto nascosto non si sa dove, probabilmente tra la carta colorata di un
uovo di Pasqua, ha mosso lui i fili del Primo Ordine (era tutto ponderato sin
dall’inizio, come no!) e ha creato anche Snoke. Così, senza motivo. Ogni cosa abbozzata in questa trilogia è stata
liquidata con delle spiegazioni che sembrano estrapolate da una fanfiction scritta a quattro mani durante
qualche oretta di svago.
Palpatine verrà ucciso da
Rey e ciò segnerà un confine netto da cui non si tornerà più indietro: gli Skywalker non hanno fatto nulla di
veramente valevole in questo universo. E’ ciò che hanno deciso, con
quest’ultimo episodio, l’accoppiata Disney/Lucasfilm. Gli Skywalker,
dall’essere la famiglia più importante della galassia, sono stati ridotti ad
essere vacue ed ingenue entità di
passaggio. E’ Rey la vera fautrice degli eventi, è una Palpatine il vero perno della storia finale. Una Palpatine
che sceglie di ribattezzarsi Skywalker. E’ questa la grande ascesa a cui
abbiamo assistito: la dissoluzione dei
veri Skywalker, l’annientamento di un leggendario lignaggio e la celebrazione
di una Palpatine.
Al termine della trilogia
disneyana, tirando le somme, gli storici protagonisti della saga, Anakin e
Luke, non hanno compiuto niente di rilevante. Con questa scelta, la
Disney/Lucasfilm ha annientato la profondità delle due trilogie precedenti.
Il
sacrificio di Anakin è stato vanificato. L’intera storia della profezia,
del Prescelto, è stata soppressa. Vi
soddisfa un finale del genere? Com’è possibile? Che storia abbiamo visto
fino a pochi anni fa, allora? Vi aggrada
aver assistito al logorio e allo sgretolamento dei personaggi cardine della
trilogia originale?
La saga di “Star Wars”, per come si è evoluta negli
anni, è diventata la storia di Anakin Skywalker, dalla sua scoperta sino alla
sua morte. Non si poteva prescindere da una tale verità. Con questa orribile
trilogia, la Disney ha adombrato la figura di Darth Vader, rivelando di non aver minimamente compreso la maestosità del racconto
di Lucas, un racconto fatto di fallimenti, di errori, di redenzione,
incentrato sempre sulla figura di un
eroe, di un caduto, di un marito e di un
padre. Tutto nell’esalogia di Lucas si combinava perfettamente, era una
storia amalgamata che faceva rima come
una sola, lunga e meravigliosa poesia. Era la storia di un padre e di un
figlio, di una famiglia, gli Skywalker, ad oggi completamente rovinata. Il
finale di episodio VI è stato neutralizzato.
Era ciò che temevo e
profetizzavo, preoccupato, nel novembre del 2015, quando l’ultima fatica della Lucasfilm
era imminente e doveva ancora sbarcare al cinema. Com’è possibile farsi andare
bene una roba del genere? Con questa trovata, l’intera storia della saga di
Star Wars non ha più alcun senso. Difatti,
non sono più gli Skywalker a riportare equilibrio nella Forza ma è… una Palpatine
a farlo. E’ orribile! E’ indecente!
L’intera trilogia sequel
non è stata diretta e coordinata da un vero narratore. Manca totalmente una
visione univoca e d’insieme. Sembrano tutti film sconnessi, sconclusionati, che
si rifiutano tra loro. Ogni lungometraggio è passato di mano in mano, da
un’idea all’altra, senza seguire un pensiero di base. E’ qualcosa non soltanto
di palese, ma di tremendamente oggettivo.
Sin dal principio, nessuno aveva tracciato una strada da intraprendere, una
direzione da seguire. Si è andati a tentoni, navigando a vista e prendendo come metro di giudizio il parere reazionario
del fandom, direttamente dal web. Abbiamo
assistito a tre episodi fatti con cose buttate a casaccio, con discordanze,con repentini cambi di visione che
annullano ogni tentativo di sospensione dell’incredulità. Ogni pellicola è
stata cancellata e reinventata come se si trattasse di un progetto autonomo. Questa trilogia poggiava su sei film
precedenti, tutti coordinati da un’unica presenza autoriale. L’esalogia di
Lucas è stata barbaramente insozzata, deturpata.
Qual è stato il senso di
questi tre episodi?
Questa è stata la trilogia del riciclo, del ricalco, della scopiazzatura, il simbolo della mancanza di idee, del cattivo modo di fare cinema, dell’improvvisazione, del riadattamento, del pessimo modo di allungare ed espandere una mitologia. Tutto è stato vigliaccamente rabberciato, arrangiato come si poteva, senza un benché minimo senso logico.
In passato, fu aspramente
criticato Lucas, un genio, un visionario, un autore, un vero artista per aver commesso errori umani ma sempre dettati
dalla volontà di ammodernare, di esplorare un mondo vasto ma sempre
armonico, unito da un filo conduttore e portante. Lucas, verso ogni suo film,
verso ognuno dei suoi “figli”, ha sempre
infuso guizzo, magia. Le sue opere erano pregne di meraviglia, di quello
stupore che la Disney e Lucasfilm, nei riguardi di Star Wars, possono soltanto
inseguire e agognare. Oggi, Lucas andrebbe rimpianto, richiamato a gran voce.
Lungi da me mancare di
rispetto verso chi ha apprezzato quest’ultima trilogia. Potete esserne fieri e orgogliosi. Sono veramente felice per voi, anzi vi
invidio. Fatico, però, a capire cosa vi sia piaciuto in tre prodotti confusi, nebulosi, che si contraddicono tra
loro e che annullano i precedenti sei film rendendoli vani. Cosa vi è piaciuto di una trilogia che sconfessa
continuamente ciò che ha proposto essa stessa? Che copia e distrugge?
Non mi resta che
aggrapparmi forte a quei sei lungometraggi, illudendomi che quanto sia accaduto
recentemente si sia verificato in una
realtà parallela. In fondo è proprio così che è andata: il vero finale è
ancora lì, cristallizzato sulla luna boscosa di Endor.
"Joker" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
Arthur, l’uomo nello specchio
Cosa mostra uno specchio?
Ciò che ha dinanzi a sé, risponderebbe qualcuno.
In effetti, esso riflette
ciò che vede, l’apparenza, la pura esteriorità. Ciascun specchio possiede l’abilità
di replicare un gesto, di ricambiare uno sguardo, di duplicare semplicemente
una sagoma. E lo fa con distacco, con gelida
austerità. Lo specchio copia un’immagine, riproduce un corpo, ma non coglie
l’intimità, il carattere, la personalità
di chi si pone al suo cospetto. Esso si limita a “bissare”, a sdoppiare le
epidermiche sembianze. Talvolta, chi osserva attentamente la propria figura
davanti ad un vetro fatica a riconoscerla
come vorrebbe. Una ruga di troppo o un affanno marcato sulla pelle possono
mutare il riflesso, sino a renderlo diverso, inaspettato.
Scrutando uno specchio,
una persona nota se stessa, prigioniera
di quei contorni. In alcuni romanzi di fantasia, gli specchi sono soliti
riflettere soltanto gli esseri umani che
sono ancora in vita, o per meglio dire, i corpi che custodiscono, come
scrigni, un’anima. In tali racconti,
i vampiri non possono essere rispecchiati da una qualunque superficie
riflettente. Essi, infatti, sono deceduti, non possiedono più alcun barlume di
umanità e, per tale ragione, lo specchio decide di non rimandare i loro
aspetti, di non riprodurre i loro profili. I vampiri non esistono davvero,
hanno perduto il dono della vita e permangono sulla Terra malgrado la loro
natura. Di conseguenza, lo specchio, come se fosse un oggetto investito dal
peso della ragione, sceglie volutamente di non ricreare la loro parvenza.
La pellicola “Joker” comincia proprio con un uomo che contempla se stesso dinanzi ad una levigata superficie riflettente. Arthur Fleck siede a un tavolo da trucco e guarda dritto davanti a sé. Mira la propria faccia, pallida e triste. Prova, allora, a mutare l’espressione del suo volto accorato, spingendo le proprie labbra verso l’alto, sino alle gote, ma è tutto vano. Non appena cede allo sforzo, la bocca ritorna alla posizione naturale, e dagli occhi scendono giù gocce di liquido trasparente. Per tutta la vita, Arthur non ha vissuto un solo momento di appagamento. Costui arrivò, persino, a interrogarsi circa la propria reale esistenza. Questo dubbio non poteva avere un fondato riscontro, poiché lo specchio seguitava a mostrare la sua forma. Arthur non era un defunto che errava senza scopo, lo specchio, in tal caso, non lo avrebbe riflesso. L’immagine che vedeva nello specchio doveva garantirgli la sua tangibile esistenza ma non gli bastava.
Quella stessa superficie
palesava i suoi dolori, li rendeva nitidi,
esteriorizzava in modo cristallino i supplizi che egli tollerava giorno dopo
giorno e che gli scavavano sempre di più il viso. Arthur cercò, allora, di
coprirli con il trucco. Intrise la pelle
nel candido cerone, attorno agli occhi disegnò delle lacrime azzurre e
cosparse, infine, le labbra di rosso. Arthur si truccò da clown per celare
lo strazio, per indossare una maschera
comica che potesse occultare la mestizia
dell’animo. Lo specchio continuò a rifletterlo, ma della sua fisionomia avvilita
non era rimasto che un impercettibile accenno,
sepolto sotto l’abbondante uso del cosmetico. Adesso, la faccia gioiosa di un pagliaccio e non più di un uomo disperato veniva plagiata dal
freddo materiale sorretto da quel tavolino. A quel punto, Arthur smise
d’osservarsi, si rimise in piedi ed entrò in scena.
Arthur è un cittadino
qualunque di Gotham City. Giorno
dopo giorno, egli si trascina via, lungo strade affollate, schiavo delle
proprie turbolenti angosce. Alienato, fortemente disturbato, questi percorre
giornalmente una lunga scalinata per
tornare nella propria dimora, una sudicia casa situata nei bassifondi della
città. Per una sorta di bizzarra e cruda ironia,
Arthur soffre di un particolare disturbo mentale che lo porta a scoppiare a
ridere in maniera fragorosa ogni qual volta avverte uno stato emotivo di forte
tensione. Le sue risate appaiono come
una sorta d’incontrollabile riflesso condizionato. Arthur ride
freneticamente, senza mai volerlo, tenta di soffocare il proprio insano riso senza
poterci mai riuscire. Le risate lo torturano, si stampano sulla sua faccia nei
momenti meno opportuni e scompaiono solamente dopo un tempo lungo ed un’attesa
estenuante.
La salita scenica dalla morte alla vita
Sin dalla più tenera età,
Arthur sogna di diventare un comico e di spargere gioia e felicità in tutto il mondo.
I suoi sogni, però, sono destinati a scontrarsi con una dura e repressiva realtà. Da che ha memoria,
Arthur ha vissuto nella povertà, vittima di una società opprimente che
schiaccia i deboli sino a ridurli allo stremo. Arthur, abitualmente, si reca ad
incontrare una psichiatra, presso i servizi sociali. La dottoressa, di per sé,
non lo ascolta minimamente, sembrando del tutto incapace di comprendere i
tormenti che affliggono questo delicato
paziente. Arthur ne è consapevole ma riesce comunque a trarre conforto da
questi incontri grazie alla possibilità di poter avere accesso a delle
medicine, che tengono a bada i suoi disturbi. Tuttavia, quando il governo di
Gotham deciderà di tagliare i fondi ai servizi sociali, Arthur si ritroverà completamente solo, privo dell’accesso ai
medicinali che frenavano i suoi primordiali impulsi. Il disagio mentale,
dunque, si acuirà in lui.
Per settimane, Arthur
subisce le aggressioni dei teppisti per strada, patisce le angherie dei
colleghi. La rabbia dell’uomo, il livore verso una società assenteista che volta le spalle al cittadino più
bisognoso, che calpesta il povero divorandolo mentre giace, inerme, a terra,
fagocitandolo in una morsa, si esacerbano nel suo cuore, che continua a battere
sebbene non produca più alcun sentimento.
A lungo andare, Arthur diviene un essere freddo, distaccato, pericoloso. Egli abbraccia pienamente la “morte” per
intraprendere una nuova vita, la sua prima vita. Arthur, che non si era mai
sentito vivo, accetta definitivamente l’inesistenza della sua parte umana e
rinasce con una nuova veste. Joker vede
la luce dal buio di una società sordida. L’omicidio, la perpetuazione della
morte, divengono le fonti con cui Arthur attua la propria rivalsa. Da vittima, egli
sceglie di assurgere ai ranghi del truce, dell’assassino che perpetra un delitto per un intangibile
senso di vendetta.
Ed è proprio un agire
vendicativo quello di cui Arthur si farà dispensatore. Una vendetta che troverà
sfogo nei riguardi dei ricchi, dei potenti, di coloro che hanno genuflesso gli altri, i più deboli. Joker
diventa, così, un simbolo della lotta di
classe, un emblema per il ceto meno agiato. Sul finire delle tragiche
vicende, il personaggio cardine dell’opera conquista la fama, l’attenzione che
tanto aveva agognato, ma in un modo del tutto differente da come, in principio,
si era auspicato. Non sarà con il riso,
sarà con l’attuazione dell’orrore che egli diverrà popolare. Arthur,
infine, non porterà gioia nel mondo ma anarchia, terrore. Dinanzi ad una città
in fiamme, preda di un gregge famelico, di una mandria imbizzarrita, Arthur non
proverà disgusto, bensì riderà. Per la prima volta davvero. Egli non avrà più
bisogno di sospingere le proprie labbra con le dita, sino alla parte più alta
delle guance. Gli basterà sporcarsi la bocca di sangue e ghignare sadicamente. Il riso, per lui, sarà, finalmente, una
reazione naturale.
Nel crescendo del film, la
lenta ed estenuante trasformazione di Arthur in Joker viene inscenata come se
fosse una prolungata ascensione
piuttosto che una caduta nel vortice
della follia. La metamorfosi del protagonista viene celebrata come un trionfo. Quella
di Arthur è stata, infatti, una lunga salita verso una vetta su cui nessun
altro avrebbe potuto mai spingersi. Con fatica, rantolando, subendo le offese,
le denigrazioni, gli insulti, le prepotenze del prossimo, Arthur salirà sempre più in alto. Una volta raggiunta la cima di
questa piramide eretta dall’insoddisfazione, Arthur vedrà finalmente se stesso,
il proprio vero riflesso nello specchio,
ed otterrà la sua ambita libertà. Trasformandosi in Joker, Arthur guadagnerà il
culmine della “scalinata”, una scalinata
del tutto simile a quella che egli percorreva quotidianamente, la stessa
scalinata su cui danzerà, una volta indossate
le vesti e assunti i colori del clown, principe del crimine, sulla propria
pelle.
In quanto reietto,
abbandonato, maltrattato, Arthur inizia
la sua storia dal basso, dai ghetti, dalle periferie desuete e dismesse.
Lasciandosi andare alla propria follia, accogliendola
come l’unica possibilità di esistenza per poter affrontare un mondo oscuro e
minaccioso, Arthur giungerà alla sommità
del picco, e da lassù vedrà tutta la
realtà da una nuova prospettiva; un punto di vista aberrante, in cui la mostruosità combacia con l’ordinaria
normalità. Il vortice che trascina Arthur verso la pazzia, invece che farlo
precipitare, lo conduce sino all’acme. Pertanto, egli diviene “speciale” una
volta mutato in un pazzo omicida, un
animatore di folle che fa della violenza la propria arma di seduzione. E’
questa la schiacciante parabola di “Joker”.
L’inquietante messaggio che il film rilascia in merito al personaggio ispirato
ai fumetti DC Comics viene incarnato dalla metamorfosi di quest’uomo indigente,
di questo disagiato trascinato sino allo sfinimento, che rinnova se stesso in
qualcosa d’inaspettato, d’orrido, di abominevole.
Gotham City, una metropoli finta
“Joker” è un film confezionato a regola d’arte, un grandissimo
esempio di cinema. Una produzione coraggiosa, provocatoria, che fa breccia in maniera dirompente,
fragorosa, roboante. “Joker” è il
frutto di una lavorazione ardita, temeraria, da cui si origina una ventata
d’aria fresca in un genere cinematografico divenuto saturo e consueto. Vanta un’interpretazione
straordinaria, impressionante, decisamente coinvolgente, una regia notevole,
una fotografia estremamente suggestiva: tanti elementi che elevano il lungometraggio
su molte altre produzioni contemporanee. Senza alcun dubbio, Joaquin Phoenix
convoglia in sé l’essenza dell’intero film. La sua stupefacente, sbalorditiva,
dolorosa, conturbante e commuovente resa
scenica di Arthur costituisce il nucleo dell’intero lavoro. “Joker” è un film che colpisce, che si
appiccica addosso e non si stacca più.
"Joker" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters
L’ultima fatica del
regista Todd Phillips e della Warner Bros è da considerarsi un risultato
notevole, eccellente, un prodotto che si regge totalmente sulle spalle infossate,
gracili, del suo attore principale. Un’interpretazione magistrale, una regia
che omaggia i cult del passato, una colonna sonora da brivido, una scenografia
bellissima, una fotografia favolosa, più fredda nella prima parte, quella
introduttiva e analitica, più calda nella parte restante, in cui il Joker calcherà il suolo di Gotham col suo incedere rovinoso e
letale, sono tutti questi che ho appena elencato i punti di forza di quest’opera,
imponente nella sua realizzazione.
"Joker, ritratto in bianco e nero" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters
“Joker” è una pellicola imperdibile, ciononostante non è esente da qualche
carenza, da qualche limite, da qualche difetto sparso. Il film si concentra
quasi esclusivamente sull’approccio introspettivo. Tale approfondimento
psicologico, pur essendo lungo, attento, minuzioso,
valevole cede, in alcune scelte, alla banalità, cominciando dal modo in cui i
personaggi secondari, coloro che spingeranno Arthur verso l’orlo della pazzia,
vengono delineati sullo schermo.
Tutti i personaggi di
contorno con cui Arthur interagisce sono monodimensionali,
e hanno un solo e comun denominatore: sono
tutti cattivi. Quasi tutti i caratteri che Arthur incontra sul proprio
cammino lo trattano male, lo aggrediscono. Costoro gli negano aiuto, gli
evitano garbo e gentilezza. Ognuno di essi mostra il carattere di un egoista, di
un insensibile, di un crudele e di un irrispettoso. Che siano avventori incontrati
tra le vie di Gotham, partner di lavoro, oppure presunti amici, essi sono vere
e proprie figure malvagie, che non esitano a picchiare, ad insultare, a
svilire. Ognuno, a modo suo, finisce per arrecare dolore al protagonista,
alimentando in lui la diffidenza e l’avversione verso il prossimo. Non c’è
bontà, non c’è affetto, non c’è neppure amore nei cuori dei cittadini di
Gotham. Quasi nessuna delle personalità mostrate nel film risulta essere
diversificata.
Il cineasta Todd Phillips presenta al suo pubblico
un mondo ben preciso, tremendo, caliginoso, cupo, fosco, in cui non vi è alcuna
speranza. Un mondo sciatto, una metropoli sozza, colma di reietti, di
criminali, di parvenu corrotti, di persone comuni prive di alcuna sensibilità,
di politici che perseguono soltanto i propri interessi, di ricchi egoisti, in
altre parole: un mondo ricreato ad hoc,
finto, estremamente stereotipato.
Un padre “mortificato”
In questo scenario così
uniformato, così appianato, in cui vengono soltanto rimarcate le differenze tra
i poveri ed i ricchi, viene banalizzata la
figura di Thomas Wayne, ridotta anch’essa ad un mero stereotipo. Il padre di Bruce è una figura, sovente, citata nella
prima parte del lungometraggio, una sagoma incerta che verrà via via presentata
e rivelata. Anch’egli viene mostrato come un uomo freddo, egocentrico, aspramente
indifferente verso i problemi dei più deboli, praticamente l’esatto opposto di
come il personaggio è stato storicamente tratteggiato tra le pagine dei
fumetti. Thomas Wayne, il papà del futuro paladino di Gotham, è sempre stato
descritto come un uomo di buon cuore. La virtù identificativa dei genitori di Bruce,
Thomas e Martha Wayne, è sempre corrisposta all’incondizionata bontà. Ambedue
sono sempre stati rappresentati come persone visceralmente buone, attente, prodighe, gentili, perennemente
disposte a sfruttare il loro potere, la loro ricchezza, le proprie influenze
per supportare i più sfortunati, i
bisognosi d’aiuto. Nei fumetti, Thomas e Martha non vengono mai disegnati e
caratterizzati come i tradizionali “ricchi” che pensano solo ai propri
interessi, i miliardari che covano menefreghismo e senso di superiorità nei
riguardi dei meno abbienti.
In “Joker”, Thomas Wayne subisce un netto appiattimento, perdendo tutte
le caratteristiche che lo rendevano tanto speciale nella mitologia di Batman e,
in particolar modo, nel cuore e nei ricordi di Bruce Wayne. Thomas viene, conseguentemente, livellato,
adattato al luogo comune del magnate indifferente, superficiale, dell’uomo
disinteressato alle difficoltà della povera gente. Sebbene voglia
candidarsi a sindaco per risolvere i gravi problemi che affliggono Gotham,
Thomas, nel film, non viene mai inquadrato sotto una luce positiva, al
contrario la sua persona giace in bilico tra la superbia e l’arroganza. Ma
egli, come già detto, non è il solo ad andare incontro a questo simile fato. Sono
tutti i comprimari del personaggio principale a subire tale processo di
abbattimento. Per giustificare i cambiamenti di Arthur, per generare il
processo di “empatizzazione” tra lo spettatore ed il Joker, il regista ha
scelto di rendere gli altri simili ad esseri imperturbabili, spietati, cinici, isolati,
creature fatte di pietra, sacrificando
l’oggettività, il realismo, e minando, così, il taglio veritiero di una
storia che mira proprio ad essere più attinente al “vero” possibile. Del resto,
il regista sceglie di raccontare la storia con gli occhi di Arthur, limitando
intenzionalmente la parzialità del tutto. Gotham non è quindi facilmente
capibile se non per impressioni indeterminate.
Le follia di Arthur, da “Taxi Driver” a “Joker”
Todd
Phillips confeziona un’opera citazionista, un lungometraggio intenso, potente,
maestoso, valevole, tremendamente emozionante. Un’opera destinata a divenire
una pietra miliare del genere. “Joker”
nasce con l’intento di narrare le origini di un antagonista, mostrando, da un
punto d’osservazione piuttosto ravvicinato, l’animo, lo spirito, l’interiorità
di un uomo malato e tutto il susseguirsi degli eventi che lo hanno portato sul
baratro della pazzia. Questa analisi viene condotta con grandi intenti ma,
talvolta, finisce per arenarsi nella prevedibilità. La pellicola è
permeata da alcuni cliché, è strutturata con schemi già visti ed utilizzati (“Taxi Driver” e “Re per una notte”), da motivi ripetuti, e apporta poco di straordinariamente
originale al contenuto se non alla forma.
L’approfondimento
psicologico che l’opera esegue sul personaggio di Joker evoca il dramma, lo
spasimo, il martirio di una creatura angustiata. Emotivamente, il film
genera un senso di commozione, di pietà, d’intenerimento nei confronti
del povero Arthur fino a quando, naturalmente, egli non eccede, “tradendo” le
proprie vestigia umane per evolversi in un mostro. Le cause che spingono
Arthur a cedere alla liberatoria follia omicida vengono scandagliate
meticolosamente. I traumi infantili, il senso di abbandono, la solitudine, le speranze
disilluse, i tradimenti e gli scherni perpetrati dalle figure di riferimento,
la madre e il comico Murray, idolo di Arthur, sono questi appena riportati i
fattori scatenanti che piegano le resistenze del povero derelitto. Queste
sorgenti che provocano un acuto dolore al protagonista permettono allo
spettatore di ben comprendere la desolazione che dilania la mente ed il cuore di
Arthur, risultando efficaci ma anche leggermente scontate. Non vi sono
risvolti inattesi, eventi inaspettati o circostanze sorprendenti a generare
Joker. Sono tutti tormenti prevedibili, traumi pronosticabili, violenze
intuibili semplicemente immaginando a priori cosa potesse aver condotto Joker a
diventare ciò che tutti conosciamo. Tutto viene trattato con profondità, con
attenzione, con rispetto, ma, ad un’occhiata più arguta, si nota come questo
tutto sia un qualcosa di sensibilmente significativo ma ugualmente risaputo. Nella
sua origine, esposta in una maniera così plateale, il Joker di Phillips perde l’alone
del mistero. Pur ricercando un’accurata originalità, il copione plasma un
malvagio non prettamente diversificato dagli altri, un ennesimo pazzo divenuto
tale perché ingannato dalla madre, abusato nell’infanzia, respinto sul lavoro,
obliato dagli altri. In Arthur non si percepisce l’unicità, l’esclusività
che ha il Joker fumettistico.
“Joker”
vuol narrare la gestazione e il parto di un essere perfido, della nemesi di un
grande eroe. Ma riesce a mostrare realmente il Joker?
Cos’è che rende Arthur il
Joker? Cos’è che differenza questo
protagonista da, ad esempio, Travis Bickle, il personaggio principale di “Taxi Driver”, opera basilare a cui “Joker” si ispira nettamente nello stile
e nell’esecuzione?
L’evoluzione
che investe i due personaggi, Arthur e Travis, è molto simile, tanto da essere
sovrapponibile. Entrambi, emarginati, si trascinano, notte dopo notte, fra le
periferie cittadine. Via via che osservano la realtà sotto una nuova lente, comprendono
gli orrori, le depravazioni di una metropoli malata, repleta di cittadini
perversi ed incurabili. Entrambi vengono lasciati soli, condannati ad avere
come unica compagnia la loro voce interiore che li tormenta, li agita, li esaspera.
L’uno e l’altro hanno facilmente accesso ad un’arma che diverrà il mezzo con
cui veicolare il loro odio, il modo con cui incanalare la propria ira. Dunque,
facendo le dovute proporzioni, cosa differenzia davvero Arthur da Travis? Perché
chiamiamo Arthur “Joker”? Perché ce
lo suggerisce semplicemente il titolo? Perché Arthur decide d’appellarsi in tal
modo o perché s’impasticcia il viso come un burlone?
Qual
è il confine che separa Arthur da Travis? Dov’è la differenza tra i due se non
in un semplice espediente simbolico dato dal trucco scenico?
Arthur Fleck è
il Joker! E perché lo sarebbe?
Cosa possiede Arthur del
Joker? Poco, in realtà. Egli è una
versione alternativa, realistica, il prodotto di una società deforme, la
personificazione di un dramma intimo, di una sofferenza immane che sfocia
nell’apatia. Il Joker di Phoenix è un’incarnazione diversificata, adattata alla
realtà ordinaria, ma proprio per tale ragione dobbiamo domandarci: cosa
rende Arthur il Joker?
Arthur
non è il Joker, è un uomo qualunque. Ed è questa la “morale” più
spaventosa del film in sé. Tutti noi potremmo essere Joker! Joker è una ferita
lacerante che non può essere rimarginata, un trauma insuperabile che libera i
mostri interiori. Anche l’uomo comune, il meno adatto, può diventare Joker se
va incontro ad una serie di eventi devastanti. Il tutto può consumarsi in
una sola, nefasta giornata. E’ una grigia giornata a rompere ogni freno
inibitore e a scatenare gli anarchici desideri di libertà.
Persino
il Joker dei fumetti viene presentato come un uomo qualunque. Ma, se vi
soffermate un attimino a pensare, anche gli stessi supereroi, in genere,
sono uomini qualunque: persone ordinarie a cui accade qualcosa di
straordinario. Un incidente in laboratorio, un imprevisto, un evento inconsueto
trasformano una esistenza normale in un qualcosa di profondamente nuovo. Anche
il Joker era un essere come tanti altri. Ma il film “Joker” dimentica una parte fondamentale dell’evoluzione di questo
villan: l’incidente. Il tuffo nel vascone contenente le sostanze
chimiche è l’elemento di svolta, l’accadimento che segna la vera nascita del
Joker. La storia del famoso antagonista non deve essere vincolata a questo
episodio, naturalmente. Tuttavia, il Joker non sceglie di truccarsi, il
trucco gli viene imposto. Ed è proprio nella deturpazione estetica che il
Joker vede la propria nascita. Il suo viso imbrattato, alterato, insudiciato
in maniera irreversibile rappresenta la fine, un qualcosa da cui non si può più
tornare indietro.
Joker,
una volta emerso dalla pozza chimica, scruta il suo riflesso ed impazzisce. In
quell’attimo, la vita gli appare come un gigantesco ed assurdo scherzo.
L’uomo, disperato, si ritrova con il viso avvolto da una miscela di colori: la
pelle è chiazzata di bianco, le labbra di rosso, i capelli di verde. E’ tutto
così assurdo e grottesco che il Joker comincia a ridere. Nel proprio riflesso, Joker
vede il macabro riso maligno di un destino crudele e beffardo. Per lui, non
resta che ridere, che accettare l’ironia della situazione.
Il
trucco da clown non è un’opzione vagliata e decisa, non è una pittura da battaglia
né un simbolo da competizione, ma è una tragedia cheha mandato in
cocci la sua ragionevolezza. Joker avverte la follia dentro di sé, ma è la
bruttezza estetica a farlo inorridire, poiché da quella non vi è più scampo. Lo
stesso Joker di Heath Ledger, sebbene non avesse davvero il volto tempestato di
colori, nutriva un’ossessione per le proprie cicatrici. Esse gli avevano
eternato la faccia, l’avevano fermata in un sorriso agghiacciante. Egli pativa
una fissazione per le sue cicatrici e, di volta in volta, inventava una storia
diversa su come aveva subito tali ferite. Il Joker nasce Joker dal dolore
interno, dalla pazzia intima, ma anche e soprattutto dall’orrore esterno
mirato sul proprio corpo. Nella sua estetica deturpata, il Joker vede il
proprio squilibrio interiore, per molto tempo domato, represso, sopito, fuoriuscire
improvvisamente in tutta la sua irruenza. Nel suo volto, bloccato in un
ghigno innaturale e costante, Joker ammira l’insania che aveva all’interno e
che adesso è trasbordata fuori, attaccandosi con quei colori sgargianti alla
sua epidermide.
Al
Joker di Phoenix manca questo evento, ciò che rende Joker pienamente Joker:
l’aver subito una bizzarra disgrazia fisica. Il Joker di Phoenix non ha il
volto stretto in una risata perpetua, sceglie volontariamente di mascherare il
proprio viso. Egli non è costretto a diventare Joker, sceglie di esserlo.
Ma è la semplice la scelta a renderlo tale?
Il
Joker del fumetto subisce questa bislacca sciagura proprio perché la storia di
questo criminale vuol suggerirci che non è soltanto un uomo normale a poter diventare
Joker. Invero, è un uomo normale a cui succede qualcosa di tremendamente
anormale a poter diventare Joker. Un episodio che trasforma un volto comune
in una maschera comica partorisce Joker.
Il
“giullare” interpretato da Phoenix salta totalmente questo processo di
iniziazione. Egli sceglie di diventare Joker truccandosi semplicemente, ma è
come se non lo diventasse mai realmente. Questo perché l’ironia
sadica del Joker, la sua verve originale, il suo senso dell’umorismo crudele, cruento ma pur sempre artistico, non
emergono in lui. Tutte queste distintive caratteristiche che differenziano tale
villan dal comune sociopatico, dal
semplice “matto”, dal consueto criminale efferato, in quest’ultimo
adattamento non vengono affatto evidenziate se non per impercettibili richiami.
Il Joker di Phoenix è uno squilibrato, un maniaco, uno psicopatico con una maschera di trucco, così come possono
esserlo tanti altri disseminati per il mondo. Mirando l’azione finale del Joker
di questo lungometraggio si vede soltanto violenza, torbida, oscura,
vendicativa, ma pura e semplice violenza, nient’altro. Ed il Joker è anche di
più!
L’ironia del clown: “Niente battute?! Sharpy, ma ha letto la mia cartella clinica?”
Il Joker di Phoenix è
diverso, in svariati aspetti. Questo lo dimostra anche la scelta che il
personaggio compie nel selezionare le proprie vittime, i propri omicidi
calcolati. Egli uccide chi gli ha mosso ingiuria, chi lo ha offeso, chi è stato
scortese con lui. Fredda il proprio
idolo, reo di volerlo prendere per i fondelli e risparmia il suo vecchio
collega affetto da nanismo, poiché l’unico a non averlo mai deriso. Scelte che
poco hanno a che vedere con la glaciale indifferenza del Joker.
Con
quanto sto scrivendo non sto, di certo, affermando che il Joker del film del
2019 non sia un vero Joker. Nei fumetti, il personaggio possiede notevoli incarnazioni e non esiste
una versione univoca e totale, or dunque l’interpretazione di Phoenix va intesa
come un qualcosa di nuovo, d’apprezzare in qualunque caso. Detto questo,
la vena scherzosa, beffarda, tagliente resta un elemento che è faticoso non
riuscire a trovare in Joker. Quella di Phoenix è certamente una versione
degna, riuscitissima, potente, che verrà amata, venerata dai fan e dai cinefili
sparsi per tutto il globo terrestre. E’, a mio dire, semplicemente una versione
troppo generica, troppo poco
fumettistica, talmente realistica da far
svanire i caratteri del fumetto da cui il Joker è tratto per divenire un
personaggio non più da carta stampata ma solo e soltanto da cinema. Pertanto,
un cattivo adattabile a tanti altri film, a tante altre trame, un personaggio che non vanta l’unicità del
Joker cartaceo. L’opera finisce, di conseguenza, per creare un cattivo
sinistro, lunatico, complesso ed articolato, ma non il Joker nella sua veste
classica, conosciuta, iconica.
Il
riso misto al terrore, l’ironia miscelata alla paura, la lucidità alla follia,
il macabro all’idilliaco: è questo che rende Joker se stesso.
Senza la sua inimitabile ironia, il Joker perde la sua caratteristica di base. Sacrificando
la burla, l’insana comicità, si perde il Joker. Vi è tanto dolore, tanta
rabbia, tanta ira nelle parole proferite dal Joker di Phoenix, ma non vi è
nessuna vena macabra nella sua parola, soltanto bile, sdegno, furore. Questo è,
in parte, giustificabile tenendo presente che questo film si limita solamente a
narrare un inizio, ma non basta. Guardando questo film si vede l’agire di un disagiato,
un reietto, di un abbandonato, un disilluso con problemi psichici che trova
nella brutalità un modo per potersi sentire vivo. Se questo Arthur non avesse il volto truccato da Joker, perché dovremmo
riconoscerlo, indicarlo come tale?
Nella pellicola di Todd Phillips si avverte la paura di far ridere, di usufruire
della goliardia del Joker, come se essa fosse una caratteristica che ne mina la
serietà, il terrore che il Joker
dovrebbe alimentare. “Joker”, fotogramma
dopo fotogramma, crea e modella con grande perizia la genesi di un qualunque
disagiato, di un qualunque sofferente, sacrificando le restanti caratteristiche
di una personalità che è estremamente precisa, iconica ed unica sin
dall’esordio. Non vi è ironia,
giocosità, spirito nel Joker di Phoenix proprio perché il suo personaggio si
attiene con tutte le sue forze ad un taglio realistico. Ma così facendo, la
fantasia, l’inventiva, l’originalità del fumetto vengono neutralizzati.
Todd Phillips, pur con
tutti gli innegabili meriti della sua eccellente opera, non ha avuto l’audacia
che ebbe Tim Burton quando, con il supporto di Jack Nicholson, portò in scena
la follia artistica, senza freni, ironica, raccapricciante, funebre eppure
ugualmente in grado di strappare un sorriso, del Joker. E’ molto più facile portare
in scena la violenza, la perfidia di un personaggio che ricerca solo la
vendetta, piuttosto che mostrare un antagonista che, nell’ironia, nel surrealismo ha la propria
caratteristica imprescindibile. Anche in un contesto concreto, veritiero,
pragmatico, realistico come quello della recente opera filmica sarebbe stato
certamente possibile mostrare, sul finale, un Joker sarcastico, irridente,
sardonico, caustico nel consumare le proprie atrocità sempre col sorriso sulle labbra. Un Joker che, dal
dolore sopportato, avrebbe fatto fuoriuscire il proprio dirompente, insano e
fatale buonumore.
Il Joker di Todd Phillips
rinuncia alla comicità perché è cosciente di una grande verità: con l’ironia non si anima realmente la
folla, la si ravviva, maggiormente, con la cruda violenza.
"Arthur Fleck, il Joker umano" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
Considerazioni finali
“Joker”
non è la storia del Joker. E’ la storia di un uomo abbandonato, di un qualunque di noi esseri umani. La
sostanza del Joker, la parola del Joker, la sua immagine, non sono che una
metafora, un pretesto per
immortalare, su di un nastro di celluloide, la tragedia di un ragazzo che
voleva diffondere gioia e serenità ma finirà per elargire morte, nichilismo,
sovversivismo.
L’opera filmica
partorisce un Joker umano,
un’allegoria più che un vero carattere. “Joker”,
più che un film sul personaggio in sé, è, infatti, da considerarsi un thriller
psicologico che usufruisce dell’appellativo “Joker” per estendere la propria
analisi all’uomo normale, al negletto, al cane
di paglia stanco d’essere vessato. Una volta intuita questa verità, si può
affermare, in conclusione, che “Joker”
sia un film non rivoluzionario ma ottimamente realizzato, compassato, greve,
angoscioso, un tripudio di buonissimo cinema e meriterà gli Oscar che, con ogni
probabilità, porterà a casa. Da fan sfegatato della DC Comics ne sarò felicissimo.
Voto: 8/10
Autore: Emilio Giordano
Redazione: CineHunters
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"Ryo e Kaori" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
Passi spediti, fiato
corto. Una ragazza rantola nel buio, spaventata, per scampare a una banda di
malfattori. Esausta, la giovane si spinge fino alla stazione di Shinjuku. Lì, si sofferma dinanzi ad
un’imponente lavagna che campeggia,
tacita, tra il mormorio della folla. Indecisa sino all’ultimo, la giovane
sceglie di chiedere aiuto, scrivendo sulla lavagna tre lettere dell’alfabeto: XYZ.
Ryo Saeba e Kaori Makimura raggiungono la stazione, imbattendosi nella loro nuova cliente, Ai Shindo, modella ed ex studentessa di medicina. Quest’ultima riferisce ai suoi prossimi protettori d’essere perseguitata da un gruppo di loschi figuri, alla ricerca di una misteriosa "chiave" collegata al Moebius, una tecnologia avveniristica a cui il padre di Ai stava lavorando prima d’essere assassinato. Ryo, come da consuetudine, ispeziona la fanciulla con il proprio piglio molesto e ne resta irrimediabilmente attratto. Da lì in poi, l’investigatore cercherà in tutti i modi di conquistarla, bersagliandola di continuo e venendo, prontamente, fermato dalla lesta e vigile Kaori, sempre più delusa, sempre più… gelosa.
Nel frattempo, Kaori
viene avvicinata da Shinhi Mikumi, un suo caro amico d’infanzia che vuole
intrecciare con lei una relazione romantica. Davanti a questo possibile
scenario, Ryo non batte ciglio, per
l’incredulità della stessa Ai Shindo, convinta che Ryo provi per Kaori una mal celata attrazione. Una sera, Ryo
conduce Ai in un elegante ristorante in cui, a pochi tavoli di distanza, la
stessa Kaori sta cenando con il suo spasimante. Ai inizia a scandagliare il suo
interlocutore, Ryo, con lo sguardo.
Questi è divenuto laconico come non lo era mai stato. Dov’era finita la sua
travolgente simpatia? La sua incontenibile voglia di flirtare? Ryo cenava in
silenzio con la sua cliente, ma ad ogni insinuazione di lei rispondeva con
simpatia. Ai Shindo ne era convita: Ryo provava per Kaori ben più di un
semplice interesse amicale. Ma come ha fatto la curiosa ragazza a intuire
questa verità?
"Ryo Saeba" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters
Ryo ha sempre fatto di
tutto per nasconderlo e, fino ad
allora, ci era riuscito in pieno. Con ogni probabilità, la protetta di Ryo scorse
qualcosa negli occhidel suo guardiano quando questi rivolse
la propria attenzione all’indirizzo di Kaori. Un lampo e, forse, un bagliore d’affetto
non adombrato scintillarono nelle sue pupille.
Quella sera, seduto al tavolo, Ryo apparve, agli occhi di Ai, nudo, svestito da
quella sua giacca azzurra e da
quella sua maglietta rossa. Sotto
quella sua fisicità statuaria, sotto quella sua espressività bonaria, divenuta,
di colpo, fredda, seriosa, severa, inattaccabile, Ryo venne, suo malgrado, smascherato da una “ragazza qualunque”
che possedeva la giusta arguzia per vedere oltre le sembianze. Tutto, forse, scaturì dagli occhi dello stesso Ryo. Furono essi a tradirlo? Chi può affermarlo!
Ciò che è certo è che l’intera pellicola pone una profonda attenzione al senso della vista umana.
Il lungometraggio “City Hunter: Private Eyes” segna il
ritorno del personaggio più celebre e amato partorito dalla fertile matita del
maestro giapponese Tsukasa Hojo.
Durante tutto lo scorrere dell’opera d’animazione, “gli occhi” assumono un
valore altamente simbolico, come già
il titolo della pellicola ha voluto suggerire.
Anzitutto, la professione della giovane Ai Shindo, la cliente e nuova
protetta di Ryo Saeba, evoca, sin da subito, quanto la vista, intesa come “apparenza” ed “esteriorità”, adempi ad un
ruolo preponderante all’interno del film di Kenji Kodama. Ai Shindo è, a tal proposito, una modella. Lei viene
fotografata, immortalata giorno dopo giorno, così che la sua bellezza possa
essere apprezzata da tutti coloro
che desiderano lanciarle sguardi fugaci
o occhiate vispe, indiscrete e curiose. Ryo stesso, volutamente, ha sempre
dimostrato d’essere superficiale quando si tratta di belle donne, badando
soltanto alle apparenze, a ciò che
la meraviglia di un corpo femminile può generare in lui, una volta raggiunto
dalla sua vista acuta e penetrante come quella di un rapace.
"Kaori Makimura" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters
La vista, però, è uno
strumento ingannevole, che non sempre riesce a mostrare ciò che vi è oltre
l’epidermide. Falcon, a tal
proposito, è un personaggio che patisce una lieve forma di cecità ma che riesce a vedere
più di quanto la vista comune sia in grado di scorgere. Falcon possiede la
delicatezza, la sensibilità, la gentilezza, caratteristiche tipiche degli
spiriti di buon cuore, coloro i quali vedono cose che sfuggono a tanti altri.
Ryo, a detta dei più, non sembra affatto rientrare nella suddetta categoria di
persone. Egli non si dimostra affatto sensibile, tanto meno garbato. Ryo ha il
savoir-faire di un corteggiatore
incallito, di un seduttore imbranato,
dell’amante impertinente, destinato solamente a raccogliere risultati
infruttuosi in amore. Kaori lo sa e non fa che chiedersi tutte le volte: “cos’ha che non va?”. Ma Ryo è davvero un
epidermico zotico, che bada soltanto all’effimera bellezza, alla vacuità esteriore? Per come si atteggia
e per come si esprime sembrerebbe proprio di sì, ma i suoi occhi, non sempre,
concordano con ciò che egli fa. “Private
Eyes” sussurra questa verità durante tutto il film, sino alla rivelazione finale.
Le labbra possono celare la verità, gli occhi più di rado. Essi tradiscono, a volte senza volerlo. Gli occhi, sovente, esternano sentimenti seppelliti nell’intimità, palesano un interesse, un’attenzione. Gli occhi scrutano e osservano, contemplano ed indagano, e quando vengono guardati, a loro volta, possono rivelare quanto vi è nascosto nel profondo di un carattere, di una personalità. Gli occhi sono la parte più esposta della fisicità di un corpo. Non giacciono occultati da alcuno strato di pelle, essi appaiono così come sono, grandi come lacrime di pioggia. Gli occhi possono essere cerulei come un cielo limpido, oppure agitati come un mare in tempesta, freddi come correnti oceaniche, calorosi come raggi che dardeggiano. In virtù della loro essenza, così pura ed evidente, gli occhi vengono considerati lo specchio dell’anima, poiché rivelano quanto, invece, non fa la lingua.
"Maki, Mick, Falcon, Miki e Saeko" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters.
Dalla bocca possono
scaturire parole saggiamente ponderate prima d’esser pronunciate, frasi
misurate, soppesate per negare un’evidenza, per obiettare ad una realtà. Le
parole mentono, gli sguardi no, al contrario, rivelano. Ryo usa, spesso, le sue
parole per negare il sentimento che prova per Kaori, con le sue labbra non fa altro che sminuire la femminilità della sua
amata per innervosirla, allontanarla da sé, così che non possa legarsi
totalmente a lui. Le sue parole mentono,
i suoi occhi quasi mai.
Ryo, infatti, alle volte si
fa sfuggire qualche sguardo sincero. E’ una rarità, ma capita anche a lui.
Quando fissa Kaori, negli attimi in
cui è ben cosciente che lei non può ricambiare il suo sguardo intenso e prolungato,
Ryo smette di vederla come una
semplice compagna di lavoro, una coinquilina per cui nutrire null’altro che un
tenero sentimento di amicizia. In questi attimi, Ryo mira Kaori con lo sguardo di un uomo innamorato che mai, però, può
rivelare il proprio amore.
Ryo ne è consapevole:
confessare l’amore alla donna più importante della sua vita significherebbe coinvolgerla completamente, trascinarla
in maniera irreversibile nel suo mondo fatto di pericoli e di insidie, costellato
da sacrifici e da privazioni. Ryo non avrebbe mai potuto farlo, e per tale
ragione è solito “mutare” costantemente i suoi occhi, dosando opportunamente i suoi sguardi. Gli occhi di Ryo non possono
davvero mentire, eppure riescono ad occultare.
Per allontanare ulteriormente Kaori, ogni qual volta poteva essere il momento
opportuno per dichiararsi, Ryo usufruisce delle sue parole. Anche lui sa questa
inequivocabile verità: le parole possono
ingannare molto più di quanto la vista può percepire.
Giorno dopo giorno, peripezie
dopo peripezie, Ryo salva centinaia di belle donne, mostrando tutta la propria
impareggiabile audacia e, al contempo, agisce come un perfetto idiota. Corteggia,
o per meglio dire importuna
qualunque donna gli si pari davanti, con pessimi risultati. Ryo pare avere occhi per ogni donna,
tranne per colei che gli rimane sempre accanto. Kaori, in cuor suo, ne soffre. Tutte vengono ammirate dal bel vigilante di
Shinjuku, tranne lei. La bocca di Ryo e i suoi sguardi sono sempre riusciti
ad inscenare la più dura delle menzogne: negare
un vero amore.
Gli occhi di Ryo sono
sempre stati molto particolari. Solitamente, essi assumevano forme bizzarre e
del tutto esagerate. Diventavano enormi,
strabuzzati, fuoriuscivano letteralmente dalle orbite, cambiavano persino
contorni, divenendo due grossi cuori rosa ogniqualvolta intravedevano la sagoma
di una bella e slanciata figura femminile. Gli occhi di Kaori, invece,
erano spesso incerti, esprimevano lo sguardo introverso ma deciso di una donna
forte eppur timida, sicura sebbene fosse indecisa. Anche gli occhi di Kaori
sapevano mutare “aspetto”. Diventavano
rossi, accesi di rabbia, infuocati come una vampa ardente tutte le volte che
Ryo si trovava ad un passo dallo scocciare ed infastidire una giovane ragazza. A
quel punto, Kaori era solita lanciare all’uomo un’occhiata assatanata che preludeva ad una furia punitiva dal
sapore vendicativo.
Tutte le volte, Ryo
incassava di buon grado l’ira violenta della sua fedele compagna. In cuor suo era
consapevole d’essere nel torto, sapeva di dover essere castigato. In fondo, nei
suoi occhi, da cui sgorgavano copiose lacrime di dolore, vi era l’impercettibile segno della felicità. Ancora una volta,
Kaori lo aveva scambiato per un inguaribile mascalzone, ancora una volta lo
aveva ritenuto un incorreggibile maniaco, ancora una volta non aveva notato la vera luce negli occhi, il vero
sguardo, con il quale lui era solito osservarla
realmente.
In “City Hunter: Private Eyes” vi è un momento in cui Ryo sta per
cedere, e i suoi occhi sono sul punto di raggirarlo. Kaori indossa un abito
nuziale e se ne sta dinanzi a lui, agghindata
come una splendida sposa. Lieta, la donna, ingenuamente, domanda all’uomo
come la trova. Al che Ryo, dopo qualche attimo di smarrimento, borbotta: “Per me sei sempre la stessa!”. Una
risposta che, neanche a dirlo, manderà su tutte le furie la povera collega. In
questi attimi, Ryo manca, nuovamente, di sensibilità, di tatto. Così sembra… ad una prima occhiata. Se solo Kaori
sapesse quanta verità vi è in quelle parole pronunciate in modo sibillino.
Nella sua lunga
investigazione, Ryo scoprirà che il Moebius è un sistema operativo che contiene
il segreto per la creazione di armamenti di ultima generazione atti ad essere comandati
con il pensiero. Nella pericolosa faccenda vi è coinvolto lo stesso Shinhi, che
vuole appropriarsi del Moebius. Il sistema si attiva soltanto con lo sguardo di
Ai, ecco perché la fanciulla è bramata dai criminali. Il padre, prima di
perire, volle fare in modo che questa rivoluzionaria quanto letale macchina che
fu costretto a realizzare funzionasse soltanto con gli occhi della sua bambina. Nelle intenzioni del padre, gli
occhi innocenti e buoni di una futura dottoressa quale sarebbe diventata sua
figlia, non avrebbero mai attivato davvero quella diabolica creazione. Fu
questa l’ultima, disperata mossa attuata dal costruttore del Moebius: affidare ai dolci occhi della figlia il
destino dell’umanità.
Ryo, scoprendo tutto,
verrà coinvolto in un’ardua battaglia per fermare i propositi di un’oscura
organizzazione paramilitare, che è pronta a padroneggiare il Moebius per
scatenare una guerra lungo tutto il globo.
“City Hunter: Private Eyes” non si limita ad analizzare il modo in
cui i personaggi si “osservano” tra loro, ma espande il concetto di “sguardo” e
di “osservazione” a tutti i propri spettatori. Sono trascorsi molti anni
dall’ultima apparizione del giustiziere di Shinjuku, e voi, cari spettatori, come continuate a vederlo? E’ questo
l’interrogativo che, sommessamente, il lungometraggio vuole rivolgere a tutti i
fan di City Hunter. “Private Eyes” è
un film pensato per gli storici appassionati di “City Hunter”, sta a loro giudicare il ritorno, l’ammodernamento di questo intramontabile manipolo di eroi.
“City Hunter: Private Eyes” è un lungometraggio ben fatto, che non
può deludere ogni vero fan. I riferimenti estrapolati direttamente dal manga,
come la presenza del Professore, o l’uso che lo stesso fa dell’appellativo
“Baby face” nei riguardi di Ryo, faranno sorridere ogni appassionato. L’opera
filmica vanta, inoltre, una colonna sonora ricca di tutte le tracce più famose
della serie originale.
Le sequenze comiche, le
scene d’azione, i combattimenti avvincenti condotti da Falcon e Ryo, i
sentimenti e le emozioni provati dai personaggi, perfettamente amalgamati tra
loro, rendono “Private Eyes” una
pellicola riuscitissima. Anche il cameo delle tre sorelle, Occhi di Gatto, risulta essere suggestivo seppur nella sua brevità.
“Private Eyes” riprende lo stile
dell’anime, trasportando il tutto in un’epoca più moderna. L’atmosfera originale non viene mai smarrita, amalgamandosi
perfettamente all’ambientazione odierna. Guardando “City Hunter” è possibile accorgersi di come esso non sia
invecchiato affatto, e perduri a mostrarsi sgargiante, originale, coinvolgente
come un tempo. Per noi, i suoi fan, City
Hunter è sempre lo stesso!
"Ryo e Kaori" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters
“Private Eyes” è un lungo e nostalgico omaggio al passato, un
tributo che, come nello stile di Tsukasa Hojo, non conduce ad un vero
rinnovamento e non volge verso alcun
finale definitivo ma che, come in ogni altra opera del mangaka, lascia il futuro incerto, aperto, come se nulla,
mai, cambiasse e finisse del tutto.
La storia d’amore tra Ryo
e Kaori, anche in quest’ultima avventura, sarà destinata ad arenarsi ancor
prima di sbocciare, a celarsi dietro una
parola non detta e uno sguardo spezzato. Ryo e Kaori saranno sempre
destinati a non rivelare mai davvero i loro sentimenti, nascondendosi dietro un’imperturbabile
maschera, fatta di litigi ed incomprensioni.
Sul volgere del finale, prima che le note di “Get Wild” risuonino come un’eco ben distinta, Ryo spazzerà ogni dubbio e proferirà silenziosamente la sua verità: per lui, Kaori, vestita da sposa, era davvero sempre la stessa, ovvero una donna bellissima. Kaori per Ryo è sempre se stessa, eternamente splendida come una gemma prossima a fiorire. Sarà questa una confessione sentita, schietta. Le parole candide di Ryo combaceranno, finalmente, con i suoi occhi cristallini.
Un ultimo respiro profondo, poi giù in acqua. Haley chiude gli occhi, protrae il suo corpo in avanti e si tuffa. Nuota rapidamente, con tutte le sue forze, dà bracciate veloci che solcano l’azzurro chiaro della piscina. Di tutta fretta raggiunge il bordo. La prima vasca è finita ma ne manca ancora una. La parete, sfiorata dai suoi arti, la sospinge per l’ultimo sforzo. Haley sguazza, lesta, sino al traguardo ma il suo “passo” incalzante non basta. Per qualche centesimo di secondo, la gara di nuoto viene vinta da un’avversaria, e ad Haley non resta che incassare l’ennesimo smacco. Fuoriesce, allora, dall’acqua, l’elemento in cui riesce ad essere a suo agio, agile e leggera, e riguadagna il suolo, la “terraferma”, l’elemento in cui riemergono le sue frustrazioni, i suoi affanni, le sue amarezze.
Haley sa come incamerare
le sconfitte. Ella è caduta molte volte ma ha sempre trovato il modo di rialzarsi,
di riemergere dal fondo, di
ricominciare ed accettare un’altra sfida. Ma le delusioni, adesso, cominciano
ad essere troppe. I suoi genitori si sono separati da tempo, Haley non può più
frequentare suo padre, vede la sorella di rado e non riesce a imporsi come
vorrebbe nella vita di tutti i giorni. Come poter trovare le energie residue
per andare avanti, riprovare e tornare a solcare l’acqua?
.
Haley pratica il nuoto
sin da bambina, ma a lei questo sport non è mai piaciuto. Il padre insistette tanto
affinché si esercitasse. Egli vedeva in lei un talento naturale, una sorta di predisposizione innata. La ragazza cominciò,
allora, a cimentarsi nelle competizioni agonistiche, più per soddisfare le
aspettative del genitore che per altro. Ad onor di cronaca, Haley è davvero una
grande nuotatrice, deve solo perseverare nei suoi allenamenti, ed ha
un’attitudine a non scoraggiarsi, a non arrendersi
mai. Il suo rapporto con l’acqua è tutt’altro che idilliaco. Per lei, essa
ha sempre rappresentato una dimensione
con cui doversi confrontare, uno spazio in cui dover primeggiare, sopravvivere, lottare per avere la
meglio sugli altri, un regno dove testare le proprie abilità, mettere alla
prova il proprio coraggio, una realtà da fronteggiare per oltrepassare i propri limiti.
Il padre è solito sussurrarle all’orecchio che lei è una “superpredatrice”, nobile ed elegante come un’aquila, agile come un felino, tacita come un rettile acquatico. Haley, però, non si è mai sentita tale, e non ha mai pensato a se stessa come ad una “divoratrice”, una cacciatrice che potesse ingurgitare e spazzare via i propri avversari. Lei sa soltanto di essere una “tosta”, una “perdente” che non conosce resa.
Una volta raggiunto lo
spogliatoio, a seguito dell’ultima gara di nuoto disputata, Haley viene a
sapere che un uragano di categoria 5 è in rotta di collisione con la Florida.
La ragazza, preoccupata per le sorti del padre, decide di raggiungere la sua abitazione
a Coral Lake. Col trascorrere delle ore, la tempesta infuria sempre più, e la pioggia scende copiosa come un torrente
inarrestabile. Haley ignora le avvertenze della polizia, e arriva sino a
destinazione. Entra e si porta in prossimità del seminterrato della dimora. E’
lì che scorge il padre ferito e privo di sensi, e lo rinviene. Poco dopo, Haley
si accorge di non essere sola: dall’oscurità emergono due grandi alligatori, intrufolatisi in casa attraverso un canale di
scolo, a seguito della violenta perturbazione abbattutasi in quel luogo.
Haley trascina il corpo
del genitore in una zona sicura, salvo poi rendersi conto d’essere rimasta prigioniera. L’acqua che precipita
incessante sta invadendo l’abitazione e gli alligatori hanno, oramai, imposto
il proprio dominio su di essa, attendendo con predatoria pazienza. Ad Haley non spetta che sostenere, in acqua, la sfida più ardua per la
propria sopravvivenza.
Il lungometraggio “Crawl – Intrappolati”, prodotto da Sam Raimi, si svolge interamente in una casa in cui i protagonisti devono far fronte alle proprie paure e ad alcune indomabili “forze oscure” che tenteranno di annientarli. Questa premessa narrativa di base risulta essere simile a quella di uno degli horror più famosi diretti proprio da Raimi: “Evil Dead”, ovvero “La casa”. “Crawl” è un thriller estivo valevole, dal ritmo febbrile e colmo di attimi di tensione.
Sin dall’inizio, l’opera filmica
effettua un rovesciamento delle parti per quanto concerne i tipici rapporti
gerarchici tra i personaggi di una pellicola a carattere avventuroso e di
genere “survival”. In “Crawl” è la
figlia a prendersi cura del padre e non il contrario, esaltando costantemente la forza e l’audacia femminile incarnati dalla
protagonista. Haley è una ragazza coraggiosa, che avverte ma domina il
terrore, una “bambina” rimasta schiacciata
dalle speranze del proprio papà, e, pertanto, cresciuta troppo in fretta. Ella è ancora profondamente legata alla
figura del genitore, colui che non ha mai voluto deludere. Dave, il padre di
Haley, ha riposto un peso e una responsabilità fin troppo esagerati sulle
spalle della figlia, aumentando, senza volerlo, le sue ansie e le sue insicurezze. Ciononostante, la voglia di non
arrecare insoddisfazione nel cuore del papà ha portato Haley ad accrescere la
propria determinazionenel non cedere al dolore, un fattore
caratteriale, quest’ultimo, che permetterà ad Haley di restare in vita. La
drammatica esperienza che Haley e Dave vivranno insieme, intrappolati a Coral
Lake, permetterà loro di riavvicinarsi e ricominciare da dove si erano separati
con una maggiore comprensione delle rispettive volontà.
I coccodrilli sono creature straordinarie. Essi possono vivere sia sulla terraferma che in mare, dominando, così, due elementi del creato: la terra e l’acqua. Quando giacciono sommersi, i coccodrilli sono quasi invisibili ad occhio nudo, poiché sfruttano l’acqua torbida per mimetizzarsi. Essi emergono all’improvviso, con le fauci schiuse, afferrando qualunque cosa ci sia in superficie. Tali creature celano in sé l’istinto, la forza e l’adattamento di milioni di anni. I coccodrilli sono, infatti, esseri antichissimi, comparvero nel Cretaceo superiore, e tutt’oggi popolano il nostro mondo come dei veri e propri dinosauri perdurati, fossili viventi che hanno evitato l’estinzione patita dalle altre specie di animali che, milioni di anni or sono, regnavano incontrastati sul globo terrestre. Animali misteriosi, affascinanti, elusivi ed inquietanti, i coccodrilli si esprimono attraverso ruggiti feroci ma anche tramite sibili lievi, versi del tutto indecifrabili e indescrivibili. Essi hanno la parvenza d’esser freddi ed austeri, cruenti e impietosi, versano lacrime che noi umani giudichiamo non altro che false espressioni di tristezza, pianti di puro disinteresse. Questi rettili giganteschi e possenti, dotati di una scorza spessa come una corazza, testimoniano il raggiungimento di uno stadio dell’evoluzione perfetta. Essi incarnano il passato, la preistoria, e permangono, da allora, inalterati nell’aspetto e nel comportamento. Il coccodrillo ha un morso devastante, il più potente del regno animale. Tali bestie feroci, stando al ruolo che adempiono nella pellicola, vengono descritte come macchine perfette portatrici di morte.
Gli alligatori del film,
che irrompono nella casa della protagonista, che invadono il suo spazio vitale,
nuotando, trasportati dalla corrente che ha allagato l’intero edificio, rappresentano la ferocia di un mondo
primordiale, l’efferatezza di un’era arcaica, la brutalità di un mondo
selvaggio e, soprattutto, la famelica
violenza della preistoria che sconfina, riversandosi nella modernità che viene, a sua volta, personificata dalla dimora di Haley. L’abitazione,
flagellata dai marosi ed espugnata dagli alligatori, evoca la bellezza del presentedeturpata
dalla forza di un passato affamato, pronto a fagocitare con veemenza
l’attuale, l’odierno. Nella
situazione di emergenza, nella catastrofe, Haley riscopre la solitudine, l’amarezza di una società ridotta allo
stato primitivo dalla violenza delle inondazioni, una società, per
l’appunto, in cui l’uomo deve lottare con gli animali feroci per la propria sopravvivenza
e incolumità.
“Crawl – Intrappolati” è un viaggio a ritroso nel tempo, una discesa vertiginosa nell’avvenuto, dove l’antichità evocata da questi particolari dinosauri, i coccodrilli, che procedono, tuttora, con il loro maestoso ed inquietante incedere a nuotare tra le acque, si scontra con la nostra epoca rappresentante il progresso; un progresso che la furia punitiva della Natura può presto trasformare in regresso.
Nella sua tragica disavventura, Haley vivrà, con l'acqua, il confronto più disagevole della sua esistenza e riuscirà a prevalere. Sarà la resistenza, il desiderio di non cedere, a portarla in salvo. La volontà di non demordere, di non capitolare, di non rassegnarsi sono le caratteristiche più lodevoli di questa giovane donna che, una volta domato il passato, convoglierà in sé l’impavidità di guardare al futuro.
Voto: 7/10
Autore: Emilio Giordano
Redazione: CineHunters
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"Woody, Buzz, Bo Peep e Forky" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters
“Il soldatino è tornato!” – recitavano alcuni pupazzi festanti. “E’ lassù, lassù, vicino al castello di carta” – borbottava lo schiaccianoci, accanto alla tabacchiera. Una scimmietta dibatteva le zampe felicemente, il peluche di un cagnolino saltellava gioioso. I gessetti bianchi si levarono da terra e, su di una lavagnetta, tratteggiarono con precisione la sagoma di un grande cheppì, il rosso copricapo a cilindro indossato fieramente dal soldatino. Tutti i giocattoli volevano incontrare l’ometto con la baionetta in mano, colui che era stato inghiottito da un pesce d’acqua salata.
Il soldatino – beh – ne
aveva passate tante, e tra i balocchi si
era diffusa la voce, l’eco della sua grande avventura. Giusto il giorno
prima, a bordo di una barchetta di carta, il soldatino aveva solcato le acque
di un torbido fiume. Non volle farlo di sua volontà, accadde tutto per un incidente.
Il padroncino dei giocattoli aveva raccolto il soldatino tra le mani e
lo aveva poggiato sul davanzale della finestra semiaperta. Non si sa perché lo
fece, forse qualche diavoletto aveva oscurato i suoi pensieri. Per qualche
strana ragione la finestra si spalancò ed il soldatino precipitò giù. Da qui, cominciò
la sua incredibile traversia. Il soldatino rischiò d’essere sbranato da un
cagnaccio famelico, fu rapito da due turpi monelli, finì persino su di una
imbarcazione di fortuna. Con essa, il coraggioso militarino avanzò verso una
meta imprecisata. Provava molta paura il soldatino, ma non voleva darlo a
vedere. Nel suo cuore di stagno, egli
aveva impresso il volto di una graziosa fanciulla. Ad ella pensò
costantemente mentre il torrente lo conduceva lontano. Dondolato dal rigagnolo,
il giocattolo viaggiò a vele spiegate fino a che il corso d’acqua si fece più
denso. Il ruscello, generatosi dall’incedere incessante della pioggia, era
prossimo a raggiungere il mare, fuoriuscendo da una ripida altura. Il soldatino,
allora, s’irrigidì e si preparò ad
affrontare quella audace caduta. La “cascata”, dunque, lo trasse verso sé,
rigurgitandolo negli abissi. Il soldatino riuscì a sopravvivere e, in mare, si
poggiò sul fondale. A quel punto, una creatura dagli occhi strabuzzati venne
attratta dalla bella divisa rossa e
azzurra, la quale rifulgeva luminosa nella semioscurità del fondo sabbioso. Quest’essere si fece sempre più vicino
e divorò il soldatino in un sol boccone.
“Com’è triste ed ingiusta la vita” -
pensò il nostro sventurato eroe, mentre se ne stava disteso nella pancia
del grosso animale. Il tenace milite, rimasto solo, indugiò sui propri
pensieri. Egli, allora, ascoltò la sua
voce interiore, la coscienza, la parte più intima e profonda della propria anima. Con essa, egli seguitò a
rimembrare, a scorgere il viso della sua
amata. Il soldatino udì persino la
voce della ragazza riecheggiare nella sua fantasia: “Addio, mio soldatino, non ci rivedremo più”. Udendo questa triste
frase, il soldatino si addormentò, credendo che quello sarebbe stato il suo
ultimo sonno.
"Il soldatino di stagno e la ballerina" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters. Per saperne di più sulla fiaba di Andersen cliccate qui.
L’indomani, il soldatino
giaceva diritto su di un tavolo, impassibile. Dopo alcune ore, esso parve muoversi per un istante. Il
soldatino si era svegliato e, quando i suoi occhi tornarono vigili, si accorse
d’essere tornato a casa. Su, in alto, gli aereoplanini, per celebrare il suo
rientro, compivano i loro giri, tra audaci volteggi e favolose acrobazie. Guardate voi com’è bizzarra la vita: il
pesce era stato pescato da alcuni marinai e venduto al mercato. Fu, poco dopo, acquistato
dal cuoco che prestava i propri servigi nella stessa dimora da cui il soldatino
proveniva. Quest’ultimo era così felice!
Dinanzi a sé, egli tornò a rimirare la propria amata,
la ballerina di carta dal viso di porcellana. Avrebbe continuato a contemplarla
dal giorno alla notte se non fosse stato allontanato dal suo padroncino. Questi,
senza un perché, lo prese in mano e lo gettò nella fornace. “Che disdetta” – disse il soldatino – “Questa volta, mia amata, morirò davvero”.
Nella fornace egli si sciolse, ammirando ancora e sempre la sua adorata che, sospinta
dal soffio del vento, lo raggiunse e con
lui bruciò.
Il soldatino e la
ballerina, perdutamente invaghiti l’uno dell’altra, non poterono vivere sulla Terra
il loro amore. Che rammarico! Se
solo fossero riusciti a fuggire, a dileguarsi, a scappare dal rio diavoletto e dalla
cattiveria del bambino…
Il soldatino in "Fantasia 2000"
“Il
soldatino di stagno”, al pari de’ “La sirenetta” e de’ “La
piccola fiammiferaia”, costituisce il massimo capolavoro letterario/fiabesco
di Hans Christian Andersen. In questo racconto, il pensiero, la filosofia ed il
sentimento dello scrittore danese affiorano con eloquente vivezza. L’amore non
vissuto nella vita terrena, la sofferenza tollerata dalla postura statica e decisa,
l’amore mai pronunciato ma esternato tramite lo sguardo corrisposto, il
sacrificio, la morte, la successiva
immortalità sono solo alcune delle tematiche universali evocate dal racconto
di Andersen. La premessa di base della storia, vale a dire il concetto
fondamentale dei giocattoli “vivi”,
semoventi, in grado di provare emozioni, è stata fonte d’ispirazione per “Toy Story”, uno dei franchising
cinematografici di maggior successo della Pixar. Woody, Buzz
Lightyear, Mr. Potato, Rex e tutti gli altri giocattoli che dimorano nella
cameretta del giovane Andy sono senzienti e quando smettono di essere osservati
da occhi indiscreti riprendono a muoversi, a parlare, a ridere, a giocare e ad amare.
Woody, col suo viso fortemente espressivo, con i suoi occhi buoni, con la sua voce calorosa e garbata è il giocattolo più celebre di questo particolarissimo nucleo familiare. Egli è la guida, nonché il punto di riferimento della grande famiglia di pezza creata da Andy. Woody incarna uno sceriffo, un tutore della legge e dell’ordine, un “soldatino” che se ne sta perennemente sugli attenti, ad osservare e proteggere i propri amici. Un soldatino che, per l’appunto, s’innamorerà, a sua volta, di una “ballerina”, Bo Peep, la bambola di una pastorella. Woody e Bo Peep rappresentano una possibile rivisitazione della storia d’amore tra il soldatino e la sua danzatrice; un rifacimento più lieto, meno travagliato e profondo della fiaba di Andersen ma ugualmente intenso e sentimentale. Come i due sfortunati amanti della fiaba anderseniana, lo sceriffo e la pastorella s’innamoreranno, ma verranno separati da un destino ingiusto.
“Toy Story 4” inizia con un lungo ed emozionante flashback. E’ sera
e fuori piove a dirotto. Woody balza sulla finestra e, scortato e sorretto dai
suoi amici, si getta, senza remora alcuna, verso il cortile per soccorrere RC,
la macchina giocattolo dimenticata da Andy. Tale scenario notturno richiama l’atmosfera della fiaba dello scrittore
scandinavo. Fu proprio in un giorno di pioggia che il vento ghermì il
soldatino, trascinandolo via nella fanghiglia. Un fato alquanto simile rischia
di ripetersi per quanto concerne il povero RC, caduto preda dell’acqua piovana
e della conseguente melma. Per fortuna, Woody riesce ad afferrare il suo amico
giusto in tempo, e a condurlo in salvo. Proprio quando ormai il pericolo della separazione pareva essere stato
scongiurato, Woody vede Bo Peep, inerte, venir presa e posta in una scatola,
pronta per essere venduta ad un’altra famiglia. Woody non può far nulla per tenerla con sé, poiché essere ceduti è
il fato a cui vanno incontro molti trastulli. Woody, il buon “soldato”, assiste così, impotente, all’addio della sua
“ballerina”.
Molti anni dopo, l’uomo
con la stella di latta sul petto ed i suoi amici appartengono a Bonnie, una
timida bambina che li tratta con affetto e con riguardo. Bonnie gioca
quotidianamente con i suoi giocattoli e, come ogni altro bambino, ha i suoi
preferiti. Se Buzz e Jessie continuano ad essere usati dalla piccola in maniera
costante, Woody, invece, finisce spesso per venire dimenticato nell’armadio. Ciò, però, non muta l’affezione che lo sceriffo nutre nei confronti della sua padroncina.
Il giorno in cui Bonnie comincia
a frequentare l’asilo, spaventata e intimidita da questa nuova esperienza,
Woody decide di accompagnarla in gran segreto, celandosi nel suo zainetto. Bonnie è molto introversa e decisamente
insicura, per tale ragione fatica a relazionarsi con i suoi coetanei. Per
aiutarla a sentirsi meglio, Woody le porge, senza che lei se ne accorga, dei
pastelli colorati ed altri oggetti cavati dal cestello dall’immondizia. Con essi, Bonnie crea “Forky”, un balocco
nato da una forchetta di plastica. Bonnie riversa su Forky tutto il suo
amore e le sue sicurezze.
Durante il ritorno a
casa, Woody, con estrema meraviglia, scopre che anche Forky ha acquisito una
grande vivacità. Forky, però, non comprende lo scopo per cui è stato plasmato
da Bonnie: essere un giocattolo. Per
tutta la notte, questi cerca di sfuggire alla dolce “presa” della sua padroncina
per tornare nella spazzatura,
venendo sempre agguantato da Woody. Per tutta la notte, il cowboy resta prudente
ed accorto per far sì che Forky non abbandoni la sua Bonnie.
“Perché ti importa così tanto?” – domanda Buzz al suo vecchio amico.
“Perché è l’unica cosa che posso fare…” – confessa Woody.
Lo sceriffo non è più il
giocattolo preferito del suo bambino. Bonnie
non è Andy, non ama ricreare gli scenari del vecchio west, quei luoghi polverosi ed aridi in cui Bo
Peep finiva sempre per interpretare la classica damigella in pericolo e il
cowboy il valoroso eroe che l’avrebbe tratta in salvo. Woody sente di non
essere più importante come un tempo, non ha mai smesso di pensare al suo amico
più caro, Andy, e, non potendo espletare i suoi compiti da giocattolo, cerca
almeno di farsi trovare pronto, d’essere
utile nel preservare a qualunque costo l’animo puro ed innocente della sua
padroncina. Dopotutto, Andy, poco prima di congedarsi dai suoi giocattoli,
aveva confidato a Bonnie una verità immutata: Woody, qualunque cosa accadrà, non volterà mai le spalle ad alcuno.
Lo sceriffo, come un soldatino fedele al
suo credo, seguita, infatti, a non dare le spalle alla sua adorata famiglia
e alla sua premurosa bimbetta, vegliando su di lei dal sorgere del sole sino al
tramonto inoltrato.
Woody vuol continuare a
mostrare la propria lealtà, non vuol diventare un giocattolo dimenticato, smarrito, così sceglie di vigilare
senza sosta su Forky, un giocattolo privo di un’identità ancora ben definita. La
novità più grande introdotta dal quarto film di “Toy Story” riguarda proprio questo bislacco e capriccioso gingillo. Forky non è un trastullo come gli altri,
non è nato in fabbrica, non è stato realizzato in serie, non possiede gadget e
altrettante peculiarità adatte al gioco per l’infanzia. Forky è stato assemblato dalla fantasia di
una frugoletta, è stato creato per essere molto più di ciò che dà a vedere;
eppure lui non può rendersene conto semplicemente perché, generato da resti e
avanzi, non ha una concezione specifica su cosa sia e cosa debba fare.
Spetterà proprio a Woody il
compito di spiegare qual è il “dovere”
di un giocattolo: far divertire il proprio fantolino. Forky è un abbozzo, un’accozzaglia, non è un vero oggetto
ludico ma poco importa. Un giocattolo può essere tale anche se non lo è
davvero, poiché spetta all’immaginazione e al cuore di un bambino infondere in
esso le qualità principali che fanno di lui un “ninnolo”. Forky, tuttavia, sarà
duro d’orecchi e, inizialmente, non ascolterà i consigli di Woody. Quando la
famiglia di Bonnie partirà per un viaggio, Forky ne approfitterà per scappare
ma Woody non si darà per vinto e si
lancerà al suo inseguimento. Una volta ritrovatolo, Woody insegnerà a Forky che
l’amore incondizionato di un bambino è quanto di più bello possa ricevere un
giocattolo. Forky, allora, si convincerà a tornare da Bonnie, non riuscendo più
a immaginare la sua vita senza la vicinanza della sua creatrice. Ma un giocattolo può vivere senza l’affetto
di un infante? Qual è lo scopo esistenziale di un balocco? I giocattoli
servono per dilettare i piccini, se restassero soli, riuscirebbero a vivere felici
senza patire la loro mancanza? I giocattoli possono vivere… liberi?
Woody, nel corso di
questa avventura, ammette che se non si fosse occupato costantemente di Forky, la sua “vocina” interiore lo avrebbe
tormentato. Buzz, ironicamente, scambia questa presunta “voce” per le consuete
registrazioni vocali che alcuni giocattoli hanno tra i loro sintetizzatori
vocali. Lo Space Ranger, allora, chiederà, di volta in volta, consiglio al suo
“io interiore”, pigiando i pulsanti incastonati nella sua tuta spaziale per
udirne i suggerimenti. Invero, la voce a cui Woody fa riferimento, corrisponde
a qualcosa di più profondo e di più personale.
Woody sta attraversando un periodo di forte crisi in questa quarta avventura.
Egli patisce il peso della dimenticanza e teme di finire obliato. Woody si è sempre considerato un giocattolo fedele, non si
è mai chiesto cosa avrebbe fatto se non fosse più stato “adottato” da una
famiglia e da un bambino. Cosa gli avrebbe suggerito la sua voce interiore se
ciò fosse accaduto realmente? Si sarebbe sentito in colpa se avesse iniziato
una vita indipendente, da giocattolo libero?
A proposito di "voci", quella di Fabrizio non la scorderemo mai... Qui potete trovare il nostro omaggio a Fabrizio Frizzi. Dipinto di Erminia A. Giordano
Tale, intima “voce” che
alberga nell’animo dei giocattoli è molto più importante di quanto si possa
intuire. Essa rappresenta la “coscienza”, il pensiero, la morale di ogni
giocattolo che corrisponde alla medesima coscienza umana. Tuttavia, i giocattoli hanno realmente una voce caratteristica che può
attrarre ancor di più l’attenzione dei piccini. Woody ha un sintetizzatore
vocale nuovo di zecca, Gabby Gabby, una bambola che lo sceriffo incontrerà in
un negozio di antiquariato, ha il riproduttore vocale a cordicella danneggiato
e crede fermamente che per tale menomazione nessun bambino voglia giocare con
lei. Se Gabby Gabby potesse riacquisire il suono della sua cordicella potrebbe
riottenere una famiglia con cui vivere. Woody, anche in questo caso, darà
ascolto alla sua voce e farà quanto dovrà per aiutare Gabby Gabby. Ogni desiderio, ogni gesto altruistico,
parte sempre dall’interno: è ciò che il quarto capitolo di “Toy Story” vuol ricordarci. Tutti
noi dovremmo fare come fanno i giocattoli e dare più spesso ascolto al nostro
“io”, alla nostra sfera emotiva. L’altruismo,
la generosità, nascono sempre dalla saggezza proveniente dall’interno.
Durante la sua
disavventura nel mondo esterno, Woody raggiungerà un parco giochi e, fingendosi
privo di vita, verrà raccolto da un bambino che, nell’altra mano, regge a sé l’aggraziata bambola che raffigura una
pastorella. Restando silenti, inanimati, impassibili, Woody e Bo Peep, il
soldatino e la ballerina, rincrociano i propri sguardi. Sarà proprio Bo Peep a prendere per mano
Woody, a guidarlo sino ai cespugli più vicini per sottrarsi alla vista
dell’uomo. Woody riabbraccia la sua cara amica, riscoprendola sotto una luce
molto diversa. Bo Peep adesso vive sola con le sue pecorelle, nel grande Luna
Park. Ella è divenuta una damigella
forte, indipendente, ardimentosa ed intrepida. Grazie all’aiuto di Bo Peep,
e al pronto intervento di Buzz, Woody riuscirà a riportare Forky da Bonnie, a
salvare Gabby Gabby, offrendole il proprio sintetizzatore vocale, e a riunirsi
con tutti i suoi amici per un
arrivederci.
“Toy Story 4” è una pellicola emozionante, bellissima, colma di spunti
commoventi, di sequenze catartiche e attimi profondamente sensibili e
intelligenti. Il quarto episodio della serie è completamente incentrato sulla
figura del cowboy gentile, unico e
vero mattatore della vicenda. A lui è dedicata quest’ultima tappa, quest’ultima
evoluzione. Woody ha trascorso tutta la propria vita a prendersi cura dei suoi
amici. Egli è rimasto tenacemente sugli
attenti, custodendo coloro a cui voleva bene, proteggendo i suoi compagni e
i suoi padroni da ogni pericolo, da ogni avversità, da ogni cattiveria. Adesso, però, è giunto il momento che lo
sceriffo rompa le righe, smetta di restare sugli attenti e viva il futuro di
cui più ha bisogno.
Andy è ormai cresciuto,
Bonnie starà bene, e, cosa più importante, la famiglia di giocattoli di Woody è
pronta a vivere al sicuro senza più la sua leadership. “Toy Story 4” racconta il congedo di un valoroso soldatino, il ritiro di uno sceriffo senza macchia,
di un eroe coraggioso che ha sempre messo il bisogno degli altri al di sopra
del proprio.
Buzz, il più sincero dei
suoi amici, è il primo a capire il profondo desiderio di Woody. Sarà proprio lo
Space Ranger a convincere il cowboy a compiere questo passo finale.
“Bonnie starà bene” – sussurra Buzz allo sceriffo. La bimba non avrà più bisogno del suo
sacrificio.
"Buzz Lightyear" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
Buzz porge la mano al suo
grande amico e i due si salutano un’ultima
volta. Questa magica storia di amicizia cominciò molti anni prima, quando
un piccoletto ricevette in regalo un nuovo pupazzo: un astronauta dal sorriso fanfarone, dal colore acceso e dalla tuta fosforescente.
Questi arrivò in cameretta in punta di piedi ma, senza volerlo, aveva già
scavalcato le gerarchie, superando colui che fino ad allora era il giocattolo più rappresentativo. Woody
non avrebbe dovuto prendersela più del dovuto, dopotutto quale marmocchio non
avrebbe donato tutte le sue attenzioni ad un Buzz Lightyear? Buzz sapeva
volare, sì insomma cadere con stile, sparare un potentissimo raggio laser,
Woody, dal canto suo, doveva ancora liberarsi del serpente che si intrufolava di soppiatto nel suo stivale.
Eppure, il cowboy non
poté accettarlo facilmente e provò, nei confronti di questo “dannato” ranger
dello spazio, una grandissima gelosia. Ripensare
al giorno in cui Buzz irruppe nella vita di Woody mutandola decisamente, adesso
che tutto volge al termine, crea un sapore agrodolce. Da avversari e
perfette controparti, i due divennero amici inseparabili. Ciò che una volta
sembrava così importante, essere il
giocattolo prediletto, divenne, sin dalla prima peripezia, una questione di
blanda importanza. Quello che contava davvero per Woody e per Buzz era restare
insieme, mantenere unita la famiglia dei giocattoli. Ma ora questa missione è
finita, ultimata con successo. Woody
cederà il suo cappello, donerà la sua stella a Jessie e abdicherà in favore
di Buzz, colui che d’ora in poi dovrà vigilare sui giocattoli che portano,
sotto i loro piedi, il nome di una tenera piccola.
"Arrivederci, sceriffo" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
Woody aveva perduto la
sua Bo Peep molto tempo prima, adesso
non la smarrirà mai più. Ancora una volta, lo sceriffo ha dato ascolto alla
sua coscienza e alla voce del suo
amico spaziale. Woody non ha più la cordicella sulla sua schiena, non potrà più
udire i suoi tipici detti registrati ed impressi su di un nastro di memoria,
ciononostante la voce del suo io
rimbomba ancora forte e chiara, suggerendogli che il momento per dire addio
è giunto e che, finalmente, può vivere la propria vita liberamente con colei
che ama. Woody si volterà e abbraccerà la sua Bo Peep. Darà le spalle ai suoi “fratelli” soltanto per un istante. Egli non
li dimenticherà, così come non li abbandonerà mai davvero, serbando i ricordi
dei loro volti per sempre nel suo cuore.
Lo
sceriffo non starà più sugli attenti. Woody trascorrerà il
proprio avvenire con Bo Peep. Il soldatino, infine, riuscirà nel suo sogno:
prendere in moglie la sua ballerina.
"Aquaman e Mera" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
Un saggio, una volta, disse che in mare non vi è taverna. Se scoppia un temporale e gli oceani ribollono di collera, i marinai non possono recarsi in un luogo vicino in cui trovare riparo. Il mare aperto può spesso tramutarsi in un deserto sconfinato, senza sabbia ma denso d’acqua. Gli antichi credevano che l’arrivo di un fortunale fosse la manifestazione dell’ira e dello sdegno esacerbati sino allo stremo in Poseidone. A tale divinità, i greci attribuivano le calamità naturali dei terremoti e dei maremoti. Sin dai tempi più arcaici, il mare custodisce, nella sua illimitata consistenza liquida, la gloria della natura, e quando esso è tumultuoso genera terrore ed impotenza nel cuore timorato di ogni navigante. Le acque adombrano tuttora un regno misterioso, che andrebbe esplorato con un sano desiderio di conoscenza.
E’ proprio una notte
burrascosa quella in cui la storia di un “ramingo”,
originario del mare, comincia. Mentre le onde si infrangevano sugli scogli con
inquieta reiterazione e il cupo mormorio della risacca si disperdeva lungo le
rive, il cielo fece sì che le nuvole
piangessero lacrime di accoramento. L’oceano era irrequieto per la sorte
che stava patendo la regina di Altantide,
costretta a convolare a nozze con un marito che non avrebbe potuto amare. Per
sottrarsi a un destino infelice, ella fuggì ma rimase presto vittima di un ferimento.
Il corpo debilitato, inerme di Atlanna,
trasportato dai fluttui, venne rinvenuto dal guardiano di un faro, un mortale che si adoperò a trarla in salvo.
Nel frastuono provocato
dai marosi e dalla pioggia battente, si ode, forte e chiara, la voce di Aquaman, sebbene essa sia
velata da una nota di rammarico che infonde, alle sue parole, una flebile
mestizia. Il protagonista evoca il primo incontro tra Thomas, suo padre, e
Atlanna, sua madre. La gioia intrisa in questa memoria si mescola, per lui, al
rincrescimento di non aver mai conosciuto sua madre, obbligata a lasciarlo quando
egli non era che un bambino. Aquaman inizia a narrare il passato citando Jules Verne, che ha scritto: “Mettete due navi in mare aperto senza vento
né marea e si incontreranno". Come già precisato, è alquanto risaputo
che in mare non vi siano “taverne”, ma in pochi comprendono quanto le correnti siano
in grado, se lo vogliono, di far incontrare
due persone, se esse somigliano a due
navi che veleggiano dal remoto e sono destinate a scorgersi.Atlanna, che mai tra i fluttui avrebbe
avuto scampo dal dolore, poté
trovare protezione sulla terraferma, mediante l’imperscrutabile volere del mare.Thomas (Temuera Morrison) e Atlanna (Nicole Kidman) erano di due
mondi diversi ma la vita, come le acque, trova il modo di unire le persone. I
due si innamoreranno e, nella libertà
vissuta in quei pochi ma intensi anni, conosceranno la vera felicità. Dal loro amore nascerà un figlio, a cui daranno un nome da re: Arthur. Quando Atlanna
dovrà far ritorno al suo settore, il piccolo Arthur resterà col padre, che lo alleverà
rammentandogli la straordinaria unicità delle sue origini, e mantenendo in lui
vivo il ricordo della madre perduta.
Non a caso Arthur cita Verne, lo scrittore francese padre della moderna letteratura di fantascienza. Dietro la scorza aspra e disadorna di virilità, il primogenito della regina di Atlantide nasconde la sapienza di un dotto. Tom fece studiare ad Arthur la storia e, presumibilmente, la grande letteratura. D’altronde, come può un uomo che riesce ad avventurarsi nelle buie profondità degli abissi non conoscere e menzionare l’autore di “Ventimila leghe sotto i mari”? Arthur ha appreso la storia, e, in una sequenza del lungometraggio, dimostra di riconoscere le personalità raffigurate da alcune statue antiche che si stagliano sulla cima di un colle che sorge presso un’isola decisamente nota.
Sin dalla sua nascita, Arthur è reputato la testimonianza vivente di un miracolo. Egli è la prova di come le creature del mare e della superficie possano coesistere con reciproco beneficio. Arthur, divenuto un uomo adulto, avverte sulle sue possenti spalle il fardello d’essere ritenuto il ponte tra la terra e il mare. Oltre ciò, egli risente di venire considerato da certuni “speciale”, in quanto erede al trono di Atlantide, da altri, contrariamente, poco più che un mezzosangue.
Aquaman dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunter
Arthur è fin da subito tratteggiato come un personaggio dilaniato da due mondi, non soltanto per quanto concerne la sua discendenza, ma soprattutto per la percezione che gli altri hanno di lui. In tanti sono soliti tacciare il protagonista con titoli e requisiti che lui non sente affatto di possedere, siano essi pregi o difetti. Aquaman, appellativo con cui nel mondo è noto, rappresenta per molti un valoroso membro della Justice League, per altri un combattente epidermico e buzzurro. Pochi confidano che egli potrà essere un degno sovrano, se solo riconoscesse le proprie qualità, altri a malapena gli riconoscono la levatura del supereroe.
Aquaman illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunter
Arthur vive alla giornata, alternandosi tra consumazioni al pub della zona e imprese compiute con grande audacia. Egli non sa cosa in effetti è né quello che vorrà essere, perché avverte solamente le aspettative, le percezioni e le titubanze che tutti hanno verso di lui. Per capire cosa vorrà diventare e superare così la propria avventatezza, Aquaman necessita della vicinanza di una persona che possa mostrargli ciò che ancora non sa di se stesso.
Sarà Mera (interpretata da una bellissima Amber Heard), la sua futura sposa, a indicare al sovrano il percorso da intraprendere, per far sì che sul trono di Atlantide torni a sedere il vero regnante. Attraverso un lungo viaggio in cui i due si conosceranno fino a legarsi sempre più, Mera esorterà Arthur ad abbracciare il proprio destino.
Arthur vive oppresso dai rimorsi. Crede, infatti, che la
scomparsa di Atlanna, accusata di tradimento e condannata a morte per essersi
“contaminata” con un mortale, sia tutta colpa
sua. I tormenti del figlio si
intrecciano alle speranze del padre.
Tom, giorno dopo giorno, si reca sul pontile, nella speranza d’intravedere Atlanna affiorare dal fondale. Tom non
si rassegna, vuol credere che Atlanna sia ancora viva. L’influenza positiva del
padre non riesce, tuttavia, a scacciare i fantasmi che torturano lo spirito di
Arthur, il quale teme il suo fato da monarca. Le giornate, per entrambi, si
consumano in maniera diametralmente opposta: Tom vive sperando, Arthur
temendo, e nascondendo queste insicurezze dietro una patina da uomo
approssimativo e rozzo. Jason Momoa fa del suo Aquaman un eroe in divenire, schietto,
grossolano, sgarbato, altresì intimorito, insicuro, bisognoso di aiuto eppur
valoroso, audace e votato al sacrificio; un
ritratto grondante di colore e ricco di sfumature.
La regia ispiratissima ed
efficace di James Wan delinea due realtà ben differenti: quella degli abissi e
quella della superficie. Il regno del
mare è popolato da creature straordinarie, visivamente stupefacenti. Atlantide
è un reame sontuoso, posto sotto il giogo crudele di un tiranno. Il fratellastro di Arthur, Orm, aspira a diventare Ocean
Master, e a scatenare una guerra contro il mondo degli uomini, colpevoli di
aver rovesciato nelle acque gli orrori del loro operato. Orm è nato da una
successiva relazione combinata tra Atlanna e il re di Atlantide. Differentemente
da Arthur, Orm nacque da un matrimonio celebrato, riconosciuto, ma privo d’amore.
Il mare, per volere di
Orm, rigetta sulle rive terrestri le immondizie degli uomini, scaglia i relitti
che riposano sul suolo marino, le navi da guerra, emblemi della follia
battagliera perpetrata dall’uomo. Il
mare è vivo ed è testimone delle azioni meschine e crudeli dell’essere umanoche ha rigurgitato, su di esso, il
petrolio che avvelena le acque salate, o le sporcizie che annientano la flora e
la fauna marina. Per volere del folle re atlantideo, l’oceano è pronto a
vendicarsi dell’uomo.
Due elementi, come la
terra e il mare, che dovrebbero vivere in simbiosi patiscono un distacco
incolmabile e non riescono a comprendersi vicendevolmente. In questo scenario
vi è, però, l’errore della diffidenza, del dubbio, del sospetto. Vige un odio razziale nel cuore di Orm.
Egli detesta la gente della superficie poiché la considera inferiore. Anche Arthur
è schivo e diffidente verso gli atlantidei perché essi non lo hanno mai fatto
sentire parte di loro, giudicandolo alla stregua di un essere intrappolato in
un’esistenza a metà. Persino Mera nutre sfiducia nei riguardi degli uomini,
ciononostante, permanendo sulla terraferma, imparerà a ammirare le bellezze
pure ed incontaminate come il verde
degli alberi, il profumo dei fiori (non commestibili!), la fresca e
delicata carezza del vento e il giulivo volto di una bimba che esprime un
desiderio, mentre getta una monetina in un pozzo repleto di acqua tersa e magica.
Il messaggio veicolato
dal film vuole ricordare quanto sia sciocco provare livore per un qualcosa che
andrebbe semplicemente conosciuto a fondo. La
superficie e il mare sono due domini che devono essere avvicinati. Orm è un
antagonista spietato che anela alla sola distruzione, invece Aquaman ha il dono
di congiungere entrambi i reami col potere di un unico tridente. Se Orm è divisione, Arthur è coesistenza ed
unione, potendo egli vegliare, con egual fermezza, su tutti e due gli
ambiti del pianeta.
Come verrà evidenziato nel film, Orm non ha l’assennatezza di un nobile sire, bensì “l’insana ragionevolezza” di un despota. Lui non è incline alla dialettica, non contempla nei suoi disegni alcun suggerimento scaturito dal dialogo, ma agisce mosso unicamente dalla rabbia, uccidendo chiunque si opponga al suo volere. Arthur, seppur impavido ed impulsivo, mostra, con lo scorrere dell’avventura, di possedere una certa diplomazia. Egli fa della parola, del dialogo, un’arma infallibile al pari del suo tridente. Arthur sa dialogare con le creature del mare, comprende i pensieri, capisce i sentimenti e sa come relazionarsi con esse. Sfruttando la calma, una qualità che non credeva di avere, Arthur parla con il Karathen, un essere mitologico guardiano del sacro tridente del primo re di Atlantide. Esternando la sua bontà, Aquaman otterrà l’arma suprema con cui riuscirà a sconfiggere Orm e a ristabilire la pace.
Tale tridente conserva in
sé l’essenza imperitura della spada nella
roccia. Il nome di Arthur rimanda a quello di re Artù, colui che, estraendo
Excalibur, salirà al potere, rivelandosi il più venerabile dei sovrani buoni
e coraggiosi d’Inghilterra. Arthur si dimostrerà l’unico degno di poter
brandire il potere del tridente d’oro. Atlantide assisterà al ritorno del re.
“Aquaman” è un film travolgente, esteticamente ammaliante. Conta su
un ritmo coinvolgente e una storia dallo sviluppo semplice ma appassionante.
L’opera di Wan è un viaggio introspettivo ed identificativo, che vede un uomo
dai poteri straordinari ascendere a ruolo di supereroe e regnante.
Sul suolo terrestre, dove
il cielo è limpido e lo specchio d’acqua quieto e cristallino,
Tom attende ancora la sua eterna compagna, Atlanna, scampata alla morte e rientrata
ad Atlantide con Arthur. Ella, un mattino, emerge dalle profondità e
riabbraccia il suo amato. I due, raggianti, si baciano in riva al mare. Tom è
un guardiano del faro e suo figlio sarà come lui: dispenserà una luce radiosa che possa sempre schiarire le tenebre se
esse caleranno, fredde e oscure, sugli oceani e sulle terre emerse.
"Mary Poppins" (Emily Blunt) - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
Arrivederci, Mary Poppins…
Con la sua voce soave e
modulata, lo aveva annunciato sin dal principio. Quando la brezza avrebbe smesso di soffiare da est, lei sarebbe andata via. Ed ecco che il vento cambiò. La
famiglia Banks era accorsa al parco, beata. George aiutava i figlioletti a far
volare l’aquilone nel cielo terso del mattino. Egli rideva
sotto i suoi baffi spessi,
spensierato come non lo era mai stato. Il signor
Banks era stato salvato, e con
lui la sua famigliola, fieramente unita, finalmente felice. Il compito di una
tata buona che, in quei lieti frangenti, sostava sulla soglia della porta di
casa Banks, era stato ultimato con la precisione minuziosa di una fata praticamente perfetta sotto ogni punto
di vista.
Il manico del suo ombrello incantato borbottava qualcosa. Quel becco a forma d’uccello mormorava di sentimenti ed emozioni, di rammarichi e nostalgie. “Io so benissimo cosa provi per quei bambini” – fu l’ultima frase che il bislacco manico riuscì a pronunciare. La tata lo zittì con la solita delicatezza. “Adesso basta parlare a vanvera” – disse. Quelle parole, però, erano vere e non “ciarlate a casaccio”. Mary Poppins ne era consapevole, si era davvero affezionata a Jane e Michael, gli adorabili figli di George e Winifred Banks, ma non poteva fare altro che accingersi a partire. Schiuse quel fatato parapioggia, raccolse la borsa dalla capienza illimitata e cominciò a librare verso le nuvole bianche.
La vide, per l’ultima
volta, lo spazzacamino Bert, che
alzò gli occhi al cielo e scorse quella sagoma dolce e gentile. “Arrivederci, Mary Poppins… Non stare via
molto!” – disse il tuttofare. Mary Poppins parve sentirlo, si voltò e gli
elargì il più affettuoso dei suoi sorrisi.
Bert non venne ascoltato,
e quella sua richiesta non fu mai esaudita. Mary Poppins rimase lontano per tanto, poco più di mezzo secolo.
Cinquantaquattro anni dopo ella fece ritorno, scese da un candido nembo,
accompagnata da una luce radiosa. Non
era invecchiata di un solo giorno, come tenne a precisare Michael, oramai
adulto, eppure la tata dei sogni era cambiata. Le sue scarpe blu come il mare
ritoccarono terra in un periodo alquanto particolare: erano gli anni della
Grande Depressione, e per i Banks nulla andava come doveva…
Mary Poppins, sei tornata!
“Il ritorno di Mary Poppins” è il sequel dell’intramontabile classico
del 1964. Nei cinema di tutto il mondo, sono trascorsi cinquantaquattro anni
dall’immortale apparizione della bambinaia dai magici poteri. “Mary Poppins”, grazie ad una storia a
carattere famigliare, ad un’ambientazione realistica, la quale raffigurava una
Londra d’inizio Novecento viva e fervente di colore, ad una forte componente
favolistica, ed una dimensione onirica
generata dalle arti stupefacenti della
protagonista, che riesce a penetrare, ad avvolgere e a mutare il reale, è
stata una delle pellicole più rivoluzionarie, intrinsecamente artistiche e
sorprendenti del panorama cinematografico di ogni tempo. Julie Andrews, con grazia, autorevole dolcezza, e con un’inimitabile
signorilità materna, ha ramificato nell’immaginario collettivo.
Girare il seguito di un
lungometraggio che ha scritto pagine indelebili nella storia della settima arte
e che ha cresciuto e coccolato, rispettivamente, molte generazioni di piccoli e
grandi spettatori, pareva essere un’impresa titanica, presumibilmente da
evitare, facendo appello ad un briciolo di prudenza. Ma la Disney, si sa, non è
nuova a raccogliere guanti di sfida, a cercare di rendere possibile ciò che
sembrerebbe impossibile. Or dunque, traendo spunto dal libro “Mary Poppins ritorna”, scritto dalla
stessa P.L. Travers e seguito letterario ufficiale del ben più celebrato “Mary Poppins”, lo studio Disney ha dato disco
verde alla produzione e alla successiva realizzazione dell’ambizioso sequel del
capolavoro degli anni Sessanta.
Mary Poppins possiede,
ora, il volto roseo e delicato di Emily
Blunt. L’attrice britannica raccoglie l’eredità di Julie Andrews,
infondendo alla sua Mary Poppins una spensierata leggiadria. Se Julie Andrews
emanava una garbata eminenza dal suo
portamento elegante, Emily Blunt fa scaturire una graziosa superbia. Ella offre così un’interpretazione lodevole,
coinvolgente e spumeggiante. Nonostante, con ogni probabilità, Julie Andrews
continui ad essere ritenuta la Mary Poppins per eccellenza, Emily Blunt non
tentenna né mostra mai di soffrire il paragone, adoperando tutto il proprio
talento nella creazione di una Mary
Poppins nuova, che coniuga una gestualità classica con un’espressività
moderna. Ad insidiare il suo eccelso lavoro ci pensa, però, lo sviluppo
narrativo, il quale si limita a soddisfare
più che a sorprendere, ad accontentare più che a meravigliare.
Le lancette del tempo
L’inizio de “Il ritorno di Mary Poppins”, citando, a
suo modo, l’atto conclusivo del capostipite, crea un collegamento tra gli anni trascorsi. E’ anzitutto una questione di tempo quella che il
film vuole trattare, e ciò viene suggerito sin dal momento in cui il sipario si
apre. Nel finale dell’opera originale, Mary Poppins volteggiava via, mentre i
piccoli Banks erano tutti presi a giocare con mamma, papà ed il loro aquilone.
Molti anni dopo, i figli di Michael rinvengono il vecchio aquilone del padre, ed esso vola via, sfugge alle loro
mani, risucchiato da una corrente impetuosa. L’aquilone si disperde nel cielo ottenebrato, quand’ecco che viene
recuperato da Mary Poppins, il cui corpo
schiarisce il grigio della tempesta, e porta con sé una luce nuova, carica
di speranza. Si potrebbe affermare che Mary Poppins torni nell’esatto momento
in cui le avevamo detto addio, o perlomeno in uno scenario davvero simile a
quello di tanti anni prima. Allora, Jane
e Michael giocavano con il loro aquilone, e adesso, nell’intro del film del
2018, i piccoli Banks inseguono
anch’essi il medesimo aquilone. E’ un ritorno al passato, un segno di come
il tempo giri ciclicamente e rivesta un ruolo di primo piano.
Nell’essenza fisica della protagonista, il concetto astratto di tempo trova la sua massima esaltazione. In Mary Poppins, infatti, il tempo pare essersi fermato. Ella non invecchia, essendo stata baciata dal dono dell’eterna giovinezza. Se sull’epidermide di questa nuova protagonista non è riscontrabile alcuna testimonianza dello scorrere degli anni, al contrario, nel mondo in cui vivono i Banks, il tempo ha addotto effetti malaugurati. Il viale dei ciliegi ha perduto vivezza cromatica, perché gli alberi non sono sani e floridi come una volta, l’Ammiraglio Boom, che tuttora amministra la propria dimora come un vascello che solca il mare aperto, è vecchio, arrembato, e non spacca più il secondo con la stessa precisione del Big Ben. Vi è un serio problema di “tempistiche” nel viale dei ciliegi, tutto sembra oscillare tra un triste “andato” e un imminente “prossimo”. La moglie di Michael è venuta a mancare e l’amata casa dei Banks è sotto pignoramento. E’ il momento propizio per il ritorno di Mary Poppins, che discende sul suolo terrestre come una fata e rincontra Jane e Michael, ormai adulti e un tantino smemorati. Infatti, sebbene la riconoscano immediatamente e restino tanto felici quanto sorpresi nel rivederla, essi non rimembrano pienamente le stupefacenti avventure in cui Mary Poppins li aveva condotti col suo inconfondibile brio. Erano soltanto dei bimbi quando la conobbero, oramai hanno dimenticato o forse, cosa ben peggiore, hanno smesso di credere!
La relazione tra Jane,
Michael e la loro tata è a stento accennata se non quasi del tutto assente. Mary Poppins, in passato, ha cambiato le
loro vite, ciononostante il ritrovarla non genera, ai fratelli, alcuna
tangibile emozione che possa essere percepita da noi spettatori. I due, se
non nella fase iniziale, restano quasi indifferenti dinanzi alla costante
presenza della “strega” buona. Un qualcosa di inspiegabile se non addirittura
di incomprensibile e d’imperdonabile. Vedere poi Michael rimproverare
aspramente Mary Poppins, rea di aver riempito la testa dei suoi figli di
“sciocchezze”, causa un effetto straniante.
La sceneggiatura pone
Mary Poppins sullo sfondo delle vicende, come se fosse un’attenta accompagnatrice invece che un’amabile
catalizzatrice degli eventi. In “Mary
Poppins”, la tata dispensava dolcezza ai bambini e, al contempo, migliorava tutto quello che si trovava
intorno a lei. Lo scopo segreto di Mary Poppins era quello di trarre in salvo il signor Banks, un
uomo precipitato in un abisso di insensibilità e avarizia, ed un papà schiacciato
dagli obblighi lavorativi, i quali esigevano il sacrificio dei suoi doveri
paterni. Mary Poppins si rivolgeva,
con una frequenza dosata, al padre dei
bambini, riuscendo, con la sua proverbiale dialettica, a mutare l’indole crucciata e severa del
genitore. Ne “Il ritorno di Mary
Poppins” questa basica sotto-trama non può essere presente, e purtroppo non
viene sostituita da un racconto altrettanto interessante. Mary Poppins finisce,
conseguentemente, per svolgere il semplice ruolo dell’intrattenitrice. La tata, di fatto, distrae i piccini dai
turbamenti quotidiani, trascinandoli in mondi fantastici e “immergendoli” in
regni sottomarini. Michael, distrutto dalle paure, appare nervoso, irascibile e
sfoga la crescente ira rimproverando i suoi figli. Tutto questo non è che un
mero refuso del ruolo che fu di suo padre. Ma Michael non è il signor Banks, e non soffre della medesima, incompresa,
fragilità. Una debolezza, questa, che neppure lo stesso George riusciva a
comprendere e a rinvenire in lui. L’incanto promanato da Mary Poppins
permetterà, comunque, ai bambini di consolare il padre con saggezza e
amorevolezza, così che lo stesso Michael rammenti l’importanza della famiglia.
Verso la fine delle
vicende, la grossa lancetta del Big
Ben si accinge a sancire la mezzanotte. E’ una corsa contro il tempo quella della famiglia Banks per mantenere il
possesso della loro casa. Grazie all’intervento di Mary Poppins, l’imponente
torre dell’orologio potrà far sì che l’ora indietreggi di qualche minuto, così
che i Banks salvino la loro proprietà e tornino a volare, lieti, su in cielo con il supporto di palloncini colorati. Un
messaggio espresso velatamente e rivolto a tutti quanti noi: mandiamo indietro le lancette del nostro
orologio, torniamo a provare l’emozione fanciullesca, lo stupore
dell’infanzia, il desiderio di sognare.
Ripulire e illuminare
“Il
ritorno di Mary Poppins” è una meravigliosa esperienza visiva, capace di ingolosire
il palato di coloro che amano nutrirsi di trucchi e illusioni, di magie e
incantesimi. La pellicola è una delizia per gli occhi, diletta gli animi, riscalda i cuori, tuttavia soffre di
una storia poco entusiasmante e di un preminente richiamo al passato: il montaggio
rievoca l’esatta successione delle sequenze del primo film e, in egual modo, molti
altri elementi fanno eco con la prima pellicola: l'entusiasmo per l’attivismo che
anima il carattere di Jane porge la guancia all’ardore della signora Banks, la
quale lottava strenuamente per l’emancipazione delle donne, la bizzarra cugina
di Mary Poppins, interpretata dalla celeberrima Meryl Streep, mima l’esuberante
zio Albert, persino Michael, negli atteggiamenti, emula il padre e, infine, la figura del lampionaio Jack fa il verso a
quella di Bert, lo spazzacamino di Dick Van Dyke. La Disney è sempre stata
maestra nel confezionare lungometraggi intrisi di stupefazione estetica,
cionondimeno negli ultimi anni la stessa ha plasmato uno stile cinematografico
votato alla suggestione, alla malinconia. “Il
ritorno di Mary Poppins” non è da meno, contempla ed elogia il “primo
capitolo” per poi rilasciare un nuovo
messaggio, il quale, però, risulta essere sacrificato sull’altare del citazionismo.
Molti anni or sono, Bert,
infilandosi nelle “canne fumarie”, ripuliva
i camini dalla fuliggine e dal nerume. Il suo mestiere aveva delle somiglianze
con quello della stessa Mary Poppins. Anch’ella spazzava via lo sporcodi
un’esistenza vacua, triste, scevra dal sogno fanciullesco e dalla fantasia
dell’innocenza. Come gli spazzacamini, i quali salivano sino alle vette più
alte dei palazzi, anche Mary Poppins, dondolando nel firmamento, poteva guardare
il mondo dall’alto, da una prospettiva
unica. Bert, molto tempo fa, liberava i camini dal sudiciume e, così, Mary Poppins spolverava, a ritmo di “supercalifragilistichespiralidoso”,
la vita del signor Banks, sozza dal giogo
dell’avarizia. Ne “Il ritorno di Mary
Poppins”, Jack è un lampionaio. Egli, insieme ai suoi colleghi acciarini, accende
i lampioni disseminati per le vie di Londra, illumina la strada ai viandanti così che possano far ritorno alle
loro case. Allo stesso modo, Mary si
presenta come un arcobaleno, comparso
allo scadere di un fortunale, per irradiare
il tortuoso percorso dei Banks e aiutarli a ritrovare il tragitto verso la
quiete e la felicità. Sia in “Mary
Poppins” che ne “Il ritorno di Mary
Poppins”, la protagonista e il suo comprimario, che sia uno spazzacamino o
un acciarino, condividono una “missione” piena di assonanze. E’ questo quello
che ha fatto Mary Poppins alla famiglia Banks: dapprima ha spazzato via ogni affanno, in seguito ha illuminato ogni giorno
della loro esistenza, come una madre buona e generosa.
Non ti dimenticheremo, Mary Poppins…
Sul finale, Mary Poppins
rimarrà nuovamente sola, sull’uscio
della grande villa dei Banks. Il viale dei ciliegi è nuovamente fiorito, ed il
tempo è tornato a scorrere con benevolenza. Mary Poppins è pronta ad andare
via, ancora una volta ha salvato i suoi cari ma nessuno si è soffermato a dirle
“arrivederci”, guardandola negli
occhi. E’ il dono ma anche il fardello di Mary Poppins: amare, essere amata, ma non potersi mai fermare troppo a lungo a gustare
il tepore della famiglia. Andrà via, col suo ombrello, scomparendo ma non
venendo mai dimenticata.
“Il ritorno di Mary Poppins” ha un fascino seduttivo, è un film
assolutamente ben fatto, divertente, colmo di spensierata festosità. Inferiore
al suo predecessore ed altresì manchevole di una morale profonda, di
un’educazione alla crescita e alla formazione che solo l’originale sa tutt’oggi
esprimere, può essere comunque annoverato tra i sequel discreti. Un film piacevole, godibilissimo, gioioso, ma poco
sincero poiché troppo studiato a tavolino.
“Ti ricordi la prima volta in cui hai visto un dinosauro?” - è un interrogativo ripetuto con dolce frequenza da Claire. La voce di Bryce Dallas Howard voleva porre a noi interlocutori una domanda, le cui intenzioni, più che ottenere una risposta di tipo razionale, erano destinate a far riaffiorare un ricordo appartenuto alla sfera emotiva del nostro vissuto. Per l’appunto, provo anch’io a rivolgere a te, lettore, il medesimo quesito: qual è stata la prima volta in cui hai visto un dinosauro? Si trattava di una riproduzione giocattolo? Un pupazzo di stoffa con le fattezze di un “buon” triceratopo? Forse hai veduto per la prima volta l’immagine di un primordiale dominatore della Terra sulle pagine di un libro illustrato? Chissà, avrai osservato lo scatto fotografico di un museo all’interno di un testo che ritraeva i resti scheletrici di un colossale animale che, milioni di anni or sono, muoveva i suoi poderosi passi sul suolo Triassico, Giurassico o Cretaceo! Vi è, invece, la possibilità che tu, proprio tu caro lettore, abbia visto, come me, per la prima volta un dinosauro…con la pelle addosso, intento a muoversi con maestosità in una verde radura. Lo hai intravisto mediante l’occhio meccanico di una cinepresa. Era forse un Brachiosauro alto nove metri? Molti di noi, in principio, hanno ammirato un dinosauro guardando “Jurassic Park”.
Ci sembrava fin da allora un miracolo, concretizzatosi con le ingegnosità magiche e figurative del cinema, quell’arte che rese vivida una forma di vita vissuta in un tempo tanto lontano. Sono certo che oltre al senso della vista, alla meraviglia estetica che è stata capace di generare in voi quella sequenza, scolpita con tale limpidezza nella vostra mente, riuscirete a ricordare anche il frastuono assordante, sinistro e inquieto di un’andatura titanica come quella di un dinosauro che poggia l’arto inferiore sul terreno, o il ruggito fragoroso di un Tirannosauro. Potete ricordare con cristallinità le emozioni che avete provato quando avete avvertito tutto questo per la prima volta in assoluto?
La campagna pubblicitaria imbastita per promuovere “Jurassic World – Il regno distrutto”, quinto capitolo della saga iniziata da Steven Spielberg col suo capolavoro del 1993, ha indirizzato l’attenzione del pubblico sull’importanza di richiamare quel caro ricordo. La prima reminiscenza che conserviamo riguardante i dinosauri, che tanto abbiamo imparato ad ammirare e, perché no, anche a studiare assiduamente, sospinti dall’impatto e dalla suggestione che quel film, il primo film, ha avuto in noi, è la fonte primaria dell’amore provato per il mondo giurassico. “Jurassic World” vuol farci tornare bambini, permetterci di rievocare quell’ingenuo ed incantato senso di stupore che abbiamo provato la prima volta in cui ci siamo affacciati alle meraviglie di quel parco dalle fatali illusioni. Per gustarsi appieno l’adrenalinica avventura di “Jurassic World – Fallen Kingdom” occorrerà sin da subito far sì che siano le emozioni basiche, i sentimenti primordiali, gli affetti sinceri a guidare i nostri istinti.
“Jurassic Park”, tuttavia, non è mai stato solo emozione né mero intrattenimento d’avventura. La prima pellicola ha intrecciato la sua analisi filosofica e la sua indagine esistenziale sulla vita attorno al tema del progresso scientifico, all’ardire dell’uomo che “gioca” a fare “Dio”, se non addirittura a sostituirsi a Lui. La vita, impossibile da controllare, trova infatti sempre il modo di sopravvivere e andare avanti, di progredire nel proprio irrefrenabile percorso evolutivo. La vita sfugge al giogo impostole da taluni, e si ribella con forza selvaggia. Nell’universo cinematografico di “Jurassic Park”, in quanto creature per certi versi incarnanti il miracolo, i dinosauri sono portatori di una esistenza arcana, trascorsa, ma che ancora seguiterà a perdurare in futuro. I dinosauri, selezionati dalla natura per l’estinzione, sono stati riportati alla luce dal parto generato dal connubio amoroso tra uomo e scienza. Essi sono conseguentemente responsabilità dell’essere umano, il quale ha il dovere di vigilare e proteggere i propri simili oltre i dinosauri stessi a cui ha donato una seconda esistenza. Di fatto, in “Jurassic World – Il regno distrutto” la missione dei protagonisti sarà incentrata sul salvataggio dei dinosauri.
Anzitutto è il tema del diritto e del dovere alla salvaguardia della vita animale ad emergere nella pellicola. I dinosauri possono beneficiare degli egual diritti degli animali del nostro tempo? Una calamità naturale si sta abbattendo su Isla Nublar: un vulcano attivo è sull’orlo di una devastante eruttazione che annienterà l’isola, sterminerà la specie che ivi alberga, e distruggerà il regno dei dinosauri. La natura si sta per manifestare in tutta la sua sconvolgente potenza. La lava incandescente si palesa come una punizione divina, una seconda estinzione. Ma i dinosauri, nati “in provetta”, in laboratorio, sono vivi, siano essi erbivori e così delicatamente ammirabili, siano essi carnivori e così fatalmente pericolosi. Tali creature meritano d’essere salvate! Ecco perché fare appello a quell’interpellanza pronunciata da Claire, la protagonista della pellicola. Rammentate l’emozione della prima volta che avete contemplato l’incedere regale di un gigante che calca il terreno, e capirete così, mossi da quella fremente sensazione, perché anche voi desiderate a tutti i costi salvarli!
Non è una fortuita coincidenza che proprio un brachiosauro resterà dimenticato sull’isola prossima a morire, avvolto dalla nube e sull’orlo dell’abisso. Quel primo dinosauro inquadrato più di vent’anni prima dalla sapiente regia di Spielberg è anche l’ultimo a morire, in una scena toccante che vuol ricordarci ancora l’importanza di ricorrere ai nostri ricordi legati ai dinosauri per ben comprendere perché è così basilare rimanere vicino ai protagonisti in questo viaggio.
“Jurassic World – Il regno distrutto” è un lungometraggio diverso, per certi versi atipico rispetto ai precedenti capitoli del franchising, eppure per tutto il tempo, il film strizzerà l’occhio al passato, citando molte scene che i fan più accaniti non potranno che scorgere. E’ una giocosa altalena tra passato e futuro il film di Bayona, specialmente nella prima parte in cui si avvicendano le ricerche sull’isola, con i dinosauri vivi, mirabili in carne ed ossa, con altre sequenze girate all’interno della villa del magnate Lockwood, in cui è possibile, invece, vedere le ossa dei dinosauri custodite in un ampio salone a carattere espositivo. Ciò che furono i dinosauri, ciò che sono e ciò che ancora saranno in futuro viene riletto dalla lente del cineasta anche attraverso questi espedienti simbolici.
In “Jurassic World – Il regno distrutto” i dinosauri vengono trattati come merce di alto valore, prodotto da vendere e su cui effettuare ogni forma di lucro. E a tal proposito, tra dinosauri in catene, aste e vincite sancite a colpi di martello, fredde cifre a sei zeri, per una parte consistente dell’opera si perderà quel senso classico di avventura, quella lotta per la sopravvivenza tipica dei vecchi episodi della serie. “Jurassic World – Il regno distrutto” vuol porre la propria lente d’ingrandimento sulla sacralità della vita in ogni sua forma e come essa debba essere sempre salvaguardata.
La trama di “Jurassic World – Fallen Kingdom” non è articolata, cede anch’essa alla riproposizione di un’aberrazione innaturale, di una nuova mutazione genetica orchestrata in laboratorio che darà vita all’IndoRaptor, il quale sarà nuovamente, come accaduto per l’Indominus Rex, abbattuto da una natura vera, una “fauna” altrettanto feroce ed originaria.
Tra omaggio e nostalgia, tra cambio di rotta e tentativo d’innovazione, il film diverte ed intrattiene con pochi veri picchi di emozione, e forse aggiungendo poco al proprio percorso narrativo se non per un finale che aprirà scenari interessanti, non più circoscritti ad un luogo limitato come era il parco o le isole di Isla Nublar e Isla Sorna, ma propagandandosi per tutto il globo terrestre: sarà la nascita compiuta di “Jurassic World”.
Ricordate la prima volta che avete visto un dinosauro? Provate adesso ad affacciarvi alla finestra, potreste vederne uno muoversi libero per le strade, salvato da quello stesso amore che avete provato col primo “Jurassic Park”, e che vi ha accompagnato fino ad oggi, fino al termine di “Jurassic World – Il regno distrutto”.
Voto: 7/10
Autore: Emilio Giordano
Redazione: CineHunters
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"Capitan America"- Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
Pazienza, programmazione e produzione sono le tre linee guida scelte dai Marvel Studios al principio di un ambizioso progetto. Tre dettami accuratamente rispettati per rendere possibile la creazione di un universo cinematografico senza precedenti. Con il lungometraggio “Iron Man” del 2008 si diede il via a un nuovo modo di fare cinema, e si alzò il sipario sul “Marvel Cinematic Universe”. La pazienza era il principale “dogma” da mantenere. Occorreva, infatti, un temperamento paziente, caratteristica peculiare dei grandi progettisti, per pianificare la creazione di un vasto universo cinematografico condiviso. Alla pazienza per la completa riuscita di un simile agognato progetto, si doveva necessariamente affiancare una meticolosa organizzazione. Per produrre e realizzare con regolarità pellicole “supereroiche” che avrebbero permesso il dipanarsi di quel fantasioso universo, servivano, per l’appunto, anni di programmazione e un’ingente stabilità economica e produttiva, fornita, in questo caso, dalla superpotenza Walt Disney, proprietaria della Marvel dal 2009.
"Occhio di Falco"- Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
Ogni film del Marvel Cinematic Universe costituisce il tassello di un mosaico. La Marvel ha ideato e plasmato un nuovo modo di raccontare storie, andando oltre il semplicistico concetto di “saga”. Questo perché la storia non resta circoscritta ad una linea narrativa principale, come avveniva ad esempio nell’esalogia di Star Wars di George Lucas, ma si espande senza limiti. I film dedicati ai singoli eroi proseguono la narrazione lì dove era rimasta e la storia, la quale trova il proprio culmine nei crossover. Per poter capire completamente cosa sta accadendo nell’ultimo “Avengers”, il pubblico dovrà prima aver visto “Thor: Ragnarok”, terzo capitolo della trilogia dedicata al potente dio del tuono, così come dovrà aver guardato “Spider-Man: Homecoming”, nuovo reboot dell’Uomo Ragno. Per gustarsi pienamente “Avengers – Infinity War”, lo spettatore dovrà anche aver visto “Black Panther”, e non solo, prima ancora dovrà aver visto “Capitan America – Civil War”. Ogni pellicola si interseca con la precedente e dà il via alla successiva, “obbligando” gli spettatori ad aver visto ogni film prodotto dai Marvel Studios. Una scelta complessa, certamente rischiosa, ma che si è rivelata sin da subito la chiave di un successo straordinario. L’universo Marvel ha mutato drasticamente il linguaggio cinematografico e, come fosse una serie tv, che spesso, dopo decisi quanto inaspettati colpi di scena, cede il passo all’episodio successivo e dà l’appuntamento alla “prossima puntata”, il Marvel Cinematic Universe continua ad accrescersi senza sosta.
"Thor"- Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
L’universo cinematografico Marvel non ha solamente generato un nuovo modo di raccontare storie, ha altresì “partorito” e “incastonato” nell’immaginario collettivo un tipico quanto oramai insuperabile modo di recepire il genere supereroico. Lo sviluppo sequenziale dell’universo Marvel è sempre il solito, ed ha permesso al pubblico di instaurare un rapporto di ricezione distinto. Il pubblico, quando siede in sala, pronto a gustarsi un nuovo film della Marvel, sa con cristallina consapevolezza cosa aspettarsi. I film Marvel sin dagli albori sono lungometraggi divertenti, adrenalinici, pieni d’azione, con trame semplici, successioni narrative chiare e ben delineate.
Loki Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
Tutte le pellicole marveliane si somigliano tantissimo per il taglio della regia (sebbene i registi che si avvicendano nei vari lungometraggi siano sempre differenti), per le ambientazioni e per i contenuti della sceneggiatura, la quale lascia filtrare nelle parole pronunciate dai protagonisti, simpatiche battute tendenti a rilassare e divertire gli spettatori. In particolar modo “Guardiani della Galassia” ha segnato una sorta di spartiacque. Le scene, colme di una comicità anche grottesca, sono aumentate persino in produzioni come “Thor: Ragnarok”. L’epica della battaglia tra il bene e il male viene spesso sacrificata per lasciare emergere situazioni beffarde, che trasmettono, a volte, la voglia degli eroi Marvel di non farsi prendere troppo sul serio.
"Vedova Nera"- Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
Questo modo di raccontare il cinema supereroico ha creato una sorta di “idea suprema”, come fosse un modello esemplaresu come dovrebbero sempre essere fatti i film sui supereroi. La Marvel ha forgiato quello che il pubblico generale ha oramai recepito come “il prototipo” dei film sui supereroi. Un archetipo da dover sempre seguire altrimenti non si avrà successo. E’ forse per tale ragione che la concorrente di sempre, la DC Comics, anch’essa alle prese con il difficile tentativo di trasporre al cinema il multiverso dei fumetti DC, si è scontrata contro un atteggiamento, per certi versi, restio da parte della critica. La DC ha voluto approcciarsi al genere con una maggiore cupezza e un’evidente seriosità, necessaria per marcare la sempre valente maestosità del confronto tra le forze del bene e quelle del male e purtroppo non ha ancora raccolto quello che anch’essa, naturalmente, meriterebbe. Fare un film “diverso” dai canoni marveliani sembra ormai impossibile, certamente non per mancanza d’idee o di stili divergenti, semplicemente perché la “rivoluzione” esercitata dai Marvel Studios ha sviluppato ciò che il pubblico ha imparato a volere, senza più alcun cambiamento. E’ questo il pregio e forse il vero difetto di un rinnovamento da cui non ci sarà più alcun ritorno.
“Avengers: Infinity War” è il culmine dell’universo cinematografico della Marvel. Con pazienza, programmazione e produzione, i Marvel Studios hanno realizzato una pellicola che potesse accogliere i più grandi eroi del proprio universo in un crossover costosissimo e incredibilmente ambizioso. “Infinity War” è un film che sorprende, poiché osa, va oltre lo stile divenuto oramai prevedibile delle vecchie produzioni Marvel. Osa, azzarda già nei primi venti minuti, palesandoci finalmente nella sua interezza la sagoma di un antagonista freddo e spietato, che fa svanire l’alone di leggerezza che ci si aspetterebbe di respirare nella prima parte del film, restituendoci una sensazione di vero dramma. Pur mantenendo e rispettando lo stile delle precedenti pellicole, “Infinity War” ha il coraggio di ardire. Il lungometraggio dei fratelli Russo colpisce per l’ottimo equilibrio con cui riesce a far coesistere così tanti personaggi. “Infinity War” ha tutto quello che un grande e spettacolare cinecomic Marvel dovrebbe avere: fa divertire, emoziona, appaga, coinvolge e al contempo fa anche riflettere. Una pellicola supereroica totale, imponente e avvincente, il vero apice di un universo nato dieci anni fa che trova oggi la propria esaltazione.
"Thanos" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
Tra i tanti supereroi presenti sulla scena, ho apprezzato molto la caratterizzazione di Cumberbatch come Doctor Strange, ma ho trovato deludente il Bruce Banner/Hulk di Mark Ruffalo, incerto, apparentemente spaesato e del tutto assente nelle sue vesti di Golia Verde. In una immensa miscellanea che vede i più celebri eroi della Marvel presenziare e combattere in questo conflitto per salvare l’umanità, nessuno di loro, tuttavia, riuscirà a prevalere scenicamente sull’altro. Neppure l’emblematico Iron Man, simbolo di spicco degli Avengers, si eleva sui suoi comprimari. E’, di fatto, il cattivo Thanos a rubare la scena a tutti i suoi rivali, i buoni.
"Iron Man"- Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
Thanos è un antagonista dalle fattezze colossali, dalla voce aspra e gutturale e di una potenza inaudita. Colpisce il modo in cui egli si pone agli interlocutori con dei modi che esternano una calma inalterabile, la quale prelude a un’apparente freddezza intima. Thanos è un cattivo che impara a farsi conoscere gradualmente nel corso del film. Il suo insano piano è studiato e spiegato con una pacatezza sconcertate, come se nella sua lucida follia lasciasse intravedere una distorta razionalità. Thanos è portatore di caos, e il caos è equo, diceva l’antagonista di un celebre eroe della DC Comics, in un film supereroico diretto da Nolan. Nell’equità, Thanos trova il motore per generare stabilità, equilibrio; attraverso la distruzione egli vuole mantenere ciò che il fato farà restare. Lui non è che un promotore, ma sarà il destino a decretare chi vivrà e chi invece perirà, poiché secondo Thanos la fine di molti garantirà la vita di pochi. Thanos è senza dubbio il personaggio più riuscito del film perché è il solo ad ergersi sulla moltitudine.
“Avengers: Infinity War” ha tra i suoi temi più interessanti il concetto di “sacrificio”. Per evitare che Thanos si impadronisca delle gemme dell’infinito, Gamora e Visione sono pronti a sacrificare loro stessi. Entrambi chiedono ai rispettivi partner di ucciderli se dovessero cadere preda del truce distruttore. Se sono pronti a sacrificare se stessi, anche Star-lord e Scarlet devono compiere un sacrificio: rinunciare all’amore per un bene superiore. Uccidere la persona amata per mantenere la salvezza della Terra è un prezzo da pagare a cui, tra le lacrime, entrambi cercano di ottemperare. Sia Star-lord che Scarlet sono infatti pronti a spegnere la vita di coloro a cui più tengono, ma entrambi falliranno, non per inadempienza delle loro promesse, soltanto perché Thanos gli impedirà di riuscire nei loro intenti.
Anche Thanos dovrà sacrificare l’unica cosa che abbia mai amato, e lo farà con una volontà di ghiaccio, attenuata solamente da una lacrima che gli scenderà giù dagli occhi. Il sacrificio di un amore attuerà la fine di molte vite. Quello di Thanos sarà un destino pazientemente voluto e messo in pratica, un caos ricercato, attuato e sancito.