
- La Zona del Crepuscolo
Coloro che vivono insoddisfatti del presente, di solito, trovano rifugio nel passato. Queste persone, nostalgiche per natura, rivelano, sovente, d’essere grandi viaggiatori. Viaggiatori instancabili - oserei dire - sempre pronti a partire verso una meta da esplorare. Queste persone sono solite compiere i loro spostamenti senza preparare alcuna valigia, senza rivolgersi ad alcuna agenzia di viaggio, senza imbarcarsi su traghetti e velivoli, senza montare su materiale rotabile di nuova generazione, senza spendere neppure un centesimo.
Non hanno bisogno di portare a termine - e in gran fretta - grossi preparativi e non hanno neppure necessità di arrovellarsi troppo nell’organizzare l’itinerario delle loro gite con visite mirate. Questo perché tutti coloro che ripensano quotidianamente al proprio passato effettuano i loro tragitti standosene comodamente seduti in poltrona, fissando un punto qualunque della stanza e smarrendosi in esso.
Del resto i nostalgici migrano con la mente, liberi come il vento che soffia impetuoso. Essi si spingono verso destinazioni che non possono essere raggiunte dai mezzi di trasporto consueti, fanno soste in luoghi serbati dai loro ricordi, ritrovandosi, di colpo, in un mondo che tanto desiderano ma che ormai non esiste più; perlomeno non come lo rammentavano, consumato dall’inesorabile alternarsi delle stagioni.
Capita a tutti, almeno una volta nella vita, di indugiare sul tempo andato, di riflettere sulla giovinezza, sull’infanzia, di richiamare alla mente un periodo o un momento lieto dell’esistenza. Ripensando a quell’attimo specifico, a quel frangente particolare, la mente vaga, si muove a ritroso, proprio come accadrebbe alle lancette di un orologio se si volesse rimandarlo indietro di qualche ora.
Rod Serling, il celebre creatore della serie televisiva “Ai confini della realtà”, faceva parte di questa cerchia unica nel suo genere: la cerchia degli inguaribili romantici, dei nostalgici cronici. Egli ripensava abitualmente al passato, menzionava spesso il periodo precedente al secondo conflitto mondiale, la sua adolescenza, una fase alquanto felice della sua vita.

Più si spingeva in là con gli anni, più Serling sentiva un’oppressione lacerargli il petto, un groviglio prendere forma nel suo stomaco fino a comprimerlo: il peso dei decenni che scorrevano via. Talvolta, gli sarebbe davvero piaciuto usufruire di un po’ di magia, quella stessa magia che i personaggi delle sue storie sono soliti incontrare nella quinta dimensione, quella che sorge tra l’oscuro baratro dell’ignoto e le vette luminose del sapere. Serling voleva - almeno per una sola volta - fare ritorno a quell’epoca ormai scomparsa, nella città in cui era cresciuto, fra quelle strade che aveva frequentato da fanciullo e in cui aveva trascorso ore ed ore a giocare con gli amici nei panni del cowboy che imbracciava una pistola o dell’indiano che brandiva arco e freccia.
Ma quando pensava a tutto ciò la sua sfera razionale, il suo pragmatismo, caratteristica di ogni adulto, prendeva il sopravvento facendogli capire che semplicemente non si può viaggiare indietro nel tempo, non si può ritornare bambino, è praticamente impossibile.
Ciò che è stato appartiene al passato e non può essere recuperato. E’ la consapevolezza della maturità: l’avvicendarsi dei tanti inverni muta ogni cosa, arreca affanni e rughe sul viso degli uomini e delle donne, deturpa e cambia l’aspetto dei luoghi distorcendone l’immagine, imbrattandone il ricordo. E così ciò che rammentiamo in un modo, rivedendolo a distanza di tempo, potrà sembrarci profondamente diverso, non più influenzato dalle emozioni e dai sentimenti legati ad una fase del nostro vissuto.
Ma l’essere umano non può in alcun modo darsi alla fuga, evadere da tutto quello che lo avvolge e trovare pace e ristoro in un mondo concepito dalle proprie idee, sia esso situato nel passato o nel proprio immaginario.
Nell’episodio “La giostra” della prima stagione di “Ai confini della realtà” Rod Serling poté trasporre questa sua smania, questa sua recondita speranza: la lenta traversia di un uomo stanco del suo mondo che vorrebbe, inconsciamente, fare un passo indietro, ripiegare verso una primavera che non esiste più. Il personaggio cardine di questa storia è tormentato da un male che non ha un nome, da un malcontento, da un rimpianto. Vorrebbe tornare alla sua infanzia, contemplare quel ciclo della sua crescita con consapevolezza, riammirare quello “spazio” ovattato in cui ha vissuto con gli occhi dell’innocenza e con il cuore colmo di felicità.
“La giostra” è un episodio mesto, sentimentale, profondamente toccante. Le prime scene staccano su di una strada polverosa e mostrano un certo Martin Sloan, un uomo di trentasei anni, percorrerla con la sua macchina.
Questi si ferma ad una pompa di benzina per fare il pieno, si asciuga il sudore dalla fronte con un fazzoletto di stoffa, quindi scende dalla vettura. L’uomo sembra nervoso, irrequieto, non riesce a stare fermo. Così, lascia l’auto sul posto e decide di avviarsi a piedi lungo il viottolo. Martin aveva bisogno di attardarsi, di fare una piacevole pausa; quello che ancora non sa, però, è che la sua non sarà una sosta come tutte le altre, sarà, bensì, un’escursione alla volta di una dimensione sconosciuta sita tra la luce e l’oscurità: una zona crepuscolare.

Quando Martin percorre il sentiero che porta alla sua città natale, la camera si sofferma dinanzi ad uno specchio che riflette l’immagine del personaggio principale dell’episodio, intento a passeggiare verso l’orizzonte o, per meglio dire, verso l’ignoto. La camera non resta immobile ma avanza, procede verso quello specchio, superandone i confini e travalicando la soglia della superficie riflettente.
E’ come se la cinepresa seguisse Martin e inquadrasse il suo incedere apparentemente normale; invero, la camera, tuffandosi dentro quello schermo freddo e immutabile, fa sì che allo spettatore arrivi un messaggio tra l’ambiguo e il misterioso: Martin, con il suo passo leggero, ha appena attraversato lo specchio, ha superato i confini di un regno fatto di ombre evanescenti. Un po’ come fatto da Alice, la protagonista del romanzo di Lewis Carroll, anche Martin ha varcato la soglia di un cancello incantato, marciando verso un mondo che tanto agognava.

Di lì a poco, infatti, Martin si renderà conto di aver viaggiato nel tempo. Egli rivedrà la sua città esattamente come la ricordava, mirerà i bambini giocare tra le aiuole, e scorgerà persino sé stesso in tenera età, tutto preso a incidere le proprie iniziali sull’intonaco di un chioschetto. Martin non riesce a darsi una spiegazione logica, eppure la sua immaginazione è riuscita a concretizzare un miracolo: lo ha condotto dove si auspicava, in un ambiente familiare e rassicurante che per lui significava tutto.
Martin ha così l’occasione di rivedere i suoi genitori, di sentire l’eco dei canti che echeggiano dalla piazza del quartiere, di riassaggiare la stessa coppa di gelato che era solito gustare di buon mattino, di sentire sulla pelle la fresca brezza dell’estate, la medesima che gli rinfrancava il viso e gli sferzava i capelli da ragazzino. Vagando per le vie della sua contea, Martin scorgerà anche la sua adorata giostra: la meravigliosa giostra di cavalli che girava, senza mai fermarsi, ancora e ancora, e su cui ha passato le ore più divertenti della sua gioventù.
Martin era un malinconico, un uomo fiaccato dal duro lavoro. Questa digressione improvvisa del suo peregrinare non fa altro che rammentargli quanto il periodo della giovinezza sia gradevole: le estati passate a starsene rannicchiati dietro i cespugli quando giocava a nascondino con i suoi compagni, lo zucchero filato addentato voracemente costituivano un’autentica felicità che, ineluttabilmente, andrà a perdersi con la crescita e l’età della maturità.
Riassaporando, seppur fugacemente, le gioie della propria infanzia, Martin riuscirà ad accettare ben più volentieri ciò che è inevitabile: la vita di un essere umano non può arrestarsi, non può immobilizzarsi ad un determinato stadio, deve andare avanti. Saranno le reminiscenze, le memorie, le fantasie rivolte agli attimi vissuti ad allietare gli attacchi di malinconia che si ripresenteranno, non di rado, quando il presente denuncerà la sua aridità. Pertanto, Martin, pur malvolentieri, sceglierà di andar via, di abbandonare quei luoghi e il suo stato di fanciullo lieto e spensierato. Monterà sulla giostra, che riprenderà a girare per un’ultima volta, riportandolo al tempo attuale.
Non fu che un intervallo, una tregua nel continuo ramingare di Martin. La giostra con i cavalli era scomparsa e con essa anche tutta l’atmosfera che ivi si respirava. I magnifici destrieri della giostra erano scappati via imbizzarriti, disperdendosi con i loro nitriti oltre il confine che divide il sole ed il suo tramonto.

- La Zona del Sogno
Eppure quanto sarebbe bello, di tanto in tanto, fare una capatina in una terra lontana, darsela a gambe da questa tediosa realtà? Scappare lontano da essa e cercare conforto laggiù, in un mondo su misura per noi, creato a nostra immagine e somiglianza, secondo il nostro gusto più sfrontato. Nessuno ce l’ha mai fatta per davvero. Beh, quasi nessuno.
Una ragazza ci è riuscita, in una strana circostanza. Proprio così! Ve lo assicuro, parola mia! Croce sul cuore.
Questa damigella non compì un viaggio come quello di Martin; si spinse ancora più oltre. Dopotutto, ella non voleva tornare nel passato. Era ancora una ragazzina, non provava nostalgia ma un senso di intolleranza, di noia, una stanchezza derivata da una realtà piatta, bieca, per nulla stimolante né avvincente. Alice - così si chiamava quella donzella dall’immaginazione sconfinata - non gradiva affatto il luogo in cui viveva. Ne voleva un altro, uno che potesse appagare il suo estro e saziare la sua fame di brio.
Tanto tempo fa quella fanciulla dai lunghi capelli d’oro si allontanò, pian piano, dalla sua terra natia e giunse lì dove nessun altro ebbe mai il coraggio di arrivare. Alice voleva con tutto il cuore vivere in un mondo tutto suo, come piaceva a lei. Un reame dove tutto sarebbe stato assurdo e niente sarebbe stato come sarebbe dovuto essere.
Un soleggiato mattino Alice - che si trovava all’aperto - tuffata nel verde della natura, a pochi passi da un limpido ruscello, si mise a pensare, a fare quello che, nel gergo comune, potremmo tranquillamente definire “sognare ad occhi aperti”.

La ragazza se ne stava sdraiata sopra il ramo di un grande albero, a giocherellare con il suo Oreste, un gatto rossiccio. Alice aveva appena infiocchettato una coroncina, ricavata dai petali dei fiori, e l’aveva posta sul capo del suo piccolo amico felino. L’animaletto pareva così buffo con quell’emblema regale in testa da indurre Alice a scoppiare in una fragorosa risata. Tale riso non passò inosservato.
“Alice, ti dispiacerebbe prestare attenzione alla lezione?” – Borbottò una signora ben più matura della nostra protagonista. La donna era seduta sull’erba, giù alle fronde dell’albero, con le spalle poggiate contro il tronco. Teneva in mano un grosso tomo dalla copertina rossa, leggendo ad alta voce le asserzioni che vi erano scritte. Sebbene la signora avesse un timbro squillante e facilmente udibile alla giusta distanza Alice dava l’impressione di non riuscire a sentirla, tutta assorta com’era ad immaginare.
“Scusami, sai, ma come si fa ad interessarsi ad un libro in cui non vi è neppure una figura?” – Sussurrò Alice, amareggiata.
“Mia cara bambina, ci sono tanti libri interessanti anche senza figure a questo mondo.” – rispose, seccata, la “maestra”.
“A questo mondo, forse…” – disse Alice e proseguì – “Ma nel mio mondo, i libri sarebbero fatti solo di figure.” sentenziò, in conclusione.
“Il tuo mondo?!” – chiese, sorpresa, l’educatrice.
E come darle torto, in fondo. Non esiste un altro mondo al di fuori di quello che conosciamo tutti. Eppure, Alice non la pensava allo stesso modo. “Nel mio mondo…” – bisbigliava – “Là tutto sarebbe assurdo: niente sarebbe com'è, poiché tutto sarebbe come non'è, e viceversa! Ciò che è non sarebbe e ciò che non'è sarebbe!”.
Già dall’accenno e dalla descrizione di questa prima scena, estratta dal lungometraggio d’animazione della Walt Disney “Alice nel Paese delle Meraviglie”, è possibile cogliere la sfumatura caratteriale della minuta protagonista della storia, una ragazza che sogna costantemente, a qualunque ora del giorno e della notte, e che osserva il “vero”, il “tangibile”, ciò che la circonda con distacco, cogliendone solamente le brutture e mai il lato gradevole.
Alla fredda realtà Alice predilige la fantasia, quella regione che non conosce limiti né confini, che esiste solamente nella sua testa. In quella singola battuta dedicata alle figure, alle illustrazioni dei libri, Alice palesa una sua inclinazione: ella antepone le immagini alle “proposizioni” degli autori, poiché le prime colpiscono il suo sguardo ben più rapidamente di un’articolata frase scritta o di una pur accattivante parola pronunciata a voce alta. Alice adora i disegni stravaganti, i colori sfavillanti, i dipinti densi di pennellate vigorose.
I versi inventati dai poeti e le frasi riportate dagli scrittori la lasciano indifferente e non carpiscono il suo occhio. Alice ama le forme bizzarre, le sembianze eccentriche, i ritratti strambi, gli aspetti inverosimili, soprattutto se recano in sé tonalità scintillanti, se sono tratteggiati con pastelli dalle mille gradazioni cromatiche, tanto da infondere in essi incarnati floridi e vivaci.

Il regno che sembrerà nascere dalla sua fantasia, nel quale si avventurerà di lì a breve - il Paese delle Meraviglie per l’appunto – soddisfa pienamente questi suoi gusti, queste sue propensioni. Le creature che incontrerà in quell’universo tanto strampalato quanto rilucente saranno bislacche, avranno fisionomie vagamente imbarazzanti, distorte, persino inquietanti, ma saranno tutte accomunate dal medesimo tocco, come se fossero nate dallo stesso cervello, dalla stessa mano, da uno stile riconducibile ad una sola persona: Alice stessa.
Alice è una sorta di pittrice, un’artista che dipinge su di una tela vasta come la volta celeste: questa tela immacolata altro non è che la sua illimitata immaginazione. Di lì a poco, Alice raccoglierà – metaforicamente parlando – la sua tavolozza ed il suo pennello e darà forma e contenuto ad un dipinto vivido ed espressivo dentro il quale potrà rifugiarsi ed espatriare, sciolta da vincoli di ogni genere e da catene forgiate per tenere a bada le sue caviglie mai stanche. I personaggi che incontrerà porteranno tutti il suo tratto distintivo, ed il luogo multicolore che la accoglierà recherà in basso la sua firma, ancora grondante di cromia.
Or dunque, Alice, quel dì, cominciò a navigare con la sua mente. Si allontanò dall’albero e si perse nel prato fiorito.
Tutto d’un tratto, in lontananza, la fanciulla dalla chioma luccicante come un raggio di luna scorge qualcosa di buffo quanto d’improbabile: un coniglio dal manto candido, tutto in ghingheri, che corre all’impazzata. Questo indossa un panciotto, regge l’ombrello con una zampa e porta sul musetto un paio di occhiali tondi. Saltellando su delle pietre emerse dal rigagnolo, il coniglio afferra il suo orologio da taschino, guarda l’ora segnata e, sbigottito, accelera nel suo ballonzolare.
“Poffare poffarissimo! E’ tardi! E’ tardi!” – afferma l’animaletto con fare distinto ma trafelato.
Alice non sa che aggiungere. Perché mai un coniglietto dovrebbe essere in ritardo? E per cosa, poi? Magari, sì, per un ricevimento.
“Signor coniglio!” – urla Alice – “Aspetti!” – e fa quanto deve per seguirlo. Guadagnata la sua tana, accade l’impensabile: con suo grande stupore Alice comincia a cadere, piombando giù, sempre più giù, verso un dominio fatto di meraviglie. La caduta a cui va in contro la timida Alice costituisce un primo elemento simbolico, il quale suggerisce l’origine onirica della sua disavventura: cascando, la ragazza vive ciò che tutti avvertono quando, preda di Morfeo, sognano di rotolare via, di ruzzolare giù da un’altura provando uno spavento tale da indurre il risveglio. Ma Alice non si desterà dal suo sogno poiché il suo capitombolo sarà lento, gradevole, leggiadro e non le farà provare alcun senso di vuoto allo stomaco.

Pertanto Alice precipita attraverso una voragine, librandosi dolcemente mediante l’ampia gonna del suo vestito azzurro, che l’aiuta a galleggiare come fosse una nuvola bianca che solca il cielo terso con la stessa intensità di una gondola che scivola sull’acqua.
Adagio, Alice atterra in un terreno mai visitato prima. Puntando i suoi occhietti cerulei e vispi, la fanciulla intravede nuovamente il Bianconiglio che sgattaiola dentro una fessura. Alice tenta, come può, di proseguire il suo inseguimento: allora apre una serie di porte che, man mano, si fanno sempre più piccole sino a rivelare una porticina in legno con un vistoso pomello d’oro, che giaceva celata dietro un drappo rosso.
Al tocco di Alice il pomello si desta, rivelando d’essere parte integrante di un volto buffissimo, incastonato nel legno: infatti quel pomello dorato altro non è che un grosso naso tondo su cui svettano due occhi vividi che sormontano un’ampia bocca, perfettamente in grado di parlare.
Il Signor Serratura si presenta ad Alice: egli è un minuscolo uscio di servizio, che si frappone con l’ingresso del Paese delle Meraviglie. Purtroppo, Alice è troppo alta per valicare l’accesso, così prende in prestito un’ampolla di vetro, posta su di un tavolo di cristallo che nel frattempo si era di colpo materializzato. Quel piccolo recipiente di vetro reca un biglietto con su scritto: “Bevimi!”. Seppur inizialmente restia, Alice beve la pozione che acquista, ad ogni sorso, un sapore diverso ma sempre più gradevole: dapprima l’estratto sa di marmellata, poi di crema, successivamente un retrogusto di ananas e, infine, l’intensità di un pollo arrosto.
Una volta finito di assorbire la strana miscela, Alice si rende conto d’essersi rimpicciolita tanto da poter finalmente varcare la soglia della porta custodita dal Signor Serratura. Tuttavia, Alice ha dimenticato di prendere la chiave, rimasta sola soletta sopra il tavolino. Adesso, la ragazza è costretta a ingurgitare un dolcetto che la fa nuovamente ricrescere. Disperata per essere ritornata grande, Alice inizia a piangere. Le lacrime che sgorgano dai suoi occhi, che percorrono le sue gote e che cadono giù, come grossi chicchi di grandine, inondano la camera, sbattendo contro la porticina del Signor Serratura come onde di un mare in tempesta, le quali s’infrangono rovinosamente sugli scogli di una riva.
Inzuppato a dovere e vittima del fiume in piena generato dal pianto di Alice, il Signor Serratura spalanca la sua bocca. Alice, che nel frattempo aveva bevuto una stilla rimasta della pozione, ridiventa minuscola e si rifugia proprio all’interno della boccetta la quale, cullata dall’acqua, viene “mangiata” dal Signor Serratura.
Al termine del suo quatto navigare, Alice guadagna la terraferma. Qui rivede il Bianconiglio, il quale, seppur indaffarato e in ansia per il suo ritardo, le dà corda, esortandola a raccogliere i suoi guanti. Quello che Alice ancora non sa è che tutto ciò non è che l’inizio di una estenuante peregrinazione che la porterà a vivere un’esperienza incredibile, divertentissima ma, per certi versi, anche spaventosa.
Tra le creature più strane che la ragazza incontrerà vi è senza dubbio lo Stregatto, un felino decisamente in carne, dal pelo viola e nero, con un viso molto largo ed un sorriso sprezzante. Lo Stregatto possiede poteri particolari: ha la facoltà di rendersi invisibile, di librare, e di eliminare alcune parti del proprio corpo, come se la sua pelle fosse fatta della stessa materia di cui sono fatti i sogni.

Egli incarna l’impossibile, l’assurdo, l’inverosimile che si manifesta nel corpo rubicondo di un gatto sardonico. La leggerezza che mostra lo Stregatto quando giace sospeso tra il suolo e le stelle con il suo ghigno ampio, in cui scopre completamente tutta la sua dentatura, sembra rappresentare la vera spensieratezza, la libertà insita nella “lucida follia”. Lo Stregatto è - come ogni altro essere incontrato da Alice - inconsueto, svitato, ma, differentemente dalle altre creature partorite dall’inventiva della protagonista (nella versione Disney si intende), sembra essere pienamente cosciente della propria “pazzia”, della propria “anormalità”.
Lo Stregatto, con fare intrigante e con un atteggiamento di chi la sa lunga, si esprime con un linguaggio ora preciso ora enigmatico, ironico e pungente. Il suo starsene per aria, sfidando la gravità, il suo scomparire e riapparire, tutte le sue mosse insolite non fanno altro che testimoniare quanto lo Stregatto sia un essere consapevole della propria assurdità; di essa se ne fa beffe, ma non solo, si prende gioco della stessa normalità. Egli volteggia perché non possiede alcun “peso”, è leggero come il soffio della corrente e vive felice e sereno nel suo squilibrio, nella sua stabilità precaria.
In fondo, chi è veramente “pazzo”? E chi è propriamente “normale”? Quali parametri lo stabiliscono? Lo Stregatto sembra chiedersi tutto questo e sembra anche farlo presente a tutti noi, ogni qualvolta rivolge quel suo sorriso irriverente alla giovane Alice. Il vero “matto”, forse, è colui che riesce ad essere pienamente felice, cosa impossibile per l’uomo comune, troppo afflitto dal trantran quotidiano, dall’implacabilità del tempo che non reca altro che afflizioni, dalla crudeltà del reale.
Dopo aver interloquito con lo Stregatto, Alice raggiunge il Bianconiglio il quale si è ricongiunto con alcuni dei suoi amici. Questo ricongiungimento è una mera toccata e fuga. Di fatto, il Bianconiglio non può mai star fermo: come ogni “adulto” che si rispetti egli è schiavo del proprio orologio, dei propri impegni, del proprio lavoro, dei propri obblighi, e non può arrivare in alcun modo in ritardo. Egli, poverino, non ha né il privilegio né la possibilità di fermarsi un istante, di rinfrancarsi, non gli è consentito neppure bere un caffè o concedersi una tazza di thè.
Proprio in quegli attimi, il Cappellaio Matto, il Toperchio ed il Leprotto Bisestile stanno festeggiando: essi sono soliti prendere il thè per celebrare un “buon non compleanno”, una giornata come un’altra in cui non ricorre alcuna nascita né qualsivoglia data importante. Per questa ragione, i personaggi festeggiano il non compleanno di Alice, che si ritrova, suo malgrado, a sorseggiare del buon thè, attorno ad una tavola imbandita con tazze traboccanti di bevande, piatti pregevolmente decorati, prelibatezze varie, dolciumi di ogni foggia e contenuto, ma soprattutto teiere animate, che danzano, emettono soavi melodie e lasciano effluire nell’aere circostante il fumo del liquido caldo contenuto al loro interno.
Contrariamente al Bianconiglio, che saltella da un dovere ad un altro con assoluta dedizione, perennemente oberato dal progredire dei minuti, il Cappellaio Matto ed il Leprotto Bisestile hanno perso la concezione stessa del tempo. La clessidra che scandisce le loro giornate si è arrestata e la sabbia contenuta al suo interno non defluisce più, ristagnando in un unico scompartimento; gli ingranaggi dell’orologio a cucù che orienta le loro mattine e le loro sere si sono guastati: esso non rintocca più, non fa risuonare nessun cinguettio. Questo perché il Cappellaio Matto ed il Leprotto Bisestile ignorano categoricamente il fluire dei secondi, l’avvicendamento dell’alba e del calar del sole.

Per i due personaggi esiste un solo orario: le cinque del pomeriggio. Del resto, è sempre l’ora del thè per il Cappellaio Matto ed il suo fido compagno di zuccherose bevute. Entrambi personificano un distacco ancor più evidente dalla normalità. Essi vivono - avulsi dal resto - nel loro piccolo “borgo” fatto di tavole splendidamente apparecchiate e di festicciole sempiterne. Le giornate, per loro, si succedono con un ritmo sempre uguale, con la medesima cadenza e questo è sufficiente a renderli felici perché essi non patiscono uno dei mali peggiori che angustia l’animo umano: il tedio derivante da un giorno scevro dal divertimento e privo di sorprese.
Lungo il suo tortuoso sentiero Alice farà anche la conoscenza del Brucaliffo, una figura saggia e paziente che le farà da guida. Il Brucaliffo può vantare un pregio molto raro: la pacatezza, la calma, la cosiddetta virtù dei forti, una dote sconosciuta alla maggior parte degli uomini, spesso agitati ed affannati, soggetti alla furia del tempo, all’amarezza dell’invecchiamento e con l’incubo perenne del ritardo (un po’ come accade al Bianconiglio).
Il Brucaliffo è una creatura che trasmette serenità, quiete, flemma, che sembra aver raggiunto, dall’alto della sua maturità, una vasta conoscenza. Alice, ancora una bambina, vorrebbe sapere molto dal Brucaliffo circa il Paese delle Meraviglie ma esso si limita a darle qualche piccolo consiglio che la ragazza dovrà capire da sola: una metafora della crescita, del cavarsela con le proprie forze.
Con la sua parlantina tranquilla e compassata, il Brucaliffo sprona Alice nel proseguire il suo viaggio. Verso la fine del suo lungo percorso, la ragazza finirà per imbattersi anche nella Regina di Cuori, una monarca instabile, soggetta ad attacchi d’ira, e molto incline a decapitare chi le fa il benché minimo torto. Spaventata e oltraggiata dalla pericolosa Regina, Alice cercherà in ogni modo di trarsi in salvo e di venir via dal Paese delle Meraviglie.

Inseguita da molti abitanti del luogo, la fanciulla riuscirà a tornare sui suoi passi e a rincontrare la serratura parlante. Scrutando nelle sue fauci dischiuse, la ragazza noterà sé stessa, addormentata in un sonno profondo. Alice, allora, picchierà con le mani sulla porticina, finché il frastuono non farà risvegliare il suo “doppione”, rimasto a sonnecchiare nel mondo reale.
Alice aprirà gli occhi e si ridesterà lì dove aveva schiacciato il suo pisolino: vicino a quell’albero dove tutto ebbe inizio.
Era soltanto un sogno. Almeno, è questo che l’ultimo atto del lungometraggio della Walt Disney vuol lasciare intendere allo spettatore. D’altronde, l’intera pellicola non è che una sequela di miraggi straordinari, di allucinazioni, di atmosfere psichedeliche, di animazioni singolari, fuori dal comune, esagerate eppure incredibilmente probabili, perfino plausibili nella loro naturale assurdità, tutti elementi che soltanto nel regno dei sogni è possibile scovare e percepire.
“Alice nel Paese delle Meraviglie” è un elogio all’irrazionalità, un tributo al paradosso, un’ode alla stramberia, un madrigale fatto di immagini distorte, di melodie stravaganti e di parole inusuali: un’opera filmica che è un omaggio alla fantasia più dirompente.
“Andiamo, su, è l’ora del thè.” – Dirà la sorella di Alice. La fanciulla, ancora confusa, raccoglierà il suo gattino Oreste fra le braccia e s’incamminerà verso il ponte che sormonta il fiume d’acqua cristallina.

Alice ha fatto ritorno alla realtà. Non era altro che un’illusione, una visione onirica cominciata quando la damigella aveva ancora gli occhi schiusi e proseguita quando le sue palpebre erano scese, conducendola verso il buio del sonno e poi verso il colore dei sogni. E se non fosse stato così?
Se il Paese delle Meraviglie esistesse realmente? Chi potrebbe dirlo. Alice aveva bisogno di evadere, di allontanarsi, di scappare, di rincorrere una fantasia che infondesse ad una giornata monotona, dal battito lento e sempre uguale, l’ebrezza di una fantasticheria.
Forse ognuno di noi ha il proprio Paese delle Meraviglie, una regione nascosta in cui potersi recare per scampare alla routine. Ma, come imparato dalla stessa Alice, per quanto bella e coinvolgente possa apparire una fantasia, un ricordo, una memoria, un’immagine, un miraggio, non lasciatevi mai catturare del tutto da essi. E’ bene fare sempre ritorno alla realtà, quanto meno per l’ora del thè.
Autore: Emilio Giordano
Redazione: CineHunters
Vi potrebbero interessare i seguenti prodotti: