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"Indiana ed Henry Jones" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

Indossa una giacca di pelle, una camicia e porta un cappello: è un cacciatore di reperti antichi e sta per mettere le mani sulla Croce di Coronado. Un ragazzo però sbuca alle sue spalle e gliela soffia da sotto il naso. L’uomo col capello si volta di scatto, ma per noi non è altro che…uno sconosciuto. Il giovane, invece, che scappa via con la Croce in mano è Indiana Jones. Ci troviamo nell’Utah, nel 1912 e Indiana Jones è soltanto un ragazzetto. “Indiana Jones e l’ultima crociata” inizia subito con una particolarità, un ampio flashback dal ritmo incalzante, confezionato con grande maestria nel girare le scene d’azione, tipica del cinema di Steven Spielberg. Ad interpretare un giovane Henry Jones Junior è il compianto River Phoenix. E in poche, inarrestabili sequenze d’azione, il giovane Indiana sembra plasmare il proprio futuro sotto i nostri stessi occhi. Indiana corre sul tetto di un treno in movimento, per sfuggire agli assalti di quei profanatori di tombe che gli sono alle calcagna. Proprio su quel treno, che al momento è in atto un trasporto circense, è più che normale imbattersi in un animale feroce. E’ quanto capita a Indiana il quale si trova davanti un leone, e per sottrarsi alle sue fauci ricorre all’aiuto di una frusta, da cui, come sappiamo, non si separa mai.  Precipiterà successivamente in una “fossa” piena di serpenti, da cui nascerà il suo profondo terrore verso i rettili, e si procurerà una ferita al mento (ricreando così la celebre cicatrice di Harrison Ford, uno dei segni identificativi del personaggio). Giunto a casa, dal padre, Indiana non fa neppure in tempo a dirgli cosa sia successo che i cacciatori di tombe lo raggiungono e si riappropriano del loro bottino. Quell’uomo che inizialmente tutti avevano scambiato per Indiana, rimasto piacevolmente colpito dall’estro e dal coraggio del giovane, lo incita a non arrendersi in futuro, e come pegno per la sconfitta, gli dona il suo cappello.

E’ come se in dieci minuti avessimo realmente assistito alla nascita del nostro eroe. Lucas e Spielberg con un intro mozzafiato volgono un intenso ricordo al passato di Indiana Jones, permettendo al proprio pubblico di scoprire gradatamente ma con una certa velocità, le origini dell’archeologo. Nel momento in cui indossa per la prima volta il suo cappello, nasce, a tutti gli effetti, Indiana Jones. Il passato si sgretola sotto i nostri occhi, come granelli di sabbia portati via dal vento, e riappare Harrison Ford nelle vesti di Indiana Jones, ancora con indosso quell’inconfondibile cappello, intento, a distanza di trent’anni, proprio a chiudere definitivamente quella faccenda in sospeso: riconquistare dunque la corona di Coronado e portarla in un museo: cosa che riuscirà a realizzare.

Una volta rientrato in patria, Indy si mette alla ricerca disperata del padre, caduto preda dei nazisti che necessitano delle sue conoscenze per il ritrovamento del Santo Graal, il leggendario calice da cui Cristo bevve durante la sua ultima cena. Il padre di Indy, Henry Jones, è uno dei maggiori esperti sull’argomento, e ha dedicato la sua intera vita alla ricerca del prezioso calice. Indiana comincia così la sua terza avventura cinematografica…

Con “Indiana Jones e l’ultima crociata” Spielberg e Lucas scelsero di affinare i canoni narrativi adoperati ne “I predatori dell’arca perduta”, per tornare a un clima maggiormente disteso, più improntato all’avventura spericolata, rispetto all’atmosfera dark e violenta vissuta nel precedente, “Il tempio maledetto”. Gli avversari del Dottor Jones tornarono ad essere i nazisti e ancora una volta, Indy dedica le sue ricerche al ritrovamento di un reperto mistico, custode di un potere divino, un po’ come accaduto per l’Arca dell’alleanza: il Santo Graal. Pur affidandosi a una formula vincente e già vista nella medesima saga, “L’ultima crociata” non ripropone, bensì affina, livellando il tutto con fare certosino.

“L’ultima crociata” non sbaglia un colpo, perfezionando ciò che aveva lasciato in sospeso ne “I predatori dell’arca perduta”: Sallah torna a combattere in prima linea, fianco a fianco a Indiana Jones, mostrandosi non soltanto come un prezioso alleato in battaglia ma come un vero amico dell’archeologo, a tratti anche divertentissimo. La personalità impacciata e smemorata di Marcus Brody viene approfondita, anche lui, infatti, viene coinvolto in questa grande avventura con Indy, fungendo tanto da spalla comica che da caratterista irresistibile, merito di un Denholm Elliott perfettamente calato nella parte. Gli avversari di Indiana, i nazisti per l’appunto, ne “L’ultima crociata” divengono ancor più spietati, sadici e traditori. Per la prima volta, infatti, persino la donna che accompagna Indiana Jones in quest’avventura, la Dottoressa Elsa Schneider, con la quale, da principio, si pensava che il protagonista potesse avere una storia d’amore, in verità lo tradirà, poiché anch’essa devota al folle operato nazista. Il male ne “L’ultima crociata” diviene vile e infingardo, e Indiana non potrà davvero fidarsi altri che di se stesso.

“L’ultima crociata” è un’avventura in grado di conservare il fascino immutato tipico di un primo capitolo di una saga. Il modo in cui scava nel passato del protagonista, tratteggiando in scena le sue peculiarità, la sua fobia più comune, e il medesimo stile con cui indaga l’infanzia di Indiana e il rapporto burrascoso con il padre, sono scelte narrative che fanno de “L’ultima crociata” una sorta di film totale di Indiana Jones, quello che pone l’archeologo come assoluto protagonista della scena. Indiana è l’eroe da ammirare nella sua verve spericolata, ma anche l’uomo da comprendere nelle proprie debolezze e perplessità, mai messe realmente in luce nei precedenti due lungometraggi. Il tutto viene vagliato e analizzato senza mai tralasciare l’umorismo tipico del savoir-fare di Indiana Jones.

Ma il cuore de “L’ultima crociata” è nel rapporto, splendidamente portato in scena, tra Indiana Jones e suo padre. Sean Connery venne scelto per interpretare Henry Jones Senior in quanto storico interprete di 007, l’uomo d’azione che ispirò Lucas nella concezione di Indiana Jones. 007 era a tutti gli effetti il padre dell’archeologo. E sarà un duetto senza precedenti quello tra Harrison Ford e Sean Connery, capaci di far ridere ma soprattutto di trascinare, con le loro diversità, gli spettatori in un’avventura carica di suspense. Indiana è un avventuriero coraggioso e inarrestabile, Henry Jones, invece, un accademico serioso e compassato, quasi inetto se calato in una realtà di pericoli. Un padre distaccato, non certo per cattiveria, ma perché caratterialmente ha voluto educare il proprio figlio nel rispetto dei propri spazi e delle proprie libertà. Indiana, dal canto suo, avrebbe voluto una vicinanza maggiore da parte del padre. Spielberg, ancora una volta, pone i propri personaggi nel gravoso compito di sopportare il fardello di una difficile interazione. Tra fughe in sella a una motocicletta, cadute vertiginose a bordo di un aeroplano e combattimenti all’ultimo sangue sopra un carrarmato, Indiana e suo padre torneranno a legare come prima e a comprendere le rispettive diversità caratteriali: dopotutto, come confesserà il suo stesso padre - “condividere le tue avventure, è interessante, figliolo”. E proprio attraverso la sua terza grande avventura Indiana condivide non solo con suo padre i propri segreti, ma anche col suo stesso pubblico.

Ne “L’ultima crociata” i libri e il concetto stesso di “lettura” assumono un valore profondo e inattaccabile. A Berlino, dinanzi ai nazisti che bruciano barbaramente decine di tomi, Indiana e Henry si sentono come “pellegrini in una terra sacrilega”. Persino nella comicità, Spielberg e Lucas trovano il modo di inserire uno spunto di riflessione. Indiana si troverà proprio dinanzi al Fuhrer, con in mano il libro degli appunti di suo padre, su cui sono segnate le restanti tracce per giungere ad Alessandretta, la città dove giace il Graal. Ad Hitler basterebbe allungare il braccio, sfogliare le pagine di quel libro per comprendere realmente chi ha davanti. Eppure, agisce con sufficienza, scambiando quel libretto come una richiesta, da parte dell’ufficiale interpretato dallo stesso Jones, di avere un autografo da Hitler. Quel libretto in cui era custodita la verità viene ignorato da Hitler in persona, simbolo che i nazisti nella loro follia non potevano realmente comprendere l’importanza della lettura: a tal proposito Henry Jones dirà: “Quegli imbecilli che marciano con il passo dell’oca come lei, i libri dovrebbero leggerli invece di bruciarli".

“L’ultima crociata” traccia inoltre una linea di demarcazione tra gli spiriti “puri” e quelli “impuri” attraverso le scene conclusive delle tre prove e del ritrovamento del leggendario Santo Graal. Indiana, protagonista indiscusso della pellicola, resta sempre centrale nello svolgimento della storia, cosa che non avveniva nella parte finale de “I predatori dell’arca perduta”, in cui il destino dei suoi avversari era deciso dal “volere” dell’arca. Qui riuscirà con astuzia e abilità a superare tre ardue prove che lo porteranno a dover scegliere, tra decine e decine di coppe, quale sia realmente quella appartenuta al Re dei re. Indiana sceglierà saggiamente: la coppa di un falegname sarà il calice di Cristo. Il puro di cuore, ovvero Indiana, riuscirà a salvare la vita di suo padre grazie al calice, e l’impuro, rappresentato da Donovan, il leader del gruppo nazista, perirà sotto il giudizio divino.

Nella sequenza finale, veniamo a conoscenza del vero nome di Indiana Jones, ovvero “Henry Jones Junior”, e che Indiana non era altro che il nome del suo cane a cui era legatissimo (in verità si trattava del nome del cane di George Lucas). Con quest’ultima rivelazione Indiana Jones si congeda dal suo pubblico per vent’anni. “L’ultima crociata” è, a tutti gli effetti, un viaggio profondo nelle pieghe segrete di Indiana Jones, magnificamente reso grazie ad un cast stellare di attori, su cui spiccano fra tutti Harrison Ford e Sean Connery, la coppia padre e figlio tra le più riuscite di sempre.

Cavalcando verso il tramonto, i nostri eroi chiudono una trilogia figlia degli anni ’80 e, forse, proprio per questo, pressoché inimitabile.

Voto: 9/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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"Bambi con suo padre" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

In una verde radura cinta da fiori appena sbocciati, una cerva ha da poco messo al mondo il suo piccolo. Il cucciolo dorme tra le “braccia” della madre quando gli animali della foresta giungono in quel luogo per ammirarlo. Verrà da questi soprannominato “principino”, in quanto figlio del cervo reale della foresta. Il piccolo apre per la prima volta i suoi occhi al mondo e tenta di alzarsi facendo forza sulle esili zampette posteriori. Poggiandosi poi su tutte e quattro le zampe, il cerbiatto alza la bianca coda, prima di fissare con curiosità Tamburino, un coniglietto dal pelo tra il bianco e il grigio e dal musetto di un rosa acceso, chiamato a quel modo proprio per l’abitudine, piuttosto rimbombante, di tamburellare la zampa sul terreno. E’ lo stesso Tamburino a domandare alla madre del cerbiatto che nome ha scelto per il proprio nascituro.  Mamma cerva, dal canto suo, risponde prontamente: Bambi!

“Bambi” era il film preferito da Walt Disney in persona, la “creazione” a cui era idilliacamente legato e che amò come fosse un figlio. Per Disney i più grandi ma anche i più piccini potevano osservare la crescita di Bambi e rivedere in essa quel cammino, costellato da innumerevoli tappe, che chiamiamo “vita”. La storia dell’amorevole cerbiatto è un intenso viaggio nell’istinto vitale in cui si intersecano il rispetto per la natura e l’ammirazione per il mondo animale con il ciclo dell’esistenza: il venire alla luce, il proseguire nella maturazione, l’amore e il raggiungimento della propria autonomia comportamentale.

Il piccolo cervo dalla coda bianca, sotto lo sguardo vigile della madre, impara ben presto a camminare e anche a parlare esattamente come un comune bambino. Scopre il valore dell’amicizia con Tamburino e la puzzola Fiore, e le meraviglie del mondo circostante, ma anche i pericoli di quel bosco che lo avviluppa sin da quando è nato. Crescendo, Bambi si innamora perdutamente di Faline, poco prima di divenire il signore della foresta. “Bambi” è un film profondamente sentimentale, che tenta di rapportare e inevitabilmente confrontare uomo e animale come figli della stessa terra, tendendo a unificare questi due esseri viventi, ma differenziandoli al tempo stesso. “Bambiè un lungometraggio che tratta il tema delcerchio della vitacinquant’anni prima deIl re leone”; e lo fa in modo estremamente malinconico e serioso, essendo esso un “ponte” forte e saldo, che permette di superare le burrascose acque del fiume della maturazione, ma soprattutto, rimanendo tutt’oggi una chiave didascalica dell’elaborazione del lutto. Se, infatti, la prima parte dell’opera pone lo sguardo accorto della camera su quella spensieratezza del piccolo cervo, tipica della giovinezza, e proprio per questo paragonabile a quella di un qualsivoglia bambino, la seconda parte, invece, si concentra sulla repentina crescita del protagonista, rimasto solo e affacciatosi senza alcuna avvisaglia sull’asprezza dell’arco vitale.

La sequenza in cui Bambi, confuso e spaventato, si muove tra i boschi mentre con voce accorata chiama la madre, mi riporta alla mente una celebre frase proferita da Christopher Lee: “E’ ciò che non si vede, non quello che si vede, che fa paura!”. La morte della madre di Bambi avviene fuori campo, lasciando lo spettatore, come lo stesso Bambi, nel vortice di un’atroce incertezza.

Il tenero cucciolo resta vicino alla cerva anche quando quest’ultima si pone in allerta, spronando il figlio a fuggire e a trovare riparo all’interno della fitta boscaglia. Lo sparo del cacciatore rompe l’apparente tranquillità di una fredda giornata invernale, il tempo si ferma d’improvviso e gli istanti sembrano tramutarsi in secoli. La neve comincia a fioccare copiosamente e Bambi riemerge dalla sua tana in cerca della madre. Le impronte dei piccoli zoccoli del cerbiatto restano impresse sul manto nevoso, indicando un percorso disordinato compiuto da Bambi nel tentativo di ritrovare la sua mamma. Il cammino a ritroso lo porta a imbattersi nel padre, l’imponente principe della foresta. L’imbarazzo e il disagio provati da Bambi sono resi in maniera del tutto naturale, con il piccolo cerbiatto che, di sobbalzo, abbassa lo sguardo, perché intimidito dalla maestosità del genitore.  Nel doppiaggio d’epoca datato 1948 Mario Besesti donò la sua voce corposa al padre di Bambi quando questi dovette dare al figlio il triste annuncio dell’avvenuta morte della madre. Le parole del padre nel riadattamento italiano assunsero le connotazioni di un funereo monologo.

“La tua mamma non tornerà mai più!  L’uomo l’ha portata via. Devi essere coraggioso, devi imparare a vivere da solo. Vieni, figlio mio!”.

Queste furono le frasi recitate con straziante commozione da un magistrale Besesti. Il secondo doppiaggio venne registrato nel 1968 e fu più attinente alla versione americana. Il padre ebbe la voce, perfettamente modulata, di Giuseppe Rinaldi, quando registrò le fatidiche parole: “La tua mamma non tornerà mai più!”. Seguono degli attimi in cui assistiamo, taciturni, alla reazione sconsolata di Bambi, quand’ecco che il padre prosegue: “Vieni, figlio mio!”.

Il Grande Principe della foresta nel suo eloquente silenzio spezza l’innocenza del figlioletto, che d’ora in poi dovrà riuscire a vivere senza più le attenzioni e l’affetto della madre. Quel “vieni con me”, proferito con tenera fermezza, induce Bambi a seguirlo e a comprendere che dovrà crescere in fretta per poter seguire le orme del padre e vegliare con lui nella selva.

Un’interpretazione vocale che sancisce un intonante sposalizio tra la dignità regale cui è rivestito il principe e la sensibilità paterna cui deve assurgere in quei tristi frangenti nei confronti del proprio figlio. Bambi si incammina fianco a fianco al padre, poco più che uno sconosciuto per lui, che ha trascorso ogni istante della sua giovane esistenza tra le calde cure della madre. Essa rappresentava ciò che Bambi era, la sua purezza; il padre, invece, ciò che Bambi sarà, la sua futura solennità.

L’impatto emotivo della scena travalica i confini del grande schermo, emozionando l’immaginazione dello spettatore e la sua sfera coscienziale. La scelta di non mostrare né il corpo inerme della madre né una traccia del suo vissuto si rivelò una rappresentazione ancor più drammatica della separazione tra madre e figlio. In un batter di ciglia Bambi perde la sua mamma per sempre, e non può neppure dirle addio. Non posso che fermarmi un attimino a riflettere su quanto scriveva il Foscolo nel suo carme “Dei sepolcri”. Per l’uomo, poter piangere i propri cari, facendo loro visita nei cimiteri, è l'unico conforto in grado di sostenere la tragedia di un addio. Ciò che reputo ancor più drammatico nel linguaggio cinematografico espresso dal lungometraggio “Bambi” è proprio la rappresentazione di una morte sopraggiunta in un momento di serena quiete. Un dramma inopinato che bruscamente strappò Bambi dalla sua innocenza, negandogli persino l’opportunità di poter accarezzare la madre un’ultima volta. Bambi non potrà seppellirla, piangerla in una fossa. Non ci sarà alcun sepolcro per la madre del cerbiatto. Ella svanirà nel nulla. L’immedesimazione nel protagonista sta proprio nel suo essere vittima degli eventi stessi, impotente dinanzi ad una minaccia del tutto nuova, e impossibilitato a piangere la madre, umanizzata nell’ideologia di genitrice. Bambi viene così ancor più reso umano, perché nel dolore diventa un possibile punto di contatto con i bambini che si rapportano all’identità animale, cercando in essa quei tratti comuni della propria familiarità.

La scena fin qui analizzata fa sì che la mente degli spettatori venga lasciata libera di viaggiare negli imperscrutabili meandri dei propri timori. L’apparato “scenografico” è però necessario per amplificare ancor di più quel senso di vuoto incolmabile lasciato nell’animo di chi guarda il film, e a tal proposito, la neve che fiocca sembra un lungo pianto generato dalla natura che avvolge l’intera vegetazione, il tutto in uno scenario triste e malinconico. Le musiche, l’animazione e le brevi riflessioni del padre assumono un valore poetico senza eguali, in cui ciò che temiamo diviene più incisivo di ciò che stiamo effettivamente guardando.

Il tempo lenisce ogni ferita, e così il lutto viene tenuamente superato con il trascorre delle stagioni. Il bosco subisce l’alternarsi della colorata e odorosa primavera, e dell’estate calda e luminosa, con l’arrivo malinconico dell’autunno in cui le foglie cadono e ricoprono le radici degli alberi. E’ su quel soffice sottobosco che Bambi, divenuto ormai un cervo adulto, ostenta la sua imponenza. Attraverso il suo passaggio alla maturità possiamo osservare quanto l’impronta umana degli autori combaci con il rispetto dell’istinto animale. Così, se Bambi si innamora come una qualsiasi persona, allo stesso modo agisce come un animale qual è, scontrandosi con un cervo rivale per la conquista della sua amata Faline. Opera esistenzialista e studio documentaristico vengono assorbiti dalla stessa abilità narrativa, permettendo a “Bambi” di poter essere un film in cui viene amalgamata la sfera emotiva e raziocinante dell’uomo con l’agire e il comportamento degli animali. Lo studio dell’andatura “altezzosa” e nobile del cervo, una caratteristica vagliata minuziosamente sul campo, si unisce così al suo parlare spiccatamente umano, e l’accoppiamento tra gli animali, chiamato ironicamente nel film “rincitrullimento”, viene mostrato come un autentico atto d’amore monogamo, oltre a riprendere molte delle azioni tipiche degli animali nelle stagioni degli amori.  “Bambi” è a tutti gli effetti un film che elogia lo studio etologico e celebra l’esaltazione dell’animo umano. In particolare gli occhi furono lo specchio con cui gli autori scelsero di creare un legame fatto di sguardi e introspezioni con i propri spettatori. Mirando gli occhi degli animali, noi spettatori creiamo inconsapevolmente un rapporto di coinvolgimento con loro, dialogando non con le parole bensì con gli sguardi e le tante “sbirciatine” all’interno del nostro “io”.  I grandi occhi azzurri e le ciglia lunghe ed emotivamente comunicative della splendida madre confortano il piccolo Bambi quando non è che un cucciolo, e quei medesimi occhi “incastonati” nel volto di Faline inducono lo stesso Bambi a invaghirsi di lei. Gli occhi divengono così lo specchio dell’anima dell’uomo ma anche dell’animale, talmente umanizzato da poter essere considerato un custode d’anima lui stesso.

L'ultimo passo di Bambi è quello di poter prendere il proprio posto nel cerchio della vita e dunque ereditare il “trono” quando il suo papà “abdicherà”. Bambi vide suo padre, per la prima volta, quand’era un cucciolo, senza sapere neppure chi fosse davvero. Al suo passaggio, tutti gli animali si fermarono per contemplare la sua avanzata ed il Grande Principe si arrestò di conseguenza per guardare soltanto uno tra gli animali lì presenti: Bambi. Esso gli sorrise ed il Grande Principe, silente, mosse le orecchie. Bambi si intimidì, ed il padre si allontanò. Il Grande Principe non sprecò alcuna parola, neppure la più dolce nel salutare il proprio figlio, cionondimeno quando le sue orecchie si mossero, esternò l’unica sensazione intima del suo volto indecifrabile. Per un solo istante, il “re” scelse di non controllare la sua espressività rigida, ma cedette ad un gesto, un cenno, una mossa. In quel movimento potentissimo ed eloquente delle orecchie il Principe salutò Bambi, suo figlio, l’unica “persona” per cui avrebbe rinunciato alla sua nobile postura. Poco dopo, quando l’imponente ungulato intuì l’avvicinamento dell’uomo, batté gli zoccoli al suolo per avvertire tutti i suoi simili dell’imminente pericolo. Bambi si perdette nella “selva” e la madre, disperata, lo chiamò a sé. Fu proprio il Grande Principe a trovarlo. In quell’attimo, il padre osservò Bambi dritto negli occhi, e ancora una volta non parlò. Con le zampe lo invitò a correre e, finché non furono tutti e tre in salvo, non distolse mai lo sguardo da suo figlio. Azioni sottili che evocano l’amore che il Grande Principe nutre nei confronti del figlio. Un tipo di amore che non può essere comunicato vocalmente.

Nel cuore della boscaglia, sui verdi sentieri, tra i polmoni delle querce nei cui rami scorre, come sangue, la linfa, viene scorto, da tempo immemore, l’incedere regale del grande quadrupede. Il Grande Principe è taciturno, ed incarna la natura viva e laconica della foresta, che comunica non con il parlato ma con il suono del vento che soffia, col fruscio, col verso di ogni forma faunistica e col colore della flora. Nessuno sa quanti anni esso abbia, ma la grandezza dei suoi palchi suggerisce che sia stato tra i primissimi figli di quel bosco. Il Grande Principe della foresta è un guardiano, un’entità remota, misteriosa, antica, un padre ineffabile, mitizzato da Bambi nella sua gloriosa maestosità.

Bambi, sovente, tiene il capo chino quando giace al cospetto del genitore. Il cerbiatto, mantenendo il volto curvato, pare quasi inginocchiarsi dinanzi alla nobiltà del papà, il sovrano e custode del vasto reame degli animali. Ma l’apparente genuflessione di Bambi non è dovuta semplicemente all’intrinseca regalità del monarca, bensì al rispetto e ad un flebile timore avvertito nei riguardi di un genitore aulico, imperscrutabile nella propria rigidità principesca, severo, di certo, tuttavia profondamente buono. Nello sguardo così schivo, intimidito, ritroso di Bambi, Walt Disney trasfigurò se stesso. Il cucciolo di cervo è, a mio giudizio, proprio l’espressione più intima dell’animo di Walt Disney, il quale fece del Grande Principe della foresta la traduzione artistica del proprio padre. Disney paventava e, al contempo, ammirava l’inflessibilità del suo genitore, un uomo arcigno e dal temperamento forte. Così, Walt mischiò l’austerità promanata, nei ricordi, dal proprio padre con il carattere morigerato di un re, e rese il Grande Principe della foresta un monarca saggio, vigoroso, un padre elusivo eppur presente, lontano tuttavia amorevole.

Il sire salverà Bambi anche quando le fiamme appiccate dall’uomo arderanno il verde. Esso, con la sua voce alta e profonda, esorterà il suo erede a rimettersi in piedi con tutte le sue forze, a non cedere mai alla paura.

Nonostante il padre rivesta un ruolo simile a quello che avrà Mufasa ne “Il re leone” qui si differenzia per il modo di porsi e di educare il figlio. Il Grande Principe della foresta è un re altero, che si muove con solennità, trasudando saggezza sin dal proprio portamento. Il suo procedere con tale grazia e magnificenza coincide col suo essere di poche parole. Esso dimostra l’affetto nei confronti di Bambi in modo implicito, relazionandosi con lui solo apparentemente in maniera distaccata. Il Grande principe dà valore ad ogni singola parola detta, istruendo il proprio figlio più con i gesti che con le espressioni verbali, cosciente che Bambi dovrà divenire forte e prendere il suo posto per proteggere la foresta dalla minaccia invisibile dell’uomo. Il male in “Bambi” è rappresentato proprio dall’uomo, mai però delineato fisicamente sullo schermo, poiché volutamente idealizzato come una negatività astratta, che può distruggere la natura e la vita animale esattamente come il suo stesso prossimo. In tal modo “Bambi” vuol comunicare un messaggio pressoché universale, mettendoci in guardia sui pericoli della malvagità di certuni pronti ad annientare con tanta efferatezza ciò che li circonda. “Bambi” è altresì un ammonimento evocativo per l’uomo “incendiario” e per il bracconiere e cacciatore senza scrupoli, un monito onnipresente per il rispetto della natura e il riguardo, laddove è possibile, verso gli animali liberi e selvaggi.

Bambi avrà da Faline due cuccioli gemelli. Li scruterà da lontano, restando fiero e regale su di un’altura, vegliando sulla compagna, sui figli e su tutta la foresta, con la vigoria di un vero sovrano. La possanza delle sue ampie protuberanze ossee evidenzia il raggiungimento di un completamento esistenziale: Bambi è ciò che per lui è stato suo padre, ed è pronto ad essere tale per i suoi discendenti.

I suoi palchi spioventi divengono una corona regale posta sul suo capo.

“Bambi” è un capolavoro assoluto, che tende la mano al pubblico più giovane e lo accompagna, attraverso una crescita artistica, a una comprensione reale del mondo ma non solo; la stessa mano continua a tenderla agli adulti, compiendo un viaggio a ritroso, rievocando in essi il passato, il legame con la persona più cara perduta, guidandoli verso un futuro che continua a essere imminente. “Bambi” è, a mio giudizio, una sorta di traghettatore di due ben distinti spiriti: l’innocenza e la consapevolezza.

Voto: 8,5/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Ryo e Kaori, disegnati da Erminia A. Giordano per CineHunters

 

E’ intrepido, affronta ogni avversità, è un duro ma…è dolce come il miele con le donne e poi, e poi le fa arrossire, perché lui è l’eroe della città… per caso lo avete letto cantando? Se siete fan di “City Hunter” non avrete potuto farne a meno. Quelli precedenti sono, naturalmente, i passi della sigla dell’anime, uno dei più amati mai trasmessi in Italia. Beh in quegli anni, l’animazione giapponese spopolava fino ai canali televisivi più remoti in cui, se eri abbastanza fortunato, potevi imbatterti in veri e propri appuntamenti fissi con Sampei, L’uomo-tigre, Lupin III, Ranma e infine proprio in…City Hunter. Ma prima di un’anime di successo, City Hunter è stato un manga, un’opera ancor più profonda della sua trasposizione televisiva.

Ryo e Kaori, disegnati da Erminia A. Giordano per CineHunters

 

City Hunter fu scritto e disegnato da Tsukasa Hōjō, un mangaka dallo straordinario talento artistico, capace di tratteggiare i propri personaggi con una vivezza realistica e una cura minuziosa del dettaglio estetico. I personaggi, ritratti splendidamente in tavole simili a quadri per la bellezza del disegno, sono il fulcro del lavoro del mangaka, il quale narra la storia attraverso il loro relazionarsi. L’introspezione è infatti preminente nel metodo narrativo di Tsukasa, che antepone la caratterizzazione dei personaggi alle vicende in cui agiscono. “City Hunter” è pertanto un manga “umano” che pone i personaggi al centro della scena, e le loro avventure non divengono altro che la punta di un iceberg…

“City Hunter” racconta la storia di Ryo Saeba e Kaori Makimura, che insieme formano “City Hunter”, un’organizzazione privata in cui i due possono essere contattati come guardie del corpo e, all’occorrenza, investigatori privati. Quasi tutti i numeri del manga sono autoconclusivi, e Ryo e Kaori si trovano, di volta in volta, a dover risolvere un singolo caso. Tale scenario investigativo, in verità, è soltanto la superficie della lettura, poiché dietro il riflesso del “caso” verrà alla luce il passato dei personaggi e le vere motivazioni che muovono il loro agire. Il cuore pulsante della storia è da ricercarsi nel passato di Ryo, che lentamente riemerge.

Ryo, il protagonista indiscusso del manga, è un cecchino infallibile e adopera sempre la sua arma classica, ovvero la Colt Python 357 Magnum. Ryo è altresì esperto nel combattimento corpo a corpo, ha dei riflessi fulminei e un udito estremamente sviluppato: riesce, infatti, a sentire il suono di un'arma anche a grandi distanze, ed è in grado di percepire immediatamente un imminente pericolo. Ryo è l'unico in grado di realizzare il leggendario "One Hole Shoot" che permette di colpire il medesimo punto con più proiettili.

Saeba guida sempre una Mini-Cooper rossa e, a volte, una Panda color smeraldo, la macchina della collega Kaori. Ryo può essere contattato solo scrivendo sulla lavagna della stazione di Shinjuku le lettere XYZ: le ultime tre dell'alfabeto, che rappresentano l'estrema risorsa per risolvere i propri problemi; tale ultima risorsa è Ryo Saeba.

  • La storia di “City Hunter”

Il passato del protagonista è avvolto nell’imperscrutato, egli stesso non conosce le sue origini e nemmeno la sua vera età. Sa solo che, da bambino, è sopravvissuto a un incidente aereo nell'America Centrale in cui trovarono la morte i suoi genitori; qui è cresciuto come un implacabile guerrigliero. Ryo venne allevato da Shin Kaibara, l'uomo che considera come un padre. Fu proprio Kaibara a dare a Ryo il nome Saeba. Kaibara fu tra i principali artefici della diffusione di un nuovo tipo di droga, capace di rendere gli uomini imbattibili: la Polvere degli Angeli. Egli testò questa potentissima droga proprio sul suo pupillo, Ryo, e gli effetti furono devastanti. Kaibara fondò in seguito un'associazione criminale spietata, la Union Teope, responsabile della morte di Hideyuki, il migliore amico di Ryo.

Ryo disegnato da Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Solo in età adulta Ryo si trasferì negli Stati Uniti, intraprendendo la sua professione attuale di investigatore privato e guardia del corpo, andando a vivere nel quartiere di Shinjuku, in Giappone, uno dei quartieri più pericolosi di Tokyo.

Ryo ha un fisico statuario, capelli neri e occhi del medesimo colore. Sebbene il suo aspetto fisico indichi che sia un uomo attraente, Saeba ha, per così dire, “poco successo” con le donne, per via dei suoi modi di fare da “maniaco”. Ryo non riesce proprio a contenersi quando si trova davanti a una bella donna, cominciando a riempirla di complimenti e a provarci spudoratamente, fino a far infuriare la collega Kaori. Saeba, letteralmente, impazzisce alla sola vista di un paio di mutandine o di un reggiseno, e alle volte viene colto in flagrante da Kaori mentre sbircia la sua biancheria. Questo lato piuttosto bizzarro del carattere di Ryo venne sfruttato dall’autore Tsukasa Hōjō per creare gag divertentissime che diverranno dei veri tormentoni per i lettori. Tali scenette comiche serviranno a stemperare la tensione dei casi più cupi e oscuri o dei momenti più drammatici per rendere maggiormente scorrevole la lettura. Il più grande tormentone del manga (e anche dell’anime) sarà proprio legato alle perversioni di Ryo, che tentando di “molestare” le donne che segue nei suoi casi, finirà per subire ironicamente le ire giustiziere di Kaori, che lo colpirà sempre con un gigantesco martello.

Ryo e Kaori dipinti da Erminia A. Giordano per CineHunters

 

La gag del martello è uno degli emblemi della serie e rispetta sempre un modus operandi che diverrà conosciutissimo: Kaori appare d’improvviso, quando oramai Ryo non può più far nulla per sfuggirli, e con fare intimidatorio materializza dal nulla un martello dalle esageratissime dimensioni (da 100 a 250 tonnellate) che scarica senza pietà sul corpo del povero Ryo. Alle volte, Kaori lo colpisce anche con materiali di svariata provenienza, che non fanno altro che accentuare il lato comico della situazione. Come non citare quando Kaori avvolse Ryo nel futon, lasciandolo appeso fuori dalla finestra per tutta la notte? Ryo, dal canto suo, sembra accettare sommessamente le punizioni di Kaori, forse perché sotto sotto sa di meritarselo

City Hunter - Ryo e Kaori disegnati da Erminia A. Giordano

 

Ryo possiede l’abilità di smorzare qualunque situazione gli si prospetti davanti, anche la più pericolosa, fermandosi di colpo per tentare di sedurre una delle innumerevoli donne che finisce per aiutare, ma quando emerge la sua vera natura, Ryo si mostra realmente come una persona molto sensibile, e al tempo stesso affascinate. Ryo è altresì sofferente quando ripensa al proprio passato a al dovere di “giustiziere” che grava sul suo destino; un dovere a cui non può in alcun modo sottrarsi. In Ryo quindi si incontrano due aspetti radicalmente diversi, che approfondiscono la sua misteriosa personalità: un’apparente superficialità che lo porta a desiderare solo donne prosperose e bellissime, e una sensibilità che nasconde. Ed è quest'ultima la vera essenza del suo essere, che verrà scoperta soltanto da Kaori.

“Una donna è in grado di innamorarsi per tutta la vita, io posso solo innamorarmi di tanto in tanto".  (Ryo saeba)

Maki, Umi, Miki, Saeko e Mick disegno di Erminia A. Giordano

 

  •  Ryo e Kaori

Il rapporto fra Ryo e Kaori è ricco di sfaccettature ed è il cuore della storia: dalla semplice collaborazione si trasformerà in un sentimento corrisposto di amore. Dal punto di vista di Kaori lo intuiremo ben presto, dalla parte di Ryo potremmo soltanto capirlo da qualche breve esternazione o un flebile gesto che farà nel corso della storia. Ryo è sempre pronto a rischiare la vita per proteggere Kaori, ma non sarà mai intenzionato a dichiararle i suoi sentimenti perché sa che la metterebbe in pericolo. Kaori è a tutti gli effetti l’unico punto debole di Ryo Saeba. Ryo sa che un giorno dovrà prendere una fatidica decisione: allontanare Kaori da sé, per sottrarla da una realtà fatta di pericoli e compromessi, oppure tenerla con sé, forse egoisticamente. Ryo tenta in tutti i modi di preservare la purezza caratteriale ed emotiva di Kaori, e infatti la pistola della giovane, appartenuta precedentemente al fratello scomparso, è stata manomessa da Ryo in modo che, quando la utilizza, non corra il rischio di “macchiare” la propria anima.

Kaori diventa l'assistente di Ryo dopo la morte di suo fratello Hideyuki. Kaori era la sorella adottiva di Hideyuki, poiché la ragazza era figlia di un malavitoso ucciso durante un inseguimento e venne adottata dalla famiglia di Hideyuki quando era ancora era molto piccola. Maki, l’affettuoso soprannome che Kaori aveva dato al fratello, era molto legato a lei e affidò in punto di morte a Ryo il compito di vegliare su Kaori. Nell’anime, Hideyuki è noto come Jeff.

Kaori nel manga è una ragazza sensibile e altruista, oltre che bellissima, nonostante cerchi sempre di nascondere la sue forme femminili con abiti che non fanno altro che svilirla.

  • Personaggi ricorrenti

Un personaggio ricorrente della serie è Umibozu, noto anche come Falcon, il cui vero nome è Hayato Ijuin. E’ un uomo nerboruto e gigantesco. Tra Ryo e Falcon è sempre esistita un’accesa rivalità, sin dai tempi della guerra, in cui combattevano su due fronti opposti. Non viene mai chiarito chi sia realmente il più forte tra i due. Nonostante il suo atteggiamento rude, Umibozu è, in realtà, una persona di animo nobile, e per contrapporsi al protagonista, è molto timido e arrossisce sempre in presenza di Miki, la donna che lo attrae e che in seguito diverrà sua moglie. Falcon lavora con Miki al “Cat’s eyeun bar appartenuto a tre sorelle che si sono trasferite da Tokyo. Si tratta di un evidente riferimento al mangaOcchi di gattoscritto e disegnato dallo stesso mangaka. Umibozu inizialmente soffre di una lieve forma di cecità, causatagli da un antico combattimento avuto con Ryo durante il periodo della guerra, e nel corso della storia diventerà cieco.

Un personaggio femminile ricorrente è la poliziotta Saeko, una seducente e bellissima donna che sfrutta il proprio fascino per assoggettare Ryo, promettendogli favori sessuali in cambio di missioni gratis al suo servizio. Saeko vanta una mira millimetrica nel lancio dei coltelli, che tiene nascosti nell'interno coscia. Nonostante rifiuti sempre Ryo, ella è in verità innamorata di lui come in passato lo è stata di Hideyuki.

Personaggio secondario ma dal grande spessore è il killer Mick Angel, antico compagno di Ryo con cui fondò per la prima volta City Hunter. Mick è un killer spietato, e ha un codice d’onore piuttosto peculiare: se deve eliminare un uomo, prima di ucciderlo, seduce la sua donna e la fa innamorare di lui, in modo che lei non debba soffrire troppo per la perdita del precedente partner. Mick Angel tenterà di uccidere anche Ryo, cercando di sedurre persino Kaori ma con scarsi risultati. Ciò che in verità accadrà sarà l’esatto contrario: lui si innamorerà di lei. Mick Angel perderà completamente la sua abilità nell’uso delle armi dopo un ultimo, disperato utilizzo della Polvere degli angeli.

Ryo disegno di Erminia A. Giordano

 

Tra gli innumerevoli avversari di Ryo merita una menzione la terribile BloodyMary. Mary sarà la sola a confessare a Kaori ciò che Ryo nasconde da sempre: un’origine che neppure lui può raccontare. Quando Kaori scoprirà che Ryo non conosce la sua vera data di nascita, sarà lei stessa a scegliere il 26 Marzo, data del loro primo incontro.

Nel corso del manga si susseguono episodi stupendi e veramente profondi come “Confessione in cielo”, “Un compleanno triste”, "Cenerentola in città”, “Un legame profondo”, “Una cicatrice dal Passato”, “Due strani tipi”, “Una foto tanti ricordi” e molti altri; è impossibile citarli tutti.

Kaori, disegnato da Erminia A. Giordano per CineHunters

 

  • Adattamento anime

L’adattamento italiano dell’anime di “City Hunter” ha una particolarità: nelle prime stagioni, infatti, vennero cambiati i nomi originali. Kaori divenne la rinomata Kreta Mancinelli e Ryo divenne semplicemente Hunter. Nelle stagioni successive vennero apportate ulteriori modifiche, restituendo i nomi originali ai personaggi. Nonostante la traduzione sia stata inizialmente infelice, il doppiaggio dell’anime fu sempre impeccabile. Le voci di Ryo e Kaori, rispettivamente Guido Cavalleri e Roberta Laurenti, oggi nota come Jasmine, furono meravigliose e perfettamente amalgamate ai personaggi.

Kaori disegnata da Erminia A. Giordano

 

L’anime di “City Hunter” traspone gran parte dei tratti erotici e sensuali presenti nel manga. L’attenzione smodata di Ryo per le belle donne è resa fino all’eccesso nella trasposizione televisiva, ciò non ha fatto altro che aumentare il carattere ironico della serie. Nell’anime però, per rivolgersi a un pubblico più ampio, i toni più oscuri e profondi del manga vennero ridotti. Ryo raramente indugia in riflessioni personali, non ripercorrendo il proprio straziante passato.

Fiore all’occhiello dell’anime, oltre a un’indubbia qualità del disegno e a una trama sempre all’altezza, è la colonna sonora. Temi intensi e suggestivi sono stati concepiti per l’adattamento televisivo del manga, e tra questi meritano una citazione: “Angel Night”, “Foot Steps”, “Without you” e “Mr private eye”.

Gli episodi di City Hunter vengono spesso conclusi con la melodia introduttiva del brano “Get Wild”.

Ryo e Kaori dipinto da Erminia A. Giordano per CineHunters

  • La fine di City Hunter

L’atto conclusivo del manga è il momento più commuovente, che vede Ryo e Kaori scegliere di restare “City hunter” per sempre. Finalmente si compie la decisione di Ryo. Egli, non potendo in alcun modo privarsi di Kaori, si “spoglia” di quella paura che lo stava consumando, il timore di poterla perdere, e decide di vegliare su di lei seguitando a restare al suo fianco.

Un tempo Ryo disse: "ci sono due cose che un uomo deve fare nella vita: restituire agli amici i favori resi e… amare la propria donna". Nel finale Ryo, innamorandosi perdutamente di Kaori, adempie a questa sua affermazione.

City Hunter disegnati da Erminia A. Giordano

 

Articolo e disegni a cura di Erminia A. Giordano

Redazione: CineHunters

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Come poter riassumere un’esperienza visiva come quella di “The Artist”? Semplice, in realtà, con una descrizione, una che rimandi a una reminiscenza a tratti terrificante

“The Artist” allunga la mano verso il cuore di uno spettatore, preme su esso fino a strapparlo via dal petto. Ci gioca, forse sadicamente, facendolo sobbalzare dinanzi ai nostri occhi con mal celato distacco e una freddezza apparente. Non possiamo che giacere lì inermi, impossibilitati anche solo ad azzardare alcuna reazione. Vorremo urlare, implorarlo di smetterla ma non fuoriesce alcun suono dalla nostra bocca. Siamo prigionieri di un mondo silenzioso come lo sono i protagonisti. Per loro, però, è la naturalezza, per noi, invece, la particolarità di una visione del tutto nuova. Perché “The Artist” non è solo un inno al cinema muto, non è un’ode a un genere oramai superato; “The Artist” è il passato che divora il moderno fino ad inglobarlo con voracità, trasfigurando l’anima di uno spettatore nel proprio “banchetto emozionale”.

E solo al termine di questa esperienza, quando George e Peppy riprendono a ballare nel “grigiore” di un’immagine in bianco e nero, tu, spettatore incosciente come il sottoscritto che compone questi passi, ti senti realmente libero di poter recuperare quel cuore e riportarlo al suo posto, lì dove deve stare, per riprendere a battere con un ritmo lento e compassato. L’ansia e l’angoscia provate da George sono cessate con la carezza delicata di Peppy. Possiamo uscire da quel tunnel in cui non penetrava alcun raggio di sole, terminare quel protratto ed eloquente silenzio che rispettosamente abbiamo mantenuto per empatia verso di loro. Non era un fare violento il suo, “The Artist” voleva soltanto stringere a sé il cuore in quanto simbolo pulsante dell'emotività più profonda, fino a colpirlo con la spiritualità di un cinema d’epoca. "The Artist" non è semplicemente una storia raccontata in pellicola, ma una vera esperienza taciturna che avvolge l'animo di chi la vive semplicemente osservandola.

The Artist” è una traghettata nel freddo mare della paura di star male, di fallire, di restare soli e soffrire maledettamente. Il tutto sullo sfondo di una mutazione artistica del cinema anni ‘30, in cui il sonoro succede al genere muto, e il musical è pronto a entrare, con grazia artistica, nel fantastico mondo della settima arte. La mescolanza del sentimento umano si unisce all'evoluzione prossima del cinema.

Vi è solo un modo per evitare di cadere nel vortice subdolo della depressione causata dal timore di un imminente futuro nebuloso e incerto: aggrapparsi all’amore, all’affetto di una ballerina capace di salvare una vita, restando gelidamente laconica ma calorosamente sorridente.

Voto: 8,5

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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"King Kong ed Ann" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Immaginate di varcare la soglia di un museo del cinema in cui viene riproposta, attraverso sequenze visive proiettate sulle pareti, una storia divenuta immortale. 

King Kong” è un’estesa narrazione visiva incastonata nell’immaginario universale, tanto da essere stata ripresa e reinterpretata più volte, conservando comunque l’unicità di un’opera irripetibile, come una raffigurazione scolpita su pietra. La tragica e suggestiva vicenda del maestoso Kong è una sorta di affresco in cui appaiono ritratte le atmosfere soffocanti della Grande depressione americana. E’ in questo immenso affresco che si staglia centralmente la gigantesca creatura vivente. Ai piedi di Kong vi è l’avvilente realtà urbana, poi la natura violenta di un’isola sperduta e infine l’imponenza di un grattacielo su cui volano biplani somiglianti ad avvoltoi affamati; i tre passi fondamentali del linguaggio di “King Kong”. L’amore per questo “affresco” che vide la luce nel 1933 è stato fonte d’inesauribile ispirazione per il regista Peter Jackson, che nel 2005 curò un nuovo “restauro” di tale scorcio, questo quadro eternato nella prestigiosa pinacoteca della settima arte, ricreando egli stesso un "dipinto" del tutto nuovo, più spettacolare e ancor più melodrammatico.

Nel “King Kong” di Jackson la storia tocca le tre ore e approfondisce le tematiche visive e narrative ergendole a veri e propri topos filosofici. Per il regista neozelandese, reduce dal capolavoro senza tempo della trilogia de “Il Signore degli anelli”, “King Kong” è un’odissea dell’amore e della morte, di cui il colossale gorilla è il triste nocchiero. Jackson gli dona la vita, conformandolo con lo spessore di un essere maledetto, solo e abbandonato, rabbioso e violento, malinconico e romantico.

L’impeccabile ricostruzione scenografica della metropoli Newyorkese, in cui la protagonista Ann Darrow (un’incantevole Naomi Watts) vive, svolgendo la sua attività lavorativa presso il Vaudeville, fa da premessa alle atmosfere del film che anela ad essere un’eminente trasposizione di un periodo storico oscuro e frustrante. Eppure, le scene ambientate nella modernità del tempo sono le più spensierate perché fatte carico di una speranza illusoria. Questo perché il “King Kong” di Jackson offre un itinerario inaspettato, sorprendente, nel proprio pellegrinaggio esoterico, una sorta di scalinata ripida e tortuosa da dover percorrere con audacia e vigoria. Dopo essersi lasciata alle spalle l’opprimente società americana, l’opera assurge ai canoni del viaggio esplorativo: le sequenze in mare aperto, a bordo della nave mercantile, sono cariche di mistero e senso d’avventura. Una volta approdati sull’Isola del Teschio, il film trasfigura ancora una volta il proprio essere, trasformandosi in un horror violento, a volte angosciante, con gli indigeni rappresentati come efferati e sanguinari assassini. In seguito, lo stile muta nuovamente in un monster movie in cui la spettacolarizzazione delle immagini visive sfama gli occhi di chi osserva il tutto con l’insaziabile appetito della fantasia. Le lunghe carrellate di animali antidiluviani, ricostruiti meravigliosamente, così come la ricreata flora di un tempo lontano, resa nella sua vivezza originaria di colori e forme, danno un effetto unico. Il “King Kong” di Jackson diviene un Kolossal farcito di stupore e ricco di effetti speciali stupefacenti, disseminati in un mondo esotico, colorato e fluorescente. Il procedere della storia conduce Kong, questo antieroe dalla caratterizzazione tragica, a ritrovarsi però nel mondo dell’uomo, nella “grande mela” statunitense in cui riabbracciamo, sul finale, il clima d’inizio film. Ma la parabola ascendente del nostro viaggio ora è diversa, perché “King Kong” diviene infine un dramma cupo e desolante, nostalgico e spiazzante, fino a trovare la sublimazione nel tragico epilogo.

  • Dall’essere “artista” all’allegoria del “sole”

Il rapporto iniziale tra Kong ed Ann, la splendida donna offerta in sacrificio al mostro, è complesso e difficilmente riassumibile. La ragazza teme per la propria incolumità e si trova impotente, stretta tra le dita dell’animale, che la porta con sé fino alle rocciose alture dell’isola. Approfittando di ogni minima distrazione della mostruosa creatura, Ann cerca di darsi alla fuga venendo però prontamente raggiunta da Kong che, furente, l’afferra e dopo averla guardata con occhi rabbiosi la intimidisce ulteriormente con l’emissione di inquietanti suoni gutturali. I due insoliti compagni, così diversi tra loro, si fermano un istante e si guardano fisso negli occhi per cercare di capire le reali intenzioni dell’uno nei confronti dell’altro.

Il mostro osserva con interesse la giovane Ann che per placare l’agitazione dell’enorme gorilla lo intrattiene eseguendo leggiadri passi di danza e bizzarre mosse di mimica facciale. Kong appare incuriosito, nonché divertito dai movimenti della donna.

La bianca epidermide di Ann che emana una luce splendente, simile al dolce sorgere del sole, raggiunge le stanche palpebre dell’animale, ridestandole da un sommesso torpore cui il tempo le aveva fatte precipitare. Gli occhi ormai dischiusi di King Kong non possono che ammirare una figura di donna dalle esili e armoniose fattezze. I biondi capelli che contornano il viso della fanciulla, sotto il volere del vento, arrivano a sfiorarle le rossastre gote, infondendo nel cuore di King Kong una sensazione d’indelebile presenza fisica. Eppure, l’amore che la bestia comincia a nutrire per la bella non si sofferma sulla mera esteriorità nell’opera del 2005. Ann diletta il gigante e ne cattura la sua attenzione per poi placarne l’ira. Danza per lui, esegue numeri di destrezza e agilità, si improvvisa abile giocoliera con tre pietre raccolte da terra per poi incantare la bestia con l’ausilio di un piccolo bastone con cui finge di reggersi mentre saltella, destabilizzando così inevitabilmente Kong. Ann attinge dal suo personalissimo “repertorio”. Lei, un’attrice di teatro caduta in disgrazia, una regina del palcoscenico privata però del suo stesso pubblico, in altre parole, un’artista venuta fuori dal sipario strappato della povertà. Ed Ann improvvisa, ricrea il proprio palcoscenico sui suoli rocciosi dell’isola del Teschio, dinanzi all’unico spettatore che riesce a mirarla, il gigante della terra, ovvero King Kong. Ed egli osserva Ann con indiscrezione, innamorandosi del suo fare più che del suo apparire, del suo “essere” piuttosto che del suo “sembrare”. King Kong si innamora dell’Ann artista ancor prima che dell’Ann sensuale e leggiadra creatura femminile.

L’intero film di Jackson traspira di un amore evocativo riservato al concetto stesso di “arte”, e tenta di effettuare un’analisi su come esso venga fatto proprio dai protagonisti. Carl (Jack Black) è un cineasta, e regge maniacalmente la sua pesante macchina da presa, difendendola ad ogni costo. Dal suo agire emerge la parte più oscura, la prostituzione dell’arte, in cui non si ha alcun rispetto per i morti e per i viventi, e dove tutto può essere usato come fonte di guadagno. Jack (Adrien Brody), invece, è un drammaturgo che vive per la stesura di un nuovo testo teatrale e che, a malincuore, accetta di seguire Carl in questo rischioso progetto cinematografico. Da Jack deriva quanto di più altruista e raffinato possa riservare l’arte scrittoria, un qualcosa di comprovato dall’eroismo di cui lo stesso Jack si fa carico nel corso del film. Ma la profondità più assoluta del concetto di arte è riservata al personaggio protagonista: Ann, la donna che sedurrà con la grazia del suo fare spettacolo e con l’erotismo del suo essere artista, King Kong. Lo stesso lungometraggio è impregnato di un amore artistico ed incondizionato verso un modo di fare cinema di stampo d’epoca, in cui il fattore empatico tra i personaggi silenziosi (Kong ed Ann) coinvolge lo spettatore con didascalici sguardi ed eloquenti silenzi.

A seguito di una cruenta battaglia si rompe l’astio tra questi due esseri. Kong salva Ann dall’azione predatoria di tre vestasauri, ed ella si concede volutamente al riparo nelle mani del mostro per scampare ai pericoli di quel luogo tanto bello quanto inospitale. La visione del rapporto tra i due riflette improvvisamente molteplici prospettive, come fosse uno specchio frantumatosi in migliaia di pezzi, capaci di catturare un’immagine diversa da un’angolatura del tutto nuova. Kong la conduce nella sua dimora, situata sul picco di una montagna. Kong depone Ann a terra, sedendosi a contemplare il tramonto. Quel sole sembra ritmare la vita di questo re, sorgendo per svegliarlo e tramontando per farlo addormentare. L’importanza di poter rivedere nuovamente il sole certifica per Kong l’essere sopravvissuto a un nuovo giorno, e perciò esso si sofferma quotidianamente ad ammirarlo. Non vi è alcun futuro per la bestia ma soltanto un costante presente. In quel momento, però, il sole vivo e luminoso per Kong s’incarna nel corpo e nello spirito della sua dolce Ann, che proprio in quegli attimi riprende a danzare per lui, cercando di riconquistare la sua fiducia dopo essersi sottratta al suo sguardo. Kong, con la fierezza e l’orgoglio regale di un sovrano ferito, la ignora, ma solo apparentemente, ponendo il suo sguardo sul sole che muore all’orizzonte. Ann, restando oltremodo colpita dalla bellezza di ciò che sta osservando, si sfiora più volte il cuore, mentre seguita a ripetere: “E’ bellissimo!”. King Kong la ascolta laconico, e poco dopo schiude il pugno per far distendere la fanciulla sulla sua mano. Jackson muta il terrore provato dalla giovane Ann in un’accettazione empatica verso la creatura.

Il regista forgia il suo King Kong come un guerriero dannato, dalla vita triste e avvilente. L’aspetto dell’essere suggerisce che l’animale abbia sofferto oltre che di solitudine anche di un persistente dolore fisico. Il suo pelo lascia intravedere decine e decine di cicatrici assieme a evidenti segni di artigli e denti, mentre dalle sue fauci protende una mascella distorta, come se fosse stata piegata durante una drammatica colluttazione. Sebbene quel luogo gli avesse procurato non poca sofferenza, Kong continuava ad amare l’isola in tutto e per tutto, la sola terra in cui poteva vivere in libertà. La bestia, tuttavia, verrà catturata dagli uomini per divenire un fenomeno culturale da poter ammirare e al tempo stesso schernire, imprigionato da catene e sballottato da un teatro all’altro. Una critica all’ardire Hollywoodiano, che tutto spettacolarizza e riesce a vendere al modico prezzo di un biglietto d’ingresso. King Kong viene presentato al grande pubblico nel periodo natalizio a Broadway, per la produzione dell’avido Carl Denham. Una volta liberatosi e fuoriuscito dal teatro, Kong si ritrova vittima di un mondo fin troppo diverso da quello in cui ha sempre vissuto. La modernità del tempo schiaccia l’indole della creatura, disorientata dalle auto e dalle luci della città. La natura tribale di Kong si scontra con la civilizzazione dell’uomo, che ha strappato dalla sua isola un essere così imponente da non potersi adattare a questa nuova realtà. La bestia si muove disperata per ritrovare la bella, afferrando qualunque donna dai biondi capelli gli si ponga davanti. L’amore provato da King Kong è tanto profondo dall’essere, nelle sue intenzioni, totalmente monogamo. Esso conserva l’immagine del volto di Ann e non intende portare con sé alcun’altra donna che non sia lei. Tutto d’un tratto il gigante si ferma. Viene a contatto dall’effluvio di un profumo che riconosce. Si volta e riesce a vedere Ann avanzare solitaria verso di lui. Ann indossa un lungo vestito bianco, il “sole” luminoso e cristallino che torna a risplendere negli occhi della bestia. Kong la scruta minuziosamente, riuscendo a riconoscere il suo volto. Quietatosi per il ritrovamento, Kong si avvia con Ann, defilandosi dalle vie più affollate.

E’ la tarda serata di un freddo inverno, e quando la neve comincia a fioccare sulle strade oramai deserte, la bestia allunga il suo braccio verso Ann che si lascia prendere e portare via. Le mani del “gigante” mutano ancora di significato all’interno del film, venendo adesso mostrate come una “carezza” protettiva che la bestia riserva alla sua Ann. Con lei si allontana dal centro cittadino per recarsi sul lago di Central Park.

  • La danza tra la bella e la bestia

Il carattere drammatico e sognante dell’amore proibito di quest’ultimo film assume un valore superiore se paragonato all’intenzione perversa, velatamente espressa dalla creatura, presente nei precedenti adattamenti. Il recente King Kong sembra infatti consapevole dell’impossibilità di poter vivere totalmente l’amore che prova per la donna, riuscendo ad esprimere il desiderio di volerla solamente proteggere ad ogni costo, tenendola con sé. Nella suggestione della scena ambientata sul lago ghiacciato, emerge la dolcezza del sentimento della bestia, innamoratasi perdutamente della bella. In quegli intensi frangenti, infatti, King Kong inizia a slittare delicatamente sul ghiaccio, facendo volteggiare in aria la compagna. Ann sorride dolcemente lasciandosi trasportare dai pacati movimenti della bestia che, indugiando per qualche istante su e calando vertiginosamente la mano per pochi attimi giù, dona alla donna l’impressione di poter “volare”.  I due continuano a restare vicini come avveniva sull’isola; ma questa volta, invece che circondati da una fitta vegetazione, sono avvolti da una splendida cornice costituita da tanti alberi di natale, addobbati da palline colorate e illuminazioni intermittenti. L’ambientazione fiabesca trova un’ulteriore esaltazione “favolistica” nel candore della neve che cade sugli alberi che delimitano il lago, mentre la bestia sembra danzare con la bella su di una lastra di ghiaccio. Kong si lascia scivolare lungo le sponde arrivando a scontrarsi con un cumulo di neve accumulatasi ai bordi del lago. Ann resta avvolta dalla neve che le copre il viso, mentre il grande gorilla, anch’esso ricoperto dalla coltre bianca, comincia a ripulire teneramente la giovane dai fiocchi di neve. Un frastuono irrompe nel silenzio percuotendo il terreno a pochi metri dalla bestia. King Kong comprende di essere di nuovo sotto attacco. Raccolta Ann ancora una volta nella sua mano, il maestoso primate fugge via, arrampicandosi sul monumentale Empire State Building. Seduto su in cima, Kong schiude la mano permettendo così ad Ann di liberarsi. La creatura riprende nuovamente a contemplare la bella, esattamente come faceva nel suo rifugio sulla montagna. Il sole è prossimo a sorgere, e Kong se ne accorge; quindi comincia a darsi dei colpi sul petto con la mano, proprio in prossimità del cuore. La donna capisce che la bestia sta tentando di comunicare con lei, riprendendo le medesime sensazioni che la bella aveva provato con lui. Ann, sorridendo, ripete: “E' bellissimo!”. L’amore di King Kong, come la sua stessa vita, viene cadenzato dal “ciclo del sole” ed Ann stessa, a mio giudizio, diviene completamente l’aurora della vita dell’animale. Se insieme avevano atteso il tramonto su quell’isola mai riportata su alcuna carta geografica, adesso, osservavano il sorgere di un nuovo giorno, l’ultimo. Non cadrà l’oscurità sull’esistenza della bestia, quanto lo stesso sole luminoso avvolgerà il suo destino, sfavillante come lo era Ann, che accompagnerà King Kong nel suo ultimo atto.

  • Ultimo atto

La pace delle loro emozioni viene però turbata: i biplani dell’esercito volgono verso King Kong. Le pallottole dei mitragliatori iniziano a bersagliare senza tregua la bestia. Kong urla al cielo la propria ferrea volontà di combattere, percuotendo le nocche sul proprio petto ed ergendosi maestosamente su due zampe. I colpi successivi costringono King Kong a contrarsi per pochi istanti. Con timorosa rassegnazione, egli nota il sangue grondare dalle ferite. Il re dell’isola riesce infine ad abbattere tre aerei ma alle sue spalle ne arrivano di nuovi, che lo trascinano fino allo stremo delle forze. Ann urla disperata di cessare il fuoco ma è ormai troppo tardi. Dopo aver salvato Ann un’ultima volta, Kong la regge tra le dita, ma la fatica del gigante è tanto evidente che non riesce a tenerla saldamente. Così, la distende sulla cima dell’Empire state building, mentre resta aggrappato al bordo della costruzione. King Kong guarda Ann con intensità, respirando affannosamente. Ella, distrutta dal dolore per la triste fine di quell’essere unico al mondo, protende la sua mano per accarezzare il muso dell’animale. Kong ricambia il gesto, allungando la sua mano per accarezzare la fanciulla, ma mentre sta per mettere in pratica la sua volontà un biplano scarica tutto il suo arsenale di colpi all’indirizzo dell’animale impedendogli così di riuscire nell’intento. D’improvviso quel respiro affannoso non si ode più, e la mano del gigante si muove inesorabilmente verso il basso. Il volto di Kong, fermatosi tristemente sulla base, scivola via, mentre il suo corpo cede la presa, precipitando nel vuoto. King Kong è morto.

  • Conclusioni

Con il trapasso della creatura, reso straziante come non mai, Jackson va oltre il remake in senso lato, convertendo il suo Blockbuster in un poema epico e il proprio “King Kong” in un'ode all’amore più terso. Giungiamo dunque al termine della nostra ascensione, e la cima della fittizia scalinata che raggiungiamo riserva l’emozione toccante della resa di un gigante. Perché, che se ne dica, “King Kong” resta il dramma di un essere vivente in cui si incontrano e si scontrano la brutalità bestiale con il sentimento dell’umanità più pura e sincera.  Ann, in lacrime, viene raggiunta e abbracciata da Jack nell’epilogo delle vicende. Alcuni degli uomini presenti diranno che gli aerei infine sono riusciti ad abbattere la bestia, ma verranno frenati dalla tragica realtà: è stata la bella ad uccidere la bestia.

Jackson girò la scena finale con una avvertita sofferenza emozionale. Il personaggio che probabilmente aveva amato di più fin da bambino, spirava proprio davanti alla ripresa della sua camera. Il regista neozelandese aveva adempiuto al proprio volere: dare vita alla propria visione di “King Kong”. Questo film, potendo contare su un uso all’avanguardia degli effetti speciali (premiati con l’oscar), ricreò un meraviglioso paesaggio mai realmente vissuto dall’uomo civilizzato, con una flora “viva” e quanto mai pericolosa, e una fauna giurassica e cretacea opportunamente modificata per indicare la normale evoluzione degli animali nel corso dei secoli. King Kong venne realizzato attraverso un dovizioso studio etologico: molte delle espressioni e degli atteggiamenti, infatti, corrispondono alle vere e comprovate movenze dei gorilla.  Un uso eccessivo della ripresa a rallenty e una certa prolissità possono essere considerate le sole pecche del prodotto finale. Jackson riesce sapientemente a coniugare, per il resto, l’impronta avventurosa con l’idealismo passionale. I risultati, infine, premiarono l’imponente lavoro del regista, il film incassò infatti 550 milioni di dollari, triplicando il budget speso per la lavorazione, e portò a casa 3 premi Oscar (per i migliori effetti speciali, il miglior sonoro e il miglior montaggio sonoro) oltre ad averne sfiorato un quarto per la migliore scenografia.

Al momento della morte, il sole è ormai sorto ed illumina con imparzialità una New York provata. Cala un sipario strappato su quell’affresco dall’inestimabile valore espressivo, e il telone del museo del cinema cui facevo cenno da principio, si chiude centralmente su colui che domina l’interezza della rappresentazione: King Kong, l’ottava meraviglia del mondo.

Voto 9/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Al cinema, tra il 1977 e il 1980, Harrison Ford era già diventato l’icona dell’eroe forte e coraggioso, ironico e sbruffone, una vera canaglia potremmo definirlo; in precedenza era già stato Han Solo. Star Wars” e “L’impero colpisce ancora” erano infatti sbarcati al cinema raccogliendo un successo straordinario. Le sorti del contrabbandiere interpretato da Ford al termine de “L’impero colpisce ancora” restavano però in bilico, in una suspense ben congeniata, in attesa del terzo e conclusivo capitolo dell’ormai rinomata “trilogia originale”. Mentre negli occhi di tutti i fan di “Star Wars” restava impressa una sinistra reminiscenza, quella triste immagine in cui Harrison Ford, nei panni per l’appunto di Han Solo, cadeva ibernato nella grafite e portato via dal cacciatore di taglie Boba Fett, lo stesso interprete statunitense veniva contattato da George Lucas per partecipare a un nuovo progetto: “Raiders of the lost ark”.

E proprio l’anno dopo, nel 1981, uscì nei cinema “I predatori dell’arca perduta”, il primo film della tetralogia di Indiana Jones. Lucas voleva da tempo tratteggiare un personaggio che riportasse in auge i canoni avventurosi del cinema anni ’50 e ’60. Serviva un eroe alla Errol Flynn, ma anche un personaggio che riuscisse a convogliare in sé il gusto per l’antico in un adattamento decisamente più moderno. Un protagonista di stampo classico, ma che fosse calato ad arte in una realtà contemporanea, che gli spettatori d’inizio anni ’80 avrebbero potuto apprezzare.

E Indiana Jones, infatti, conquista una grande fetta di pubblico sin dal primo fotogramma in cui appare, divenendo già a conclusione del primo film un autentico simbolo del cinema. Indiana Jones ci viene presentato come un uomo dalla doppia vita, una sorta di supereroe dalla duplice identità: un rinomato professore accademico e, al tempo stesso, un inafferrabile profanatore di tombe antiche. Ma il dottor Jones ama profondamente tutti i reperti che riesce a riportare alla luce, credendo fermamente che meritino d’essere esposti nei musei piuttosto che cadere preda di collezioni private finanziate da ricchi magnati.

Lucas e Spielberg diedero al personaggio persino un proprio “costume identificativo”: Indiana sin dalla sua prima avventura veste sempre con una giacca di pelle, una camicia color marrone chiaro e un pantalone beige. Porta spesso con sé una pistola, ed è inseparabile dalla sua iconica frusta e soprattutto dal suo cappello.

Sin dalle prime sequenze de “I predatori dell’arca perduta”, Indiana Jones appare come un eroe risoluto ma anche un personaggio molto umano, quasi esilarante nelle sue fughe disperate per scampare agli indigeni che cercano di ucciderlo brutalmente. E poi, quando si darà alla fuga a bordo di un aereo, veniamo subito a contatto con la sua più bizzarra caratteristica: la fobia per i serpenti.

Ne “I predatori dell’arca perduta” si torna a respirare il gusto per l’antichità e l’amore per la storia, e il tutto viene amalgamato con la fantasia più sferzante, perché Indiana dà la caccia a un manufatto mistico e dal potere illimitato come l’arca dell’alleanza. E nella sua lotta contro il tempo dovrà vedersela con un gruppo di nazisti. Indiana Jones viene così configurato come l’eroe solitario, all’apparenza un uomo comune, che si erge contro i crudeli, ed è qui probabilmente che si deve riscontrare il legame d’affetto indissolubile che lega l’archeologo al suo pubblico: l’umanità e la semplicità con cui Indiana conduce la sua vita; una vita col piede costantemente premuto sull’acceleratore. Indiana vive d’avventura e lotta per un senso astratto, ma che è più concreto di quanto si possa immaginare, un senso perenne di giustizia. In questa sua prima fatica duetta con l’avventurosa Marion Ravenwood (Karen Allen), con l’amico Sallah (interpretato da John Rhys-Davies, il futuro Gimli nella trilogia de “Il signore degli anelli) e interagisce inizialmente col mitico professor Marcus Brody (Denholm Elliott).

“I predatori dell’arca perduta” ha i meriti di unire in sé avventura, azione e mistero con la dovuta ironia e il giusto umorismo. Anche il suo protagonista non fa che oscillare in tratti caratteristici divergenti: Indiana è un signorile accademico ma anche uno sciupafemmine incallito, che prima seduce e poi abbandona le sue donne. Vanta un coraggio da vendere eppure trema dinanzi alla vista di un serpente. Da queste sue contrapposizioni nasce un successo che andrà sempre più a consolidarsi nel corso della saga, merito soprattutto di un Harrison Ford nato per interpretare tale ruolo, magistralmente ritratto e modellatogli addosso, come fosse un abito sartoriale cucito su misura.

Nulla viene meno ne “I predatori dell’arca perduta” dalla musica, col celebre brano composto da John Williams, agli effetti speciali ancora oggi imponenti per l’epoca (vincitori dell’Academy award), fino al ritmo, cadenzato alla perfezione, in grado di offrire picchi vertiginosi d’azione mozzafiato e scene sicuramente più quiete, sorrette sempre e comunque da una sceneggiatura ben scritta.

“I predatori dell’arca perduta” rappresenta un cult scolpito nell’immaginario collettivo, capace di fregiarsi di ben cinque Premi Oscar, e di compiacersi con altre quattro nomination, tra cui quella per il miglior film dell’anno. Il caposcuola di un genere, lo spartiacque tra ciò che fu in passato e ciò che sarà d’ora in poi il cinema d’avventura, perché ogni cosa, in un modo o nell’altro, scaturirà da Indiana Jones e da quell’inconfondibile stile che sarà emulato e fatto proprio dai diversi personaggi tra grande e piccolo schermo nel corso dei decenni successivi.

Col suo “I predatori dell’arca perduta” Spielberg assieme a Lucas ci permette di interagire con un particolare tipo di sogno, il sogno di poter vivere la vita come fosse una grande avventura (frase che Spielberg inserirà nel suo “Hook – Capitan uncino”).

Voto: 8/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Henry Jones Junior non ha certamente bisogno di presentazioni. Beh, forse se lo chiamo col suo nome di battesimo non attiro nei lettori la giusta attenzione e non suscito in loro la dovuta ovazione, cosa che invece dovrebbe manifestarsi. Mi correggo, allora: Indiana Jones non ha di certo bisogno di presentazioni. Così dovrebbe andar meglio! D’altronde, parliamo dell’archeologo più famoso di sempre, un avventuriero che col suo agire spericolato non ha fatto che ispirare tanti altri personaggi che hanno, in qualche modo, voluto avvicinarsi a quel tipico savoir-fare ritratto da Harrison Ford. L’astuto Rick O’Connell, nella trilogia de “La mummia”, vi dice niente? E Lara Croft? L’avvenente e inarrestabile archeologa protagonista della celebre saga videoludica - ma anche cinematografica - Tomb Raider è anche lei ispirata a Indiana Jones. Flynn Carsen, meglio conosciuto come “Il bibliotecario” nei film “The Librarian”, è pure lui una sorta di “discendente” di Henry Jones Junior. Carsen ha generato a sua volta una serie televisiva fantasy-avventurosa recentemente trasmessa su Paramount Channel chiamata “The Librarians”. E come non citare la professoressa Sidney Fox, che passava più tempo a recuperare reperti mistici e manufatti antichissimi con il fido aiutante Nigel in “Relic Hunter” piuttosto che insegnare, seduta comodamente in un’aula universitaria? Tutti figli di uno stesso padre, insomma. Indiana Jones è stato a tutti gli effetti un caposcuola di un genere che è andato sempre più a consolidarsi sul grande e piccolo schermo nel corso degli anni. Indy è una sorta di padre per tutti gli eroi dalla vita spericolata, un po’ come quella che negli anni ’60 viveva al cinema Steve McQueen… (non iniziate a canticchiare…) Ma Indy oltre che padre è stato figlio, a sua volta, venendo creato da George Lucas, plasmato da Steven Spielberg, ma ancor prima ispirato dall’azione spettacolare di uno 007, reso immortale sul grande schermo dal suo primo, storico interprete: Sean Connery. Non è infatti un caso che proprio il grande attore scozzese abbia preso parte come comprimario a “Indiana Jones e l’ultima crociata” nelle vesti di Henry Jones senior, ovvero il padre del famoso archeologo. Sean Connery col suo 007 è stato a tutti gli effetti il padre di Indy. Ma un’altra persona, forse, meriterebbe d’esser menzionata nella concezione originaria dell’avventuriero armato di frusta, che porta sempre un cappello: Charlton Heston. Provate a ricordare l’outfit di Heston ne “Il segreto degli Incas”, non trovate delle somiglianze più che evidenti? Ne “Il Segreto degli Incas” troviamo, forse, le origini primordiali di Indiana Jones, quelle che avrebbero catturato le attenzioni di Lucas per la stesura dei tratti fisici di Indiana Jones.

Charlton Heston ne "Il segreto degli Incas"

 

Indiana Jones è una saga composta da una tetralogia. Il debutto assoluto del personaggio avvenne ne “I predatori dell’arca perduta”. Sin dal suo primo, storico film, conosciamo Indiana come un uomo dalla doppia vita, come fosse una sorta di “supereroe” dalla duplice identità: un rinomato professore accademico e, al contempo, un inafferrabile profanatore di tombe antiche. Ma il dottor Jones ama profondamente tutti i reperti che riesce a trafugare, credendo fermamente che meritino d’essere esposti nei musei invece che cadere preda di collezioni private finanziate di ricchi magnati.

Indiana Jones e il tempio maledetto”, pur essendo all’apparenza un sequel, è in verità un prequel, poiché ambientato prima degli eventi del primo capitolo.  I primi tre episodi della saga sono ancora oggi i più amati, ma forse “Il tempio maledetto” necessita di una riscoperta, in quanto tra i tre è quello che ha suscitato più di qualche obiezione. In questo secondo (anche se cronologicamente primo) capitolo della saga, Indiana divide la scena con il piccolo Short Round (interpretato dall’allora bambino Jonathan ke Quan) che Indy chiama affettuosamente “Shorty” e Wilhelmina Scott, detta “Willie” (Kate Capshaw). Il Dottor Jones diviene il paladino di una tribù povera e isolata dell’India che lamenta la scomparsa di una pietra sacra, rubata dai Thug, una pericolosa setta indigena che compie riti mistici nei sotterranei del palazzo di Pankot. Gli autoctoni informano l’archeologo che molti dei loro bambini sono stati strappati all’affetto delle loro famiglie e condotti in segreto al palazzo. Quando Indiana riuscirà a trovare il passaggio segreto che lo condurrà nei sotterranei, dovrà affrontare numerosi pericoli, dai Thug stessi ai diabolici effetti di un “sortilegio” che arriverà persino a annebbiare la mente del nostro eroe…

Indiana Jones - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

La trama di base del lungometraggio sembrerebbe essere solida e avvincente. Eppure, il film diretto da Steven Spielberg non è esente da difetti. Nella parte centrale della pellicola, quando Indiana varca l’entrata segreta dei sotterranei, il film sembra arenarsi in un pantano fangoso, venendone via con tremenda fatica. Questa fanghiglia appiccicosa vuol quasi “imprigionare” i toni adrenalinici della prima parte del film, per risucchiare a sé e, per l’appunto, impantanarlo nella noia. Il pezzo in cui Indiana viene a contatto con i Thug fino a farsi contaminare dal sangue della dea Kali e cadere preda di un oscuro maleficio che gli avvelena la mente, appare prolisso, scandito da un ritmo fin troppo rallentato. I toni del film più sbarazzini, comici e immediati nella parte iniziale, diventano a un certo punto cupi e brutali. I bambini fatti schiavi che lavorano in quelle miniere a ritmi forsennati, piegati dagli stenti, sono immagini crude, forti, che secondo alcuni poco avevano a che vedere con l’ironia spavalda del personaggio. Ma George Lucas sentiva che un clima pesante si sarebbe dovuto respirare in questa nuova pellicola dedicata al personaggio. George Lucas aveva appena divorziato da Marcia Griffin, e si portava ancora dietro gli strascichi di quella separazione. Il dolore provato da quell’aspro distacco lo portò a desiderare un taglio più rude e crudele per questa sua nuova fatica cinematografica.

Altre critiche vennero mosse dai fan per la caratterizzazione della spalla femminile di Indiana Jones. Willie, per molti, non era altro che lo stereotipo della donna incapace di badare a se stessa, che passa gran parte del tempo a lanciare insopportabili urla e schiamazzi, e a preoccuparsi soltanto del proprio aspetto esteriore. Sebbene queste pecche possano essere condivisibili, “Il tempio maledettoè a tutti gli effetti un cult riuscitissimo. Ma si tratta però di un cult da riscoprire ancora una volta, perché riesce in verità a far divertire anche con i suoi punti deboli. Ad esempio, se Willie appare alquanto stereotipata in alcune sue sfumature caratteriali, ha comunque l’abilità di tenere testa, a suo modo, a Indiana Jones.

A tal proposito Willie è protagonista di un gioco attrattivo indimenticabile con il protagonista, una sorta di caccia tra predatore e preda in cui difficilmente si riesce a stabilire chi sia il “cacciatore” e chi il “cacciato”. La scena notturna, ambientata nelle camere del Palazzo, è girata con un’apprezzabile ironia, e assistiamo agli insoliti approcci amorosi di Indiana e Willie, palesemente attratti l’uno dall’altra, intenti a sfidarsi apertamente su chi cederà per primo e busserà alle rispettive porte. In una gara d’orgoglio entrambi attendono che l’altro faccia la prima mossa, senza però ottenere gli sviluppi sperati. Magari Willie non avrà la fermezza autoritaria della Marion vista nel primo capitolo, ma ha dalla sua una dolcezza che merita d’esser scoperta sotto quell’involucro fastidioso costituito da tutti i suoi commenti apparentemente superficiali. Willie, inizialmente, è una cantante, abituata a un certo stile di vita, dedito più alla forma che al contenuto, eppure si lascia trasportare dal fare avventuroso del protagonista, prestandosi dapprima con riluttanza a quest’incredibile avventura, successivamente con decisione. Ella è caratterizzata da una tragicità-comica che viene ben palesata nelle continue situazioni in cui si trova vittima sfortunata degli eventi. Willie è altresì molto bella e formosa, la Jones-Girl (passatemi la licenza poetica…) più avvenente nonché la più umana e probabilmente la più spontanea. Wilhelmina è dunque il primo personaggio del film a meritare una riscoperta.

Il piccolo Short Round, doppiato in Italia da una giovanissima e sempre eccellente Giuppy Izzo, è una spalla insolita per il grande archeologo. Ma nelle scene in cui i bambini soffrono sotto il giogo dei Thug, Shorty, coetaneo dei prigionieri, rappresenta un piccolo eroe che, quasi al pari di Indiana Jones, può riuscire a liberarli e salvarli da quella prigionia. Una sorta d’interazione significativa per quei poveri bambini fatti schiavi, che possono vedere in lui e nell’archeologo una duplice speranza. Spielberg ancora una volta trae il massimo dalla presenza giovanile all’interno de suoi film, caratterizzando questa scelta come un punto di forza dell’intera pellicola. Da un’attenta analisi comprendiamo come la presenza del piccolo Shorty non fa che accostare ancor di più la maturità del protagonista alla fanciullezza di quei bimbi maltrattati da adulti malvagi e senza scrupoli.

“Indiana Jones e il tempio maledetto” vanta un inizio al cardiopalma, e un finale dal ritmo altrettanto movimentato, in cui i protagonisti, dalla loro fuga attraverso le rotaie sottostanti le segrete al loro miracoloso salvataggio su ciò che rimane di un ponte, riescono a divertire e a tenere incollati sulla poltrona gli spettatori. Se la parte centrale continua a risentire di un ritmo scandito, cadenzato, direi fin troppo lento, il resto del film non fa che regalare scene di vivissima impressione. Jones lotta come un leone, senza mai risparmiarsi, privato persino, verso la fine delle vicende, della sua emblematica giacca di pelle. Corre, salta, si arrampica, combatte con la spada, dimostrando, per la seconda volta nella propria storia, d’essere a tutti gli effetti un grande eroe, un eroe capace per giunta di rubare la scena a qualsiasi antagonista provi anche solo a sfidarlo.

In “Indiana Jones e il tempio maledetto” si avverte quell’amore per il passato e per la storia antica, tipico dei primi tre capitoli, caratteristica che ne fa un cult da poter riscoprire, perché quei difetti se scrutati con occhio attento potrebbero trasformarsi in rivisitazioni ben più benevole. Come recitava Willie, quando sibillava con fare provocatorio, “potevo essere la più grande avventura della tua vita…” così, mi sento personalmente di affermare che, anche se “Il tempio maledetto” non viene tutt’oggi ritenuta la più grande delle avventure di Indiana Jones, non può che farsi considerare comunque indimenticabile. Ma non è questo, dopotutto, ciò che fa di un film un cult?

Voto 7/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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La Bella e La Bestia disegnati da Erminia A. Giordano per CineHunters

 

“Beauty and the beast” viene spesso definito banalmente come “lungometraggio d’animazione”. Quanto può farmi infuriare un tale appellativo! Non che non lo usi io stesso nel menzionare quest’opera, in quanto, è inutile negarlo, rende chiaro e immediato ciò a cui si fa riferimento.  Eppure seguito a non gradire tale denominazione. Per essere totalmente sinceri, non apprezzo nemmeno l’efficace, seppur ancor più semplice, definizione di “film”. Né “film” in senso stretto né “lungometraggio d’animazione”, né tantomeno “pellicola” sembra calzare a pennello, nella mia concezione, per descrivere ciò che propriamente è “La bella e la bestia”. Le precedenti sono descrizioni fin troppo limitanti, quantunque cerchino di assurgere al loro volere esplicativo. “La bella e la bestia” è un’opera d’arte indescrivibile, e come tale non può essere né collocata sotto una data categoria descrittiva né omologata come un ornamento decorativo. “La bella e la bestia” è, per il sottoscritto, magia inviolata, puro lirismo cristallizzato. Una lavorazione impregnata d’irripetibile magnificenza, tersa e intellegibile, in una mistificazione dell’arte animata e in una esaltazione della poetica umana. “La bella e la bestia” convoglia in sé poesia d’amore decantata dai propri dialoghi, arte pittorica palesata nei suoi fondali, arte teatrale trasfusa nei suoi personaggi, composizione musicale esaltata nelle proprie melodie. “La bella e la bestia” è l’incanto dell’arte intrisa nei petali di una rosa. Ogni petalo che da essa cade giù sembra recare in sé la sola, l’unica forma d’arte autonoma e incomparabile, la più candida: quella generata dal cuore e modellata dalla mente. E mantiene tale potenza dal primo fino all’ultimo istante, senza lasciare nel vuoto incolmabile un solo frammento del proprio essere. Sin dall’inizio, sin dal suo prologo…

  • Analisi del prologo

Dal dissolversi di uno sfondo nebuloso emergono i primi dettagli di un bosco verdeggiante. Si staglia centralmente un’altura rocciosa da cui viene giù una piccola cascata. Ecco che la camera sembra risalire il corso del ruscello, fino a raggiungere il cuore della foresta, dove il sole irradia, coi suoi raggi, un bianco e imponente castello regale. La melodia di Alan Menken risuona dolcemente sin dall’inizio. E’ un’aria di magia, un suono d’incantevole pregevolezza. Con poche, fievoli note veniamo trasposti in un modo fiabesco, all’apparenza ovattato. Giungiamo al palazzo ma non varchiamo i suoi confini. Notiamo invece i ritratti impressi sulle vetrate del castello in cui viene raccontata la storia di un principe…

La splendida voce narrante di Nando Gazzolo, nella versione italiana, ci regala una prima analisi del testo. Comprendiamo così ciò che andremo a conoscere successivamente: un principe che vive tra gli agi delle proprie ricchezze, nella bellezza adamantina della sua dimora. Era un nobile viziato, probabilmente attaccato morbosamente ai propri beni materiali, tanto da non voler che nessuno osasse varcare la soglia del suo castello, onde evitare che potessero godere con lui di tali ricchezze. E infatti neppure noi spettatori riusciamo ad entrare nel castello. Benché il racconto rimandi a un periodo consumatosi anni or sono è come se nel dipanarsi della narrazione noi ci trovassimo in qualche modo a vivere il passato come nel presente. Una notte d’inverno, il principe riceve la visita di una vecchia mendicante che gli offre una rosa in cambio di un riparo dal freddo pungente. Il disegno sulle vetrate mostra appunto una figura di vecchina minuta, ingobbita dalla fatica e da una vita di stenti. Il suo volto è infossato, l’immagine della sofferenza, tanto da ricordarmi i lineamenti scavati del viso dei “Mangiatori di patate” di Vincent Van Gogh. La donna suscita una certa repulsione agli occhi del principe e quindi la respinge.

Vetrata dipinta da Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Quella vecchia mendicante, così deforme e sgradevole agli occhi, in realtà è una fata bellissima. Ella sapeva che il principe non avrebbe guardato all’animo ma all’aspetto esteriore, e così fu. Ebbe dunque la conferma di ciò che sul suo conto già conosceva: nel cuore del principe non vi era spazio per l’amore. Decise così di castigarlo con un terribile maleficio, trasformandolo in una bestia. Notiamo che tale maledizione non si limita soltanto al principe, ma investe l’intero castello e tutti coloro che lo abitavano. Perché? Il maniero doveva riflettere la personalità oscura e ottenebrata del principe. Come era truce il suo animo così orribile doveva diventare la sua dimora, tanto da esternare la malignità che albergava nel suo cuore. La servitù, estranea all’agire del principe, venne comunque maledetta, in quanto loro stessi non riuscirono mai a sciogliere quel cuore di pietra, ma soprattutto perché il principe, egoista nel suo modo d’agire, avrebbe dovuto provare un senso di colpa per il destino che gravava sulla fedele servitù, la sola sua famiglia.

Il prologo de “La bella e la bestia” è un’opera d’arte sequenziale. Basterebbe solo tale introduzione a suggellare il lungometraggio come assoluto capolavoro. Perché vennero scelte delle vetrate che rimandano a quelle delle antiche cattedrali per rinarrare il passato? Perché il disegno doveva essere diversificato rispetto alle restanti immagini dell’intero film. In quelle vetrate noi vediamo ciò che è stato, ciò che ci viene raccontato in maniera imparziale, in un modo quasi giuridico. E’ la fantasia a venir stimolata, non la realtà. Questo perché le intenzioni dei registi Gary Trousdale e Kirk Wise erano quelle che noi tutti avremmo dovuto imparare a conoscere la Bestia esattamente nel momento in cui Belle la incontra. Comprendiamo infatti il passato del principe ma in modo non evidente, perché dobbiamo conoscerlo insieme a Belle. Non è un caso infatti che la camera ci permetta d’entrare nel castello soltanto quando il maleficio si è ormai compiuto: anche noi spettatori dobbiamo interagire per la prima volta con la Bestia, non con il principe.

In un ritratto, il principe si inginocchia dinanzi alla fata, volgendo verso di lei le sue mani, in lacrime, disperato, poiché terrorizzato da ciò che sta per subire. La fata ha un volto triste quando proferisce la maledizione, come se in quanto essere punitivo e neutrale sia stata costretta dal suo ardire a condannarlo. La fata, mai mostrata realmente né tantomeno personificata, lascia una lieve speranza di salvezza al principe: se avesse imparato ad amare e fosse riuscito a farsi amare a sua volta l’incantesimo si sarebbe spezzato. In caso contrario, al compimento dei suoi 21 anni sarebbe rimasto una bestia per sempre. La rosa che gli aveva donato e che egli aveva immediatamente rifiutato perché un qualcosa di naturale e non particolare, assume di colpo un valore trascendentale. Ci tengo a far notare infine la minuziosità con cui venne rappresentata per la prima volta la rosa: non sbocciata rispetto al resto del film, quando apparirà più morente e prossima ad appassire, segno che il lavoro che c’è stato nella realizzazione del minimo dettaglio de “La bella e la bestia” fu assolutamente impeccabile.

 

  • Trama

Alcuni anni dopo, in un villaggio situato alle porte della foresta in cui si cela il castello stregato, vive Belle, la ragazza più carina di tutto il villaggio, caduta preda delle attenzioni per nulla garbate del cacciatore Gaston. Belle è figlia di Maurice, un uomo pingue e pacioccone, stralunato all’apparenza ma di buon cuore. Un giorno, Maurice parte per presentare alla fiera una macchina di sua invenzione capace di tagliare la legna, ma finirà per perdersi nel bosco. Gira che ti rigira raggiunge ignaro il castello maledetto, dove verrà catturato dalla Bestia. Belle, preoccupata per il padre, parte alla ricerca e lo ritrova poco prima d’imbattersi nella mostruosa creatura. Belle decide di sacrificare se stessa pur di lasciare andare l’anziano genitore: stringe difatti un accordo col signore del castello che, palesandosi sotto la luce, si lascia guardare dalla ragazza nella propria mostruosità. L’iniziale rapporto tra Belle e la bestia non è certo idilliaco; lei lo vede come un mostruoso carceriere e la Bestia non fa nulla per domare la sua indole iraconda. L’evento che spezza l’astio tra Belle e la Bestia, paradossalmente, è da riscontrarsi in un momento di puro terrore. Quando Belle intravede la rosa incantata e muove la sua mano per toccarla, la Bestia le appare in tutta la sua espressione furiosa, e la scaccia via dal castello, salvo poi venire a pentimento. Così, la creatura esce dal castello e raggiunge la giovane salvandola dall’assalto dei lupi. La bestia, ferita gravemente a seguito della furibonda lotta, si accascia sulla neve e nonostante Belle avesse la possibilità di andar via, decide di tornare indietro al castello per permettere alla bestia di ricevere i dovuti soccorsi.

Principe dipinto da Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Da questo momento tra Belle e la Bestia si sviluppa un tenue rapporto di complicità che nei giorni successivi si rafforza sempre più. La bestia dal suo rapportarsi con Belle comincia a riscoprire i sapori della quotidianità, le bellezze della natura e la serenità che una dolce compagnia può trasmettere. La bestia riprende a camminare in posizione eretta, a pranzare con l’ausilio delle posate, dettagli apparentemente futili, ma che certificano il suo lento progredire nel riscoprire un’umanità che credeva essere stata annientata dal suo aspetto. Belle, dal canto suo, scopre la timidezza, l’imbarazzo e la generosità celata nell’animo della creatura non più brutale come appariva un tempo.

La Bestia porta Belle ad ammirar lo splendore di un’enorme sala adibita a biblioteca, in sui sono custoditi migliaia di libri. La bestia dona a Belle quell’intero salone, mentre si sta già innamorando perdutamente di lei, tant’è che organizza una serata romantica. Ma sarà proprio Belle ad avvicinare la Bestia e a condurla nella sala grande, a stringersi a lui in un abbraccio condiviso, seguito a breve da qualche passo di danza. La bestia riesce a stento a deglutire per l’emozione; una linea di demarcazione ben evidente tra i due: da una parte Belle dimostra ancora una volta di essere una donna dolce e sognante ma anche forte e decisa, dall’altro la Bestia certifica che il suo animo è totalmente cambiato, divenuto timido e gentile, garbato ed elegante. Adesso la Bestia lascia andare via Belle in modo che possa far ritorno a casa, dove il padre l’attende, rinunciando così, per sua stessa volontà, alla possibilità di poter porre fino al maleficio. Una volta che Belle abbandona il castello, la Bestia si lascia andare a un lamento inconsolabile. Belle riabbraccia il padre e lo conduce al villaggio proprio quando il perfido Gaston ha già attuato un piano per ottenere la mano di Belle: ha, infatti, stretto un accordo con il responsabile del manicomio per far internare Maurice, colpevole d’asserire dell’esistenza di una bestia mostruosa che vive in un castello. Belle dovrà acconsentire a sposare Gaston se vorrà salvare il padre. Ma per dimostrare che Maurice dice il vero, Belle mostra la bestia attraverso lo specchio magico che la stessa creatura le aveva permesso di portare via. Gli abitanti del villaggio, terrorizzati alla vista della bestia e spronati da Gaston, decidono di raggiungere il misterioso castello per uccidere l’animale.

Gaston trova la bestia in uno stato di totale rassegnazione, come se la creatura, privata della presenza di Belle, avesse perso la voglia di vivere. Gaston non esita a trafiggerlo con una freccia scoccata da breve distanza, ma quando la Bestia scorgerà in lontananza Belle, accorsa al castello per salvarlo, riprenderà a lottare, riuscendo ad avere la meglio su Gaston. L’umanità riscoperta dalla Bestia però gli impedisce di uccidere il rivale, così lo depone al suolo, ordinandogli di lasciare il castello. La bestia oltrepassa così le mura del castello per raggiungere Belle, ma Gaston lo pugnala alle spalle, poco prima di precipitare giù nel vuoto, trovando la morte. La bestia spira tra le braccia di Belle, rimirandola per l’ultima volta. La donna, commossa, declama il suo amore sul corpo esanime della Bestia poco prima che anche l’ultimo petalo abbandoni lo stelo…

 

  • Analisi della caratterizzazione dei personaggi

Prima di trattare l’epilogo dell’opera, facciamo una digressione per analizzare i molteplici fattori estetici e tematici presenti nel film, partendo appunto dai personaggi. Una cura meticolosa è stata usata nella stesura delle parti dei protagonisti. Ognuno di loro ha infatti una caratterizzazione propria, basata su una sceneggiatura più che consolidata. Belle è una splendida e giovane donna, dall’aria perennemente sognante e amante della lettura. Ella tiene i suoi bei capelli castani legati con un fiocco azzurro ed è ritratta con un viso tondeggiante in cui sono incastonati due occhi profondi come la sua stessa immaginazione. Il padre di Belle, Maurice, è di acume sottile ed è più che evidente che Belle abbia preso da lui gran parte del suo spirito d’inventiva. Non ci è dato sapere nulla circa la madre della giovane, ma è facilmente intuibile che sia scomparsa già da parecchi anni e che Belle sia stata allevata con amore incondizionato dal bizzarro padre. Maurice è un inventore, un mestiere piuttosto peculiare nel villaggio in cui i due sono giunti e dove si sono stabiliti. Un luogo in cui “l’invenzione” e la “novità” non sono certo fattori contemplati. I villeggianti, infatti, sono persone molto ingenue, abitudinarie, bigotte e poco istruite ma non per questo cattive. Belle, donna alquanto informata e d’intelletto, sa che i suoi compaesani sono dei sempliciotti, ma non per questo evita di dialogare con loro, cercando anche di farli appassionare ai racconti che tanto la coinvolgono, ma sempre con pessimi risultati. Belle si reca quotidianamente nella biblioteca di città per prendere in prestito libri da leggere. Questi tomi diventano per Belle gli unici strumenti con cui estraniarsi dall’apatia del villaggio in cui vive, per viaggiare lontano, verso luoghi remoti e vivere, con la sua verve sognante, mirabolanti avventure. Se per il principe lo specchio è la sola finestra sul mondo esterno, per Belle i suoi libri diventano l’unico portale su cui porre il suo sguardo bisognoso di “magia”. Il villaggio in cui vive la ragazza sembra non garantire alcun futuro per una giovane donna come lei, se non quello di prender marito. Belle si ritrova così più volte costretta a respingere, elegantemente, le avance del superficiale Gaston, che pur di averla come sposa è disposto a tutto. Gaston è uomo nerboruto e gretto, villico e rozzo, violento e maschilista, sadico e narcisista. Non a caso è rappresentato come un cacciatore nel lungometraggio d’animazione, poiché vede Belle non come una donna d’amare ma una preda da conquistare e sfoggiare in casa propria. E’ questa la prima vera linea di demarcazione che il film vuol tracciare tra la figura della Bestia e quella dell’antagonista Gaston: quest’ultimo, pur venendo rappresentato come un uomo violento e crudele è altresì un meschino vigliaccio, a differenza della Bestia che si batterà con ardore pur di salvare Belle. Le Tont, il fido amico di Gaston, è un uomo succube del cacciatore, probabilmente anche invidioso di lui ed è proprio qui che va ricercata la sua sudditanza: poiché non può essere come lui, Le Tont sceglie di diventarne il fedele servitore. Le Tont è stupido e di bassa statura e con la sua inettitudine stempera, come può, l’alone di malvagità che aleggia attorno alla figura di Gaston.

Dipinto del Principe di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Il principe ha una personalità intrigante e dualistica, oscillante tra una cattiveria passata e una bontà ritrovata nell’esperienza catartica della trasformazione e della conoscenza di Belle. Sin dalle prime sequenze in cui la Bestia si presenta finalmente dinanzi agli spettatori, “egli” cammina su quattro zampe, come fosse a tutti gli effetti un’animale indomito e selvaggio. Eppure, emergono, sin da subito, particolarità umane, dapprima nell’aspetto, in seguito anche nel modo di porsi. La bestia lascia intravedere nel suo viso, così aggressivo, dalle cui fauci fuoriescono denti aguzzi, due occhi azzurri come il cielo. Essi sono l’unica reminiscenza del suo aspetto umano. Nell’atteggiamento, invece, la Bestia permette agli spettatori di comprendere un’ira spiccatamente umana nella scena in cui Belle, tenendogli testa, rifiuta di raggiungerlo a cena. La bestia, furiosa, dibatte i suoi pugni sulla porta e il suo pelo si irrigidisce.  Le sue espressioni variano da una rabbia mal celata per non essere stato accontentato nella sua richiesta fino a una furia esternata nel non essere stato ricevuto dalla ragazza, in un gioco ironico ma al contempo serioso circa il suo essere rifiutato. Sentimenti umani espressi per l’appunto da gestualità indicanti insoddisfazione; indimenticabile per l’appunto il modo in cui la Bestia allunga la mano rigida sibilando: “quella fa così la DIFFICILE!” I lineamenti del principe Adam sembrano ispirati alla conformazione del volto della Bestia, come se non fosse la creatura ad essere stata adattata all’uomo, ma invece l’uomo alla Bestia nelle realizzazioni estetiche.

  • Dalle ambientazioni dark, agli oggetti animati e alle umanità nascoste

La bestia ha vissuto per anni nell’isolamento, e l’arrivo di Belle viene interpretato come se la donna fosse giunta lì perché il fato gli permettesse di scoprire l’amore e porre fine all’incantesimo. La figura di Belle viene così trasfigurata agli occhi della Bestia in quella di una dama giunta al castello per salvarlo. Eppure, egli cerca di non lasciarsi illudere da quella che potrebbe rivelarsi soltanto un’illusione e anche il suo carattere irascibile non gli permette di rapportarsi alla giovane con le dovute maniere. Ci penseranno i suoi servi a trattarla con rispetto ed eleganza, tra tutti Lumière e Tockins, rispettivamente un candelabro e un orologio: due oggetti animati, un tempo uomini, che assurgono ai canoni di una vera e propria coppia comica. La comicità distillata sapientemente nel film del 1991 è di una raffinatezza sublime. Si ride e si riflette costantemente, ma la risata che ne deriva dai siparietti comici di Lumière e Tockins non è mai banale o puerile, ma sempre elegante e ben studiata e nasce dalle loro aperte contrapposizioni. Lumière è svagato, ironico, trascinante, Tockins, invece, è preciso come “un orologio”, timoroso, e non prende mai l’iniziativa, perché troppo fedele al volere del padrone. Se Tockins è la quiete, Lumière è l’estro, se il primo è il realismo, Lumière è la fantasia. Ma nel castello è tutto vivo e senziente, dalle posate argentee ai servizi di porcellana, dalle tazzine parlanti, come il piccolo Chicco, alla grande teiera chiamata Miss Bric. Personaggi secondari, oserei dire di supporto, ma dalla personalità talmente debordante da divenire comprimari di Belle e della Bestia.

In una lunga camminata introduttiva tra gli ampi corridoi del castello la Bestia guida Belle fino a quella che dovrà essere, d’ora in poi, la sua stanza. Proprio in tali frangenti la ragazza scruta con occhio vigile il castello, intravedendo inquietanti sculture demoniache che dominano la sommità del palazzo. “La bella e la bestia” contiene nelle sue tetre tavole artistiche e nelle sue atmosfere cupe e stregate lievi accenni all’horror, in cui il terrore è rappresentato nella concretezza artistica delle statue in pietra poste in cima al castello o nei quadri spettrali che “ornano” le pareti, oltre che, naturalmente, dal fare sinistro della Bestia. L’ambientazione barocca diviene di un gotico spiccatamente dark e trasmette un senso di perenne inquietudine.

La scenografia ben definita e la ricostruzione degli ambienti ne “La bella e la bestia” non solo è straordinaria ma unica: il castello e i suoi abitanti mutati in oggetti animati donano linfa vitale agli sfondi del film che diventano protagonisti della scena come fossero attori in carne ed ossa, travalicando i confini scenici e formando un trittico perfettamente amalgamato in una medesima fonte di suoni, movimenti e immagini. Gli sfondi tinteggiati non diventano più soltanto i luoghi in cui i protagonisti muovono i loro passi, bensì sono parte integrante dell’azione e dell’agire dei personaggi. Ne “La bella e la bestia” tutto sembra vivo e ogni cosa è caricata di un alone di mistica vivezza. Gli oggetti animati permettono a Belle d’instaurare un primo, vero legame con il maniero della Bestia, quel luogo che lentamente si scoprirà essere non più una prigione per la fanciulla ma una casa. Quel canto di Lumière che seguita a intonare i versi di “Stia con noi…” non fa che reclamare la permanenza della donna lì al castello, perché Belle è la loro unica speranza, la luce che torna a rischiarare le tenebre del castello non più rilucente come veniva descritto in passato.  La sala grande in cui Belle e la Bestia si perdono nei rispettivi sguardi, tra i passi di un suggestivo Valzer, fu la prima sequenza creata con l’ausilio di sfondi 3D per un film d’animazione.

La Bella e La Bestia disegnati da Erminia A. Giordano per CineHunters

Le canzoni composte per “La belle e la bestia” sono alcuni dei brani più belli e intensi della storia del cinema, capaci d’arricchire un apparto melodico della colonna sonora già, di per sé meravigliosa. Le canzoni inserite nei punti chiave del film non riflettono soltanto lo stato d’animo dei personaggi ma ricalcano soprattutto la personalità dei protagonisti. Ascoltiamo quindi i sogni di Belle circa un futuro avventuroso che sembra non snocciolarsi mai dinanzi a sé, udiamo gli elogi sprezzanti intonati dai paesani a Gaston, fino a volgere l’attenzione delle nostre orecchie ai canti in cui Belle e la Bestia iniziano ad innamorarsi l’uno dell’altra. Ai suoni e alle parole intonate si abbina una magnificenza nel disegno, impossibile da non apprezzare, specialmente per l’espressività che i due registi sono riusciti a dare ai personaggi.  I volti, gli occhi, le labbra sembrano sempre voler comunicare qualcosa di più delle singole parole, scena dopo scena, toccando vene iperrealistiche e melodrammatiche, specialmente nella scena finale, in cui Belle, disperata, sussurra sommessamente quel “io ti amo…”.

  • Trasformazione finale: la pietà della fata.

…quando Belle ammette d’amare la Bestia, il maleficio della fata viene meno. Eppure, in pochi si soffermano a riflettere sul fatto che la Bestia sia morta. Il maleficio prevedeva che l’amore provato e ricambiato a sua volta avrebbe annullato il sortilegio, ma non vi è alcuna spiegazione su ciò che poteva avvenire nel caso in cui la Bestia fosse mortaUna minuzia che mi ha sempre lasciato esterrefatto sin da bambino: perché la bestia torna in vita? Ecco che la pietà della fata, mistificata nella sua idealizzazione, silenziosa e invisibile nella propria trasfigurazione, sembra perdonare il principe e fargli un dono dal valore inestimabile: restituirgli la vita. Nessuno sembra soffermarsi su questo meraviglioso particolare; la fata, in quanto spirito punitivo, diviene infine uno spirito benevolo. La bestia comincia a trasformarsi: i suoi arti lentamente riprendono l’aspetto umano, le sue zampe progressivamente riacquistano le sembianze di piedi, in un lavoro artistico minuzioso, quasi maniacale. Persino il volto della bestia perde sempre più quella folta peluria e le sue fauci diminuiscono fino a tramutarsi in semplici labbra. Una delle scene più intense della storia del cinema. Il mantello che avvolgeva il corpo della Bestia viene deposto delicatamente al suolo, come se la fata, vivesse in una forma astratta, impossibile anche solo da vedere, e lo reggesse a sé, accompagnandolo fino a toccar terra, come a farlo rinascere. In tale scena avviene la “morte” della Bestia e la “rinascita” dell’uomo. Una trasformazione avvenuta ben prima, nelle settimane precedenti in cui la Bestia aveva conosciuto Belle e imparato ad amarla e che adesso trova la propria sublimazione.  Belle riconosce il principe da quell’unica particolarità umana che gli era rimasta nell’aspetto: i suoi occhi cerulei. Ella rammenta ciò che era e comprende ciò che è diventato attraverso i suoi occhi, lo specchio dell’anima del principe, del suo cuore, tutto ciò che lei ha amato di lui. Il principe e la giovane si baciano e in un tripudio di colori, l’incantesimo perde i suoi funesti effetti. Il castello torna bianco e splendente come era un tempo e le figure demoniache vengono tramutate in sculture angeliche. I servitori riacquistano le loro fattezze umane e la bella riprende a danzare col suo principe nella sala grande del castello. La camera ci accompagna fuori dal palazzo, a rimirare un’ultima volta le vetrate che avevamo visto all’alba di tutto. Ce ne è una nuova, quella ritraente il principe Adam e Belle che ballano sotto la raffigurazione di una rosa che sovrasta le sagome dei due innamorati. Il film termina nell’esatto modo in cui era cominciato, sfruttando appieno l’egual sequenza narrativa. Questa volta, però, la vetrata testimonia ciò che abbiamo realmente vissuto nei meandri di quel castello ed è come se quella stessa raffigurazione l’avessimo in un qual modo dipinta noi stessi.

Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

  • Un successo planetario

“La bella e la bestia” terminò la propria corsa al botteghino conquistando un posto nel podio dei tre film di maggior successo dell’anno. Al trionfo in termini di guadagno si unì una ricezione critica entusiastica. “La bella e la bestia” vinse 3 Golden Globe, per il miglior film, la miglior colonna sonora e la migliore canzone, un risultato che per l’animazione verrà eguagliato da “Il re leone” nel 1994. “La bella e la bestia” ricevette inoltre 6 candidature all’Oscar, 3 per le migliori canzoni, altre due per la miglior colonna sonora e il miglior sonoro e infine una per il miglior film. Si, avete letto benissimo, “La bella e la bestia” riuscì nella grande impresa, quella di conquistare una nomination all’Oscar come miglior film dell’anno, e fu il primo lungometraggio d’animazione a riuscire a raggiungere tale traguardo. Deterrà questo primato in solitaria per quasi un ventennio, quando verrà raggiunto da “Up”, ma quest’ultimo eguagliò il record quando le categorie di nomination vennero portate da 5 a 10. Il record de “La bella e la bestia” è quindi, tutt’oggi, da ritenere assolutamente straordinario. Soltanto “Il silenzio degli innocenti” riuscirà a strappargli la statuetta per il miglior film, ma “La bella e la bestia” sfiorò oggettivamente un’impresa ritenuta impossibile. “La bella e la bestia” vinse comunque due premi Oscar, venne infatti premiata la meravigliosa colonna sonora e la canzone “Beauty and the Beast” cantata da Célin Dion e Peabo Bryson, e nel film da Angela Lansbury, che prestava la voca a Miss Bric.

  • Conclusioni

Ciò che in verità siamo supera ciò che l’apparenza può facilmente ingannare, è questo il messaggio principale veicolato all’interno del film. Ma non è altro che una delle innumerevoli tematiche trattate da quest’opera unica e intramontabile. “La bella e la bestia” è un monumento, alto e possente, come il castello della fiaba stessa, che merita d’esser perscrutato, come se volessimo viaggiare nel cuore e nella mente di questi due protagonisti, il principe Adam e la principessa Belle. “La bella e la bestia” reca in sé un’avvenenza incontaminata, un’eleganza mai soggetta alle mode o al volere del tempo. Un capolavoro senza eguali incastonato nella regalità di una grazia tipica delle opere tanto belle da toccare le nascoste corde dello spirito. “La bella e la bestia” è un incanto visivo, intellettivo ed emotivo e la sua magia sta nella meraviglia con cui continua a invitare il proprio pubblico a tornare al castello, e a restare lì con loro…Io, per primo, vorrei così spesso tornare laggiù, ad ammirare il volto di Belle, dalla mia personalissima ala ovest…perché “La bella e la bestia” possiede il dono dell’eterna giovinezza, la cortesia di non voler sprecare mai un solo fotogramma che non sia destinato a dilettare; “La bella e la bestia” è una bellezza che appassisce e al contempo si rigenera, come il distacco dell’ultimo petalo di quella rosa incantata.

Voto 10/10

Autore: Emilio Giordano

Web Designer e Amministrazione: Alberto Scaramozzino

Disegnatrice e Illustratrice: Erminia A. Giordano

Comunicazione e Social: Maria Chiara Scaramozzino

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Redazione CineHunters

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Vi sono quei personaggi fittizi a cui proprio non si riesce a dire addio, forse perché, in qualche modo, è come se avessero fatto parte di noi. Spyro, Lara, Crash…tre singoli nomi e dozzine d’avventure del tutto diverse. Tre storici emblemi della vecchia e mai dimenticata Playstation 1, il primo amore di ogni videogiocatore. Se Lara ha proseguito ad emozionarci nel corso degli anni, tanto da aver attraversato, con disinvoltura e con quel suo tipico passo leggiadro e acrobatico, tre generazioni di console diverse, lo stesso non possiamo dire di Crash.  Del marsupiale antropomorfizzato che indossa jeans blu, guanti e scarpe da ginnastica rosse e che scorrazzava nei luoghi più insoliti e nelle ere più remote, affrontando nemici sempre più bizzarri, ne sentivamo davvero la mancanza, perché da fin troppo tempo era rimasto lontano dai radar di un Joypad. Fino ad ora! Perché l’avventuroso Bandicoot sbarcherà finalmente su Playstation 4 il prossimo 30 giugno.

Crash Bandicoot N. Sane Trilogy” è una raccolta che ripropone in chiave moderna, le prime tre, indimenticabili avventure di Crash Bandicoot. Una sorta di rivisitazione nostalgica realizzata attraverso il cosiddetto “remastered” dei primi tre capitoli di Crash Bandicoot. Probabilmente ai fan più accaniti del marsupiale questi tre titoli non basterebbero neppure, perché mancheranno prodotti amati in egual misura come “Crash team Racing” e “Crash Bash”. Come dimenticarli d’altronde? Nel primo, Crash diventava un corridore, sfrecciando su di un auto e gareggiando contro i suoi avversari più celebri. Nel secondo, invece, Crash non si avventurava più tra i livelli comuni, a caccia di gemme e cristalli, ma sfidava i propri nemici su terreni neutrali in cui poter vincere con bravura, astuzia e un pizzico di fortuna. Come dimenticare, a tal proposito, le sfide su di una lastra di ghiaccio, dove Crash cavalcava un piccolo orsetto che, se caricato al momento opportuno, poteva spingere giù lo sventurato avversario di turno?

Per il momento dovremo accontentarci di ciò che arriverà quanto prima. In effetti il ritorno dei primi tre videogiochi di Crash rappresenta una vera manna dal cielo per i fan del marsupiale.

Crash ha divertito come pochi altri giochi abbiano mai fatto. Forse proprio quella sua vena surreale lo ha reso un videogioco amatissimo. Crash è l’eroe taciturno, all’apparenza persino disincantato, ma dal cuore grande e dal coraggio smisurato. Nel suo silenzio, nei suoi doppi salti, e nelle sue giravolte vertiginose salva costantemente il mondo, sventando i piani di conquista di Neo Cortex con il solo ausilio di sua sorella Coco e di Aku- Aku, una maschera Vodoo di un antico sciamano che protegge Crash dai fatali pericoli. I videogiocatori più nostalgici ricorderanno senza dubbio l’effetto di assoluta “onnipotenza” che si provava quando la maschera di Aku-Aku veniva indossata per la terza volta da Crash…

Gli scenari di Crash erano estremamente variegati, e il personaggio accedeva ai vari livelli dalla cosiddetta Warp Room. Spesso, tale zona conteneva delle aree bonus segrete che il videogiocatore avrebbe potuto scoprire nel corso dell’avventura. Le missioni oscillavano da livelli in cui il Bandicoot si muoveva in solitudine, facendosi strada tra micidiali e sempre più articolate trappole e un gran numero di avversari, ad altri dalle ambientazioni più particolareggiate, come quelli a cui spesso prendeva parte la sorella Coco. In “Crash Bandicoot 2: Cortex Strikes Back”, il protagonista cavalcava in alcune aree un orsetto chiamato Polar, mentre in “Crash Bandicoot 3: Warped” Coco percorreva la grande muraglia cinese in sella a un cucciolo di tigre. Spesso, prima di accedere ad una nuova area del gioco, Crash doveva affrontare e sconfiggere un boss principale.

Crash N. Sane Trilogy” ci permetterà di rivivere le imprese dell’eroico marsupiale che più abbiamo amato da bambini. Torneremo a ricercare cristalli e gemme, a distruggere casse di legno e a divorare famelicamente una serie interminabile di mele, il frutto di cui Crash va ghiottissimo. Personalmente, il sottoscritto, non vede davvero l’ora di fuggire e scampare alla furia di un gigantesco Triceratopo, tra i cunicoli di una caverna preistorica come avveniva in “Crash Bandicoot 3: Warped”.

Ma “Crash N. Sane Trilogy” non si presenta soltanto come un comune remastered, bensì come un “remastered plus” con l’introduzione di alcune novità e nuove funzionalità di gioco che andranno apprezzate nell’esperienza di gioco.

Siete pronti a riabbracciare Crash? Sono certo che anche voi, come me, non siate mai riusciti a dire addio a questo vecchio e caro amico, ma solo un comune “arrivederci”…

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Nel marzo del 1997 la Namco distribuiva “Tekken 3”, un picchia-duro tra i più famosi della storia videoludica. Il videogioco era strutturato in una serie di incontri, ed era prevista la modalità multiplayer in cui poter “sfidare” un amico. “Tekken 3” introdusse molti personaggi destinati a diventare tra i più amati della saga, tra questi son degni d’esser menzionati: Eddy Gordo, un lottatore brasiliano dalle mosse estremamente acrobatiche, Hwoarang che i videogiocatori ricorderanno per la poderosa forza dei suoi calci, il cyborg Bryan Fury storico rivale di Lei Wulong, Law, un personaggio ispirato al compianto Bruce Lee, l’inafferrabile Ling Xiaoyu, un surreale draghetto minuto e dalle mosse alquanto “peculiari” chiamato Gon e soprattutto Jin Kazama, uno dei grandi protagonisti della saga.

Tra i personaggi storici da poter utilizzare meritano una menzione: la splendida e fatale Nina Williams, la sorella e altrettanto pericolosa Anna Williams, il poliziotto maestro dei cinque stili di Kung Fu Lei Wulong, il micidiale Paul Phoenix e lo spadaccino Yoshimitsu.

Ogni personaggio poteva essere utilizzato nella modalità “Arcade” e una volta battuti tutti gli avversari previsti, partiva un filmato conclusivo realizzato appositamente per il personaggio scelto dal videogiocatore. Una volta ultimata la modalità principale, ogni personaggio ne sbloccava di nuovi da poter utilizzare. I temibili avversari finali erano sempre Heihachi Mishima, Ogre che dopo essere stato battuto tramutava in True Ogre, un drago dall’aspetto mostruoso.

“Tekken 3” fu l’ultimo videogioco della serie ad essere stato distribuito per la Playstation 1. Una pietra miliare indimenticabile nei ricordi dei videogiocatori più nostalgici.

Redazione: CineHunters

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