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Emily Blunt è Evelyn - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Come puoi spiegare ad un bambino che non può giocare col suo giocattolo? Come potresti distoglierlo dal tenere in mano il modellino di un aereo da combattimento e fingere di pilotarlo? Sarebbe come arrestare la sua voglia di crescere, smorzargli la fantasia.  Quel medesimo desiderio che lo porterebbe a fantasticare d’essere all’interno della cabina di pilotaggio e volare alto nel cielo, a combattere contro i malvagi della sua avventura testé improvvisata. Non ci riusciresti mai! Ciononostante, il piccino non può davvero giocare. E’ complicato replicare con la voce i suoni che immaginerebbe provenire da quell’aereo in volo. Analogamente, se tenesse in mano la riproduzione giocattolo di una locomotiva non potrebbe fare “ciuf ciuf”, e muoverla con le mani, un po’ a destra e un po’ a sinistra, immaginando di farla sferragliare su dei binari visibili solo nei suoi candidi occhi. Nel mondo in cui vive quel bambino è vietato fare alcun rumore se si vuole sopravvivere.

Mentre la sua famiglia è intenta a racimolare provviste e generi alimentari in un negozio abbandonato, il piccolo Beau ha trovato una navetta spaziale giocattolo, e vorrebbe portarla con sé. Tuttavia, il padre prontamente lo ferma e gli spiega che il giocattolo farebbe troppo rumore e attirerebbe i mostri. Il bambino è triste ma non può che acconsentire al volere del genitore. Di lì a breve, la sorellina più grande, all’insaputa del padre, gli rende il giocattolo. Quando l’avrebbe scoperto, papà avrebbe capito, - avrà pensato la sorella - ma fino ad allora doveva essere il loro segreto. La famiglia procede scalza sul sentiero che la conduce verso casa. Prima di uscire dal negozio, Beau recupera le batterie e le inserisce all’interno della navetta, mettendola in funzione. Il piccolo si ferma improvvisamente e resta per qualche istante come rapito dagli effetti acustici e dalle luci multicolori emesse dal giocattolo. Il flebile suono e l’innocente stupore prodotto dall’intermittenza della luce colorata, concepite per attirare la fantasia di un bambino, si riveleranno, loro malgrado, l’arma che condurrà Beau alla morte. Quella navetta spaziale che non era altro che un “balocco” nato per divertire, si rivelò, invece, come la “sonora” fine di un’anima innocente. Il rumore fuoriuscito dal giocattolo attira delle strane creature provenienti dai boschi, le quali catturano il bambino e lo uccidono davanti alla sua famiglia, rimasta inerme in preda a una disperazione incontenibile. I genitori di Beau e i suoi fratelli non poterono neppure lasciarsi andare ad uno straziante pianto, non ebbero la possibilità di squarciare l’angosciante quiete che dominava il tutto con un urlo disperato. Ebbero solamente la mera opportunità di piangere contenendo i lamenti. Quello che “A quiet place” ci presenta è il dramma laconico di una famiglia a cui non è più concesso esternare con la voce alcuna sensazione.

A quiet place – Un posto tranquillo” comincia il proprio corso una mattina dell’anno 2020.  In questo futuro, la Terra è stata invasa da creature extraterrestri, prive di vista ma estremamente sensibili al rumore. Nel giro di poche settimane, la popolazione terrestre è stata devastata dall’azione predatoria di queste creature. I pochi sopravvissuti vivono giorno dopo giorno stando attenti a mantenere un costante, quanto angosciante, silenzio. Anche il minimo rumore può, infatti, attirare l’attenzione degli alieni. La famiglia Abbott è composta da Lee (John Krasinski, protagonista e regista del film), la moglie Evelyn (Emily Blunt), i figli Marcus, Regan, la quale è affetta da sordità, e lo scomparso Beau. Gli Abbott, sopportando con sempre più fatica i disagi di un’esistenza regolata dal mantenimento del più assoluto silenzio, continuano a restare in vita, comunicando tra loro per mezzo della lingua dei segni. Sono trascorsi 476 giorni dall’arrivo di questi “demoni” discesi dallo spazio, invasori ostili dalla natura ignota. Evelyn è incinta e si accinge a partorire a breve. Lee sta ultimando quanto è necessario per rendere sicura una stanza insonorizzata, che possa garantire la venuta al mondo e la crescita del nascituro.

“A quiet Place” è un film atipico e originale. Non è un semplice horror, il cui scopo preminente è quello di acutizzare il terrore come potrebbe sembrare dall’ingannevole locandina. Non è nelle intenzioni basiche del lungometraggio esagitare un’emozione di paura nel cuore degli spettatori, così come ha voluto far credere la “menzognera” campagna pubblicitaria scelta per promuovere il film. Il genere che maggiormente dovrebbe calzare a pennello per descrivere “A quiet place” è quello del thriller fantascientifico. E’ il senso di allerta ad essere precipuo, o ancor più specificatamente, la tensione a venire alimentata in un crescendo durante lo scorrere della pellicola piuttosto che lo spavento. Il lungometraggio cerca di indurre all’immedesimazione il pubblico nella disagiante situazione in cui vertono i protagonisti. La storia e l’ambientazione non fanno che rimarcare sin dall’inizio quanto il pericolo sia sempre imminente. Basta una minima disattenzione, la più sbadata delle dimenticanze, per generare un suono e attirare verso di sé la morte. Non fare alcun rumore diventa sempre più difficile, un “dovere” quotidiano sempre più snervante.

La pellicola di Krasinski è apprezzabile anzitutto per il coraggio: girare un film quasi interamente sprovvisto di dialoghi verbali, e garantire comunque un’eccellente scorrevolezza, non è impresa da poco. Voler stimolare la concentrazione degli spettatori per mezzo di un magniloquente mutismo è un tentativo lodevole, poiché un pubblico attento non potrà che lasciarsi trascinare dalla suggestiva atmosfera dell’opera, che nel silenzio ricorda un’evocativa facondia simbolica. La dialettica in “A quiet place” è filtrata nei gesti, il significato di una parola diventa fruibile nei cenni, l’esternazione di un’emozione negli sguardi, la trasmissione di un pensiero nelle mimiche facciali. Il silenzio prolungato fa sì che gli occhi, l’espressione del viso, le mani stesse diventino tutti strumenti comunicativi per esternare una volontà. Nella corrispondenza degli sguardi scambiati tra i personaggi si instaura un rapporto empatico con gli spettatori. Per gustare appieno l’esperienza offerta dal film, occorrerà che ognuno di noi provi inevitabilmente ad immaginare d’essere al posto dei protagonisti, a dover far fronte ad una vita di stenti e rinunce.

Nell’incomunicabilità vocale, emerge un silenzio assordante che permea la totalità dell’ambiente. Gli unici suoni che riescono ad allietare la silenziosità imposta alla razza umana sono quelli della natura, come il gorgoglio di un ruscello, il fragore di una cascata o il sibilo del vento. I personaggi vivono tutti oppressi da un mutismo inviolabile, tranne la giovane Regan, che risulta essere ulteriormente isolata dalla sua sordità. Non vi è un vero e proprio scampo da una situazione tanto alienante. Gli Abbott vivono nell’isolamento, nell’emarginazione. Procedono giorno per giorno ad elaborare il loro lutto, e permanendo in silenzio faticano ancor di più a superarlo. Non possono comunicare apertamente i loro dispiaceri, affrontarli per mezzo della parola, del lamento e dello strillo. Non riescono a sfogare il loro dramma intimo, devono, invece, soffocarlo, e non potendo comunicare apertamente ecco che si presentano le incomprensioni, i dubbi, le ansie di una figlia che teme di non essere più amata dal padre. Per andare avanti occorre affidarsi alla bellezza delle piccole cose. Ecco che una semplice partita a Monopoli diventa il solo passatempo per Regan e Marcus.

E in egual maniera, anche la musica, riprodotta a volume basso e ascoltata attraverso le cuffie, è l’unico accompagnamento musicale che riesca a cadenzare i passi di danza di una moglie, Evelyn, e di un marito, Lee, i quali, per qualche istante, riescono a dimenticare i loro affanni fintanto da concedersi la libertà di un lento. Anche quel “razzo giocattolo” era una “piccola cosa”, e doveva rappresentare una “via di fuga” per un bimbo che non voleva altro tranne volare via con l’immaginazione e porre fine a quel maledetto silenzio. Sacrifici, coraggio, amore, affetto, protezione verso la propria famiglia, sono solo alcuni dei temi affrontati con sagacia dal thriller di Krasinski. Un bel film, ricco di suspense che nel suo essere laconico comunica più di quanto, alle volte, potrebbero fare le parole.

Come abili mimi che si esprimono con l’arte dei gesti, gli attori protagonisti ci aiutano a comprendere come il loro unico scopo sia proteggere i propri figli ad ogni costo. Krasinski interpreta il ruolo di un padre di famiglia protettivo e valoroso. Ma è la moglie Evelyn a prendersi meritatamente la scena. Una straordinaria Emily Blunt interpreta una madre prostrata dal dolore ma mai arresasi ad esso. Incredibilmente potente la sequenza del parto, in cui la donna tollererà gli spasmi e un dolore straziante, restando muta, trattenendo a fatica le urla di dolore che il suo corpo reclamerebbe. Il suo volto madido di sudore, i suoi occhi addolorati, le lacrime che le scendono lungo le gote, la sua bocca che fatica tremendamente a bloccare anche il benché minimo gemito di sofferenza, sono tutte caratteristiche interpretative riscontrabili nell’immediatezza e che accentuano la sua convincente ed entusiasmante interpretazione.

E’ interessante notare come in questo mondo postapocalittico, in cui vige la morte, questa famiglia abbia voluto e cercato in ogni modo di garantire la nascita di una creatura portata in grembo con tutte le problematiche del caso. Con la venuta al mondo del loro ultimo figlio, Lee e Evelyn hanno dato alla luce la speranza in un’esistenza oppressa dall’oscurità. Ogniqualvolta il bambino piangerà, il suo pianto costituirà una lieta melodia che interromperà quel drammatico silenzio, riecheggiando come un lamento liberatorio e pieno di voglia di vivere.

Voto: 7/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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