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A causa di una valanga che impedisce il passaggio del treno, alcuni viaggiatori sono costretti a pernottare in un piccolo albergo situato in uno sperduto paesino di montagna nell’immaginario stato di Bandrika, nel cuore dell’Europa, governato da un dittatore. Del gruppo fanno parte una coppia di amici e due amanti clandestini, oltre a due donne, già ospiti dell’albergo, una giovane che deve tornare a casa per sposarsi e una anziana che riveste il ruolo di simpatica governante.

Nell’autunno del 1937, dopo aver concluso le riprese di “Giovane e innocente”, Hitchcock si mise subito al lavoro per cercare un nuovo soggetto. Ci sono due versioni di come il maestro arrivò al romanzo da cui poi trasse il suo film. Una è quella che fu lo stesso Hitchcock a pensare al libro di Ethel Lina White “The Wheel Spins”, l’altra invece narra che non riuscendo a trovare nulla che lo interessasse veramente, il maestro chiese al produttore Edward Black se aveva qualche bel soggetto da dargli. Black si ricordò di una sceneggiatura scritta l’anno prima da Gilliat e Launder, tratta dal romanzo della White, che era però stata messa da parte, sebbene ci si stesse già lavorando su da tempo. Infatti, nell’estate del ’38, una troupe mandata in Jugoslavia per le riprese esterne venne bloccata dalla polizia e rimandata in Inghilterra, in quanto le autorità jugoslave, dopo aver letto la sceneggiatura, l’avevano ritenuta offensiva per il Paese. Quel progetto cinematografico fu dunque accantonato.

Comunque sia andata la vicenda, Hitchcock fu entusiasta del lavoro dei due sceneggiatori, apportando solo delle piccole modifiche, e cioè aggiungendo e togliendo qualcosa.

Felice fu anche la scelta degli interpreti principali. Margaret Lockwood, che qualche anno dopo sarebbe diventata l’attrice cinematografica più popolare in Gran Bretagna, era una fan dei romanzi scritti dalla White e interpreto quindi il suo ruolo con grande entusiasmo. Michael Redgrave, promettente attore teatrale, apparteneva alla compagnia del celebre John Gielgud e aveva già lavorato con Hitchcock ne “L’agente segreto”. Tuttavia, al contrario della Lockwood, Redgrave ne era ben poco entusiasta. Anche gli attori che interpretavano personaggi minori recitarono ottimamente; Naunton Wayne e Basil Radford, nel ruolo dei due amanti del cricket, ebbero un tale successo che in seguito furono chiamati a ricoprire parti simili, spesso in coppia.

Il film fu realizzato con un budget molto modesto: fu infatti girato interamente in studio, utilizzando per gli esterni dei modellini. Quando nell’ottobre del ’38, “La signora scompare” uscì nelle sale inglesi, riscosse un enorme successo, e ben presto anche in America. A New York rappresentò l’evento della stagione cinematografica natalizia; il New York Times lo giudicò il film migliore dell’anno, mentre Hitchcock ricevette il New York Critics Award come miglior regista del 1938.

“La signora scompare” è uno dei film più movimentati di Hitchcock e più ricchi di colpi di scena. Così come il treno su cui viaggiano i personaggi attraversa località e paesaggi diversi, il film si snoda sui classici temi del cinema del maestro: spionaggio, suspense, fuga, amore contrastato, identità false, ostilità. Il tutto pervaso da un umorismo fresco e vivace che è tipico di un Hitchcock giovane e che diventerà col passare degli anni cupo e amaro.

Di sicuro non va preso sotto gamba l’aspetto politico del film. Erano, quelli, anni bui, e molteplici segnali facevano presagire la guerra imminente. Sotto la guida del conservatore Chamberlain la Gran Bretagna portava avanti nei confronti della Germania nazista, sempre più aggressiva e pericolosa, una politica di non intervento che sarebbe sfociata nel settembre del 1938 negli accordi di Monaco. L’Europa centrale e la penisola balcanica erano sotto regimi dittatoriali; in Spagna i franchisti combattevano una spietata guerra intestina, appoggiati dai fascisti italiani e dai nazisti. Nel film “La Signora scompare” si respira tutto questo e lo stato di Bandrika può essere paragonato all’Europa, mentre la carrozza ristorante del treno richiama il luogo dove gli inglesi si ritrovano a sorseggiare il tè; in altre parole la Gran Bretagna stessa. Al di là del lieto fine e sotto quella patina rilassante e sbarazzina, “La signora scompare” lascia trasparire moniti drammatici e oscuri presagi.

“La signora scompare” è anche un omaggio a uno dei mezzi di trasporto più importanti e popolari del ventesimo secolo. Il lungometraggio è, infatti, quasi interamente ambientato su un treno. Ma in molti altri suoi film Hitchcock ha riservato al viaggio in treno un ruolo importante: da “L’agente segreto” a “Il club dei trentanove”, da “Intrigo internazionale” a “L’ombra del dubbio”, da “Il sospetto” a “Io ti salverò”. Anche in questo, come in tutti i film, Hitchcock ha posto la sua firma. Lo si può notare mentre cammina lungo una banchina della Victoria Station di Londra.

Che il grande maestro fosse impaziente in quel momento? Chi può saperlo, forse voleva trasmettere l’idea dell’indugio, dell’attesa di un mezzo che potesse trasportalo verso la sua prossima esplorazione artistica. “La signora scompare” fu infatti uno degli ultimi film appartenenti al periodo inglese del regista britannico, ormai pronto a volgere la propria attenzione al cinema hollywoodiano. Il viaggio “tortuoso” lungo i binari del film sembra preannunciare l’imminente “traversata” che Hitchcock compirà dall’Inghilterra all’America per giungere alla tanto agognata meta statunitense e dare inizio a un nuovo percorso artistico.

Un remake de “La signora scompare” è stato realizzato dal regista Anthony Page nel 1979, interpreti Elliott Gould e Cybill Shepherd, con il titolo “Il mistero della signora scomparsa”.

Redazione: CineHunters

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“Gli uccelli” inaugurò un nuovo contratto tra Hitchcock e la Universal: il maestro lasciava  così in modo definitivo la Paramount, la casa cinematografica con cui aveva collaborato durante gli anni ’50. “Gli uccelli” è tratto dal romanzo omonimo di Daphne Du. Maurier, la scrittrice inglese a cui il regista si era ispirato anche per la realizzazione dei suoi film “La taverna della Giamaica” e “Rebecca, la prima moglie”. Però del racconto restò solamente l’idea nel film, e cioè l’attacco degli uccelli nei confronti degli uomini, mentre la trama e i personaggi furono inventati di sana pianta.  Anche questa volta il maestro rivolse grande attenzione al lavoro dello sceneggiatore, intervenendo egli stesso sulla stesura delle parti, anche durante le riprese, persino improvvisando sul set; una cosa del tutto inusuale per un tipo preciso come era Hitchcock. Gli ci volle del tempo pure per decidere il finale, e quando lo fece scelse un finale aperto a tutte le possibili interpretazioni e intese che dopo l’ultima sequenza non si leggessero le parolethe end”, ma solamente “a Universal release”.

Il film fu girato per metà in teatro di posa e per metà nella cittadina di Bodega Bay, dove appunto è ambientata la storia, un luogo sulla costa del Pacifico, poco distante da San Francisco. Fu data molta importanza ai costumi degli interpreti così come all’arredamento degli ambienti. Per abbattere i costi della produzione vennero scelti attori poco conosciuti, in quanto a causa degli effetti speciali si rendevano necessarie riprese molto lunghe ed estenuanti, e quindi i compensi da corrispondere ad attori famosi sarebbero stati oltremodo onerosi. Per Tippi Hedren, la protagonista, si trattò della sua prima esperienza cinematografica.

Nel corso degli anni “Gli uccelli” ha destato le interpretazioni più disparate, dalla chiave di lettura esistenzialista a quella religiosa, dall’attribuirgli un veste sociologica a quella psicoanalitica. Ma perché gli uccelli attaccano? Quale ruolo hanno i protagonisti in tutto questo? E qual è quello di Melanie? Si tratta di una rivolta della natura contro le persecuzioni umane, come dice l’ornitologa nel ristorante? O rappresenta una punizione divina per le colpe degli uomini, una specie di flagello biblico che si ripete, come ipotizza l’ubriaco? E poi, perché quel finale? Cosa vuol significare? In verità, Hitchcock non l’ha mai reso noto, non si è mai preso la briga di spiegarci perché gli uccelli arrivano, tranne dirci solamente che “Gli uccelli” e un film sull’autocompiacimento.

Scriveva il critico americano Robin Wood: “Gli uccelli sono l’incarnazione dell’arbitrario e dell’imprevedibile, di ciò che rende la vita e le relazioni umane precarie, un monito alla nostra fragilità e instabilità, che non possono essere ignorate o eluse, e, ancor più, alla possibilità che la vita sia assurda e senza senso”.

Ma al di là di ogni possibile significato “Gli uccelli” resta nella mente di ogni spettatore come la fantasia fatta cinema, un brutto sogno materializzato in suoni e immagini, la rappresentazione di paure ataviche, remote, difficili da superare. “Gli uccelli" è un film crudo, pungente, inquietante come solo la realtà sa essere e come solo nei sogni riusciamo a comprendere; ma la mattina dopo ce ne saremo già dimenticati. E’ pur vero, però, che ne “Gli uccelli” il risveglio non c’è, e quindi allo spettatore non porta alcun sollievo. La paura, allora, è paura allo stato puro, non c’è spiegazione né soluzione, né, tantomeno, catarsi.

Hitchcock era un precursore. Avanti decine e decine di anni sulla critica del periodo e sullo stile di regia dell’epoca. In quanto pioniere d’eccellenza del cinema del brivido aveva bene in mente un dettame imprescindibile: l’arte è dell’artista. Se l’artista desidera non adempiere a un finale, lasciando il pubblico con il dubbio di ciò che avverrà, è una sua specifica volontà. Il pubblico non può far altro che accettare quanto sta vedendo, potendo solamente limitarsi ad esprimere un giudizio positivo o negativo affidandosi al proprio senso estetico, ma mai e poi mai potrà alzare il dito e definire “inappropriato” ciò che viene effettivamente proposto.

Fermatevi un momento a riflettere sui film moderni, in particolare sugli Horror. Quanti di essi cessano con cliffhanger poco chiari o con un colpo di scena atto a lasciare il dubbio su cosa si vero e cosa non lo sia? E’ un espediente narrativo oramai ampiamente consolidato. Il pubblico di oggi si aspetta di non avere assoluta chiarezza, e accetta questo astratto contratto vincolante con il regista secondo cui non può esistere una singola, vera certezza. Ma Hitchcock una cosa del genere la perpetrò mezzo secolo prima.


Il finale dell’opera vede i protagonisti, feriti e impauriti, avviarsi verso la macchina con centinaia e centinaia di stormi di uccelli immobili, intenti a guardarli con fare sinistro, come se da un momento all’altro potessero attaccare. La paura che questo possa accadere è tangibile sia per i protagonisti che per noi spettatori. Eppure emerge l’altra faccia della medaglia, quella che vede gli animali impassibili, coscienti di aver già piegato gli uomini, osservare momenti di riposo. Sembrerebbe che gli uccelli consentano misericordiosamente ai protagonisti di prendersi cura di loro stessi per poche ore. Prima della fine.

La natura, implacabile e onnipotente nella sua furia, domina di colpo gli uomini, sovrastando le loro abitazioni in predatoria pazienza. Gli uomini si incamminano nel pericolo che vive e respira a pochi metri, ma non hanno scelta. Gli uccelli, padroni del cielo, scrutano le persone dall’alto, come dei che giocano a un destino raccapricciante, beffandosi delle creature che camminano al suolo. Ma la terra non è più sotto l’autorità dell’uomo, gli uccelli infatti, discendendo dal cielo, rendono loro anche il territorio dove i sopravvissuti si fanno strada, rimanendo appollaiati sulla superficie, fino a formare un fitto sbarramento animale dove non trapela alcun filo di luce. I signori del volo meditano l’attacco finale, e sbattono le ali generando un suono acuto e stridulo, intimidatorio e soffocante ai sensi delle vittime inermi. Che destino potranno mai avere gli uomini contro quest’odio così innaturale? I protagonisti non possono far altro che rassegnarsi, devono raggiungere l’ospedale più vicino, pur sapendo che potrebbero morire da un momento all’altro. La vita è appesa a un filo stretto tra le zampe dei volatili. 

E’ un finale drammatico, che lascia poco spazio alla speranza ma che sceglie l’incertezza come sbocco. Non possiamo sapere cosa avverrà, il loro destino non è più sotto la nostra attenzione e neppure sotto quella del regista. Il destino è nel volere degli uccelli.

La speranza e la paura vengono rese come due facce della stessa medaglia. Abbiamo lanciato una monetina ma non sapremo mai quale delle due facce il fato ha scelto. E provare due sentimenti al contempo è la differenza tra film comune e opera trascendentale.

Voto: 9/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Nasceva il 13 agosto del 1899 e il 29 aprile del 1980 ci lasciava il grande maestro Alfred Hitchcock, uno dei più grandi registi della storia del cinema.

Lo avrete certamente visto da qualche parte. Ha un volto conosciuto e un profilo comune. L’avrete senza dubbio incontrato, magari in un bar, dove beveva a pochi passi da voi, per poi volatilizzarsi in un batter di ciglia, o probabilmente lo avrete visto collocarsi di soppiatto alle vostre spalle, mentre qualcuno stava per scattarvi una foto, per il semplice gusto di rimanere immortalato egli stesso a vostra insaputa. Ma la cosa più divertente è che nel momento in cui il diaframma si apriva per poi richiudersi immediatamente non avevate per nulla notato quella presenza, una sagoma panciuta e sospettosa apparire alle vostre spalle. E’ capitato a molti. Egli infatti adora palesarsi quando meno ce l’aspettiamo.

Vedete, nelle sue opere più famose la sua presenza, seppur non semplice da intravedere, è consueta. Si è sempre ritagliato uno spazio nei modi più disparati: dalla camminata sullo sfondo al breve passaggio nel centro della scena, fino a riproporre, di tanto in tanto, il suo celebre profilo con l’ausilio, fatto ad arte, di luci a intermittenza su un’insegna al neon posta in lontananza. Sembrerebbe che volesse a tutti i costi divertire il pubblico e divertirsi egli stesso; una sorta di testo autografato, un marchio, un sigillo d’appartenenza a quell’opera da lui stesso creata. Quasi come una caccia alla firma, invitava il suo pubblico a cercarlo, a “scovarlo” tra i passanti, dietro una siepe, impresso su un fotogramma. Una sottile “caccia all’uomo”, al divo, al personaggio, al maestro; una caccia arguta e raffinata.

Ma quello che molti faticano a comprendere è che nei suoi film, l’alone della sua presenza, delle tematiche che intendeva trattare, del suo esprimersi diremmo, permea il totale contesto. Hitchcock appare anche quando non è sua intenzione farlo. Perché il pubblico non solo ricerca il suo vero cameo, ma vede i suoi film come una finestra spalancata su una porzione del suo genio creativo. L’apparizione vincente di Alfred è quella di rendere i suoi film indissolubilmente legati alla propria figura: “In un film di Alfred Hitchcock ci può essere un solo regista”. Non vediamo i suoi film per appassionarci alla storia, alla trama, quella è solo la superficie; vediamo i suoi film per entrare nella sua mente, per conoscere, ogni volta di più, Alfred Hitchcock. E questo è senza dubbio il suo più grande cameo: essere dappertutto! Essere l’intero film. Essere il genio che vede la realtà con l’occhio di una camera da presa.

Essere, se riuscite a immaginarlo, anche lì, proprio accanto a voi.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Dopo "Il ladro" del 1956, prodotto dalla Warner Bros, nel 1957, con “La donna che visse due volte” (noto anche come "Vertigo") Hitchcock tornava al colore e alla sua vecchia casa di produzione, la Paramount. Il film era tratto dal romanzo di Pierre Boileau e Thomas Narceiac “D’entre les morts”. La presenza di un attore del calibro di James Stewart e di una stella nascente come Kim Novak, facevano presagire che il film avrebbe soddisfatto il grande pubblico.

A "La donna che visse due volte" collaborò la squadra preferita di Hitchcock, vale a dire, il direttore della fotografia Robert Burks, l’addetto al montaggio George Tomasini, il compositore Bernard Herrmann, la costumista Edith Head e il produttore associato Herbert Coleman.

Nonostante l’aspettativa favorevole, "La donna che visse due volte" non suscito quel successo desiderato, almeno per quanto riguarda il parere del pubblico. La pubblicità aveva giocato sul fatto che il film era simile ad altri capolavori del maestro realizzati in quel decennio, ma così non era. In effetti, "La donna che visse due volte" era decisamente diverso, non fosse altro che per l’assenza di humour, l’immediata rivelazione della reale identità di Judy e principalmente per la mancanza del lieto fine. C’è da dire però che la stampa quotidiana non si espresse negativamente sul film, lo fecero invece i critici dei settimanali più rappresentativi, biasimando l’esigua verosimiglianza della trama. In ambito accademico "La donna che visse due volte" non fu degnato della minima considerazione.  A restituire il prestigio alla pellicola giunse negli anni ’70 un corale apprezzamento da parte delle nuove generazioni di critici che gli tributarono il giusto riconoscimento.

"La donna che visse due volte" è una scalata tortuosa, accentuata ancor di più dalla paura di cedere nell'ignoto.

 

Eros e thanatos, amore e morte – duplice natura delle pulsioni umane – sono alla base del film. Tutto è costruito sulla polarità: alla sognante, assente Madeleine si contrappone Judy, che appare all’inizio come una donna concreta, appariscente, dal trucco pesante, fino a quando, per amore, non è anch’essa risucchiata nel tentativo disperato di Scottie di far rivivere il passato. Gli specchi riflettono questa continua dualità fisica e mentale, dell'apparenza e della realtà. Il tutto viene calato nel vortice dell'aspirale, presente sin dai titoli di coda, e capace di trascinare gli spettatori nelle profondità vertiginose della travagliata psicologia dei protagonisti.

"La donna che visse due volte" è un film dal ritmo pacato, per certi versi sognante, in cui sono senza dubbio più importanti le sfumature psicologiche e i rapporti fra i personaggi che non gli sviluppi narrativi. I ritmi filmici sono scanditi dal continuo vagabondare dei personaggi, dalle passeggiate, dai percorsi in automobile. Lo smarrimento dell’uomo ricorda, in un certo senso, l’inquietudine del protagonista de’ “La finestra sul cortile”, ma non più scongiurata da un fare ansioso ed esagitato come quello del fotoreporter.

Scottie è alla ricerca di qualcosa che dia senso alla sua vita; nel caos dell’esistenza si trova a fare i conti con l’amore e con la morte, con l’illusione e la realtà della vita, con il rimpianto e il desiderio dell’impossibile. E a conclusione di un aspro percorso, quando la vertigine sembra ormai sconfitta e la realtà riconosciuta, non vi è premio né consolazione: nell’uno o nell’altro caso, con o senza vertigine, c’è d’affrontare sempre un nuovo baratro.

Redazione: CineHunters

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Al tempo de “Il delitto perfetto” Hitchcock aveva un contratto con la Warner Bros, per la quale aveva già girato diversi film. Dopo aver visionato parecchi soggetti, nessuno dei quali lo aveva interessato particolarmente, il maestro decise di salvaguardarsi con un thriller di grande successo, una commedia di Frederick Knott dal titolo “Dial M for Murder”. Hitchcock lavorò con l’autore alla sceneggiatura e non si distaccò poi tanto dal testo originale. Il pubblico accolse con entusiasmo “Il delitto perfetto”, anche se Hitchcock lo definì sempre un film minore, girato più che altro per esigenze contrattuali e commerciali. In effetti con “Il delitto perfetto” siamo ben lontani dal successo ottenuto dai film “Notorius” e “La finestra sul cortile” ma non per quel che concerne la qualità dell’opera.

Con “Il delitto perfetto”, Hitchcock è ancora una volta attratto da un soggetto che ha al suo interno i dissidi, i malumori e la durezza che sovente si nascondono in un rapporto di coppia.  Al maestro stava a cuore la concentrazione narrativa e strutturale del film, dovuta in parte al lavoro teatrale dal quale è tratto, ma principalmente alla volontà e alla bravura del regista. Nel caso di Hitchcock lo testimoniano numerosi film d’impianto teatrale, girati in un unico ambiente, come per esempio “Nodo alla gola” e “La finestra sul cortile”, ai quali è giusto accomunare anche “Il delitto perfetto”, che praticamente si svolge per intero nel soggiorno dei Wendice. In alcuni metri quadrati Hitchcock è capace di mettere in scena una vicenda fitta e avvincente dal ritmo praticamente perfetto, alla cui realizzazione partecipano un sapiente montaggio, abili movimenti di macchina e un’azzeccatissima colonna sonora, tutti elementi questi di spiccato taglio cinematografico.

Se la caratterizzazione dei personaggi è alquanto sfuggente non è così invece con gli oggetti. A essi, più che ai protagonisti, sono rivolti alcuni suggestivi primi piani: la borsetta, il telefono, il disco dell’apparecchio telefonico con la lettera “M” in risalto, le forbici. Numerosi altri oggetti sono sparsi nel lungometraggio e la loro presenza non è mai casuale: i guanti, i bicchieri ripuliti per togliere le tracce, il cestino da lavoro, il bastone, la calza usata da Awan, il flacone di benzina, le calze di Margot, il vassoio con le tazze, la valigetta blu. Ma l’oggetto più importante rimane indubbiamente la chiave. Con un solo elemento Hitchcock è capace di suscitare ansia, paura e sgomento.

Grande attenzione viene rivolta alle luci, in quanto nella sala dei coniugi Wendice si trovano alcune lampade, le quali contribuiscono a formare l’atmosfera delle varie sequenze, creando così un sinistro gioco di luci e ombre. Le ombre si stagliano sui muri della casa, ma anche i colori fanno la loro parte. I movimenti di macchina avvinghiano i personaggi in una sorta di rete invisibile e li imprigionano all’interno della stanza.

L'ispettore Hubbard, interpretato da John Williams, possiede molti atteggiamenti e adopera metodi investigativi paragonabili a quelli del Tenente Colombo, che sarà interpretato da Peter Falk dal 1968 in poi. Entrambi sono estremamente intelligenti, capiscono dopo un'attenta analisi chi sia il colpevole e lo incastrano con una trappola sapientemente architettata. Il personaggio di Williams finge anch'egli d’essere un tantino smemorato dinanzi al sospettato, fa finta di ricordarsi improvvisamente cosa dover chiedere all'accusato, e quando sta per andare via, torna di colpo indietro. Un tipico atteggiamento utilizzato da Colombo, che ritornando sulla scena esclama “solo un’ultima cosa…

 

Però, in effetti, c’è una sequenza che in modo particolare si erge su tutte le altre per drammaticità interpretativa, ed è quella del tentato omicidio di Margot. Le tenebre, lo squillo ossessivo del telefono, la luce che si accende, Margot che procede in vestaglia al centro del fascio di luce che proviene dalla porta rimasta aperta, il suo volto che rimane per metà in ombra mentre si porta la cornetta all’orecchio; e poi ancora la presa inaspettata e violenta di Swan, il piegarsi all’indietro di lei, la proiezione sul muro delle sagome dei due che si dibattono. E infine la disperata ricerca di qualcosa per liberarsi da quella morsa mortale e le forbici inquadrate in primo piano, così come il successivo ferimento dell’aggressore, e Margot che si adagia sulla scrivania, mentre Swan rovina a terra supino, con il macabro particolare delle forbici che si piantano ancora di più nella sua schiena. In questo Hitchcock è un vero maestro: gira una scena di una tale brutalità senza far vedere nemmeno una goccia di sangue.

Molto probabilmente il delitto perfetto non esiste, di certo però esistono scene perfette come questa!

Voto: 9/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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