
I fantasmi non esistono: è ciò che ci viene insegnato fin da bambini. Gli spettri, quelle impronte sbiadite e trasparenti, echi lontani delle persone che furono un tempo, che possiedono la facoltà di oltrepassare le pareti, di “ingannare” gli oggetti, di scomparire ed apparire a loro piacimento, non sono altro che il residuo di una credenza popolare, di un mito recondito, il prodotto della fantasia, ma anche della paura e della suggestione.
I fantasmi non esistono! Siamo tutti d’accordo, dunque?
E con essi, non esistono neppure i mostri, quelli appartenenti ai generi più disparati: che siano vampiri, lupi mannari, zombie e chi più ne ha più ne metta.
I nostri genitori ce lo ripetevano continuamente quando eravamo piccini e noi, una volta diventati adulti, imitandoli, facciamo lo stesso con i nostri figli per rassicurarli allo scadere di ogni nuovo giorno quando, rimboccando loro le coperte, sussurriamo, con fare rasserenante, che non vi è alcuna bizzarra creatura nascosta sotto il letto. Dopotutto non bisogna avere paura del buio, poiché non vi è nulla nell’oscurità che non sia già presente quando le luci sono ancora accese.
Tuttavia, i bambini raramente credono ciecamente alle nostre parole: essi tendono a lasciarsi trasportare dall’immaginazione ed in tal modo cominciano a vedere sagome spaventose materializzarsi agli angoli della cameretta, a provare timore per un giocattolo qualunque che, nel buio, raggiunto dalle deboli luci della sera provenienti dalla strada, assume una forma bizzarra, distorta, decisamente minacciosa ai loro occhi innocenti. Capita, perciò, che a notte inoltrata i bambini si sveglino di soprassalto e ripetano a gran voce il nome di chi dovrà proteggerli: “Papà! Mamma! Ho paura! C’è qualcosa nella stanza, un brutto mostro”. Dal canto loro i genitori, frastornati dal brusco risveglio, si precipitano come schegge a tranquillizzarli, borbottando la solita frase di circostanza: i mostri non ci sono, le streghe si trovano solamente nei libri di fiabe e i demoni vivono soltanto nei nostri incubi.
Lo ribadiamo ancora e ancora, rammentandolo fino all’età adulta: i fantasmi non esistono, è una filastrocca consueta. Ma… Un momento, che cos’è esattamente un fantasma?

E’ piuttosto difficile dare una precisa definizione ad un qualcosa che, concretamente, non è palpabile. Ci proverò comunque: in poche parole, un fantasma potrebbe essere paragonato ad un essere che non fa più parte del nostro mondo - quello dei viventi - e che, ciononostante, continua a vagare su questa terra, errando come un’anima invisibile, mai considerata, notata o ascoltata da chicchessia. Un fantasma è un uomo scomparso, una donna dimenticata che sopravvive come un’ombra tuffata nelle tenebre, avulsa dalla società circostante, sola e sconosciuta ai più.
Assecondando questa mia descrizione… Com’è possibile affermare con assoluta fermezza che i fantasmi non esistono?
Invero, i fantasmi esistono eccome. Sono i reietti, gli emarginati, coloro che scelgono di condurre una vita in esilio per pavidità o perché costretti a farlo. Vedete, i fantasmi non sono gli ectoplasmi cui i racconti dell’orrore hanno dato ampia risonanza, non vantano qualità soprannaturali come l’immortalità o la cristallinità del loro manto evanescente. I veri fantasmi non fluttuano nell’aria ma camminano come tutti noi, lambiscono gli oggetti per davvero invece di oltrepassarli. I fantasmi autentici sono ancora vivi, hanno un cuore che batte, sangue che scorre nelle loro vene, una mente sofferente, tumultuosa, ed un’epidermide deturpata da cicatrici visibili e non.
La storia di Erik - il protagonista de “Il Fantasma dell’Opera” - riguarda il vissuto di un uomo “reale”, tangibile, non certo di uno spettro scarnificato sebbene il titolo del romanzo possa indurre a pensare il contrario; un uomo che poteva essere visto, sfiorato, udito nel suo angoscioso lamento. Erik era un essere umano, eppure su di lui aleggiava una maledizione: quella che il fato gli inflisse sin da quando era in fasce. Nato orribile e malfatto, simile ad un pressappoco più che ad un ragazzo, Erik nascose le proprie sembianze per gran parte della sua esistenza, divenendo a tutti gli effetti un “fantasma” su cui nessuna donna ebbe mai l’ardire di puntare il proprio sguardo.
Una delle più emblematiche trasposizioni cinematografiche del romanzo di Gaston Leroux – autore per l’appunto de “Il Fantasma dell’Opera” – risale all’epoca del muto, precisamente al 1925. Nei panni di Erik, il musicista tormentato dalle proprie grottesche parvenze, venne scelto l’attore Lon Chaney, il quale, grazie a questo ruolo, tragico e inquietante al contempo, assurse allo status di icona del cinema dell’orrore.

Tutto ha inizio a Parigi, nel Grande Teatro dell’Opéra. La stagione è agli albori ed in scena vi è il “Faust” del compositore Charles Gounod. Primadonna del dramma lirico è Carlotta, un soprano dall’indubbio talento.
Fra le platee del teatro una sagoma oscura si aggira, desolata, ascoltando scrupolosamente le voci che echeggiano da ogni singola porzione di spazio del palcoscenico. L’ignota figura, sera dopo sera, osserva la rappresentazione, studiandone i dettagli più minuziosi del suo insieme fino a scorgere la bellezza nonché la melodiosa voce di una corista in particolare: Christine Daaé.
Un mattino i direttori del teatro ricevono una lettera minacciosa, con la quale viene intimato a chi di dovere di promuovere la giovane Christine come cantante solista, sostituendo di conseguenza la già affermata Carlotta. La lettera porta in basso una firma sinistra: il Fantasma.
Il famigerato Fantasma è una leggenda ben nota a tutte le maestranze, i cantanti e gli attori che lavorano quotidianamente presso l’Opéra. Egli infesta la sala al sopraggiungere di ogni crepuscolo e al principio di ogni spettacolo. Nessuno lo ha mai visto in faccia, ma alcuni hanno intravisto la sua allarmante silhouette, immersa e inerte come un impassibile simulacro incastonato nel fosco.
Temendo gli avvertimenti del Fantasma, nonché costretti dall’assenza di Carlotta (intossicata da una fiala ingerita, creata dallo stesso Fantasma per renderla indisponibile) i proprietari del teatro acconsentono a promuovere Christine a primadonna.
La giovane ragazza, innamorata del buon Raoul de Chagny e da questi ricambiata, ha così modo di abbracciare il calore del pubblico, estasiato dal suo soave canto. Una sera Christine riceve la visita del Fantasma, il quale già da qualche giorno era solito parlare alla fanciulla, standosene ben nascosto dietro uno specchio. Sfruttando la sua voce ammaliante il Fantasma incanta Christine, la quale acconsente a seguirlo alla volta del suo mondo misterioso ma accogliente. Convinta che l’uomo sia una sorta di “maestro” e magari uno spirito benevolo, Christine offre la sua mano al Fantasma. Preda di un sogno, come se fosse catturata da una visione onirica, l’artista sembra quasi perdere i sensi e viene sorretta da Erik, che la accoglie fra le sue braccia.
Questi la conduce giù, nei sotterranei del Grande Teatro, facendola poi montare su di una gondola. Muovendosi dolcemente, solcando il fiume che bagna le sponde sotterranee della capitale parigina, il Fantasma, tutto avvolto in un mantello tetro come la notte e mantenendo il volto occultato da un velo candido come la neve, trasporta Christine fino alla sua dimora.
Mentre voga con la sua piccola barca Erik rassomiglia a Caronte, il nocchiero dell’aldilà, che accompagna Christine verso un regno permeato da un’atmosfera plumbea, simile all’Ade.
Una volta preso coscienza della situazione la ragazza, attonita dalla presenza della spettrale creatura, arretra, quasi terrorizzata. Il Fantasma le si avvicina e, nell’atto di inchinarsi, accosta un lembo del vestito della giovane alle sue labbra. Di lì a poco le confiderà di chiamarsi Erik e di amarla perdutamente. A quel punto la fanciulla, sgomenta, cercherà di scappare, ma verrà trattenuta dalle parole dell’uomo che le illustrerà come la presenza della ragazza costituisca per lui l’unica possibilità di salvezza e di redenzione. L’odio degli uomini – egli ammette – lo ha reso il “Fantasma” ma l’amore di Christine può ancora redimerlo.
Incapace di replicare con razionalità, travolta da un turbinio di emozioni, Christine sviene. Erik la raccoglie e la stringe a sé, carezzandola con le sue mani e adagiandola delicatamente sul talamo. L’indomani la donna scruterà nuovamente il Fantasma.
Questi le lascia un biglietto che reca in sé un monito ben preciso: Christine potrà andare e venire nei sotterranei del teatro ogniqualvolta vorrà, ma non dovrà mai e poi mai cercare di strappare la maschera che adombra il volto del Fantasma.
In quei frangenti, Erik se ne sta seduto dinanzi ad un imponente pianoforte. Egli ha così l’opportunità di rivelare agli occhi e alle orecchie della sua amata d’essere un musico d’impareggiabile bravura. L’eco della sua arte risuona soavemente in tutte le stanze dei sotterranei, sferzando perfino l’acqua su cui vi è ormeggiata l’imbarcazione con cui Erik è solito spostarsi.

Il Fantasma è assorto nell’esecuzione di un brano da lui stesso partorito: il “Don Giovanni Trionfante”, un’aria che rimbomba nel suo cuore sin dal primo momento in cui ha osservato e carpito i dettagli del volto di Christine: i suoi occhi, le sue gote, la sua bocca. L’amore che il Fantasma nutre per la donna è, come egli stesso afferma, un sentimento “trionfante”, inarrestabile come una valorosa cavalcata compiuta dalle Valchirie, come i marosi repentini che spezzano, all’orizzonte, la serenità di un mare calmo, per nulla turbato dall’alito fresco del vento.
Le mani di Christine - troppo curiosa di conoscere l’aspetto del Fantasma - si insinuano sotto il collo di quest’ultimo sino a rimuovere, in un brusco gesto, il suo cereo “velario”.
D’un tratto, Erik appare per come la natura lo ha condannato ad essere: un mostro raccapricciante, un teschio scheletrico con ancora la pelle appiccicata. La fisionomia del Fantasma, terrificante solo a guardarla, somiglia ad una maschera di morte, ad una pergamena macchiata da gocce sparse d’inchiostro grumoso, ad un drappo vizzo, floscio, scafato e sdrucito, ad un ovale flagellato da una strana e beffarda forma di lebbra.
Gli occhi incassati fra due orbite nere, il naso quasi del tutto assente, la bocca perennemente scoperchiata che rivela una dentatura aguzza e possente, sono gli elementi che formano gli orripilanti caratteri somatici di Erik, ciò che lo ha condotto alla follia, all’isolamento, alla collera.
Sentendosi tradito dalla sua amata il Fantasma urla, furente di rabbia. Il patto che Erik aveva stabilito tacitamente con Christine, quello che imponeva alla ragazza di non avvicinarsi alla sua maschera e di non guardarlo mai per com’è realmente, ricorda un patto d’amore cui la Mitologia Greca fa menzione: quello tra Eros, il figlio di Afrodite, e Psiche. Amore, nelle lunghe notti trascorse nell’oscurità più fitta con Psiche, raccomandò sempre alla donna di non puntare mai una candela su di lui poiché se lo avesse visto sarebbe dovuto andare via. Psiche, inizialmente, acconsentì, devota totalmente all’ordine del suo compagno. Ma una sera, la curiosità fu più che mai incalzante. Quindi la donna “tradì” il suo amante, lo irradiò con la luce fioca di un candeliere e lo guardò. Amore dovette volare via, sparire dalla sua vista per un lungo periodo.
Ciò che accade ne “Il Fantasma dell’Opera” rimanda, in parte, a questo avvenimento: è il tradimento di una promessa; una promessa che riguarda il “non osservare” l’autentica fattezza di un innamorato. Ciò che differenzia maggiormente i due avvenimenti è che nel caso di Erik e Christine il sentimento dell’amore viene provato realmente soltanto dal protagonista e non dalla donna, che non può contraccambiare l’infatuazione di un uomo enigmatico e presumibilmente crudele.
Furibondo per essere stato smascherato e per essere stato costretto a svelare la propria immonda immagine, Erik allunga la mano verso Christine che, nel frattempo, si è gettata a terra, in lacrime, disgustata dai lineamenti del Fantasma. La donna prega Erik di perdonarla, supplicandolo di lasciarla andare. Il Fantasma, impietosito, elargisce una sorta di “libertà”, alla sua sposa fittizia: ella potrà fuggire dalla sua dimora, ma dovrà restargli fedele, poiché il Fantasma l’ha scelta come sua compagna ed ella non dovrà mai più rivedere Raoul. Christine, a malincuore, acconsente e torna in superficie, riguadagnando il suolo del Grande Teatro.
Si concretizza, in tali frangenti, l’idea distorta del sentimento dell’amore nutrito dal Fantasma. Egli pone l’amore sul medesimo livello del “possesso”: il desiderio di avere Christine accanto a sé acceca la già compromessa ragione di Erik, che non esita ad intimare alla donna d’essere una “sua proprietà” e che ella non potrà più vedere chi ama realmente. La mostruosità di Erik, sfigurato nell’aspetto ma, ancor di più, “distrutto” ed “imbrattato” in fondo al petto da anni di dolore, di rabbia, di odio, elementi che hanno agito dentro di lui come un veleno, appare ancor più marcata dalle sue azioni. Quello provato e, al contempo, covato da Erik è un amore insano, innaturale, malato; è l’amore di un mostro, di un essere incapace di affezionarsi concretamente ad una donna poiché per nulla propenso a comprendere e assecondare i sogni, le aspettative, le esigenze di quest’ultima.
Erik è un uomo vero che ha trascorso una vita di rinunce, di stenti, perdurando nell’oscurità come un’anima ignorata, maledetta, anonima. Egli non ha mai avuto modo di imparare cosa voglia dire rapportarsi con gli altri, anteporre il bene del prossimo al proprio. Erik è vivo, eppure vive l’esistenza di un non-morto, addormentandosi in un letto a forma di catafalco, il quale non fa che rammentargli il sonno eterno, quel tipo di sonno senza sogni che ristora da tutti i dolori.

Nel lungometraggio del 1925 Erik è privo di voce come tutti gli altri personaggi del film, essendo questa una pellicola appartenente al genere muto. Eppure, a Christine viene data la possibilità di far effluire il suo timbro vocale, durante l’esecuzione del dramma lirico. Ad Erik è negata anche questa opportunità nel film, sebbene nell’adattamento teatrale il Fantasma possa vantare una voce acuta e un canto armonioso e grave al contempo.
E’ come se il Fantasma interpretato da Lon Chaney, oltre che prigioniero della propria deformità, sia anche intrappolato in una sorta di “mutismo” eterno e inalterabile. Egli non ha la possibilità di intonare neppure un singolo verso d’amore nei riguardi di Christine. Può, a stento, suonare l’organo, il pianoforte, qualunque strumento gli capiti a tiro. Ma dalla sua agghiacciante bocca non emerge neppure un singolo suono che lo spettatore possa cogliere. Erik è, pertanto, privo di una caratteristica che rende il suo personaggio maggiormente affascinante, finendo per risultare ancor più isolato, distaccato, infelice nel proprio dolore, difficile da comprendere in quanto mai completamente espresso, frenato da un laconico silenzio che può essere compensato solamente dalle scritte che la pellicola dissemina durante il proprio snocciolarsi.
Quando Christine fa ritorno alla “realtà”, riesce a mettersi in contatto con Raoul. I due salgono sempre più in alto, percorrendo le scale dell’Opéra. Sulla sommità della costruzione, sicuri di non essere ascoltati da nessuno, Christine confessa tutta la verità al suo amato. Ella lo rassicura di essere ancora innamorata di lui e che il Fantasma vuole farla sua schiava.

In quegli attimi Erik ha scalato faticosamente gli esterni dell’edificio e ha raggiunto la cima di una piccola torre che si staglia verso il cielo stellato. La statua marmorea di un angelo svetta ai piedi del Fantasma, il quale se ne sta lì, aggrappato, senza più alcuna maschera a coprire i propri connotati. Il costume indossato da Erik quella sera, raggiunto dal gelido soffio del vento, svolazza libero, dando l’impressione che il Fantasma possieda un paio di ali nere; in questa sequenza, Erik rassomiglia ad un angelo caduto, dannato, che si eleva su di una raffigurazione scultorea anch’essa a carattere celestiale.
Quando Christine bacia Raoul, il Fantasma sembra gettare un grido di dolore, che resta però soffocato dal silenzio imposto dalla pellicola. “Mi ha tradito!” – urla Erik, fremente di gelosia. Il suo corpo cede, sconfitto e rassegnato, all’indietro e la schiena dell’uomo scalfisce l’austero materiale dell’altorilievo. Il Fantasma sembra persino faticare a trarre respiro: quella che era la sua unica possibilità di redenzione, l’amore di Christine, è svanita.
Gli istanti in cui il Fantasma realizza di non poter mai ottenere l’amore di Christine, appollaiato su di una statua di pietra bianca, ricordano le scene che, diversi anni dopo, si vedranno in un altro lungometraggio: “Il gobbo di Notre-Dame”. Il finale del film del 1939, con protagonisti Charles Laughton e Maureen O'Hara, mostra, infatti, Quasimodo inginocchiato, vicino ad uno dei suoi amati Gargoyle.
Egli osserva Esmeralda andare via, sempre più lontana da lui. La donna si volta verso la cattedrale, indugiando solamente per un istante sulle pene che il campanaro starà patendo per lei. Quasimodo, afflitto, rivolgerà il suo unico occhio buono al Gargoyle che se ne sta lì, impalato, ad osservare Parigi. L’inconsolabile protagonista della storia concepita dalla penna di Victor Hugo si domanda perché non sia nato di roccia come quella statua che riposa lì accanto.
In entrambi i lungometraggi, sia Quasimodo che Erik, a pochi passi da una scultura bellissima ma incapace di provare sentimenti, mostrano la loro umanità che si contrappone, per l’appunto, con la fredda povertà di un’opera scolpita dalla sapiente mano dell’uomo. Quest’ultima, per quanto stupefacente e meravigliosa, non potrà mai avvertire ciò che un essere umano può provare nella sua intimità, sia esso un mostro gentile come il gobbo di Notre-Dame sia esso un mostro vendicativo come il Fantasma.

Impossibilitato a rassegnarsi, il Fantasma rapisce Christine e la riporta nella sua casa. Qui le impone di amarlo, altrimenti ucciderà Raoul. Christine, pur di non assistere alla morte del suo adorato, acconsente a restare con il Fantasma. Tuttavia, quando Raoul raggiungerà la dimora dello “spirito”, questi cercherà di annientarlo una volta per tutte. Christine, a quel punto, implorerà il Fantasma di graziarlo. Erik, mosso a compassione, sceglierà di salvare Raoul. Poco dopo, vedrà Christine abbracciare il suo amato, accarezzargli i capelli, baciargli la fronte.
Solamente in quel momento, egli realizzerà ciò che non potrà mai avere: quel bacio, quel tocco, quella carezza a lui saranno sempre negati. Egli non potrà mai conquistare l’amore di Christine, non solo per il suo aspetto ma, soprattutto, per la sua crudeltà. Ciò che il Fantasma non è riuscito a capire fino in fondo, nonostante la sua enorme intelligenza, nonostante la sua profonda sensibilità, è che l’amore non può essere mai imposto e che esso non corrisponde affatto al possesso.
Amare significa anche lasciare andare, dire addio, voltare le spalle, seppur in lacrime, e far sì che la propria amata viva serena, lontano da chi non sa se potrà renderla felice come meriterebbe.
Erik seguita a non afferrare questo concetto e, in un ultimo slancio di squilibrio, prende nuovamente Christine con sé, transitando insieme a lei per le vie di Parigi in carrozza. Durante la corsa, il Fantasma perderà le redini dei vari destrieri. Inseguito da una folla inferocita il Fantasma scapperà via, non prima di aver concesso un ultimo sguardo a Christine, rimasta in strada e salvata definitivamente da Raoul. In preda allo sconforto, Erik troverà la morte sulle rive della Senna.

Verso l’ultimo atto del romanzo, invece, il Fantasma consuma un momento sincero, puro seppur fugace con Christine, durante il quale le dà un bacio sulla fronte. La donna, intenerita dal vissuto di Erik, fa lo stesso, poggiando anch’ella le sue labbra sulla pelle rattrappita di Erik e questi scoppia in un pianto copioso, toccato da tanta gentilezza. Poco dopo, il Fantasma libera Christine e si trascina faticosamente fino al pianoforte. Laggiù il suo cuore smetterà di battere, stroncato dal troppo amore.
Nel musical del 2004 - “Il Fantasma dell’Opera” – trasposizione più fedele all'adattamento teatrale di Andrew Lloyd Webber, il Fantasma non camuffa totalmente la sua faccia dietro un drappo niveo. Al contrario, egli porta una maschera immacolata aderente ad una delle sue guance mentre l’altra parte del suo viso rimane completamente scoperta. E’ come se l’espressione del Fantasma testimoniasse due lati della sua personalità: la parte buona, quella evocata dalla sua pelle nuda, e la parte malvagia, quella del suo volto ustionato, coperto da “posticcio candido” che lascia trapelare solamente il suo occhio scintillante di ira e genialità.

In questa versione del racconto Erik non troverà la morte bensì svanirà nel nulla, lasciando Christine libera di vivere la sua vita con Raoul. In un futuro imprecisato, l’anziano Raoul farà visita alla tomba di Christine, morta dopo essere stata sua moglie e madre dei suoi figli. Vicino alla lapide della donna, l’uomo troverà un dono: una rosa rossa appena sbocciata, nel cui gambo vi è avvolto un nastro nero. Raoul comprende che quello è il marchio del Fantasma, che egli è ancora fra loro e che non ha mai smesso di amare Christine.

La donna adorata e venerata dal Fantasma è stata la sola cosa al mondo a farlo sentire vivo, a strapparlo dal mondo degli spiriti.
Humphrey Bogart, in un classico del cinema noir intitolato “In a Lonely Place”, ebbe il piacere di recitare i seguenti versi: “Sono nato quando tu mi hai baciato, sono morto quando mi hai lasciato. Ho vissuto quelle poche settimane che mi hai amato”.
Tenendo bene in mente queste poche righe, si potrebbe affermare che il Fantasma nacque quando Christine lo baciò, raggiungendolo con le sue labbra in teatro grazie al suo canto, e morì quando ella lo abbandonò, preferendogli Raoul. Erik visse come uomo e non più come fantasma solamente quando ebbe la dolce illusione d’essere amato da Christine.
Autore: Emilio Giordano
Redazione: CineHunters
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