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"Ryo e Kaori" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

Passi spediti, fiato corto. Una ragazza rantola nel buio, spaventata, per scampare a una banda di malfattori. Esausta, la giovane si spinge fino alla stazione di Shinjuku. Lì, si sofferma dinanzi ad un’imponente lavagna che campeggia, tacita, tra il mormorio della folla. Indecisa sino all’ultimo, la giovane sceglie di chiedere aiuto, scrivendo sulla lavagna tre lettere dell’alfabeto: XYZ.

Ryo Saeba e Kaori Makimura raggiungono la stazione, imbattendosi nella loro nuova cliente, Ai Shindo, modella ed ex studentessa di medicina. Quest’ultima riferisce ai suoi prossimi protettori d’essere perseguitata da un gruppo di loschi figuri, alla ricerca di una misteriosa "chiave" collegata al Moebius, una tecnologia avveniristica a cui il padre di Ai stava lavorando prima d’essere assassinato. Ryo, come da consuetudine, ispeziona la fanciulla con il proprio piglio molesto e ne resta irrimediabilmente attratto. Da lì in poi, l’investigatore cercherà in tutti i modi di conquistarla, bersagliandola di continuo e venendo, prontamente, fermato dalla lesta e vigile Kaori, sempre più delusa, sempre più… gelosa.

Nel frattempo, Kaori viene avvicinata da Shinhi Mikumi, un suo caro amico d’infanzia che vuole intrecciare con lei una relazione romantica. Davanti a questo possibile scenario, Ryo non batte ciglio, per l’incredulità della stessa Ai Shindo, convinta che Ryo provi per Kaori una mal celata attrazione. Una sera, Ryo conduce Ai in un elegante ristorante in cui, a pochi tavoli di distanza, la stessa Kaori sta cenando con il suo spasimante. Ai inizia a scandagliare il suo interlocutore, Ryo, con lo sguardo. Questi è divenuto laconico come non lo era mai stato. Dov’era finita la sua travolgente simpatia? La sua incontenibile voglia di flirtare? Ryo cenava in silenzio con la sua cliente, ma ad ogni insinuazione di lei rispondeva con simpatia. Ai Shindo ne era convita: Ryo provava per Kaori ben più di un semplice interesse amicale. Ma come ha fatto la curiosa ragazza a intuire questa verità?

"Ryo Saeba" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters

Ryo ha sempre fatto di tutto per nasconderlo e, fino ad allora, ci era riuscito in pieno. Con ogni probabilità, la protetta di Ryo scorse qualcosa negli occhi del suo guardiano quando questi rivolse la propria attenzione all’indirizzo di Kaori. Un lampo e, forse, un bagliore d’affetto non adombrato scintillarono nelle sue pupille. Quella sera, seduto al tavolo, Ryo apparve, agli occhi di Ai, nudo, svestito da quella sua giacca azzurra e da quella sua maglietta rossa. Sotto quella sua fisicità statuaria, sotto quella sua espressività bonaria, divenuta, di colpo, fredda, seriosa, severa, inattaccabile, Ryo venne, suo malgrado, smascherato da una “ragazza qualunque” che possedeva la giusta arguzia per vedere oltre le sembianze. Tutto, forse, scaturì dagli occhi dello stesso Ryo. Furono essi a tradirlo? Chi può affermarlo! Ciò che è certo è che l’intera pellicola pone una profonda attenzione al senso della vista umana.

Il lungometraggio “City Hunter: Private Eyes” segna il ritorno del personaggio più celebre e amato partorito dalla fertile matita del maestro giapponese Tsukasa Hojo. Durante tutto lo scorrere dell’opera d’animazione, “gli occhi” assumono un valore altamente simbolico, come già il titolo della pellicola ha voluto suggerire.  Anzitutto, la professione della giovane Ai Shindo, la cliente e nuova protetta di Ryo Saeba, evoca, sin da subito, quanto la vista, intesa come “apparenza” ed “esteriorità”, adempi ad un ruolo preponderante all’interno del film di Kenji Kodama. Ai Shindo è, a tal proposito, una modella. Lei viene fotografata, immortalata giorno dopo giorno, così che la sua bellezza possa essere apprezzata da tutti coloro che desiderano lanciarle sguardi fugaci o occhiate vispe, indiscrete e curiose. Ryo stesso, volutamente, ha sempre dimostrato d’essere superficiale quando si tratta di belle donne, badando soltanto alle apparenze, a ciò che la meraviglia di un corpo femminile può generare in lui, una volta raggiunto dalla sua vista acuta e penetrante come quella di un rapace.

"Kaori Makimura" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters

La vista, però, è uno strumento ingannevole, che non sempre riesce a mostrare ciò che vi è oltre l’epidermide. Falcon, a tal proposito, è un personaggio che patisce una lieve forma di cecità ma che riesce a vedere più di quanto la vista comune sia in grado di scorgere. Falcon possiede la delicatezza, la sensibilità, la gentilezza, caratteristiche tipiche degli spiriti di buon cuore, coloro i quali vedono cose che sfuggono a tanti altri. Ryo, a detta dei più, non sembra affatto rientrare nella suddetta categoria di persone. Egli non si dimostra affatto sensibile, tanto meno garbato. Ryo ha il savoir-faire di un corteggiatore incallito, di un seduttore imbranato, dell’amante impertinente, destinato solamente a raccogliere risultati infruttuosi in amore. Kaori lo sa e non fa che chiedersi tutte le volte: “cos’ha che non va?”. Ma Ryo è davvero un epidermico zotico, che bada soltanto all’effimera bellezza, alla vacuità esteriore? Per come si atteggia e per come si esprime sembrerebbe proprio di sì, ma i suoi occhi, non sempre, concordano con ciò che egli fa. “Private Eyes” sussurra questa verità durante tutto il film, sino alla rivelazione finale.

Le labbra possono celare la verità, gli occhi più di rado. Essi tradiscono, a volte senza volerlo. Gli occhi, sovente, esternano sentimenti seppelliti nell’intimità, palesano un interesse, un’attenzione. Gli occhi scrutano e osservano, contemplano ed indagano, e quando vengono guardati, a loro volta, possono rivelare quanto vi è nascosto nel profondo di un carattere, di una personalità. Gli occhi sono la parte più esposta della fisicità di un corpo. Non giacciono occultati da alcuno strato di pelle, essi appaiono così come sono, grandi come lacrime di pioggia. Gli occhi possono essere cerulei come un cielo limpido, oppure agitati come un mare in tempesta, freddi come correnti oceaniche, calorosi come raggi che dardeggiano. In virtù della loro essenza, così pura ed evidente, gli occhi vengono considerati lo specchio dell’anima, poiché rivelano quanto, invece, non fa la lingua.   

"Maki, Mick, Falcon, Miki e Saeko" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters.

Dalla bocca possono scaturire parole saggiamente ponderate prima d’esser pronunciate, frasi misurate, soppesate per negare un’evidenza, per obiettare ad una realtà. Le parole mentono, gli sguardi no, al contrario, rivelano. Ryo usa, spesso, le sue parole per negare il sentimento che prova per Kaori, con le sue labbra non fa altro che sminuire la femminilità della sua amata per innervosirla, allontanarla da sé, così che non possa legarsi totalmente a lui. Le sue parole mentono, i suoi occhi quasi mai.

Ryo, infatti, alle volte si fa sfuggire qualche sguardo sincero. E’ una rarità, ma capita anche a lui. Quando fissa Kaori, negli attimi in cui è ben cosciente che lei non può ricambiare il suo sguardo intenso e prolungato, Ryo smette di vederla come una semplice compagna di lavoro, una coinquilina per cui nutrire null’altro che un tenero sentimento di amicizia. In questi attimi, Ryo mira Kaori con lo sguardo di un uomo innamorato che mai, però, può rivelare il proprio amore.

Ryo ne è consapevole: confessare l’amore alla donna più importante della sua vita significherebbe coinvolgerla completamente, trascinarla in maniera irreversibile nel suo mondo fatto di pericoli e di insidie, costellato da sacrifici e da privazioni. Ryo non avrebbe mai potuto farlo, e per tale ragione è solito “mutare” costantemente i suoi occhi, dosando opportunamente i suoi sguardi. Gli occhi di Ryo non possono davvero mentire, eppure riescono ad occultare. Per allontanare ulteriormente Kaori, ogni qual volta poteva essere il momento opportuno per dichiararsi, Ryo usufruisce delle sue parole. Anche lui sa questa inequivocabile verità: le parole possono ingannare molto più di quanto la vista può percepire.

Giorno dopo giorno, peripezie dopo peripezie, Ryo salva centinaia di belle donne, mostrando tutta la propria impareggiabile audacia e, al contempo, agisce come un perfetto idiota. Corteggia, o per meglio dire importuna qualunque donna gli si pari davanti, con pessimi risultati. Ryo pare avere occhi per ogni donna, tranne per colei che gli rimane sempre accanto. Kaori, in cuor suo, ne soffre. Tutte vengono ammirate dal bel vigilante di Shinjuku, tranne lei. La bocca di Ryo e i suoi sguardi sono sempre riusciti ad inscenare la più dura delle menzogne: negare un vero amore.

Gli occhi di Ryo sono sempre stati molto particolari. Solitamente, essi assumevano forme bizzarre e del tutto esagerate. Diventavano enormi, strabuzzati, fuoriuscivano letteralmente dalle orbite, cambiavano persino contorni, divenendo due grossi cuori rosa ogniqualvolta intravedevano la sagoma di una bella e slanciata figura femminile. Gli occhi di Kaori, invece, erano spesso incerti, esprimevano lo sguardo introverso ma deciso di una donna forte eppur timida, sicura sebbene fosse indecisa. Anche gli occhi di Kaori sapevano mutare “aspetto”. Diventavano rossi, accesi di rabbia, infuocati come una vampa ardente tutte le volte che Ryo si trovava ad un passo dallo scocciare ed infastidire una giovane ragazza. A quel punto, Kaori era solita lanciare all’uomo un’occhiata assatanata che preludeva ad una furia punitiva dal sapore vendicativo.

Tutte le volte, Ryo incassava di buon grado l’ira violenta della sua fedele compagna. In cuor suo era consapevole d’essere nel torto, sapeva di dover essere castigato. In fondo, nei suoi occhi, da cui sgorgavano copiose lacrime di dolore, vi era l’impercettibile segno della felicità. Ancora una volta, Kaori lo aveva scambiato per un inguaribile mascalzone, ancora una volta lo aveva ritenuto un incorreggibile maniaco, ancora una volta non aveva notato la vera luce negli occhi, il vero sguardo, con il quale lui era solito osservarla realmente.

In “City Hunter: Private Eyes” vi è un momento in cui Ryo sta per cedere, e i suoi occhi sono sul punto di raggirarlo. Kaori indossa un abito nuziale e se ne sta dinanzi a lui, agghindata come una splendida sposa. Lieta, la donna, ingenuamente, domanda all’uomo come la trova. Al che Ryo, dopo qualche attimo di smarrimento, borbotta: “Per me sei sempre la stessa!”. Una risposta che, neanche a dirlo, manderà su tutte le furie la povera collega. In questi attimi, Ryo manca, nuovamente, di sensibilità, di tatto. Così sembra… ad una prima occhiata. Se solo Kaori sapesse quanta verità vi è in quelle parole pronunciate in modo sibillino.

Nella sua lunga investigazione, Ryo scoprirà che il Moebius è un sistema operativo che contiene il segreto per la creazione di armamenti di ultima generazione atti ad essere comandati con il pensiero. Nella pericolosa faccenda vi è coinvolto lo stesso Shinhi, che vuole appropriarsi del Moebius. Il sistema si attiva soltanto con lo sguardo di Ai, ecco perché la fanciulla è bramata dai criminali. Il padre, prima di perire, volle fare in modo che questa rivoluzionaria quanto letale macchina che fu costretto a realizzare funzionasse soltanto con gli occhi della sua bambina. Nelle intenzioni del padre, gli occhi innocenti e buoni di una futura dottoressa quale sarebbe diventata sua figlia, non avrebbero mai attivato davvero quella diabolica creazione. Fu questa l’ultima, disperata mossa attuata dal costruttore del Moebius: affidare ai dolci occhi della figlia il destino dell’umanità.

Ryo, scoprendo tutto, verrà coinvolto in un’ardua battaglia per fermare i propositi di un’oscura organizzazione paramilitare, che è pronta a padroneggiare il Moebius per scatenare una guerra lungo tutto il globo.

City Hunter: Private Eyes” non si limita ad analizzare il modo in cui i personaggi si “osservano” tra loro, ma espande il concetto di “sguardo” e di “osservazione” a tutti i propri spettatori. Sono trascorsi molti anni dall’ultima apparizione del giustiziere di Shinjuku, e voi, cari spettatori, come continuate a vederlo? E’ questo l’interrogativo che, sommessamente, il lungometraggio vuole rivolgere a tutti i fan di City Hunter. “Private Eyes” è un film pensato per gli storici appassionati di “City Hunter”, sta a loro giudicare il ritorno, l’ammodernamento di questo intramontabile manipolo di eroi.

City Hunter: Private Eyes” è un lungometraggio ben fatto, che non può deludere ogni vero fan. I riferimenti estrapolati direttamente dal manga, come la presenza del Professore, o l’uso che lo stesso fa dell’appellativo “Baby face” nei riguardi di Ryo, faranno sorridere ogni appassionato. L’opera filmica vanta, inoltre, una colonna sonora ricca di tutte le tracce più famose della serie originale.

Le sequenze comiche, le scene d’azione, i combattimenti avvincenti condotti da Falcon e Ryo, i sentimenti e le emozioni provati dai personaggi, perfettamente amalgamati tra loro, rendono “Private Eyes” una pellicola riuscitissima. Anche il cameo delle tre sorelle, Occhi di Gatto, risulta essere suggestivo seppur nella sua brevità. “Private Eyes” riprende lo stile dell’anime, trasportando il tutto in un’epoca più moderna. L’atmosfera originale non viene mai smarrita, amalgamandosi perfettamente all’ambientazione odierna. Guardando “City Hunter” è possibile accorgersi di come esso non sia invecchiato affatto, e perduri a mostrarsi sgargiante, originale, coinvolgente come un tempo. Per noi, i suoi fan, City Hunter è sempre lo stesso!

"Ryo e Kaori" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters

Private Eyes” è un lungo e nostalgico omaggio al passato, un tributo che, come nello stile di Tsukasa Hojo, non conduce ad un vero rinnovamento e non volge verso alcun finale definitivo ma che, come in ogni altra opera del mangaka, lascia il futuro incerto, aperto, come se nulla, mai, cambiasse e finisse del tutto.

La storia d’amore tra Ryo e Kaori, anche in quest’ultima avventura, sarà destinata ad arenarsi ancor prima di sbocciare, a celarsi dietro una parola non detta e uno sguardo spezzato. Ryo e Kaori saranno sempre destinati a non rivelare mai davvero i loro sentimenti, nascondendosi dietro un’imperturbabile maschera, fatta di litigi ed incomprensioni.

Sul volgere del finale, prima che le note di “Get Wild” risuonino come un’eco ben distinta, Ryo spazzerà ogni dubbio e proferirà silenziosamente la sua verità: per lui, Kaori, vestita da sposa, era davvero sempre la stessa, ovvero una donna bellissima. Kaori per Ryo è sempre se stessa, eternamente splendida come una gemma prossima a fiorire. Sarà questa una confessione sentita, schietta. Le parole candide di Ryo combaceranno, finalmente, con i suoi occhi cristallini.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Capitan Harlock - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Molti, molti secoli addietro, nel tempo in cui i miti affondano le loro più arcane memorie è raccontata la storia di un uomo dalla natura divina. Arcade, quello era il suo nome, chiamava “madre” Callisto, una ninfa consacrata alla dea Artemide, e “padre” colui il quale veniva appellato, in egual modo, da coloro che sedevano sulle nuvole bianche del monte Olimpo: Arcade era, infatti, figlio di Zeus, il padre degli dei. Un giorno, il giovane Arcade fu notato dal sommo padre mentre camminava, con passo cauto e leggero, tra la folta vegetazione. Vigile era lo sguardo del semidio, e predatorie le sue intenzioni. Armato con arco e frecce, la prole mortale di Zeus stava dando la caccia ad una grossa orsa che vagava, confusa e spaventata, tra gli alberi secolari della foresta. Si apprestava a trafiggere l’animale, facendo scoccare un dardo acuminato con fatale precisione, quando intervenne Zeus, che raccolse le anime del cacciatore e della sua preda e le trasfigurò in astri del cielo. Quando si rese conto di ciò che stava, inconsapevolmente, per compiere, il giovane si sentì rinfrancato dal provvidenziale intervento del padre. L’orsa, infatti, altri non era che la madre Callisto, tramutata in una bestia selvatica come atto punitivo della regina degli dei, furente di rabbia. Arcade si ricongiunse così alla donna che gli aveva dato la vita e insieme raggiunsero l’immortalità sotto forma di costellazioni: Callisto divenne l’Orsa Maggiore e suo figlio l’Orsa Minore.

Capitan Harlock - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Il ricordo di Arcade si mantenne caro agli uomini, che sempre rimasero ispirati dalla benevolenza che egli ebbe quando calcò il reame dei mortali. Vollero così onorare la sua figura, battezzando una regione della Grecia col suo nome: l’Arcadia. Questa terra fu idealizzata come una regione incontaminata, paradisiaca, in cui potevano vivere in pace e in armonia uomini e natura, in un idilliaco equilibrio del creato, impossibile anche solo da scalfire. Hera, tuttavia, non si diede per vinta, e sebbene il marito avesse salvato le anime del figlio e della ninfa, riuscì a mettere in pratica una sua nuova azione vendicativa: le due costellazioni furono condannate a girare in eterno nel cielo, senza poter mai discendere al di sotto dell'orizzonte per trovare riposo.

Nella modernità del nostro tempo, quando oramai il fato di Arcade e di sua madre non è che un lontano ricordo, i racconti fantastici, partoriti dalla mente di un autore come Leiji Matsumoto, si soffermano a rievocare le vicissitudini di una particolare nave spaziale che, come le due costellazioni incarnate da Arcade e da Callisto, vaga in maniera perpetua tra le stelle senza mai fermarsi. L’astronave è comandata da un capitano dalla personalità tanto complessa quanto ardua da comprendere appieno. Tale comandante risponde al nome di Harlock. Chissà se Capitan Harlock, al timone della sua colossale astronave, abbia mai rivolto le sue rotte spaziali verso l’Orsa minore, la costellazione in cui pulsa, tra le stelle luminose, il cuore di quel vecchio eroe greco. Come per Arcade e Callisto, il “moto” di Harlock è senza fine, poiché risponde ad una missione che non può conoscere resa alcuna. Anche Harlock, così come i due personaggi della mitologia greca, non può discendere dalle stelle e non può tornare a vivere sulla sua amata Terra. Egli è stato bandito, additato dal governo come un fuorilegge, essendo egli un pirata spaziale su cui poggia il gravoso peso dell’esilio. Il governo terrestre lo ha scacciato come un pericoloso rivoluzionario. Harlock non ha più una dimora terrena, ma è divenuto la personificazione di un’idea. La casa di Harlock è sita nell’universo sconfinato. Sebbene sia stato allontanato dal pianeta, Harlock costituisce la più importante difesa della Terra.

Capitan Harlock - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Il veliero, che solca le “acque” dello spazio profondo e che viene controllato dalla mano ferma ma ugualmente delicata di Harlock, è conosciuto con un epiteto altisonante, il quale ricalca la magnificenza simbolica ed idealista della nave: Arcadia. Un evidente riferimento a quella terra pura e intrinsecamente pacifica della Grecia. La nave stellare è stata concepita dal suo costruttore per assurgere a luogo nel quale regna la parità, l’uguaglianza e, in particolar modo, un sacro e inattaccabile valore di libertà. L’equipaggio dell’Arcadia è estremamente eterogeneo, eppure, nonostante le diversità estetiche e caratteriali che intercorrono tra i membri dell’equipaggio, tutti loro sono accomunati da trascorsi molto simili e soprattutto dalle medesime aspirazioni. Sull’Arcadia, Harlock raccoglie le anime delle persone bramose di giustizia, gli spiriti di tutti coloro che, esiliati dai loro mondi, possono ritrovare una nuova dimora all’interno del vascello che solca “le acque” burrascose dello spazio sconfinato. Harlock siede su di un imponente trono, come fosse un re buono e pacifico a cui è stato strappato un regno sulla Terra. Egli è, di fatto, sovrano dei cieli.

Nella storia di “Capitan Harlock”, la regione dell’Arcadia, cui facevano cenno i racconti antichi, è divenuta, come ogni altra parte del globo, una terra arida. Il mondo è stato depauperato di ogni risorsa, e tutti gli abitanti della Terra vivono in uno stato di totale indifferenza e apatia. Le acque dei mari sono state prosciugate, e il clima è divenuto afoso e difficilmente tollerabile. L’Arcadia, la nave spaziale di Harlock, richiama quell’idealizzazione che non c’è più, e vuol render vera una tangibile illusione. Se il nostro pianeta non ha più un solo spazio su cui poter far sorgere una civiltà armoniosa, la sola speranza per la razza umana è quella di volgere gli occhi al cielo, così da tentare di scorgere la sagoma di un’astronave che rimanda a quell’ideale mai del tutto perduto: creare un microcosmo su cui vige un’esistenza sorretta da un perfetto e amorevole equilibrio.

La figura di Harlock è fascinosa e intrigante. Se per lui il firmamento sconfinato costituisce un immaginario oceano fatto di stelle, la Terra rappresenta il suo unico porto, un attracco sicuro a cui tuttavia non può mai far ritorno. Gli astri luminescenti appaiono ai suoi occhi come la luce di un faro che orienta le aspre traversate della sua Arcadia. Capitan Harlock è un eroe di stampo classico, romantico e melanconicamente rispettoso di un trascorso che è andato perduto. Il suo cuore è rimasto fedele a una sola donna, la sua adorata Maya, e i suoi ricordi più cari custodiscono il tempo passato con Tochiro, il suo migliore amico, e con Esmeralda, la “piratessa” spaziale, consorte di Tochiro e madre della piccola Mayu, di cui Harlock diverrà tutore e padre adottivo.

Il Capitano è un idealista, e considera ciò che fu il solo modo per orientarsi tra le incertezze del suo presente e il nebuloso avvenire della razza umana. Harlock è un uomo introverso, taciturno, riflessivo, che difende la Terra perché seguita ancora e per sempre a guardarla con gli occhi della purezza. Per lui, il pianeta è il nostro bene più prezioso, e seppure stia attraversando una fase di decadimento, esso stesso potrà un giorno “rifiorire”, quando la razza umana tornerà a prendersene cura. Per questo motivo, Harlock veglia sul suo pianeta d’origine come fosse un misantropico guardiano, un anomalo anacoreta.

Seppur ricerchi la solitudine, egli finisce poi per accogliere quante più persone isolate incontra, così da donare loro una casa in cui vivere e un ideale per cui poter morire. Capitan Harlock è una guida eroica, pronta a difendere la Terra fino allo stremo delle forze; è questo che evoca la sua bandiera nera, la “Jolly Roger”, issata sull’Arcadia, che allude al teschio scarnificato dei temuti vessilli dei pirati. Non è un messaggio di terrore, quanto una testimonianza emblematica del suo battersi fino alla morte pur di salvaguardare il pianeta. “Mi batterò fin quando il mio corpo non cederà e la mia epidermide si dissolverà fino a non lasciare di me che dei resti scheletrici” sembra voler dire con quella bandiera che “svolazza” in quel vasto mare tenebroso che in maniera infinita si snocciola al suo navigare.

Capitan Harlock incarna un particolare senso di solitudine, quella che l’uomo avverte al cospetto dell’universo senza confini. L’universo ammantato di corpi celesti è freddo, silenzioso, e per tale ragione dev’essere scrutato ascoltando una melodia che possa cadenzare lo scorrere laconico di una giornata trascorsa su nel cielo. E’ forse per tale ragione che Harlock, sovente, contempla la magnificenza di quella tavola azzurrastra che attraversa, come superficie acquosa, con la sua nave, facendosi allietare dalle melodie di Meeme, la sua compagnia femminile prediletta, quando lei pizzica delicatamente la sua arpa, facendo così giungere nella camera del Capitano le dolci note. Nel suo perpetuo navigare, capita che l’Arcadia incroci i resti di altre navi spaziali, ridotte oramai a relitti fantasma, le quali procedono senza più uno scopo, come adagiate su un fondale sabbioso o sospinte dalle correnti oceaniche. Tali scenari spettrali non possono che suscitare in lui riflessioni esistenziali sul cammino vitale di ogni uomo, e nel suo caso di ogni “pirata”. Cosa raccontano quei vascelli abbandonati e dai contorni fatiscenti? L’ultima testimonianza di una lotta, di un ideale che ha mosso l’animo di chi, su quelle navi, ha lottato sino alla fine.

Meeme - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Harlock ha l’anima di un poeta maledetto, sprovvisto di penna e della dovuta ispirazione per poter comporre versi rimati. Un poeta, per l’appunto, affranto da una solitudine intima, genuflesso alla nostalgia di un ideale di libertà, evocato nella giovinezza e mai affievolitosi nonostante l’asprezza degli eventi che si sono succeduti nel corso degli anni. Il Capitano fa sì che i suoi versi, invece che espressi a parole, vengano “trascritti” come note musicali e “decantati” in struggenti suoni dalla sua ocarina. Tale melodia è triste e malinconica e sembra perdersi nell’infinità del tempo. Harlock suona questo strumento portandolo alla bocca, per poi chiudere gli occhi, come a voler rievocare sommessamente, nella sua intimità imperscrutabile, le reminiscenze di un passato sempre preminente nel suo presente.

La navigazione di Harlock rappresenta un’odissea. L’Arcadia, quel paradiso terrestre “volato” su nel cielo, fu la dimora di gente meravigliosa a cui, al termine della sua più grande e vittoriosa battaglia, Capitan Harlock darà congedo. Il suo equipaggio tornerà sulla Terra, in modo che siano proprio loro i primi garanti della “fioritura” che Harlock sperava di rimirare per il suo pianeta natale. Lui, invece, con Meeme, la sua ultima ed eterna compagna, si dirigerà verso l’infinito, portando con sé quegli ideali di armonia ed uguaglianza che noi uomini, qui sulla Terra, non riusciamo ancora oggi a fare nostri.

 

Eppure basterebbe volgere lo sguardo verso il cielo e viaggiare, con l’ausilio della fantasia fino ai confini delle stelle, laggiù nelle zone sperdute dello spazio profondo, dove potremmo scorgere la prua di una nave che muove verso di noi, e una bandiera nera mossa dal “vento”. L’arcadia veglia, nonostante tutto, su di noi e continua a trasmettere quelle stesse ideologie romantiche mai sopite o dimenticate, e per tale ragione eternate nel cielo come costellazioni siffatte di luminosa e illuminata speranza.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Ryo e Kaori, disegnati da Erminia A. Giordano per CineHunters

 

E’ intrepido, affronta ogni avversità, è un duro ma…è dolce come il miele con le donne e poi, e poi le fa arrossire, perché lui è l’eroe della città… per caso lo avete letto cantando? Se siete fan di “City Hunter” non avrete potuto farne a meno. Quelli precedenti sono, naturalmente, i passi della sigla dell’anime, uno dei più amati mai trasmessi in Italia. Beh in quegli anni, l’animazione giapponese spopolava fino ai canali televisivi più remoti in cui, se eri abbastanza fortunato, potevi imbatterti in veri e propri appuntamenti fissi con Sampei, L’uomo-tigre, Lupin III, Ranma e infine proprio in…City Hunter. Ma prima di un’anime di successo, City Hunter è stato un manga, un’opera ancor più profonda della sua trasposizione televisiva.

Ryo e Kaori, disegnati da Erminia A. Giordano per CineHunters

 

City Hunter fu scritto e disegnato da Tsukasa Hōjō, un mangaka dallo straordinario talento artistico, capace di tratteggiare i propri personaggi con una vivezza realistica e una cura minuziosa del dettaglio estetico. I personaggi, ritratti splendidamente in tavole simili a quadri per la bellezza del disegno, sono il fulcro del lavoro del mangaka, il quale narra la storia attraverso il loro relazionarsi. L’introspezione è infatti preminente nel metodo narrativo di Tsukasa, che antepone la caratterizzazione dei personaggi alle vicende in cui agiscono. “City Hunter” è pertanto un manga “umano” che pone i personaggi al centro della scena, e le loro avventure non divengono altro che la punta di un iceberg…

“City Hunter” racconta la storia di Ryo Saeba e Kaori Makimura, che insieme formano “City Hunter”, un’organizzazione privata in cui i due possono essere contattati come guardie del corpo e, all’occorrenza, investigatori privati. Quasi tutti i numeri del manga sono autoconclusivi, e Ryo e Kaori si trovano, di volta in volta, a dover risolvere un singolo caso. Tale scenario investigativo, in verità, è soltanto la superficie della lettura, poiché dietro il riflesso del “caso” verrà alla luce il passato dei personaggi e le vere motivazioni che muovono il loro agire. Il cuore pulsante della storia è da ricercarsi nel passato di Ryo, che lentamente riemerge.

Ryo, il protagonista indiscusso del manga, è un cecchino infallibile e adopera sempre la sua arma classica, ovvero la Colt Python 357 Magnum. Ryo è altresì esperto nel combattimento corpo a corpo, ha dei riflessi fulminei e un udito estremamente sviluppato: riesce, infatti, a sentire il suono di un'arma anche a grandi distanze, ed è in grado di percepire immediatamente un imminente pericolo. Ryo è l'unico in grado di realizzare il leggendario "One Hole Shoot" che permette di colpire il medesimo punto con più proiettili.

Saeba guida sempre una Mini-Cooper rossa e, a volte, una Panda color smeraldo, la macchina della collega Kaori. Ryo può essere contattato solo scrivendo sulla lavagna della stazione di Shinjuku le lettere XYZ: le ultime tre dell'alfabeto, che rappresentano l'estrema risorsa per risolvere i propri problemi; tale ultima risorsa è Ryo Saeba.

  • La storia di “City Hunter”

Il passato del protagonista è avvolto nell’imperscrutato, egli stesso non conosce le sue origini e nemmeno la sua vera età. Sa solo che, da bambino, è sopravvissuto a un incidente aereo nell'America Centrale in cui trovarono la morte i suoi genitori; qui è cresciuto come un implacabile guerrigliero. Ryo venne allevato da Shin Kaibara, l'uomo che considera come un padre. Fu proprio Kaibara a dare a Ryo il nome Saeba. Kaibara fu tra i principali artefici della diffusione di un nuovo tipo di droga, capace di rendere gli uomini imbattibili: la Polvere degli Angeli. Egli testò questa potentissima droga proprio sul suo pupillo, Ryo, e gli effetti furono devastanti. Kaibara fondò in seguito un'associazione criminale spietata, la Union Teope, responsabile della morte di Hideyuki, il migliore amico di Ryo.

Ryo disegnato da Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Solo in età adulta Ryo si trasferì negli Stati Uniti, intraprendendo la sua professione attuale di investigatore privato e guardia del corpo, andando a vivere nel quartiere di Shinjuku, in Giappone, uno dei quartieri più pericolosi di Tokyo.

Ryo ha un fisico statuario, capelli neri e occhi del medesimo colore. Sebbene il suo aspetto fisico indichi che sia un uomo attraente, Saeba ha, per così dire, “poco successo” con le donne, per via dei suoi modi di fare da “maniaco”. Ryo non riesce proprio a contenersi quando si trova davanti a una bella donna, cominciando a riempirla di complimenti e a provarci spudoratamente, fino a far infuriare la collega Kaori. Saeba, letteralmente, impazzisce alla sola vista di un paio di mutandine o di un reggiseno, e alle volte viene colto in flagrante da Kaori mentre sbircia la sua biancheria. Questo lato piuttosto bizzarro del carattere di Ryo venne sfruttato dall’autore Tsukasa Hōjō per creare gag divertentissime che diverranno dei veri tormentoni per i lettori. Tali scenette comiche serviranno a stemperare la tensione dei casi più cupi e oscuri o dei momenti più drammatici per rendere maggiormente scorrevole la lettura. Il più grande tormentone del manga (e anche dell’anime) sarà proprio legato alle perversioni di Ryo, che tentando di “molestare” le donne che segue nei suoi casi, finirà per subire ironicamente le ire giustiziere di Kaori, che lo colpirà sempre con un gigantesco martello.

Ryo e Kaori dipinti da Erminia A. Giordano per CineHunters

 

La gag del martello è uno degli emblemi della serie e rispetta sempre un modus operandi che diverrà conosciutissimo: Kaori appare d’improvviso, quando oramai Ryo non può più far nulla per sfuggirli, e con fare intimidatorio materializza dal nulla un martello dalle esageratissime dimensioni (da 100 a 250 tonnellate) che scarica senza pietà sul corpo del povero Ryo. Alle volte, Kaori lo colpisce anche con materiali di svariata provenienza, che non fanno altro che accentuare il lato comico della situazione. Come non citare quando Kaori avvolse Ryo nel futon, lasciandolo appeso fuori dalla finestra per tutta la notte? Ryo, dal canto suo, sembra accettare sommessamente le punizioni di Kaori, forse perché sotto sotto sa di meritarselo

City Hunter - Ryo e Kaori disegnati da Erminia A. Giordano

 

Ryo possiede l’abilità di smorzare qualunque situazione gli si prospetti davanti, anche la più pericolosa, fermandosi di colpo per tentare di sedurre una delle innumerevoli donne che finisce per aiutare, ma quando emerge la sua vera natura, Ryo si mostra realmente come una persona molto sensibile, e al tempo stesso affascinate. Ryo è altresì sofferente quando ripensa al proprio passato a al dovere di “giustiziere” che grava sul suo destino; un dovere a cui non può in alcun modo sottrarsi. In Ryo quindi si incontrano due aspetti radicalmente diversi, che approfondiscono la sua misteriosa personalità: un’apparente superficialità che lo porta a desiderare solo donne prosperose e bellissime, e una sensibilità che nasconde. Ed è quest'ultima la vera essenza del suo essere, che verrà scoperta soltanto da Kaori.

“Una donna è in grado di innamorarsi per tutta la vita, io posso solo innamorarmi di tanto in tanto".  (Ryo saeba)

Maki, Umi, Miki, Saeko e Mick disegno di Erminia A. Giordano

 

  •  Ryo e Kaori

Il rapporto fra Ryo e Kaori è ricco di sfaccettature ed è il cuore della storia: dalla semplice collaborazione si trasformerà in un sentimento corrisposto di amore. Dal punto di vista di Kaori lo intuiremo ben presto, dalla parte di Ryo potremmo soltanto capirlo da qualche breve esternazione o un flebile gesto che farà nel corso della storia. Ryo è sempre pronto a rischiare la vita per proteggere Kaori, ma non sarà mai intenzionato a dichiararle i suoi sentimenti perché sa che la metterebbe in pericolo. Kaori è a tutti gli effetti l’unico punto debole di Ryo Saeba. Ryo sa che un giorno dovrà prendere una fatidica decisione: allontanare Kaori da sé, per sottrarla da una realtà fatta di pericoli e compromessi, oppure tenerla con sé, forse egoisticamente. Ryo tenta in tutti i modi di preservare la purezza caratteriale ed emotiva di Kaori, e infatti la pistola della giovane, appartenuta precedentemente al fratello scomparso, è stata manomessa da Ryo in modo che, quando la utilizza, non corra il rischio di “macchiare” la propria anima.

Kaori diventa l'assistente di Ryo dopo la morte di suo fratello Hideyuki. Kaori era la sorella adottiva di Hideyuki, poiché la ragazza era figlia di un malavitoso ucciso durante un inseguimento e venne adottata dalla famiglia di Hideyuki quando era ancora era molto piccola. Maki, l’affettuoso soprannome che Kaori aveva dato al fratello, era molto legato a lei e affidò in punto di morte a Ryo il compito di vegliare su Kaori. Nell’anime, Hideyuki è noto come Jeff.

Kaori nel manga è una ragazza sensibile e altruista, oltre che bellissima, nonostante cerchi sempre di nascondere la sue forme femminili con abiti che non fanno altro che svilirla.

  • Personaggi ricorrenti

Un personaggio ricorrente della serie è Umibozu, noto anche come Falcon, il cui vero nome è Hayato Ijuin. E’ un uomo nerboruto e gigantesco. Tra Ryo e Falcon è sempre esistita un’accesa rivalità, sin dai tempi della guerra, in cui combattevano su due fronti opposti. Non viene mai chiarito chi sia realmente il più forte tra i due. Nonostante il suo atteggiamento rude, Umibozu è, in realtà, una persona di animo nobile, e per contrapporsi al protagonista, è molto timido e arrossisce sempre in presenza di Miki, la donna che lo attrae e che in seguito diverrà sua moglie. Falcon lavora con Miki al “Cat’s eyeun bar appartenuto a tre sorelle che si sono trasferite da Tokyo. Si tratta di un evidente riferimento al mangaOcchi di gattoscritto e disegnato dallo stesso mangaka. Umibozu inizialmente soffre di una lieve forma di cecità, causatagli da un antico combattimento avuto con Ryo durante il periodo della guerra, e nel corso della storia diventerà cieco.

Un personaggio femminile ricorrente è la poliziotta Saeko, una seducente e bellissima donna che sfrutta il proprio fascino per assoggettare Ryo, promettendogli favori sessuali in cambio di missioni gratis al suo servizio. Saeko vanta una mira millimetrica nel lancio dei coltelli, che tiene nascosti nell'interno coscia. Nonostante rifiuti sempre Ryo, ella è in verità innamorata di lui come in passato lo è stata di Hideyuki.

Personaggio secondario ma dal grande spessore è il killer Mick Angel, antico compagno di Ryo con cui fondò per la prima volta City Hunter. Mick è un killer spietato, e ha un codice d’onore piuttosto peculiare: se deve eliminare un uomo, prima di ucciderlo, seduce la sua donna e la fa innamorare di lui, in modo che lei non debba soffrire troppo per la perdita del precedente partner. Mick Angel tenterà di uccidere anche Ryo, cercando di sedurre persino Kaori ma con scarsi risultati. Ciò che in verità accadrà sarà l’esatto contrario: lui si innamorerà di lei. Mick Angel perderà completamente la sua abilità nell’uso delle armi dopo un ultimo, disperato utilizzo della Polvere degli angeli.

Ryo disegno di Erminia A. Giordano

 

Tra gli innumerevoli avversari di Ryo merita una menzione la terribile BloodyMary. Mary sarà la sola a confessare a Kaori ciò che Ryo nasconde da sempre: un’origine che neppure lui può raccontare. Quando Kaori scoprirà che Ryo non conosce la sua vera data di nascita, sarà lei stessa a scegliere il 26 Marzo, data del loro primo incontro.

Nel corso del manga si susseguono episodi stupendi e veramente profondi come “Confessione in cielo”, “Un compleanno triste”, "Cenerentola in città”, “Un legame profondo”, “Una cicatrice dal Passato”, “Due strani tipi”, “Una foto tanti ricordi” e molti altri; è impossibile citarli tutti.

Kaori, disegnato da Erminia A. Giordano per CineHunters

 

  • Adattamento anime

L’adattamento italiano dell’anime di “City Hunter” ha una particolarità: nelle prime stagioni, infatti, vennero cambiati i nomi originali. Kaori divenne la rinomata Kreta Mancinelli e Ryo divenne semplicemente Hunter. Nelle stagioni successive vennero apportate ulteriori modifiche, restituendo i nomi originali ai personaggi. Nonostante la traduzione sia stata inizialmente infelice, il doppiaggio dell’anime fu sempre impeccabile. Le voci di Ryo e Kaori, rispettivamente Guido Cavalleri e Roberta Laurenti, oggi nota come Jasmine, furono meravigliose e perfettamente amalgamate ai personaggi.

Kaori disegnata da Erminia A. Giordano

 

L’anime di “City Hunter” traspone gran parte dei tratti erotici e sensuali presenti nel manga. L’attenzione smodata di Ryo per le belle donne è resa fino all’eccesso nella trasposizione televisiva, ciò non ha fatto altro che aumentare il carattere ironico della serie. Nell’anime però, per rivolgersi a un pubblico più ampio, i toni più oscuri e profondi del manga vennero ridotti. Ryo raramente indugia in riflessioni personali, non ripercorrendo il proprio straziante passato.

Fiore all’occhiello dell’anime, oltre a un’indubbia qualità del disegno e a una trama sempre all’altezza, è la colonna sonora. Temi intensi e suggestivi sono stati concepiti per l’adattamento televisivo del manga, e tra questi meritano una citazione: “Angel Night”, “Foot Steps”, “Without you” e “Mr private eye”.

Gli episodi di City Hunter vengono spesso conclusi con la melodia introduttiva del brano “Get Wild”.

Ryo e Kaori dipinto da Erminia A. Giordano per CineHunters

  • La fine di City Hunter

L’atto conclusivo del manga è il momento più commuovente, che vede Ryo e Kaori scegliere di restare “City hunter” per sempre. Finalmente si compie la decisione di Ryo. Egli, non potendo in alcun modo privarsi di Kaori, si “spoglia” di quella paura che lo stava consumando, il timore di poterla perdere, e decide di vegliare su di lei seguitando a restare al suo fianco.

Un tempo Ryo disse: "ci sono due cose che un uomo deve fare nella vita: restituire agli amici i favori resi e… amare la propria donna". Nel finale Ryo, innamorandosi perdutamente di Kaori, adempie a questa sua affermazione.

City Hunter disegnati da Erminia A. Giordano

 

Articolo e disegni a cura di Erminia A. Giordano

Redazione: CineHunters

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"Capitan Harlock" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters
  • L’uomo nell’anime: tra amori e doveri

Il personaggio di Capitan Harlock, nato dalla matita del mangaka Leiji Matsumoto, è un eroe romantico prima ancora che un uomo comune, di straordinaria levatura morale, ma pur sempre un uomo soggetto a dubbi e timori, a tentazioni e resistenze nel corso della sua eroica battaglia atta a proteggere la terra da un male che proviene da mondi remoti dello spazio sconfinato. Il tratto erotico, l’impronta tentatrice e la natura inebriante delle Mazoniane, le avversarie di Harlock, sono state tutte caratteristiche sottoposte a svariate censure negli anni Settanta, quando le reti italiane destinavano l’anime di “Capitan Harlock” ad un pubblico spiccatamente giovanile. Ne derivava quindi un ritratto piuttosto approssimativo delle tematiche più profonde sollevate da Matsumoto e Rintaro. La Space – Opera che doveva rappresentare la guerra di Harlock tra le stelle era, ed è tutt’oggi, soltanto la superficie; un pretesto narrativo per mettere in evidenza l’infamia di certi uomini, la superbia dei regnanti, la devastazione a cui, nel silenzio generale, andrà in contro il bene più grande che l’uomo possiede, la terra stessa, in un futuro distopico. Il popolo di Mazone non è descritto come un male assoluto, quanto piuttosto un male necessario, sorto dalla sofferenza di una stirpe priva di una dimora, scevra da un’identità. Harlock, in quanto essere dotato di un'umanità sconfinante, rispetta e comprende nobilmente le disperate richieste dei suoi avversari, privati del loro mondo e desiderosi di insediarsi sulla terra per sopravvivere, ma non può avallarle, pur disprezzando i governi del suo popolo, pur difendendo strenuamente quegli ideali che vengono calpestati dagli uomini al potere, coloro che si rifugiano velatamente dietro l’Arcadia a cui seguitano ugualmente a dare la caccia.

La tensione a cui il capitano è continuamente sottoposto si amalgama all’attrazione fatale delle donne Mazoniane, caratteristica unica dell’anime di Matsumoto. Harlock subisce il fascino, la tentazione sinistra di queste figure femminili venute dal remoto, a cui si oppone per salvaguardare la propria bandiera, simbolo di libertà per il proprio pianeta natale. Le donne ritratte da Matsumoto sono figure snelle ma ugualmente formose, apparentemente esili ma comunque forti, slanciate ed eleganti, dai grandi occhi affossanti (celebre l’episodio “Laura dagli occhi scintillanti”) e dai capelli lunghi e folti, i quali ornano il viso e, scendendo poi giù, destano i larghi fianchi. Più volte il protagonista sarà soggetto all’incanto e alle insidie delle donne che vorrebbero ucciderlo; per il personaggio, ai tormenti per la perdita dell’amata Maya, si sovrappone il desiderio di contatto, tenuto a freno solo dalla forza dell’astratto concetto di giusto e sbagliato.

Le Mazoniane bruciano alla loro morte con un inquietante processo di autocombustione, come a testimoniare che possano essere una maledizione passeggera o un’avviluppante fiamma imperitura che potrà consumare l’eroe se cederà alla passione. Un tale fuoco divampante potrà forse preservare il suo spirito se egli continuerà a vivere nella lunga menzione dell’unica donna che abbia mai amato. La censura ai tempi troncò di netto le parti più accattivanti, privando lo spettatore dell’affresco sequenziale che celebrava le connotazioni seduttive delle guerriere. Il momento più emblematico è però lasciato allo scontro finale, dove Harlock e Raflesia, la regina posta alla guida del popolo di Mazone, duellano ricalcando i più celebri aspetti dei combattimenti di cappa e spada.

Gli affondi delle lame alternano ferite sanguinose a tagli netti al vestiario, che finiscono per mostrarci, da un lato un protagonista ferito ma vittorioso, dall’altro una splendida e perfida avversaria sconfitta ma fieramente regale nel mentre si regge il costume con le mani; costume che mostra i tratti delicati e aggraziati delle forme fisiche e artistiche della donna. Harlock, dinanzi alla regina per la quale ha provato rabbia e rispetto nei due anni di lotte, percepisce comunque l’attrazione, come la stessa regina a sua volta. Due destini diversi, due lotte interminabili, due sentimenti così lontani ma cosi accomunati. Harlock, infine, trionferà per la terra, perdendosi nelle profondità dello spazio al termine della sua classica avventura, con ormai la sola presenza femminile a cui anela, quella di Meeme, perdurando a vivere tra le stelle nell’eterno ricordo dell’amata perduta, perché come per i più grandi eroi tragici a cui Harlock è chiaramente ispirato, l’amore per un’unica donna supera la morte e permane per sempre.

  • La leggenda nel cinema: tra simboli e bandiere

Per il regista Shinji Aramaki, che diresse il lungometraggio in computer grafica dedicato al personaggio, Capitan Harlock era una leggenda inafferrabile, un mito mai pienamente vivibile, una figura avvolta in un’aura intellegibile. Ecco perché sembra porlo sullo sfondo dell’intera vicenda del film, quella che dovrebbe avere il capitano come epicentro. Harlock non è più l’eroe romantico consolidato nella splendida serie classica, non si lascia andare a tristi lamenti suonando l’ocarina né subisce il fascino sinistro di una stirpe, il già citato popolo di Mazone, oramai non più presente in tale adattamento; l’obiettivo cambia drasticamente ed Harlock non è il centro della propria storia. Reca il peso di essere un simbolo, lo stendardo di un ideale. Harlock è un uomo maledetto, vecchio di oltre cento anni, caratteristiche del tutto nuove che elevano il personaggio al non semplice ruolo del “mito” piuttosto che del protagonista. In quel secolo di lotte, in quella vita dannata porta con sé ogni gloria delle proprie vecchie rappresentazioni. Aramaki non riprende la storia classica, non tratta del conflitto contro le Mazoniane, non affronta l’avventura della serie SSX né la cupa atmosfera dell’Endless Odissey. Egli omaggia, riscrive, volge l’attenzione verso la figura simbolica di Harlock, non su Harlock stesso. Lo spettatore vorrebbe stare al fianco del Capitano, combattere con lui, vederlo in prima linea, ma può farlo solo per poco e quando è il momento necessario. Harlock è “un’ebbrezza”, lo si cerca sempre con lo sguardo ma vive lì, riparato nell’oscurità.

Non possiamo concepirlo davvero perché egli altri non è che il simbolo e la personificazione dell’ideale che è stato in passato. Disposto a sacrificare se stesso e l’universo per restituire la terra come noi la conosciamo; la dannazione mista all’eroismo di colui che non si arrenderà mai. La libertà è sacrificio, anche. L’Harlock del film altri non è che una figura avviluppata nel misticismo. Non possiamo stare al suo fianco, noi vecchi fan, perché non è il capitano che conosciamo, è il suo ideale che “cammina”. Solo Meeme, la donna che gli è sempre stata vicina, può restare accanto a lui, solo il quarantaduesimo membro dell’Arcadia può conferire con lui. Nessun altro! Il passaggio di consegne finale reca il significato dell’intera opera: Harlock vivrà per sempre. Tale trasposizione cinematografica può venir apprezzata se compresa come un’opera celebrativa del mistero di Harlock, e credo che l’intento finale del lungometraggio sia quello di omaggiare un’icona, non intaccando una storia già vista ma virando su una nuova, complessa, articolata, fin troppo estenuante nel suo svolgimento; una storia devota all’omaggiare un eroe ineffabile, divenuto per l’appunto “leggenda”. La potenza visiva dell’intero film rende merito alla forza evocativa della bandiera di Harlock. E sul finale, quando il Capitano, lasciatosi andare seduto sul suo trono con accanto la fedele Meeme, sembrerebbe rinunciare e cedere alle sofferenze e piegarsi al dolore dell’animo umano… ecco che d’un tratto comanda alla nave di partire, perché ci sarà sempre e comunque un’altra “odissea”.

Capitan Harlock - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

Che sia uomo puro o leggenda incompresa, Harlock continua ad essere, a più di quarant’anni dalla sua prima apparizione, un eroe capace di convogliare in sé la debolezza umana e la forza mitologica.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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