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Ariel e Re Tritone - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

Tanto tempo fa, in un paese lontano lontano, una giovane principessa viveva in un castello splendente. Benché avesse tutto quello che poteva desiderare, la giovane era infelice, malinconica e riservata. Non era viziata, tanto meno egoista, figuriamoci se poteva essere cattiva. Era una persona molto diversa da quel principe a cui in origine si riferivano le parole introduttive con cui ho aperto questo mio testo e che ho voluto rivisitare per l’occasione. La fanciulla in questione era un’anima buona, una creatura delicata e sensibile. Il suo cuore si era già schiuso all’amore quando era appena sbocciata come ragazza…metà donna, metà pesce. La principessa non necessitava dell’intervento di una fata che ne maledicesse il suo corso, e la tramutasse in un’orrenda bestia per far sì che, attraverso l’esperienza catartica di una mutazione corporale, il suo animo si aprisse all’amore. La dama del mare cui faccio riferimento era uno spirito ricolmo di dolcezza. Eppure, desiderava andare incontro a una trasformazione. Mediante una magia, voleva mutare parte del proprio corpo, rinunciare alla sua bella coda pinnata per due esili, sia pure aggraziate, gambe umane; non voleva più le squame, ma solo una candida e liscia epidermide. Con le sue pinne non poteva ballare e questo l’addolorava. Si era stancata di nuotare, lei voleva semplicemente camminare.

  • I sogni di una principessa

Ancor prima di nutrire questo desiderio e di anelarlo con tutte le sue forze, la principessa era giovane e bella, e trascorreva le giornate nuotando attorno al grande castello scintillante che presiedeva il regno sottomarino nel quale viveva.  Quando smetteva di nuotare era solita soffermarsi ad osservare, con occhi interessati, la statua di un uomo. Si trattava di una scultura di pietra bianca finita nelle profondità del mare, venuta giù dall’alto, discesa da quello che per le creature del mare era il “cielo”, vale a dire una tavola azzurra che noi umani definiamo abitualmente “superficie marina”. Per le creature che vivevano negli abissi la superficie dell’acqua era un cielo sempre blu, poiché privo di nuvole. Come “un superstite”, quella scultura uscì indenne dal naufragio di una nave, o forse fu gettata volutamente da un’imbarcazione alla deriva, costretta a ridurre il carico per mantenersi sopra la linea di galleggiamento, un po’ come si crede che accadde a due splendide statue bronzee risalenti al V secolo a.C. e rinvenute per caso a pochi metri dalla costa nell’estremo sud dell’Italia.

Nessuno sapeva quale fosse il triste destino di quell’opera plasmata dalle sapienti mani dell’uomo, ma essa venne rinvenuta dalla principessa, la quale cominciò a rimirarla con devozione. Nei giorni a seguire, la giovane volle portare la statua nella sua aiuola, e sopra i sassolini che intanto aveva radunato per cingere la scultura, vi depose vistosi fiori rossi, come se nelle sue intenzioni volesse creare un piccolo giardino, in cui poter contemplare in solitudine la bellezza di quella creazione, immaginando d’essere in un luogo fuori dal tempo e dallo spazio. Quand’ecco che, un giorno, la nonna della principessa iniziò a reclamare a palazzo la presenza della cara nipote, finché la vide seduta comodamente sul fondale a rimirar ancora e sempre la scultura. La nonna avvicinò a sé la principessa e cominciò a raccontare a lei e alle sue sorelle i segreti e le storie della famiglia e del loro essere sirene.

La nostra principessa era a tutti gli effetti una sirena, ma poteva benissimo essere considerata ancora una bambina. Lei era la figlia più piccola del re dei mari. Andersen, nella sua fiaba, non ci dice molto circa la vita, il carattere e soprattutto l’aspetto del regale padre della protagonista del suo racconto. Sappiamo soltanto che il papà della sirenetta è rimasto vedovo. Il re del mare è una presenza lontana, che fugge dalle indagini di ogni lettore. Non viene per nulla figurato, eppure la di lui regale presenza indugia nella nostra immaginazione, come fosse un alone evanescente, “un’idea” solo accennata ma dalla valenza tale da essere quasi onnipresente. Nello scorrere della lettura, lavorando un po’ di fantasia e molto d’immedesimazione, si può provare a supporre cosa il re abbia provato durante la triste e straziante vicenda vissuta dalla più tenera delle sue eredi. Un fatale destino a cui il regale genitore non potrà porvi rimedio.

Alla nonna, sirena più anziana, spetta il compito di educare con saggezza e amore le proprie nipoti. La grande regina spiega alle fanciulle che le sirene possono vivere molto più a lungo degli esseri umani, ma quando la loro vita cesserà, non resterà alcunché di loro, e si dissolveranno in spuma del mare. Gli uomini, invece, possiedono un’anima, e possono raggiungere l’immortalità. La nonna, quando insegna ciò che sa alle sue nipoti, mostra un affetto sempre crescente per la più piccola di esse, perché intuisce la sua insoddisfazione. La sirenetta viene come investita, nel suo intimo, dal peso delle parole proferite dalla nonna: le si stringe il cuore ad immaginare ciò che l’attenderà un giorno. Lei non vuol morire. La sirenetta vuol avere in dono un’anima immortale.

Le sirene non possono salire in superficie se non dopo aver compiuto il quindicesimo anno d’età. La saggia regina, allora, soddisfa la curiosità delle giovani narrando antichi aneddoti relativi al mondo al di là del “firmamento” siffatto di marosi: il mondo degli uomini. Di anno in anno, al compimento dei tre lustri, ogni sirena nuota fino alla remota superficie per osservare, con le dovute precauzioni, ciò che si nasconde oltre i confini del mare. Mi domando se, al completamento di ogni viaggio iniziatico delle sue figliole, il re padre avesse provato il timore di poterle perdere. Magari in lui albergava la paura che gli uomini, passando da quel preciso braccio di mare a bordo dei loro maestosi vascelli, potessero scorgere una sirena emergere da uno spicchio d’acqua col suo tronco nudo. Il re poteva altresì inorridire all’idea che i marinai lanciassero le reti e tentassero di rapire una delle sue figlie. L’antico monarca avrà pur visto ciò che spesso gli uomini di mare “issavano” al di sotto della prua delle loro veloci golette: sagome di legno intagliate e dipinte che ritraevano sirene. “Le sirene per gli uomini non sono che esseri pericolosi, o prede da catturare e osteggiare…” - avrà supposto tra sé. Tuttavia, il padre delle sirene non poteva impedire loro d’essere libere, doveva lasciare andare le sue figlie, con la speranza di poterle rivedere.

Per sua fortuna, al loro ritorno, ogni sirenetta rientrava senza essersi imbattuta in alcun imprevisto. Tutte mostravano sempre diffidenza, ammettendo di preferire in tutto e per tutto quello che si poteva trovare in fondo al mar

Quando arrivò finalmente il suo momento, la sirenetta risalì i fluttui con il cuore palpitante di gioia. Nei giorni seguenti, la sirenetta continuò a nuotare in superficie, ondulando la sua splendida coda, saltando quando nessuno poteva vederla e rituffandosi in acqua solo dopo essere stata accarezzata dal vento. Una notte assistette persino a un temporale, e vide lo sfavillio improvviso di un fulmine che rischiarò il bianco di un iceberg che sostava in quei pressi. Fu durante quel fortunale che la sirenetta vide un vascello in balia della furia del mare, e un principe appena caduto tra le onde. Sarebbe morto se non fosse intervenuta lei. Lo salvò, lo condusse a riva e cantò per lui. La giovane sirena se ne innamorò al primo sguardo: lui era la personificazione di quella statua che aveva mirato per anni. La sirenetta è, adesso, mossa da un duplice desiderio che la rende forte e intelligente come nessun’altra tra le sue simili: è pronta a sacrificare se stessa pur di poter vivere un amore apparentemente impossibile, ed è anche pronta a trasformare il proprio corpo per sperare nell’immortalità: vuol diventare umana per poter amare e…vivere.

Quel giorno in cui la sirenetta incontrò il principe, il re dei mari, inconsapevolmente, cominciò a perdere sua figlia.

Ursula Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

  • L’amore di un padre

I connotati del volto del re non ci sono pervenuti. Andersen non volle soffermarsi a descrivere le particolarità di un viso regale quale doveva essere quello del sovrano dei mari. La concentrazione dello scrittore, quando compose i passi della sua fiaba, era rivolta soltanto a delineare la figura della sirenetta, la sua figlia più cara. Per Andersen la sirena era tanto una creatura partorita dalla sua mente quando una proiezione di una parte del proprio essere, del proprio vissuto e del proprio sofferto. Nella trasposizione cinematografica della Walt Disney, “La sirenetta”, il padre della protagonista necessitava di un’estetica ben definita. Gli artisti scelsero di disegnarlo come le fantasie comuni tendono a richiamare le sembianze dei grandi re del passato. Un sire non è tale se sul capo non porta con fierezza una corona d’oro e, ancora, se la sua fisicità non emana l’austerità regale dei grandi monarchi. Il padre della sirenetta del lungometraggio d’animazione è rappresentato come un solenne tritone, la cui fisicità promana un’aura di assoluta imponenza. Quel poco del suo volto che è visibile all’occhio, poiché il resto è del tutto coperto da una folta barba bianca, sono i suoi grandi occhi cerulei. Re Tritone brandisce tra le mani un tridente, simbolo per antonomasia del dio greco Poseidone, di cui forse Tritone è diretto discendente. Come nella fiaba, il re è sopravvissuto alla moglie, la regina Atena, perita, probabilmente, per mano dei pirati.

"Ariel al chiaro di luna" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

Nel film, Re Tritone è padre di sette figlie. La più giovane tra loro è Ariel, una sirenetta di sedici anni. Il padre appare agli occhi delle sirene come un genitore severo. Ciononostante, Tritone è molto legato alla sua famiglia, anche se fatica a comprendere il carattere di Ariel, molto riservata e estremamente attratta dal mondo degli uomini. Tritone ha posto un veto inviolabile: è severamente vietato avventurarsi oltre i sicuri confini del regno, tantomeno spingersi fino alle rive, presiedute dagli esseri umani. Ariel, all’insaputa del padre, è solita raccogliere oggetti appartenuti agli uomini, che rinviene tra i relitti, e li nasconde in una grotta in fondo al mare. Tra i tanti reperti custoditi c’è anche la statua bronzea di Eric, un principe scampato alla morte grazie al provvidenziale intervento dalla sirenetta e di cui lei ne è perdutamente innamorata. Quando il padre scoprirà il rifugio segreto di Ariel, avrà una reazione d’ira e distruggerà quanto potrà coi poteri del suo tridente. Ariel fugge via, impaurita dalla furia del genitore, per diventare un’umana e tentare di farsi amare dal principe.

Il re non ha mai dato un sufficiente peso alla passione che la figlia nutre per il mondo degli esseri umani, e all’amore che ella prova per il principe. Nel momento in cui punirà la figlia, annientando quei simboli che le donavano conforto in un mondo che non sente suo, Tritone si lascerà dominare da una rabbia apparentemente ingiustificata. Il re assume i contorni di un vile, di un cruento distruttore di sogni, ma invero egli è oppresso da un dolore recondito, esacerbato in lui dall’incomunicabilità che vige nel rapporto con Ariel. Il re non riesce a comprendere cosa stia avvenendo in sua figlia, e al contempo Ariel soffre l’incapacità di non riuscire a farsi capire pienamente dal padre. Tritone patisce una tremenda paura, si rende infatti conto che Ariel gli sta sfuggendo dalle dita senza che lui possa far nulla per fermarla. Ariel si allontana dalla presa protettiva del padre per imboccare una strada che la porterà laddove lui non potrà mai raggiungerla.

Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

Ariel è frapposta ad un duplice amore: quello provato da un re, un amore paterno, e quello ricambiato da un principe, un amore spirituale e carnale che la porterà ad abbandonare il regno del mare per vivere sulla terraferma. Il padre incarna così l’acqua, l’origine della sirenetta, il suo passato; il principe, invece, rappresenta la terra, il passo successivo nella vita di questa eterea creatura del mare, il suo futuro. Ariel nella sua “trasfigurazione” fisica sacrificherà una vita per abbracciarne una nuova. Lo farà rischiando tutto ma sospinta da un amore inesauribile che verrà compreso, solamente alla fine, dal suo adorato padre. Lui la osserverà seduta su di uno scoglio a pochi metri dalla riva, sconsolata, e in quel preciso istante capirà che dovrà lasciarla andare. “Nemmeno immagini quanto mi mancherà, Sebastian…” sussurra sommessamente il sovrano al suo granchio fidato dal “guscio” rosso, consigliere di corte e maestro d’orchestra.  A quel punto farà dono alla figlia della libertà: la trasformerà in una ragazza umana. “La sirenetta” della Walt Disney racconta, altresì, l’amore incondizionato e il sacrificio di un padre che permetterà alla sua piccola di andare via.

La saggia decisione attuata dal padre garantirà alla sua giovane figlia la felicità. Non potrà fare lo stesso il re dei mari nella fiaba di Andersen, il quale assisterà impotente alla morte della sua figlioletta e al suo progressivo disfarsi in spuma del mare. Il re, la nonna e le sue sorelle intoneranno una nenia funerea, prima di notare come l’anima della principessa abbia raggiunto l’immortalità, divenendo uno spirito dell’aria, quella stessa aria che la Sirenetta sentì per la prima volta sulla sua pelle quando emerse dagli abissi e rivolse le sue graziose gote al mondo circostante.

  • L’immortalità è nel cuore di un re

Ne “La sirenetta” della Disney, si intuisce come Ariel voglia molto bene al padre. La dolcezza con cui l’abbraccia, poco dopo essersi sposata con Eric, ne è una splendida testimonianza.  Re Tritone era riuscito a salvare la figlia, ma come la sua controparte letteraria, aveva perduto la propria compagna e doveva sedere accanto a un trono vuoto.

Personalmente sono solito immaginare Ariel mentre nuota verso il padre, sorprendendolo alle spalle con delicatezza mentre egli siede sul suo trono. Neppure in quei lieti frangenti, il grande sovrano cede la presa del suo tridente, come se il restare aggrappato alla sua arma gli doni un senso di sicurezza e serenità. Quella medesima quiete che ha perduto il triste giorno in cui scomparve la sua amata sposa. Sorridendo, nelle mie fantasie, Ariel accosta all’orecchio del re una conchiglia, e invita il padre a udire i suoni custoditi al suo interno. Il re non ascolterà la melodia dell’oceano fuoriuscire da quella conchiglia. Mi piace immaginare che sentirà il canto, soave e ammaliante, della sua indimenticata consorte. Seguito ancora a fantasticare che la voce melodiosa della madre di Ariel sia stata “catturata” da ogni conchiglia che giace nel castello del regno di Atlantica, libera di carpire il canto della sua regina e di serbarlo tra le fessure. Semplicemente accostando l’orecchio, ogni conchiglia potrà far riecheggiare i versi che Atena, spesso, intonava quando nuotava, così che Tritone riesca a sentirla ancora vicina a sé, aggirando il volere della morte.

In egual maniera, il re dei mari della fiaba originale potrà anch’egli sconfiggere la morte: quando risalirà su dal suo mondo sommerso, dovrà far sì che il suo viso si stagli oltre lo specchio delle acque e venga accarezzato da una lieve brezza. Sarà proprio la figlia tramutata in aria che, soffiando dolcemente, lascerà un bacio sulle purpuree guance del genitore.

La regina e la figlia, le due sirene, sia nella fiaba che nel cinema, non sono mai andate perdute: esse continuano ad esistere nel cuore di un re buono che vive in fondo al mar.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Era scesa la notte e una pioggia lieve cadeva giù dal cielo su di un bosco “addormentato”. “Pioggerella di primavera…” recitavano alcuni versi intonati dagli animali della foresta nel capolavoro della Walt Disney “Bambi”. Grosse gocce, simili a lacrime di rugiada, custodite dalle verdi foglie, si mescolavano all’acqua piovana che veniva giù disperdendosi nel soffice sottobosco. Un lampo nel buio e il sopraggiungere di un fragoroso tuono presagivano che la pioggia avrebbe aumentato la sua intensità. Quello a cui il piccolo cerbiatto Bambi assistette, spaventato, era per lui il primo pianto del cielo. Nulla faceva prevedere alcun temporale in quel momento in cui il sole volgeva al tramonto. Fu soltanto una “tempesta” di breve durata, l’indomani tornò la quiete. La primavera infondeva vigoria in ogni dove, e la prateria su cui poi Bambi avrebbe mosso i suoi primi passi era rigogliosa e piena di vita. E’ questo, dopotutto, che rappresenta la primavera: una natura viva, palpitante, ricca di colori e dall’impareggiabile bellezza.

La donna è primavera! Se dovessi concedere, o meglio attribuire alla figura della donna una delle quattro stagioni che cadenzano il ciclo annuale della nostra vita non potrei che scegliere la primavera. Fu proprio la stagione primaverile ad allietare e accogliere la nascita della più bella tra le donne cui fanno cenno i miti greci, colei che giunse dal mare.

Come riportato dalla Teogonia di Esiodo, a scuotere il mare e a miscelare il seme della vita con l’acqua salmastra fu un evento tumultuoso ed efferato (la morte di Crono), un accadimento violento e inaspettato, come il sopraggiungere di una pioggia torrenziale al termine di una gradevole giornata primaverile. Dalla spuma del mare fu generata Afrodite, la più bella donna su cui gli occhi dei mortali e degli dei avessero mai posato lo sguardo. Nello stesso nome greco fu contenuta, in parte, la sua peculiare nascita: ἀφρός - aphrós significa, appunto, “spuma”. Afrodite emerse dalle acque marine con la sola sua rosea e immacolata epidermide. Sempre nuda toccò, lievitando, la superficie interna di una grossa conchiglia schiusa, la quale resse la sua corporalità eterea. La nascita della dea venne esaltata dal Botticelli che eternò la bellezza della dea in una tela d’ineguagliabile raffinatezza artistica. Afrodite, in tale rappresentazione, si eleva e i marosi che increspano i confini della conchiglia paiano non riuscire neppure a sfiorarla. Zefiro desta in lei il soffio della vita immortale e un’oreade, che incarna la mutevole stagione della primavera, fluttua verso la dea nell’atto di vestirne il corpo con un mantello, ove sono impresse primule, rose e mirti. Venere intanto cerca di coprirsi con le mani salvo poi lasciare, forse volutamente, scoperto un seno. Soltanto le lunghe ciocche dei suoi folti capelli rossastri le coprono il ventre.

La nascita di Venere è sovente paragonata ad un’altra opera del Botticelli, ovvero “Primavera”. La magnificenza di Afrodite, dea della bellezza e dell’amore nonché canone classico e assoluto della bellezza femminile, è per l’arte pittorica metafora di primavera. Tradizionalmente, si potrebbe dunque affermare che la bellezza della donna è portatrice di una particolare grazia terrena che ha foce nella stagione ove la natura si ridesta. La primavera, con le sue brezze rinfrescanti, con quel suo clima mite, i suoi prati verdi e i fiori dai mille colori, dopo il gelo dell’inverno e le sue giornate limpide e terse, dona sollievo agli affanni, ravviva il paesaggio e offre speranza all’animo umano. La donna emana il suo fascino come il sole irradia i suoi caldi raggi, è dolce come un’arietta fugace che giunge da est, e sa essere forte come un ruscello che sgorga da una sorgente cristallina, e prosegue in crescendo fino a perdersi a valle in una calda giornata. La primavera è efflorescenza, nascita. Sono le donne ad essere garanti di un miracolo, e soltanto loro possono far germogliare la vita. Le donne rendono possibile la fioritura dell’esistenza, non soltanto attraverso l’atto del parto ma anche mediante le amorevoli cure che solo una madre sa rivolgere alla creatura che ama, ad un figlio, sia da lei stessa concepito o allevato come tale.

Come Afrodite, concepita nel racconto e proliferata nel mito fantastico, sono donne nate e vissute nella fantasia, nell’arte e nel cinema quelle di cui vorrei parlare.

"Jessica Rabbit", icona animata d'incontenibile bellezza e d'irresistibile seduzione. - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters. (Potete leggere di più cliccando qui)

 

  • Donne da ritrarre: con un pennello o una cinepresa?

Sebbene Botticelli non poté realmente contemplare dal vero la soavità di Afrodite così da ritrarla in una tela, egli riuscì a dare corpo e vivezza a una meraviglia da lui mirata forse in un sogno. Poté, lasciandosi trasportare dal richiamo della mente, tratteggiare le generose forme della dea, plasmare la naturalezza di un concepimento celestiale, e dare corporalità ad un essere spirituale. E’ in tal modo che ancora oggi, in un testo in prosa, in un componimento poetico o in un dipinto cerchiamo di rendere visibile l’idea di donna, tanto perfetta è la sua consistenza da meritare d’essere descritta, osannata e ritratta. La bellezza della donna è impossibile da includere in una descrizione estetica che possa fungere da illustrazione generale e assoluta. Tali bellezze travalicano le doti riassuntive di qualunque scrittore tenti anche solo di enumerarle. Che abbiano labbra pronunciate o sottili, che vantino forme prosperose o marcatamente ridotte, e che i loro volti siano cinti da capelli biondi, mori o scarlatti, la bellezza femminile fugge da concetti univoci, ed è sempre sinonimo di seduzione, intrigo, intelligenza, forza, caparbietà e astuzia. Tali caratteristiche estetiche e psicologiche hanno permesso di fare della donna soggetto ideale nell’arte e nel cinema di ritratti complessi e sempre differenti. Nulla è più bello di una donna! Come si tenta d’ammirare le impercettibili venature di colore lasciate da una pennellata su di un quadro impressionista, in egual misura dovremmo osservare le donne, e indagare i segreti eclissati nei colori dei loro occhi.

"Gal Gadot - Wonder Woman" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters. La supereroina DC Comics è l'emblema dell'eroismo femminile forte e indomabile. (Potete leggere di più cliccando qui.)

 

In quanti modi possono essere ritratte e pertanto ammirate le donne? Con colori a tempera o ad olio su una tela, con pastelli, a china o in chiaroscuro su di un foglio di cartoncino bianco. Altresì possono essere ritratte dal vivo, in quanto “vere”, filmate e immortalate tra i limiti scenici di una macchina da presa. Quanti ritratti di donne sono custoditi nel museo del cinema? Innumerevoli! Nella storia della settima arte il fascino di una donna dalla candida epidermide e dalla bionda chioma sedusse un colossale gigante nato su di un’isola e morto per lei in una fredda città.  Una giovane, vissuta nella povertà, poté beneficiare del dono di una fata per recarsi ad un ballo che si svolgeva in un salone regale e che avrebbe dovuto finire prima della mezzanotte. Ancora, una donna, da madre, si trasformava in una giovane e libertina teenager davanti agli occhi di un attonito figlio che aveva, inconsapevolmente, fatto un balzo indietro nel tempo. Il cinema fantastico ha raccontato storie di donne innamorate, una tra loro cadde addirittura preda di una maledizione che l’obbligava a trasformarsi ad ogni sorgere del sole in un falco. Ma la stessa arte filmica ha narrato le gesta di eroine audaci e indomabili. Come poter non rammentare la riccia Ellen Ripley, una delle più grandi eroine del cinema, quando affrontava con ardore la paura provenuta dallo spazio remoto in “Alien”. In una delle sequenze più sensuali, Ripley si liberava dei vestiti, restando solamente con una canotta striminzita e trasparente e un intimo che le copriva il ventre, prima d’indossare la tuta spaziale per combattere la creatura nota come Xenomorfo. L’erotismo sensuale di un corpo statuario femminile veniva amalgamato, nell’opera di fantascienza di Scott, con la furia combattiva di una donna vigorosa.

"Daryl Hannah è la sirena Madison" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters. (Potete leggere di più cliccando qui. E ancora cliccando qui.)

 

Ancora nel cult del 1984 “Splash – Una sirena a Manhattan”, Madison, una sirena dai lucenti capelli color oro, emergeva dai fluttui, irradiata da una luce di vaga provenienza. Madison era una donna eterea, che camminava sulla terra nuda come sospinta dalla brezza, e capace di compendiare nella sua essenza all’unisono il regno del mare e quello della terraferma. Ella è una giovane libera e straordinariamente intrepida, innocente e magnificamente romantica che accetta di sottostare a degli inevitabili e gravosi rischi pur di poter vivere un amore apparentemente impossibile con un umano. Sono queste figure femminili di un genere di narrazione fantastico ma abili a ritrarre su di esse i connotati di donne splendide, illuminanti e pertanto decisamente vere.

 

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Gli artisti più talentuosi, sin dai tempi antichi, hanno tentato di catturare la giovinezza della propria compagna e di trasfonderla in eternità. Alcuni di loro avranno voluto ritrarre la loro sposa più volte nel corso della vita, e avranno poi carpito la spontaneità di una ruga tanto da renderla testimonianza del tempo passato, di una vita trascorsa al fianco di quella stessa donna dipinta dapprima da ragazza e in seguito da consorte matura. Nel capolavoro di James Cameron “Titanic”, un ritratto, rinvenuto sul fondo dell’oceano e sfuggito alle gelide acque per circa 84 anni all’interno di una cassaforte, diventa prova ammirabile di un amore mai estinto, traccia di un passato che non ha mai smesso di possedere significato sul futuro della donna protagonista della storia. Il ritratto realizzato dal protagonista, Jack Dawson, ha reso eterna una bellezza di donna scrutata con rossore dall’amato per una notte soltanto. Nel cinema d’animazione, il disegno è divenuto mutevole, e il tratto, che dona movimento ad una figura, perpetuo.

"La sirenetta Ariel" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters. (Potete leggere di più cliccando qui.)

 

E’ certamente impossibile riuscire a parlare di tutti i personaggi femminili che presero vita grazie al volere di artisti e animatori nel cinema di genere. Mi sovvengono alla mente, in particolare, Ariel e Belle, rispettivamente de “La sirenetta” e “La bella e la bestia” della Walt Disney. La prima, una sirena che aspira a diventare una donna completa, un personaggio nato dalla proliferante e geniale mente dello scrittore Hans Christian Andersen, reinterpretata al cinema in una veste più ingenua ma adorabile. La sirena dai fluenti capelli rossi muove dal mare proprio come Venere, però non cammina su di una grossa conchiglia, ma nuota con la sua coda verde, non è nuda ma si serve di due conchiglie per coprirsi il seno. Belle, mora e dagli occhi castani, dama sognante, lettrice affamata di parole e insaziabile di libri, è colei che vede quello che l’apparenza occulta, ciò che la mostruosità nasconde.

Belle, col suo amore, salva la vita all'amato e spezza la maledizione. "La bella e la bestia" sono illustrati da Erminia A. Giordano per CineHunters. (Potete leggere di più cliccando qui)

 

  • Muse ispiratrici

La donna, intesa in senso lato, è stata spesso entità ispiratrice. Un’essenza ineffabile, specie per coloro che non poterono mai averla e idealizzarono la sua immagine. La sola rimembranza della donna amata e mai dimenticata ha scaldato il cuore di chi, volgendo lo sguardo alla luna, traeva ispirazione per comporre un sonetto o un canto poetico. Le nove muse della mitologia greca erano tutte donne e ognuna di esse preservava un campo specifico dell’arte. Erano le donne, ancora di fattezza divina, a instillare la dovuta ispirazione nel cuore dei poeti. Divenivano l’impalpabile mano che guidava il polso dello scrittore, la penna astratta intinta nell’inchiostro. Senza di esse l’arte, concepita come l’eterna magnificenza del divino, non poteva essere veicolata nel mondo dei mortali. Senza quelle donne, contornate d’immortale sostanza, la commedia, la tragedia, la musica, la danza e persino la poesia epica non sarebbero state trasfigurate dall’etereo al tangibile. Nella settima arte, nel cinema del Novecento e ancora in quello contemporaneo, la donna continua a mantenere lo status di musa per chi ha occhi per continuare a notarlo. A tal proposito, mi soffermo a pensare ad una sequenza in particolare de “Il postino”. Il protagonista Mario si è invaghito perdutamente di Beatrice, una donna notata in un’osteria del paese in cui vive. Il postino chiede allora al suo amico, un certo Pablo Neruda, di scrivere una poesia da poter consegnare alla donna. Mario, per quanto si sforzi, non si sente in grado di trascrivere, sotto forma di costrutto poetico, quello che sente per Beatrice. Il saggio Neruda, tuttavia, lo mette in guardia dalle varie “Beatrici”: esse fanno proliferare amori profondi, inestinguibili come fiamme ardenti che avviluppano. Per tale ragione, non possiamo non citare il destino dell’Alighieri.

Chissà se Mario avrà poi realizzato che le “Beatrici” sono anche le sole anime a condurci attraverso le porte del Paradiso, a farci calcare un suolo fatto di pascoli di nuvole, perché quelle donne che portano questo nome possono rivelarsi anime pure, terse e magnanime, come la donna per sempre amata da un fiorentino che risponde al nome di Dante Alighieri. Poco importa se lo ha ricordato, Mario viene completamente influenzato da Beatrice e, da lei ispirato, comincia a dedicarle poesie d’amore, versi traboccanti di sentimento, e carmi elogiativi. Conquista la donna con le metafore, quale ironia, lui, un uomo di umili origini che fino a poche settimane prima non sapeva nemmeno cosa fossero le metafore che ha imparato ad usare sotto l’influsso di una musa ispiratrice, posta a guida delle sue parole. Quando Neruda chiederà poi a Mario di nominare una delle tante cose belle della sua incantevole isola a lui non verrà in mente nulla da dire, eccetto il nome della sua innamorata: Beatrice Russo. Quanto una donna può ispirare un uomo, e può renderlo una persona migliore? E’ forse uno dei tanti insegnamenti trasmessi dalla poesia, parafrasata in questo lungometraggio.

I primi minuti di “Up” raccontano la storia d’amore durata un’intera vita tra Carl ed Ellie. La morte inaspettata della moglie getta Carl in un disperato sconforto. Sarà per lei che l’anziano e burbero signore deciderà di rendere concreto un sogno che i due covavano da tempo ma che non erano mai riusciti a render vero: raggiungere le Cascate Paradiso. Per “volare via con lei”, Carl lega centinaia di palloncini al tetto della loro casa, cosi da riuscire a sradicarla dal terreno e a farla volteggiare verso le Cascate. La donna, la quale ha lasciato un ultimo messaggio su di un album fotografico che ripercorre tutte le fasi essenziali del loro fidanzamento e del loro matrimonio, esorta l’uomo a vivere una nuova fase della sua esistenza. Ellie, dopo essere stata per Carl la sua sola compagna di vita, diviene anche la sua ispirazione a “volteggiare” via dalla normalità e a godersi una nuova avventura, vissuta con la stessa intensità di un tempo. Quella della donna è per Carl un’ispirazione talmente grande da sollevarsi dal suolo e volgere in alto verso il cielo azzurro come un palloncino variopinto gonfiato a elio.

Ma l’ispirazione che una donna può trasmettere in un uomo può assumere varie forme e albergare nel cuore in tutt’altri modi. L’ispirazione può fondersi con la motivazione in un connubio inscindibile. Il personaggio di Arwen Undomiel de “Il Signore degli anelli”, tanto nel romanzo quanto nella trasposizione cinematografica di Peter Jackson, nella quale ha assunto giustamente un ruolo di maggior spessore rappresentativo, è la figurazione dell’amore inteso come motore di vita, come spinta motivazionale necessaria. Senza il rinfrancante ricordo di Arwen, Aragorn non avrebbe combattuto con l’egual veemenza nelle battaglie che decisero il destino della Terra di Mezzo nell’opera di J.R.R. Tolkien. Se il ramingo fosse stato privato della possibilità di sposare la dama di Gran Burrone non avrebbe mantenuto la medesima fermezza nel voler ascendere al trono di Re di Gondor. Arwen è musa ispiratrice, incarnata nel corpo angelico di una elfo femmina di sublime beltà. Viso dolce e cinto da capelli corvini, guance delicate alla sola vista e somiglianti alla bianca porcellana, occhi cerulei come il cielo senza nuvole. Arwen è descritta come fosse un incanto, come se avesse reso tangibili le parole dei canti elfici che permettono a coloro che le ascoltano d’immaginare completamente le meraviglie che odono.

Oltre che meritevole di una bellezza adamantina, Arwen è, come reinterpretata dal regista neozelandese, donna audace, combattiva, in grado di fronteggiare con ardore cavalieri neri di tenebrosa natura. Arwen è una donna che rinuncia all’immortalità della sua razza per amore. Quanto coraggio può essere rinvenuto in un simile atto? Amare così profondamente da scegliere di vivere soltanto un’era del tempo degli uomini quando avrebbe potuto vivere per sempre. Cos’è l’amore se non la scelta coscienziosa d’accettare un sacrificio senza pentimento alcuno, per poter beneficiare di una gioia che si rivelerà essere ancor più grande?

Arwen rinuncia alla vita immortale per poter vivere una vita mortale, e dalla cessazione di un’esistenza eterna trova il modo di generare un’altra vita col proprio sposo, lei che, come mostrato nell’adattamento cinematografico de “Il ritorno del re”, appellandosi inaspettatamente al dono della preveggenza ereditato dal padre, ha veduto la vita dove sembrava campeggiare solo la morte. Arwen ha fatto germogliare l’amore per Aragorn e la vita per i suoi figli da un terreno arido e pertanto non fertile, oppresso dalla malvagità di Sauron. Ha portato luce scacciando l’oscurità. Per me una meraviglia femminile senza eguali.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Una sirena disegnata da Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Fasciame distrutto, remi trasportati dalle correnti, cadaveri abbandonati su delle assi di legno e infine un relitto fantasma, un tempo vanto e orgoglio della marineria, una possente nave che solcava le acque più burrascose, lasciato adesso navigare senza meta, a trovar riposo sottomesso al volere di Poseidone. Erano questi i tetri scenari che le Sirene lasciavano sul loro cammino nei passi della mitologia arcana. Esseri dalla cui voce nasceva un soave e ammaliante canto, che stregava chiunque lo ascoltasse, le sirene erano sensuali creature marine, e il loro corpo rappresentava una irresistibile seduzione per i marinai, che nella solitudine dei loro viaggi, cedevano alla follia del loro richiamo. Accecati nei pensieri, gli uomini tra le braccia delle sirene trovavano la morte e conducevano le loro navi alla rovina. Bellissime in viso quanto sinistre e diaboliche nella mente, le sirene erano degli ibridi ittiomorfi: straordinariamente femminile il loro volto e metà del loro corpo, dalla vita in giù, invece, una coda pinnata si dipanava oltre modo, consentendo loro di nuotare liberamente in mare aperto. Lunghi capelli ne cingevano il magnifico viso coprendo talvolta il seno nudo, mentre gioielli serpentiformi e monili dorati, certamente trafugati dai relitti, ne ornavano le braccia. La coda era imponente nonostante sembrasse leggerissima alla vista, quando veniva mossa con estrema naturalezza e leggiadria. Probabilmente nel solcare le acque talvolta strofinavano le code sul fondo del mare, catturando perle preziose che aderivano alle loro squame senza più staccarsi, fornendo alle sirene una lucente pelle riflettente. Nonostante tra le onde trovassero l’ambiente naturale nel quale muoversi perfettamente, le sirene riuscivano ed adagiarsi anche sulle rive, traendo conforto e piacere nello sdraiarsi sugli scogli, venendo accarezzate dagli schizzi dei fluttui che, scontrandosi con le rocciose pareti, bagnavano i loro corpi. Quando avvistavano una nave all’orizzonte cominciavano a far echeggiare il loro dolcissimo canto, e una volta che i marinai soggiogati indirizzavano le vele verso la loro isola, le sirene si immergevano in acqua nuotando verso la prua della nave. Lasciavano i loro corpi semi sommersi, mostrando solo il tronco nudo, generando così un turbinio di passione a tutti coloro che le osservavano attoniti. Nelle mente degli uomini quei melodiosi canti ricordavano quanto di più tenero e allettante i loro pensieri potessero rammentare: il sorriso di una madre perduta, la risata delle fanciulle di un tempo e il bisbiglio all’orecchio di una sposa lontana che invocava il marito, distesa su di un morbido letto. Gettandosi in mare i marinai ponevano i loro sguardi senza sosta alla disperata ricerca di quelle creature cosi incantevoli e belle, per nulla coscienti che in quegli istanti la loro fine giungeva implacabile dal fondo del mare: mani misteriose infatti afferravano le gambe degli stolti e li trascinavano verso una morte sicura. Sulle rive opposte, raccolti i corpi ormai privi di vita, le Sirene riempivano l’aria con l’eco di una nenia malinconica, sentenziando un mistico funerale di congedo.

E’ questa che ho raccontato con sentito trasporto la descrizione più classica del mito delle sirene. Una rievocazione descrittiva valevole fino al 1837, quando il genio letterario di Hans Christian Andersen rese partecipi i propri lettori di un capolavoro destinato a mutare per sempre ciò che si poteva immaginare sulle sirene. Non erano più soltanto creature sensuali e bellissime, seducenti e fatali. Le sirene con Andersen erano donne sognanti e innamorate, creature dall’animo puro e incontaminato, anime cristalline, capaci di amare incondizionatamente. Con la fiaba dell’autore danese, le sirene divennero universalmente conosciute anche come delle essenze femminili di armoniosa grazia.

Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Protagonista della fiaba più famosa di Andersen è una Sirena, o meglio, una Sirenetta, tanto gentile, tanto bella, ma anche tanto sfortunata. La storia della Sirenetta ha qualcosa che non si trova di solito nelle altre fiabe: non mette solo in moto la nostra fantasia, la nostra immaginazione, mette in moto soprattutto il nostro sentimento. Il nostro cuore soffre e si rattrista per la giovane Sirena così dolce e delicata, e così pronta al sacrificio. A un sacrificio che le costa la rinuncia al canto e alla parola e la costringe a una continua sofferenza fisica. Ella cerca la felicità nel mondo degli uomini e, quando si accorge che non può realizzare il suo sogno d’amore, diventa una magnanima dispensatrice di bene e d’affetto per colui che, senza saperlo, l’ha fatta tanto soffrire.

La Sirenetta per il suo modo di sentire, è veramente una creatura umana, appunto per questo Andersen ha immaginato per lei, come premio, come ricompensa, un’anima immortale. Una fiaba irreale per le vicende narrate, vicissitudini che sono fuori dalle nostre possibilità, ma sono reali per l’umanità dei personaggi e per i loro caratteri così vivi, così autentici, così veri. Basti andare con la mente alle scene in cui la Sirenetta pensa mestamente ai suoi cari: le sorelle che cantano un triste canto per averla perduta; il Re e la nonna che da lontano tendono il braccio sconsolati. Più che un particolare di una scena fiabesca, sembrerebbe una scena da figurarsi in un dramma, in una tragedia di quelle che creavano gli antichi Greci, tutti dominati dal sentimento di un destino doloroso, avverso che non si può vincere. Chi va a passeggiare lungo il mare che bagna Copenaghen può vedere su un grosso masso, accarezzato dall’onda che fluttua sommessa, una fanciulla di bronzo che guarda, seduta, lungo il lontano orizzonte. E’ il monumento alla Sirenetta, la soave protagonista dell’omonima fiaba.

Le fiabe Anderseniane hanno una grande ricchezza di motivi; improntati a una eccezionale immediatezza d’intenzione psicologica, si sviluppano in una narrazione sobria e limpida, inconfondibilmente ritmata, dove uomini e animali si esprimono in un mondo in cui è infranta ogni barriera tra realtà e fantasia. Scriveva Andersen: “io scelgo un tema per gli adulti e lo racconto ai bambini, tenendo presente che il padre e la madre ascoltano e bisogna farli riflettere un poco”.

Il vero carattere della Sirenetta è descritto da Andersen con dovizia di particolari, specialmente psicologici che di solito si riscontrano nei personaggi delle fiabe. L’autore ha voluto puntare alla ricerca delle emozioni e dei sentimenti del personaggio, creando una figura malinconica e sensibile, altruista e decisa, che nel corso della narrazione vediamo crescere e maturare. Una volta diventata persona umana la sua vita è un alternarsi di speranze e delusioni. Il principe, dal canto suo, la tratta come un trastullo, come un cucciolo a cui voler bene e la fa stare accanto a sé solo perché gli ricorda un’altra ragazza, quella che egli crede l’abbia salvato. Quando la Sirenetta scopre la vera identità della promessa sposa del principe sprofonda nella tristezza più cupa, e malgrado la sua angoscia augura ai due giovani ogni felicità, continuando a sorridere pur sapendo che allo spuntar del sole si trasformerà in spuma del mare. E poi quando le sorelle le mettono in mano il coltello con cui dovrà uccidere il giovane principe per salvarsi, la Sirenetta, raggiunge l’apice della sua umanità, gettando in mare il pugnale e affrontando così il suo crudele destino.

A differenza delle altre fiabe, che di solito si concludono con la famosa formula … “E vissero tutti felici e contenti”, nella Sirenetta siamo in presenza di un finale triste, sconvolgente, anche se intriso di profonda morale. In effetti la Sirenetta è solo apparentemente una fiaba, Andersen ha usato alcuni elementi del fiabesco come appiglio per narrare un’affascinante, ma di certo malinconica, storia d’amore.

Andersen impresse il proprio dolore su quei fogli di carta, la sua vivida sofferenza emotiva nella parole che rinarravano il triste fato della Sirenetta, perpetrando un finale dal distacco prostrante che innalzò a emblema imperituro di quel senso di profonda insoddisfazione che egli provava e di quel dolore che ne torturava l’animo.

La Sirenetta Ariel disegnata da Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Nel 1989 la Disney distribuì nei cinema di tutto il mondo “La Sirenetta”, il primo classico del cosiddetto “Rinascimento Disney”. Ispirato alla fiaba scritta da Andersen, il lungometraggio d’animazione mutò alcuni punti chiave della storia, donando alla protagonista, nel film battezzata con il nome di Ariel, che richiama lo spirito dell’aria di William Shakespeare, un lieto fine. Fortunatamente, permettetemi di scriverlo, sebbene la storia di Andersen sia assolutamente perfetta, un vero elogio alla sua fantasia creativa in grado di far riflettere sulla tragicità di una fiaba che mescola interpretazioni velate sulla realtà, il finale dell’opera è incredibilmente straziante. Un film che riadattasse il racconto restituendo alla Sirenetta un atto conclusivo sereno e felice fu un vero e proprio “dono” che la Disney offrì non soltanto alla sua protagonista ma a tutti i fan (come il sottoscritto) che amano la fiaba originale e che, pur rispettando il supremo volere dell’autore, provano un senso di profonda angoscia, memori di un finale dalla drammaticità devastante, e che grazie al lungometraggio Disney poteva adesso essere analizzato da una prospettiva tutta nuova.

“La Sirenetta” ebbe il merito di conferire nuova e preziosa linfa vitale alla Walt Disney, reduce da un periodo di magre consolazioni e modesti risultati di critica e di pubblico. Il film diretto da John Musker e Ron Clements fece da apripista al periodo di successi sfolgoranti che dureranno per tutti gli anni ’90: “La Sirenetta” fu a tutti gli effetti la “madre” che generò una luce nuova, chiara e raggiante che illuminerà la Disney per il successivo decennio.

Il film narra naturalmente la storia di Ariel, una sirena del mare, principessa degli abissi, figlia del Re Tritone.  Per disegnare il fisico slanciato e armonico della Sirenetta, gli animatori si ispirarono ad Alyssa Milano, famosissima in Italia come Phoebe nella serie tv “Streghe”. Ariel è una sirenetta di sedici anni dai folti capelli rossi, che nuota sul fondale marino insieme al dolce Flounders, un pesce color giallo e azzurro, e Sebastian, un granchio rosso, consigliere del padre e figura protettiva nei confronti della giovane. Ariel raccoglie spesso oggetti dispersi dagli umani in mare, ella è mossa da una profonda curiosità verso gli uomini, anche se il contatto tra le creature del mare e gli umani è assolutamente proibito dal regno da cui proviene. I canti musicali del film servirono per l’esposizione canora dei sentimenti dei protagonisti. Ariel canta i suoi desideri, ma anche i suoi sentimenti, poggiandosi su di uno scoglio e inarcando il proprio corpo all’indietro e verso l’alto, mentre la marea si scontra con la parete rocciosa: ella esprime il proprio volere di essere libera e intraprendere la vita che vorrebbe sulla terra insieme al suo amato. La protagonista anela a una libertà e canta tale volere in un modo che verrà, ad esempio, ripreso ne “Il gobbo di Notre-Dame”, quando Quasimodo canterà l’ardente desiderio di essere liberato dalla prigionia della cattedrale per uscire fuori. Le canzoni de “La Sirenetta” servirono altresì per tracciare l’amore che le creature del mare riservano al loro mondo nella celebre “In fondo al mar”, splendida melodia che traccia le meraviglie nella vita sul fondo del mare e le differenze rispetto ai pericoli del “mondo esterno.” “La Sirenetta” ebbe il grande merito di aver ripristinato le parti musicali come elementi essenziali e peculiari dei migliori classici Disney. Grazie alle proprie musiche il film vinse due premi Oscar, per la migliore colonna sonora e la migliore canzone, un qualcosa che si ripeterà più volte per le successive opere della Disney, che per le parti musicali impiegherà sempre sforzi massimi per garantire una resa sempre di altissimo livello.

Ne deriva un’immediata demarcazione adoperata nella storia della Sirenetta, ovvero quella tra il mondo degli abissi e quello al di sopra della superficie, ovvero quello degli umani. Se gli umani nutrono una curiosità prettamente scientifica verso ciò che è ignoto ed eseguono una ricerca per conoscere ciò che si cela tra gli abissi dell’oceano, Ariel, un essere per noi così unico e raro, così bello e incantato, desidera conoscere ciò che si trova al di là della superficie. Dal punto di vista degli spettatori è curiosa l’empatia che si sviluppa nei confronti della protagonista, una creatura “fantastica” che mira a voler diventare “normale”. Ariel, infatti, si innamora del principe Eric, un uomo che mira per la prima volta su di un’imbarcazione alla deriva e che salva da morte certa, portandolo fino alla riva e rincuorando il suo spirito dimesso cantando per lui. Eric non può vederla perché ha perso i sensi e conserva i suoi canti nel suo cuore e nella sua mente.

Se gli umani volessero nel profondo conoscere una realtà così magicamente possibile come quella in cui vive Ariel, ella, dal canto suo, desidera ardentemente diventare un’umana, abbracciare il nostro mondo e camminare con le sue gambe sulla superficie terrestre. Ne consegue una flebile interpretazione su come la conoscenza colpisca il sentimento ancor prima della razionalità, spingendo questi alle volte spiriti appartenenti a mondi opposti a volersi incontrare. L’avvicinamento tra Eric e Ariel è l’incontro tra due razze diversificate eppure così accomunate dal medesimo sentimentalismo che ci rende pressoché unici.

E’ curioso notare come l’incontro tra Ariel e Eric rimandi ai classici miti delle sirene cui facevo cenno inizialmente: Ariel emerge dalle acque verso una nave prossima ad affondare ma non è una creatura malvagia, pronta a uccidere i naufraghi. Ariel è una dama del mare d’impareggiabile bellezza e d’inconfondibile sensibilità emotiva. Il suo canto non è un’irresistibile manifestazione atta a stregare le sue prede, è invece un dolce conforto che ella riserva all’amato. Una diversità che cambia i classici approcci delle sirene dei miti rendendoli profondamente simili a quelli voluti da Andersen.

La sirenetta, pur di poter incontrare nuovamente l’uomo, stringe un patto con Ursula, la diabolica strega del mare, rappresentata nel film come una gigantesca piovra dal viso e dal tronco umano, che le dona le gambe privandola però della sua incantevole voce. Ariel dovrà farsi amare dal principe e dovrà riuscire a farsi dare un vero bacio poco prima che tramonti il sole al terzo giorno. In caso contrario sarà condannata a tramutarsi in un essere consumato, e unirsi ai tanti altri mutati in simili sembianze e ingannati dalla strega. Ursula è una piovra viscida dai tentacoli subdoli e pericolosi che sembrano rappresentare metaforicamente le brame di potere cui mira la strega del mare. Un essere in grado di catturare e assoggettare tutto ciò che lo circonda con l’oscurità delle proprie armi tentacolari. La strega del mare è un essere neutrale nell’opera di Andersen ma nell'adattamento cinematografico è l’antagonista principale della storia, dal riso sardonico e dalla fisicità corpulenta, uno dei cattivi più sinistri, e inquietanti mai realizzati dalla Disney.

Ariel incontra così Eric restando perennemente muta, non potendo comunicare con lui se non con i gesti e i suoi sguardi. Tra i due comincia a sbocciare un forte sentimento.

Ursula cova odio nei confronti della bella Ariel, e trasformandosi in umana, usufruisce della voce della Sirenetta per ingannare Eric, cancellandogli la memoria fino a convincerlo che la donna ad avergli salvato la vita sia stata lei. Eric sembrerebbe prossimo a innamorarsi della strega, condannando la povera Ariel a trasformarsi nuovamente in sirena.  Alla fine Ariel riuscirà a sconfiggere Ursula, e suo padre, mosso a compassione e colpito dall’amore provato dalla figlia, decide di trasformarla in umana. Eric, ricambiando l’amore di Ariel, la sposa a bordo della sua nave poco prima di partire verso l’orizzonte.

“La Sirenetta” fu un capolavoro animato che trattò splendidamente il tema del diverso e l’incontro tra due mondi attraverso un amore corrisposto e dal valore ineluttabile. Non solo il ritmo è cadenzato argutamente, e i personaggi sono caratterizzati a dovere, ma è lo sforzo nel ricreare un’animazione innovativa e dal dettaglio curatissimo che fece de “La Sirenetta” un classico di raffinata pregevolezza. Il tratto artistico con cui venne “dipinto” il mondo sottomarino fu una resa scenica di assoluta magnificenza che “immerse” gli spettatori tra i fondali di una realtà che avrebbero dovuto scoprire con tanta indiscrezione, nell’esatto modo in cui Ariel scopre lentamente il mondo che tanto desidera. Venne adoperato uno sforzo mastodontico per l’animazione, con l’elaborazione di oltre un milione di bolle ben visibili ogni qualvolta i personaggi parlano sott’acqua, ma è la luce la quintessenza della finezza e della ricercatezza nel ricreare la minuziosità del dettaglio scenico: come fosse un quadro di Caravaggio, non c’è dato vedere da che punto con precisione arriva il fascio di luce, lieve ma comunque abbastanza luminoso da rendere le profondità del mare ben visibili. I personaggi nuotano nei fondali, dove il buio dovrebbe essere preponderante, ma la luce seguita sempre a irrompere dall’alto, da più parti che possiamo soltanto immaginare. E nelle profondità sono i colori degli oggetti, della flora e della fauna marina a ravvivare l’ambientazione, come se le stesse creature del mare donassero vivezza e colore alle tavolozze artistiche del film. Nell’oscurità degli abissi gli esseri viventi sono i colori luminescenti capaci di esprimere la vitalità dell’esistenza in fondo al mar.

“La Sirenetta” della Disney, sebbene non conservi la drammaticità e l’impressione tragica del corso e del finale dell’opera letteraria, mantiene una decisa tensione emotiva e analizza con garbo e gentilezza un amore impossibile che diventa attraverso un percorso di rinunce, sofferenze e rischi, splendidamente possibile.

L’adattamento cinematografico della Walt Disney, oltre a poter essere naturalmente paragonabile a “La Sirenetta” di Hans Christian Andersen, poiché derivante dalla fiaba dello scrittore danese, può fungere da ultimo tassello del puzzle, e adempiere ad un completamento.

Personalmente immagino Ariel, viva e in salute, volgere il proprio sguardo sulla superficie dell’acqua rischiarata dal sorgere del sole mattutino, e in quei riflessi tra le onde, proprio in quell’istante, quando la brezza soffiando dolcemente le sposta i rossi capelli, ella riesce a rimirare il volto della Sirenetta di Andersen. Un viso che si delinea nei riflessi di un mare che trasfigura se stesso come fosse un portale su un’esistenza parallela. Entrambe nelle mie fantasie incontrano i rispettivi sguardi, e la Sirenetta, prossima a tramutarsi in spuma del mare può, per un solo e meraviglioso istante vedere “se stessa” felice e contenta, essendo riuscita a trovare l’amore che tanto aveva desiderato.

Poco prima di scomparire tra il movimento delle onde, la Sirenetta può avvertire il conforto che la “se stessa” di una realtà, poi non così distante, è riuscita a scorgere e vivere nell’amorevolezza terrena. Ariel può così anch’ella mirare la Sirenetta disfarsi in bolle, e comprendere quanto il dono che è riuscita a cogliere sia prezioso.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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