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"Arrival" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Domenica 4 marzo si appresta ad essere celebrata un’altra grande annata cinematografica: la notte della 90ª edizione della cerimonia degli Oscar si avvicina. E così, anche quest’anno, il solito quesito scalda gli animi dei cinefili sparsi per il mondo: quale pellicola strapperà la statuetta più ambita, quella per il miglior film? In attesa di scoprire tutti i vincitori dell’edizione del 2018, vorrei invitarvi a fare un passo indietro e seguirmi in un breve viaggio a ritroso nel tempo. Supponiamo d’inserire sul cruscotto della nostra DeLorean una data ben precisa, sfrecciamo via a tutto gas fino a raggiungere la velocità di 88 miglia orarie, così da innescare il flusso canalizzatore e mandare il tempo indietro di soli 12 mesi per riscoprire un lungometraggio di fantascienza che ha lasciato un’impronta indelebile.

Lo scorso anno “La La Land”, il musical capolavoro di Damien Chazelle, si presentava alla notte degli Academy Award come grande favorito, potendo contare su 14 candidature. Che record! “La La Land” aveva eguagliato il numero di nomination stabilito in precedenza da “Eva contro Eva” e da “Titanic”. Alla fine, “La La Land” otterrà 6 premi Oscar, mancando (con clamorosa beffa) quello al miglior film. Tra i lungometraggi candidati figurava una pellicola di fantascienza dal titolo “Arrival”. “Arrival” vantava 8 nomination, tra cui quelle per la miglior regia, la migliore sceneggiatura originale e, naturalmente, quella al miglior film. Di quella sera rammento distintamente che ogni qualvolta venivano letti i nomi degli interpreti, ciascuno nominato per categoria, puntualmente partivano, sia pure accennate, le sequenze di “Arrival”. Ciò mi dava l’impressione che l’opera diretta da Denis Villeneuve non fosse stata considerata sufficientemente. Fioccavano le candidature, e in quei magici frangenti era successo di tutto, ma “Arrival” nulla, mancava tristemente la vittoria. Avevo come la sensazione che il film di Villeneuve rimanesse in silenzio, con un alone di astratta e impalpabile consistenza, in un angolo della grande sala cerimoniale. Immaginavo l’essenza stessa di “Arrival”, come se essa “osservasse” con compostezza la situazione, “guardasse” gli altri vincere e mantenesse uno stato laconico d’accettazione. Si lascerà andare solo a un flebile suono, concederà, a chi pone l’orecchio per ascoltare un suo grido liberatorio, soltanto un gemito d’appagamento quando, finalmente, otterrà una vittoria nella categoria del miglior montaggio sonoro.

Arrival” aveva fatto breccia nei cuori degli appassionati del cinema sci-fi, ed aveva, per certi versi, effettuato una rivoluzione nel genere fantascientifico contemporaneo, ma ciò non era bastato per far invaghire la giuria e spodestare film di altrettanto valore. E così, ebbi l’impressione che “Arrival” acconsentisse al proprio fato con dignità, senza voler esternare alcun clamore, senza dir nulla. Perdonate qualche azzardo metaforico, ma “Arrival” non riuscì a comunicare quanto avrebbe voluto a chi scelse di conferirgli un solo premio. Troppo poco per un’opera di tale rilevanza. Per l’Academy, “Arrival” non fece clangore, cadde in un inaspettato silenzio. Un qualcosa di paradossale se ci soffermiamo un momento a pensare al valore che il lungometraggio infonde al linguaggio e alla stessa comunicazione. Forse “Arrival” non poté dire la sua agli Oscar, malgrado le svariate candidature, e ciononostante parecchie emozioni e altrettante riflessioni riuscì a destare nel cuore e nella mente di chi, come me, questo film ha imparato ad amarlo sin da subito.

  • Il dono di un incontro

Steven Spielberg aveva posto per primo l’attenzione sul tema nel suo “Incontri ravvicinati del terzo tipo”. Visitatori, noti comunemente con l’appellativo di “alieni”, giunti da remote e imperscrutate regioni dello spazio profondo, discendevano sulla Terra per stabilire un contatto con la razza umana. Quelle filmate da Spielberg erano forme di vita intelligenti ma soprattutto pacifiche. Nel 1977, Spielberg infuse il proprio estro innovativo alla settima arte, ridisegnando i canoni della fantascienza incentrati sul tema dell’incontro-scontro con creature extraterrestri. Gli alieni, con Spielberg, vennero finalmente rappresentati come esseri mossi da una curiosità prettamente scientifica, creature senzienti e perfettamente in grado di provare sentimenti. Corpi estranei ai nostri ma dotati di un intelletto e di una sfera emotiva del tutto simile a quella umana. Gli extraterrestri non erano più interpretati come una minaccia, una forma d’esistenza ostile e pericolosa, alimentata dall’ambizione di conquista o dal desiderio predatorio di uccidere l’essere umano, preda primitiva e inferiore. In “Incontri ravvicinati del terzo tipo”, gli alieni raggiungevano il nostro pianeta per scambiare informazioni, per donarle e acquisirle loro stessi, in uno scambio equo e simbiotico con il nostro popolo. Tutto questo era necessario per scoprire, per comprendere, in una sola parola, per comunicare. L’incontro ravvicinato tra l’uomo e l’extraterrestre ricevette, in tal caso, una rilettura positivista che conferì a questo straordinario accadimento la valenza di un evento raro e per questo importantissimo. Tale incontro fu una risorsa conoscitiva tanto per l’uomo quanto per l’alieno. L’incontro tra la razza umana e la razza aliena è dunque un’opportunità da cogliere, un dono reciproco per entrambe le specie, e da questo “pegno” scambiato, entrambe le razze poterono trarre una conoscenza d’inestimabile valore. Ma, e qui sorge il dilemma trattato da Spielberg, come si potrebbe comunicare con una razza aliena? Come dovremmo stabilire un primo contatto, proseguire un approccio comunicativo e poter carpire i significati nei messaggi pronunciati da una razza così diversa dalla nostra? Serviva un linguaggio universale. Per Spielberg fu la musica!

Gli uomini rispondevano alle sequenze emesse dagli UFO utilizzando le note musicali. E in egual misura, l’immensa astronave madre dei misteriosi visitatori riproduceva, di tutta risposta, le note emesse in successione dagli uomini e associate a fasci di luce cromatica. Un’intesa basica stabilita con la melodia e con il bagliore della luce e del colore: un atto comunicativo primordiale tra due razze estranee che cercano di capirsi vicendevolmente. Ma se dovessimo davvero cercare di comunicare attraverso un incerto linguaggio e tentare di decifrare i simbolismi di un idioma a noi sconosciuto, come dovremmo realmente agire?

  • Il dono della comunicazione

Arrival” parte dal suddetto interrogativo per sovvertire le leggi tradizionali della fantascienza, e porre un’attenzione complessiva sull’importanza della comunicazione in quanto mezzo necessario d’espressione e di comprensione. Protagonista della storia è la linguista Louise Banks (una splendida Amy Adams), la quale viene convocata per far parte di una squadra d’élite, istituita per cercare di comunicare con una specie aliena. Astronavi d’origine extraterrestre sono, infatti, atterrate in alcuni punti della Terra, e Louise ha l'incarico di chiedere agli alieni che si trovano sul sito d’atterraggio del Montana da dove provengano e se le loro intenzioni siano pacifiche.

Nella sequenza d’apertura di “Arrival” viene mostrato una sorta di prologo introduttivo, in cui si susseguono alcuni anni di vita di Louise e sua figlia, Hannah, fino al giorno in cui la giovane morirà a causa di un tumore. Al termine di questa drammatica sequela d’immagini, Louise, intenta a tenere una lezione all’università, verrà selezionata dal governo statunitense.

La comunicazione è vita. Qualunque forma di comunicazione costituisce l’essenza vitale di una persona. Tutti noi comunichiamo di continuo, anche quando non ne siamo prettamente coscienti. Il nostro corpo comunica qualcosa, i nostri gesti accentuano il nostro parlato e spesso espletano una comunicazione non verbale che può essere incerta e contraddittoria, persino i nostri sguardi esternano un interesse e, altresì, una concentrazione. Comunicare non significa soltanto esporre a parole ciò che intendiamo. Le persone sprovviste del dono della parola riescono ugualmente a comunicare, naturalmente, con il linguaggio dei segni. La comunicazione non possiede limiti e per questo lo studio di essa viene condensato in una branca della scienza apposita. La comunicazione ha molte forme, e viene utilizzata costantemente. Tutto è comunicazione!

In un semplice messaggio rilasciamo un’intenzione comunicativa, il più delle volte chiara ed evidente. In un copione teatrale occultiamo nelle parole che dovranno essere pronunciate da personaggi fittizi, e celiamo, dietro le frasi dei monologhi emessi da un solo protagonista, i nostri pensieri a cui diamo una forma d’espressione calata in un contesto immaginario ma destinato ad un pubblico quanto mai vero. L’arte stessa è comunicazione. Un’opera scultorea veicola nella propria estetica il volere comunicativo plasmato ed eternato da un artista, che ha immortalato il significato agognato in una posa evocativa. Ancora, la musica è comunicazione, ritmata e melodiosa, e in egual modo la poesia è essa stessa comunicazione, strutturata in versi e cadenzata in rime. Si tratta, in tal caso, di una comunicazione che fa del linguaggio uno strumento privo di catene, libero di librarsi, scevro da costrutti linguistici. La licenze poetiche garantiscono agli scrittori di piegare la lingua al proprio estro scrittorio, d’ignorare una regola categorica e mutarla in un dolce suono voluto dal poeta per richiamare, con il proprio stile, un’idea o un’emozione. Comprendiamo così come la comunicazione sia in grado di raggiungere vette d’espressione artistiche illimitate e che la lingua può divenire uno strumento, un espediente fatto proprio e “ridisegnato” secondo le proprie intenzioni, in grado di dare forma, fattezza immaginabile e significato a un sentimento.

Anche un film garantisce un’azione comunicatoria. Oltre ad una trama in grado di generare una morale, persino una singola scena possiede l’abilità di diffondere uno o più significati. Si tratta della cosiddetta comunicazione simbolica, mediata dalla scenografia, della costruzione scenica sapientemente orchestrata per trasmettere un messaggio da dedurre, il quale può essere colto solo con una dovuta attenzione. In tal modo, “Arrival” veicola le proprie riflessioni esistenziali. La comunicazione si propaga illimitatamente, e nel linguaggio trova terreno fertile per trasmettersi senza confini. La comunicazione preminentemente trattata da “Arrival” si concentra proprio sul linguaggio, di fatto, sulla comunicazione linguistica. Mai nessun film di fantascienza ha dato un peso così grande al linguaggio e all’importanza della comunicazione basilare. Louise, nel primo capitolo di un suo libro, ha scritto che la lingua è il collante sociale fondamentale per ogni società sin dagli albori. Nella nostra lingua sono da ricercarsi le radici della nostra appartenenza sociale. Cosa saremmo senza la nostra lingua? Saremmo forse spogliati dalla nostra identità?! E’ la lingua che ci mette a disposizione la possibilità di formulare e predisporre le idee, sono le sue strutture, il suo dizionario, il suo senso cromatico, tutti elementi che modellano la nostra visione del mondo. In una società dominata dai mezzi di comunicazione, conoscere la lingua, nel nostro caso, la nostra meravigliosa lingua italiana, vuol dire servirsi di quelle regole celate che determinano l’esito di dialoghi, conversazioni, discorsi. La nostra lingua italiana, dall’alto della spontaneità dei sentimenti che esprime, dalla raffinata perfezione dei propri lemmi, dall’eleganza di uno stile tutto suo, appare, oggi più che mai, indomita, con i suoi continui neologismi, tanto da sembrare un vero fiume in piena. Una lingua, quella italiana, capace d’assurgere alla medesima finezza del latino, da cui deriva.

Il linguaggio è il filo conduttore che permette il rapporto con gli altri e rende possibile che l’uomo, da essere individuale, si trasformi in elemento sociale. Noi siamo le nostre parole. Il linguaggio ci rispecchia, influenza il nostro modo di agire, il pensiero, l’essere semplicemente noi stessi. Pensiamo nella nostra lingua prediletta, ragioniamo con essa, esplichiamo le nostre considerazioni con l’ausilio del verbo. E’ Louise stessa a spiegare che esiste una teoria, chiamata dai linguisti “Ipotesi di Sapir-Whorf”, che afferma come la lingua che si usa è in grado di influenzare i pensieri, "riprogrammando" la nostra mente.

Il primo incontro che Luoise ha con gli alieni è intenso e spiazzante. Gli extraterrestri hanno una stazza gigantesca e somigliano ad enormi calamari, i quali deambulano sulla terraferma con sette arti tentacolari. In virtù di quei sette imponenti tentacoli vengono chiamati dagli uomini Eptapodi, termine di derivazione greca. Louise incontra due Eptapodi che si mostrano alla donna al di là di una barriera trasparente. Attorno alle loro mastodontiche sagome vige una nube fosca, ed essi, sebbene camminino sul terreno, dimostrano di sapere, al contempo, “volteggiare” su quell’immenso spazio nemboso, come se fossero rivisitazioni di creature del mare in grado di nuotare in un oceano caliginoso. La prima forma di comunicazione a cui Louise assiste è di tipo verbale: gli alieni si esprimono con ciò che definiremmo ingenuamente come un “verso”. La sfera fonetica è il primo approccio linguistico che la protagonista ha con queste forme di vita extraterrestri. Data l’impossibilità di decodificare e tradurre il “parlato” di questi misteriosi esseri, Louise cerca allora un approccio scritto. Anzitutto, come precisa la protagonista, per comprendere cosa vogliono dirci gli alieni – “Prima dobbiamo essere sicuri che capiscano che cos'è una domanda, quindi la natura di una richiesta, informazioni insieme a una risposta. Poi dobbiamo chiarire la differenza tra 'Vostro' riferito a loro due e 'Vostro' più in generale, perché noi non vogliamo sapere perché 'Mister' alieno è qui; vogliamo sapere perché sono atterrati tutti; e 'scopo' richiede la comprensione di un'intenzione, dobbiamo scoprire se fanno scelte consapevoli o se la loro motivazione è così istintiva che non capiscono affatto una domanda con un "perché"; e il punto più importante è che dobbiamo avere un vocabolario sufficiente per poterne capire le risposte.” – conclude la dottoressa.

Il più semplice e pertanto il più spontaneo scambio linguistico tra un emittente e un destinatario, strutturato con una proposizione interrogativa e una conseguente risposta, assume un valore profondo. E’ la lingua stessa, nelle sue partizioni elementari, in “Arrival” a meritare una riscoperta da parte di tutti noi. Il film inscena un’analisi che verte sul passato, che vuole farci riflettere sulla questione dell’origine di una lingua che ognuno di noi parla e sull’evoluzione che quella stessa lingua ha subito e perpetrato essa stessa al fine di aiutare gli uomini a comunicare, a svilupparsi e, infine, a vivere.

Nel suo relazionarsi interlocutorio con gli alieni, Louise scoprirà con sorpresa che i due esseri sono in grado di secernere del liquido scuro da una delle loro “zampe”, così da tracciare un’immagine visiva della loro lingua scritta. E’ come se dalle terminazioni dei loro arti fuoriuscissero gocce d’inchiostro, quello stesso inchiostro che noi umani utilizziamo per trascrivere il nostro parlato. Quelle apparenti macchie d’inchiostro, formandosi sulla barriera, rendono visibili idiomi simbolici a carattere circolare. Tutti i simboli del linguaggio alieno scritto sono contenuti in una circonferenza e testimoniano la circolarità di un moto infinito. Il linguaggio degli extraterrestri appare così come un andirivieni perpetuo. Con l'aiuto dello scienziato Ian, con cui svilupperà un forte sentimento, Louise inizia ad analizzare i simboli fino ad apprendere un vocabolario di base.

  • Il dono della vita

Quando Louise ebbe una figlia, decise di chiamarla “Hannah”. La particolarità del nome è quella di essere un palindromo. La stessa lingua aliena è palindroma, e questa peculiarità richiama la circolarità della loro comunicazione. Ciò che gli alieni hanno deciso di donare alla razza umana è la loro stessa lingua, la capacità di poterla apprendere così da “pensare” come loro. Nella lingua aliena è custodito un grande potere: quello di percepire il tempo futuro. Nel crepuscolo di una “proposizione” si riscopre il principio, nell’ultima parola di una frase si scruta la prima parola che l’apriva, e così nello scorrere del tempo futuro si rivive anche il passato nell’attimo presente. Dopo aver svelato il mistero, gli alieni prenderanno congedo. La lingua scritta degli alieni sarà suddivisa in una grande mappatura e offerta agli uomini nei rispettivi siti d’atterraggio sparsi per il globo, così da esortare le società dei paesi di tutto il mondo a collaborare e ad unirsi pacificamente per studiare un bene talmente prezioso.

Gli spettatori, senza rendersene conto, hanno vissuto mediante “Arrival” un’esperienza somigliante a quella della protagonista. Inizialmente, tutti noi abbiamo osservato il futuro e abbiamo continuato ad avvertire gli influssi di un simile potere durante lo scorrere delle visioni, credendo di scorgere immagini di un passato quando invece erano cristalline sequenze di un prossimo futuro. Quel prologo introduttivo, in cui Louise viveva i suoi anni più belli con la figlia, era soltanto una visione di ciò che dovrà ancora accadere. E così noi umani, perdonatemi, intendevo dire noi spettatori, ancor prima di cominciare a studiare il linguaggio alieno, abbiamo sperimentato il suo immenso potere: osservare il futuro e viverlo col senso della vista nel momento presente. Sarà in tal modo che Louise scoprirà che la sua amata bambina, la figlia che ancora non ha concepito, morirà. Ancor prima di dare la vita, una madre saprà dell’infausta sorte della propria creatura. Una fine che si lega al principio. Pur cosciente dell’atroce dolore che ella proverà, Louise decide di accettare comunque il proprio destino, innamorarsi di Ian e partorire la loro unica figlia. E’ la forma più alta di amore assoluto: dare la vita a una creatura che sapremo già di poter custodire tra le nostre braccia per un tempo maledettamente esiguo.Arrival” celebra la bellezza di un singolo istante, di un breve ma palpitante momento, di un giorno vissuto con pienezza, di una vita breve ma goduta con assoluta intensità. In “Arrival” il tempo, così particolarmente analizzato, viene glorificato. La vita per Louise non sarà un viaggio da scoprire ma un percorso da vivere, da valutare in ogni sua più impercettibile sfaccettatura. Anche se la sua bambina sarà condannata da un fato avverso e inaccettabile, la madre, che ha scelto di tollerare ciò che per lei sarà sempre intollerabile, ha preso una decisione coraggiosa, ponderata e cosciente: permettere ad una bambina che si fermerà solo all’adolescenza di aprire i suoi occhi al mondo e vivere finché le sarà concesso. Una scelta egoistica? No, un dono! Il dono della vita, di un’esistenza vissuta nell’amore.

Potrà aver mancato qualche statuetta dorata, potrà pure aver taciuto in quella magica serata ma quanta emozione, quanta riflessione è riuscito a comunicareArrival”! Il suo “approdo” nel cinema ha generato un suono soave, e il suo “atterraggio” un canto ammaliante accompagnato da una melodia incantatrice. Le protratte e meditative inquadrature di Villeneuve hanno permesso il parto di una riflessione intima e soggettiva in chi ha avuto il piacere di osservarle. Gli scenari fantascientifici, la superba fotografia e la scenografia particolarmente curata hanno fatto proliferare in noi più di un pensiero, più di un ragionamento, dettato dal cuore ancor prima che dalla mente, riservato all’importanza di un singolo giorno da vivere. Nei suoi dialoghi, nella sua costante attenzione sul tema del linguaggio, “Arrival” ha comunicato insistentemente, anche con uno sfondo inanimato, anche con un simbolismo incomprensibile, reso dal vissuto della protagonista, straordinariamente comprensibile. “Arrival” è comunicazione in ogni sua forma, perché riesce a “parlare” con le espressioni introverse della protagonista, con le valenze gestuali di un singolo personaggio. Tutto è comunicazione in “Arrival”, tutto ha un valore analitico. E’ una poesia visiva, un madrigale d’amore rivolto alla comunicazione, al linguaggio, alla vita di ogni giorno e all’amore più grande e puro: quello di una madre.

Arrival” è una meravigliosa parabola introspettiva dell’esistenza. Un’opera che comunica con il simbolismo di un normale, semplice cerchio: il cerchio della vita.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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