
- Donne e madri
Chiome lunghe o corte ammantano i loro volti, occhi dei più variegati colori adornano i loro lineamenti. Esse hanno voci tanto diverse, talvolta fioche, smorzate, talvolta acute e calde.
Cos’è una madre?
Nel linguaggio corrente, non vi è una singola risposta che possa ottemperare, con esaustiva finitezza, ad un tale quesito. Le madri possiedono varie incarnazioni, configurazioni difformi, aspetti disparati e caratteri eterogenei. Stando ad una affermazione semplicistica, si suole definire madre una creatura di genere femminile che, dopo una gestazione, partorisce un figlio. E’ questa l’esplicitazione più disadorna, chiara, comune, della figura materna. Eppure, attorno alla sola parola “madre” vi è custodita una qualità ed una quantità di significati vari e sempre più articolati. Con il termine madre si può intendere “l’origine” e con la sua valenza ideale si è soliti manifestare la concezione, la nascita, la plasmabilità di un’idea, di un fenomeno, di un atto d’amore. Al vocabolo “madre” è, dunque, accomunato il pensiero stesso della vita, della formazione, della crescita. Se lo vuole, ogni donna, sin da ragazza, avrà la possibilità di diventare madre. Attenti però, solo se lo vuole davvero! Tengo a sottolineare quest’ultima esclamazione, poiché diventare madre dev’essere un desiderio, una volontà intrinseca, non deve mai essere un obbligo ma una scelta, un volere, e quindi un desiderio.
Parafrasando ciò che disse frate Guglielmo ne “Il nome della rosa” - Dio non avrebbe introdotto un essere così particolareggiato, splendido, come la donna in questo mondo senza dotarla di numerose virtù. Lo credo fermamente anch’io. La donna sono solito definirla primavera, poiché più di ogni altra creatura in essa è preservato il segreto della vita, del divenire, dell’amore. Portare in grembo una creatura, percepirne il senso, sentirla crescere dentro di sé, nutrirla, vivere in due è un’esperienza che soltanto le donne possono provare.
Tuttavia, diventare madri non è e non deve mai essere una coercizione. Per molti anni, la società, il costume, il credo popolare hanno fatto sì che donna e madre continuassero ad essere un nesso inscindibile. Niente di più sbagliato! Essere donne e diventare madri sono due categorie separate che possono essere, se lo si vuole davvero, congiunte in un sol spazio. Basti pensare all’epoca dei tanti sovrani e delle loro rispettive consorti, l’era in cui ad una regina spettava l’arduo compito di generare un erede maschio che potesse succedere al trono una volta che il regnante avesse abdicato. Il potere della donna di generare la vita veniva ghermito dall’uomo, fatto proprio, come un artificio da utilizzare per il proprio fine, e la figura della donna veniva ridotta a sola dispensatrice di eredi.
Un tempo, molte fanciulle potevano essere riconosciute come donne solo se diventavano mamme, in caso contrario, di donna, agli occhi di una società arretrata e sciocca, avrebbero avuto soltanto una parvenza. Esse sarebbero rimaste eternamente incomplete e, in cuor loro, schiacciate da questo dogma imposto dalla tradizione, dalla consuetudine, si sarebbero sentite realmente tali. In quegli anni, prender marito e rimanere incinta erano passaggi obbligati della maturazione, impellenze da adempiere più che sogni da realizzare. Le prime manifestazioni del movimento femminista nella prima e, immediata, seconda metà del Novecento assunsero grande rilievo per rivendicare l’indipendenza della donna. Il corpo di una donna è straordinario per la sua possibilità di poter mutare, di adattarsi, per accogliere una nuova vita. Ciononostante, non si può in alcun modo ridurre la femminilità, il valore corporale di una donna, a mero strumento di fecondazione. Una donna può essere madre se lo vuole davvero ma non necessariamente, in quanto la sua femminilità e la sua importanza non possono in alcun modo dipendere da questo fattore.
Diventare madre non deve mai essere un’intimazione, un vincolo, un dovere ma un’aspirazione intimamente sentita. Oggi le donne, mediante i loro sacrifici e le loro lotte continuano a ricercare un’autonomia, rivendicando il loro diritto ad essere madri e la loro libertà nel caso in cui non vogliano esserlo.
Madre, naturalmente, non è soltanto colei che partorisce ma colei che sceglie volontariamente di esserlo e, quindi, di crescere un figlio. Pertanto, la definizione ordinaria, usuale, con cui ho iniziato questo mio scritto non può essere quella definitiva. A tal proposito, vi è una nitida differenza tra il termine “madre” e “mamma”. “Mamma” è un sostantivo che possiede una valenza più profonda, affettiva. Potrei, or dunque, dire che “madre” è una figura astratta e generica, un’entità fisica che dà alla luce un figlio senza, necessariamente, creare un legame con lui. Mamma, al contrario, è un’essenza definita, che accoglie tra le sue braccia un figlio che può aver dato lei stessa alla luce o, in alternativa, adottato ma come se lo avesse davvero portato in grembo sin dal suo concepimento.
- Mamme, tra religione e mitologia
Interrogandosi sull’esistenza o meno del Paradiso e di una vita ultraterrena, il grande filosofo partenopeo Luciano De Crescenzo confessò, intimamente, che se davvero dovesse esserci un “dopo”, esso dovrebbe cominciare con l’apparizione di una figura a noi molto cara. Alle porte del Paradiso, fece intendere il De Crescenzo, ognuno di noi dovrebbe vedere l’anima di una persona che abbiamo amato perdutamente nella nostra vita. A tal proposito, Luciano disse teneramente: “Mi piacerebbe rivedere mia madre…”. Le mamme, infatti, sono spesso annoverate tra i più grandi amori dei propri figli.
Quando si ragiona sulla figura della mamma, non si può prescindere dal citare Maria di Nazareth. Maria è madre e mamma al contempo, è il simbolo per antonomasia della sfera materna. Stando al credo cattolico, Ella era una ragazza vergine che, una notte, ricevette la visita dell’Arcangelo Gabriele, il quale le annunciò che sarebbe presto rimasta incinta. Maria esitò per un istante, sapendo che mai nessun uomo l’aveva sfiorata. Maria comprende, in quell’attimo, che il bambino che in Lei potrebbe incarnarsi possiede un’essenza divina. Ella accetta la richiesta del messaggero di Dio, sceglie volutamente di accogliere questa vita, rimarcando con tale accettazione il miracolo della nascita. Maria è una donna che acconsente a custodire nel proprio grembo una vita inattesa. Ella non aveva deciso d’essere madre sino ad allora ma, molto probabilmente, lo aveva sempre desiderato. La parola dell’Arcangelo più che una richiesta può sembrare, ad una lettura superficiale del racconto biblico, un’imposizione. Invero, Maria è stata scelta da Dio come la sola meritevole di dare alla luce il Dio fatto uomo. Maria è posta davanti ad una valutazione difficilissima: se accettare o meno una gravidanza che cambierà per sempre il proprio destino. Maria agisce come donna e anche come madre, decide secondo il suo volere, come una fanciulla libera, e acconsente di diventare madre. Maria accoglie così una vita misteriosa, trascendentale, e lo fa con la consapevolezza di voler essere madre di un Figlio così speciale.
Maria è una mamma che può crescere il proprio figlio ma che non potrà mai proteggerlo. Ella sa che Gesù è destinato a morire, e non può far altro che accettare, questa volta senza possibilità di scelta, il triste destino purificatore a cui andrà incontro il proprio discendente. Tutti noi idealizziamo Gesù come un uomo divino, un mortale che tende all’immortalità, di rado ci soffermiamo a riflettere che quel Dio che ha camminato sul suolo terrestre, secondo il narrato religioso, agli occhi di una madre era un erede fragile, indifeso, sofferente. Maria osservava Gesù come una madre qualunque che mira, felice, il proprio figlio. Ella vedeva in Lui la grandezza, la meraviglia, ma queste sue qualità non sostituivano mai la naturalezza di un figlio a cui Lei non avrebbe mai potuto evitare il dolore che, da adulto, Egli patirà. Quanta forza, quanta resistenza vi era nel cuore di Maria, la mamma che più di tutte dovette sopportare un destino già scritto.

Maria divenne madre tramite un’immacolata concezione. Questo tema mistico fu ripreso da George Lucas nella sua opera cinematografica fondamentale: “Star Wars”. Anakin Skywalker, il protagonista dell’esalogia di Lucas, nacque mediante un’immacolata concezione. La madre di Anakin, Shmi, restò incinta senza aver avuto alcun rapporto carnale. Anakin fu concepito dalla Forza, l’essenza immutabile che circonda e pervade l’intero universo, avvolgendo ogni essere vivente e garantendo la vita. La forza, ideata da Lucas, è paragonabile alla sostanza intangibile del Divino e il ruolo di Shmi Skywalker a quello della Madonna. Shmi ha portato in grembo Anakin, lo ha fatto nascere, senza mai spiegarsi cosa fosse accaduto. Ella fu scelta, senza alcuna annunciazione. Nessuno si recò dinanzi a lei per porla davanti ad una opzione. Shmi divenne madre senza poter vagliare l’opportunità di esserlo. Eppure, ella fu felice, come se la Forza, inconsciamente, sapesse che ella avrebbe voluto diventare madre. Anakin, pertanto, possiede tratti in comune con la figura di Cristo: come Lui, egli è considerato una sorta di Messia, di prescelto, di cui un’antica profezia ha anticipato la venuta molti secoli prima. Differentemente da Gesù, Anakin cederà alle tentazioni di “Satana”, il Signore Oscuro dei Sith Darth Sidious.
Anakin prova per sua madre un amore fortissimo. Per tutta la sua giovinezza, ella fu la sola donna che Anakin ebbe vicino, il suo unico legame d’affetto. Quando dovrà lasciarla, prigioniera della sua schiavitù, Anakin soffrirà tremendamente e non smetterà mai di ricordarla. Il distacco dalla madre e il dolore patito per la sua lontananza cominceranno a far emergere in Anakin sentimenti oscuri di rabbia. Il fato tragico a cui andrà incontro il giovane Skywalker è condizionato proprio dall’addio. La mamma, nella storia, rappresenta la prima ferita incurabile che farà avvicinare il cavaliere Jedi sull’orlo del Lato Oscuro.

Anakin, dopo aver lasciato la madre, si innamora istantaneamente di Padmé. L’amore provato per la genitrice viene adesso superato dall’amore che il protagonista proverà per la ragazza. Un amore, quest’ultimo, che mai svanirà e lo accompagnerà per tutta la crescita. L’affetto per la mamma e l’amore per la moglie sono le due sintesi su cui si fonda il sentimento umano del futuro Darth Vader, un sentimento che alberga nelle sue reminiscenze, occultato sotto la maschera nera e buia. L’amore che Anakin provò un tempo mai lo abbandonerà del tutto e riemergerà in lui nel momento in cui si scoprirà essere padre. Anakin, personaggio estremamente complesso e articolato, nel suo animo tormentato provò amore e affettuosità soltanto per due donne: Shmi e Padmé, la moglie che diverrà madre a sua volta. In punto di morte, Padmé userà le forze residue per mettere al mondo i suoi gemelli e dar loro un nome. Li sfiorerà a malapena, li guarderà con amore, poi si spegnerà tristemente nutrendo, però, la ferma speranza che nel cuore di Anakin vi sia ancora del buono. Saranno proprio quei piccoli, messi al mondo da una madre che mai potrà crescerli sebbene avesse tanto voluto farlo, a redimere il padre e a far riemergere lo spirito di Anakin dalle tenebre. Padmé è una donna che, vinta da un esito infausto, non ha potuto essere mamma per i suoi figli. Cionondimeno, dando loro la gioia della nascita, riuscirà a salvare la vita di Anakin prima che l’ombra cali sul suo volto pallido ed esangue.
La parola “mamma” coincide con “bontà”, con “affetto”, con “amore” e con “educazione”. La mamma protegge ad ogni costo il proprio figlio. La Mitologia Greca offre un’immagine evocativa di una mamma che si adopera per garantire l’incolumità del proprio pargoletto sin da quando questi ha aperto per la prima volta i suoi occhi al mondo. In un passo fondamentale di un racconto mitologico, Teti regge tra le sue braccia un batuffolo bianco appena nato. La dama generò quel bimbo dopo aver giaciuto con un mortale, conosciuto col nome di Peleo. La Nereide non poteva tollerare la natura semidivina del piccino, poiché egli, in virtù della sua mortalità, sarebbe stato vittima di dolore e, un giorno, di morte. Teti era una ninfa e non poteva sopportare l’idea che il proprio figlio potesse perire. Così lo raccolse e lo strinse a sé, conducendolo sino allo Stige, nelle cui acque avrebbe immerso il figlioletto. Reggendolo per un piede, Teti fece sì che la cristallinità del fiume avvolgesse il fragile corpo del piccino, così da renderlo invulnerabile ad eccezione del suo tallone, rimasto emerso dallo specchio d’acqua. Il gesto di Teti è estremamente simbolico per evocare l’amore di una mamma, colei che più di ogni altra creatura desidera la protezione sempiterna del proprio figlio.
Ma la mitologia vuol ricordarci anche che non tutte le madri possono provare affezione e premura nei riguardi della propria prole. Il volto tenebroso, distorto, ed insano di Medea evoca il male che può albergare nel cuore di una madre. Medea considera i propri figli delle creature di cui ella detiene il possesso. Medea valuta il parto come un legame indivisibile. I figli che sono stati messi al mondo hanno, nei confronti della loro madre, secondo il folle pensiero di Medea, un debito che nulla potrà mai ricompensare. Pertanto, la nobile reputa i propri discendenti una merce di sua proprietà, di cui ella potrà servirsi e, disfarsi, quando vorrà. La principessa di Colchide è un’assassina e testimonia l’immoralità ed il peccato di ogni genitrice che arreca dolore e morte alla propria creatura.
- Le mamme nella Settima Arte
Essere mamme è un lavoro a tempo pieno, una “mansione” impegnativa, un’ambizione impossibile da attenuare.
Nel cinema d’animazione della Walt Disney, una mamma attendeva con impazienza la venuta del proprio piccoletto. Essa era tanto alta, grande e grigia. Giaceva rinchiusa tra gli esigui spazi di una gabbia, coperta soltanto da un drappo azzurro e da una cuffia rosa poggiata sulla sua fronte ampia. Costei non era una mamma come tutte le altre. Ad essere del tutto onesti, non era una mamma di un cucciolo d’uomo, bensì una mamma del regno animale. In “Dumbo”, classico disneyano del 1940, l’elefantessa aspetta l’arrivo del piccolo elefantino in una notte serena. D’improvviso, uno stormo di cicogne scende giù in picchiata. Le loro sagome in volo vengono illuminate dalle stelle che brillano nel cielo. L’elefantessa è una madre che ha scelto di esserlo, si sente pronta a diventarlo con tutte le sue forze eppure, il suo cucciolo tarda ad arrivare. Il dì seguente, una cicogna in colpevole ritardo porta un fagotto dalle larghe orecchie alla signora Jumbo. La nascita in “Dumbo” viene rappresentata come un avvenimento condizionato ad un determinato momento della vita, in cui gli stessi genitori si sentono pronti ad accogliere e allevare un figlio. Gli animali/genitori nella pellicola sono il più delle volte singole madri. La stessa signora Jumbo aspetta il proprio figlioletto, ma esso sembra tardare ad arrivare, rendendo ancor più unica la sua nascita, come un parto speciale e per questo difficilmente prevedibile. Dumbo non possiede un padre, come se si volesse sottintendere che anche le madri rimaste sole possano crescere con affidabili riscontri i propri figli, districandosi comunque tra il lavoro (qui rappresentato dal circo) e il ruolo affettivo ed educativo di “mamme”. La Signora Jumbo simboleggia ogni madre che ha scelto di divenire tale e che attende che il cielo risponda alle sue suppliche donandole quell’esserino.

In “Tarzan”, invece, pellicola del 1999, Kala, una gorilla che ha perduto il proprio cucciolo, rinviene nella giungla un piccolino che dorme in una culla. Essa desidera fortemente crescere un figlio e, trovando Tarzan, decide di allevarlo come sua madre. Kala apre le sue braccia ad un bambino che la stava cercando, invocandola con la dolcezza ed il fragore di un pianto. Tra Kala e Tarzan non vi è alcun legame di parentela, eppure i due sono ugualmente madre e figlio. E’ splendido notare come Kala sia un primate e Tarzan un essere umano. I primati sono proprio i parenti più stretti e somiglianti degli uomini. Sebbene abbiano aspetti diversi, Kala e Tarzan trovano nei loro sentimenti un modo per sentirsi vicini e simili. In particolare, i due si toccano le mani. Nonostante le “zampe” della gorilla siano più grosse di quelle del piccolo Tarzan, esse somigliano agli arti del piccolino. E’ questo il primo segno di come tra loro possa esserci una vicinanza assoluta se entrambi lo desiderano. Il personaggio di Kala personifica tutte le madri che educano e crescono un figlio che non hanno generato. Non è un semplice legame di sangue a garantire un rapporto, non è una parentela a fortificare una relazione, madre è soprattutto chi cresce un figlio. Lo stesso figlio considererà sempre sua madre come colei che lo ha accompagnato nella sua progressiva evoluzione.

La mamma, nella sua definizione più generica, può avere le fattezze di una educatrice, di una confidente, a volte, persino di un’amica. Nella serie televisiva “Gilmore Girls”, Lorelai è una donna libera, loquace, simpatica, schietta, ed una mamma amichevole, gentile e comprensiva. Ella sa essere infantile, persino puerile con la sua parlantina sciolta e ironica, ma autoritaria e giusta quando la situazione è solita richiederlo. Lorelai ha cresciuto Rory, avuta all’età di 16 anni, in maniera diametralmente opposta a come sua madre ha cresciuto lei stessa. Lorelai proveniva da una realtà benestante, fu educata per appartenere obbligatoriamente all’alta società. Da quel mondo che le tarpava le ali, facendola sentire prigioniera di un sentiero già tracciato, ella fuggì e decise di educare Rory con comprensione e dolcezza.

Tra Lorelai e sua figlia Rory esiste un rapporto unico, fatto di sintonie assolute, di passioni condivise, di parole pronunciate rapidissimamente, di umorismi particolari ed incomprensibili ai più. Lorelai è l’incarnazione della madre moderna. Ella ha dato vita ad una parte in cui la mamma non è più vista come un ruolo lontano, distaccato dalla figlia, bensì come una persona vicina, il cui compito non è solamente quello di educare con condiscendenza o con severità. Lorelai è per sua figlia Rory una confidente, una persona su cui poter contare e a cui poter raccontare ogni cosa.
Ma cos’è, allora, realmente una mamma? Mamma è Shmi che accoglie una vita e la genera con le sue sole forze? Mamma è Kala che adotta un cucciolo smarrito come proprio? La Mamma è un’amica? In realtà, mamma è un’idea, un pensiero, un desiderio, un nome pronunciato da labbra che si sfiorano due volte. “Mamma” è tante cose, non può essere compendiata sotto un’unica definizione.
E vi dirò di più, mamma non è neppure necessariamente una donna. Mamma è colei che ama i propri figli, che se ne prende cura giorno dopo giorno. Per tale ragione, il ruolo della madre coincide con quello del padre, e le vesti della mamma possono essere calzate pienamente anche dal papà. Questa verità ce la sussurrò sommessamente Robin Williams, quando, in “Mrs Doubtfire”, cominciò a valutare seriamente la possibilità di “travestirsi” da donna per poter continuare a stare vicino ai suoi figli. Robin continuo a borbottarci tale veridicità, non più cautamente, ma in maniera dirompente quando, nello stesso film, si truccò pesantemente il viso, e divenne un’anziana e permissiva governante. Pur di poter trascorrere le sue giornate con i suoi figli, Robin rinunciò alla sua veste paterna, e assunse i panni del “mammo”.
La seguente è la definizione più calzante: è l’amore che fa una mamma, non l’aspetto!
Autore: Emilio Giordano
Redazione: CineHunters
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