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"Batman, 1966" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

Tutto ebbe inizio nel soggiorno di una grande e lussuosa villa. Il miliardario Bruce Wayne, vestito di tutto punto, se ne sta ritto in piedi, sfogliando un grosso libro. Egli sta intrattenendo i suoi ospiti, disquisendo con essi sul suo desiderio di aiutare le persone più bisognose.

“La fondazione Wayne vi appoggerà, completamente!” – Afferma, con cordialità, il noto magnate. Bruce si mostra più deciso che mai a sostenere la costruzione di alcuni centri per combattere la delinquenza giovanile. Proprio in tale occasione, egli rammenta ai presenti il giuramento che fece quando era solamente un bambino, e assistette all’omicidio dei suoi amati genitori: proteggere e aiutare gli indifesi.

Nel frattempo, in una stanza sita a pochi passi dall’ampio salone, un telefono squilla insistentemente, accendendosi di un rosso infuocato. Il maggiordomo Alfred Pennyworth irrompe nello studio, alza la cornetta e ascolta le parole di chi, dall’altro capo del filo, si rivolge a lui.

Attenda in linea!” – Sussurra il solerte maggiordomo, prima di deporre il “ricevitore” sulla scrivania. Alfred attirerà, così, l’attenzione di Bruce e del giovane Dick Grayson, pupillo del miliardario. Ambedue varcano lo studio, apprendendo che la città di Gotham è in pericolo. Decidono, subito, di entrare in azione: attivato un circuito nascosto, entrambi discendono lungo una pertica, raggiungendo un’accogliente caverna, nascosta dietro un passaggio segreto.

È il 1966: sugli schermi televisivi americani fanno incursione due bislacchi eroi dai costumi improbabili: Batman e Robin. Il primo è un uomo alto, distinto e dai modi garbati, il secondo è invece un ragazzo, ingenuo come ogni adolescente che si rispetti ma pure armato di un certo ardimento. Batman e Robin si palesano dinanzi al loro pubblico, alla loro platea di spettatori, una sera come tante, gettandosi a capofitto in un’avventura destinata ad essere la prima di una lunga serie.

L’episodio pilota della serie televisiva di Batman comincia in tal modo. Il personaggio si manifesta, dapprima, nella sua dimensione “umana”, apparendo nelle vesti di un uomo qualunque che, in gran segreto, conduce una doppia vita. Infatti, ogniqualvolta quel telefono rosso comincia a brillare Bruce, di soppiatto, sgattaiola via dalla sua abitazione, sfrecciando per le strade della metropoli con l’aspetto di un vigilante mascherato.

La serie televisiva di “Batman” fu il primo, ambizioso tentativo di trasporre in carne ed ossa le avventure del celebre supereroe targato DC Comics. I creatori del format scelsero di abbandonare le atmosfere tenebrose del fumetto degli anni ’40 e ‘50, preferendo ricreare un clima scanzonato e prettamente umoristico. Tuttavia, ciò che è importante tenere bene a mente è che questa ironia è velata, resta sottaciuta e mai resa del tutto evidente.

Batman si comporta con dedizione, con assoluta compostezza, e non lascia mai trasparire dal suo volto alcun imbarazzo, alcun sorriso di scherno, alcuna espressione di stupore, neppure davanti alla più inverosimile delle proprie peripezie. La serie di Batman è a tutti gli effetti una “parodia”, ma una parodia unica nel suo genere. Essa, infatti, pur parodiando, all’apparenza, l’universo della sua controparte a fumetti, non lo deride, non lo ridicolizza, tutt’altro, lo trasforma, lo estremizza, lo muta infondendo in esso una verve sarcastica ed una vena surreale.

L’oscurità tipica del personaggio di Batman viene cambiata in una gioviale positività, il suo tormento interiore viene trasfigurato e alterato, divenendo una meccanismo di propulsione che sprona l’eroe a lottare per il bene senza, però, arrecargli quell’angoscia mentale che egli patisce abitualmente nelle storie su carta stampata. Il Batman della serie televisiva degli anni ’60 è, dunque, un eroe ottimista, giocoso che sa perfettamente di rivolgersi ai bambini: egli è, a tutti gli effetti, un educatore, un esempio da seguire, l’aio per eccellenza, in altre parole, un gentiluomo in costume.

La comicità della serie è da ricercarsi nel suo stile spensierato che, però, non viene mai reso plateale. Il produttore esecutivo William Dozier definì il prodotto come una sitcom in cui le sequenze ironiche non sono scandite da alcuna risata di sottofondo. In effetti il riso finto, che echeggia dal fuori campo, avrebbe reso chiara l’assurdità della scena in sé, togliendo uno dei segni più rappresentativi della serie stessa, uno dei suoi paradossi: trattare seriamente un qualcosa che, invero, è palesemente ironico. Pertanto, guardando “Batman” non si ha mai completamente l’impressione di star guardando un programma comico, eppure così è, ed è questa la sua più grande unicità. Talvolta, si ha la sensazione che ciò che si sta osservando sia talmente irragionevole, sconnesso, infantile ed eccentrico da credere che si tratti di un orripilante adattamento, di una versione “demenziale”, di pessimo gusto, tremendamente sbagliata, senza capire che, in realtà, è proprio dietro quei sotterfugi, quelle stravaganze trattate in maniera tanto dignitosa che va ricercata la genialità nonché la peculiarità di questo telefilm. Altri elementi iconici del serial sono i costumi sgargianti e quasi carnevaleschi, i dialoghi sconclusionati, le ingenuità puerili, le gag inverosimili, le trovate ai limiti del no-sense, le mischie e le lotte scandite da diciture onomatopeiche.

"Adam West e la maschera del pipistrello" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

A prestare il proprio volto all’eroe mascherato fu Adam West, primo e storico interprete del Cavaliere Oscuro. Beh, utilizzare questo appellativo per definire il Batman impersonato da Adam West fa un po’ sorridere: di oscuro c’è ben poco nel suo Batman, tuttavia di “cavaliere” c’è molto. Adam West fu, di fatto, un Batman cavalleresco, altruista, generoso e raffinato nelle sue movenze semiserie. Egli conferì a Bruce Wayne un'eleganza inglese, quasi da agente segreto, e a Batman una comicità singolare, kafkiana e volutamente sottintesa.

Sebbene mantenga un carattere vivace e leggero, il Bruce Wayne interpretato da Adam West non è esente da riletture più profonde e articolate che non devono limitarsi a vederlo puramente come un guardiano dal temperamento nobile, dal cuore puro e incorruttibile e, proprio per questo, scontato e stereotipato. Il Bruce Wayne di West incarna, per certi versi, lo spettatore medio americano di quel periodo che agognava, in cuor suo, di vivere i sogni più impavidi e di affrontare le incognite di una vita spericolata. Scivolando lungo quella pertica, occultata nel suo studio e scendendo sempre più giù, fino alla caverna, quel luogo segreto, Bruce rende tangibili le aspirazioni di gloria, vive sulla sua pelle i desideri e le voglie da brivido dell’uomo comune a cui queste possibilità sono precluse dalle limitazioni di una vita normale e priva di accadimenti che richiedono audacia e sprezzo del pericolo. La maschera del pipistrello, in particolare, sdoppia la personalità di Bruce, creando il suo alter-ego e permettendogli di assaporare gli azzardi di un’esistenza temeraria senza il rischio d’essere riconosciuto, senza l’incertezza che la sua sfera privata venga intaccata dall’indiscrezione degli estranei.

"Robin" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

La serie televisiva andò in onda per tre stagioni, vantando un totale di 120 episodi. A spalleggiare Batman nelle sue intrepide missioni c’è sempre il fido Robin, il solo, ad eccezione del maggiordomo Alfred, a conoscere la vera identità del supereroe. Il giovane aiutante dell’Uomo Pipistrello, con le sue esternazioni sui generis, funge da divertente spalla del protagonista. A partire dall’ultima stagione, il dinamico duo riceverà l’aiuto dell’avvenente Batgirl.

"Batgirl" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

Per il ruolo di Barbara Gordon, figlia del Commissario James Gordon, fu scelta l’attrice Yvonne Craig. Nei panni della timida e astuta bibliotecaria Barbara, Yvonne sfoggiava capelli corti e bruni ed un look fatto di abiti coprenti e colorati. Quando vestiva il costume di Batgirl, Barbara era solita indossare un cappuccio viola e una maschera scura, da cui fuoriusciva una fluente chioma rossastra. Differentemente dal fumetto, Batman e Robin non conoscono l’identità di Batgirl. Barbara ha infatti progettato, tutta da sola, un nascondiglio nel proprio appartamento che le consente di celare i suoi indumenti da supereroina, ed il più delle volte giunge sul luogo del misfatto con la sua scintillante motocicletta, unendosi al dinamico duo d’un tratto e scomparendo dalla loro vista una volta portato a termine il proprio dovere.

Sia Robin che Batgirl costituiscono un punto di raccordo con i telespettatori più piccoli, una sorta di “proiezione”, dei personaggi con cui i bambini e le bambine possono facilmente identificarsi così da poter immaginare di lottare fianco a fianco con il cavaliere senza macchia, calzando il costume del ragazzo meraviglia o della donna pipistrello.

Durante lo scorrere degli episodi, Batman si troverà ad affrontare una galleria di nemici pittoreschi, alcuni come il Maniaco degli Orologi, Mr. Freeze, il Cappellaio Matto sono tratti dai fumetti, altri come Re Tut e Testa d’Uovo (interpretato da un incontenibile Vincent Price) verranno ideati appositamente per il serial, riuscendo a riscuotere un ragguardevole successo tra gli appassionati. I delinquenti più presenti nell’arco delle tre stagioni sono il Joker ed il Pinguino, interpretati rispettivamente da Cesar Romero - il quale non rinunciò a tagliare i suoi inconfondibili baffi, facilmente identificabili sotto il candido trucco - e Burgess Meredith, già famoso sul piccolo schermo per le sue quattro, indimenticabili apparizioni in “The Twilight Zone”. Romero caratterizzò il pagliaccio principe del crimine come un lunatico burlone, donando alla nemesi del personaggio cardine una connotazione capricciosa ed una personalità travolgente e suonata, come se fosse un cattivo balzato fuori da un cartone animato.  

Tutti i villan agiscono con le medesime intenzioni: vogliono a tutti i costi sconfiggere Batman, seminare il disordine nella tranquilla metropoli di Gotham, e portare a termine qualche furtarello. Nessuno dei vari antagonisti del paladino di Gotham si dimostrerà mai realmente “malvagio”. In linea con lo spirito della serie, gli avversari del Crociato Incappucciato assumono il ruolo di criminali scaltri ma al contempo inetti, cartooneschi, intrinsecamente sciocchi. Fra i più, soltanto la Catwoman di Julie Newmar saprà distinguersi e ritagliarsi un’identità particolareggiata, abbattendo i caratteri fanciulleschi della sitcom con la sua prorompente sensualità.

"Catwoman" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

Nella serie televisiva Catwoman incarna, infatti, l’inatteso, l’elemento imprevedibile che fa vacillare le ferree certezze dell’eroe mascherato, costantemente ligio al dovere e mai propenso a godere di alcun piacere, sia pure momentaneo. Catwoman non è, infatti, un tradizionale antagonista, un cattivo da strapazzo, facile da decifrare nelle proprie subdole intenzioni e altrettanto semplice da acciuffare, da affrontare in duello o in qualche scazzottata a ritmo da ballo. Tutt’altro!

La donna gatto di Julie Newmar è l’estro, il brio, l’imprevisto. In un fare semiserio come quello tipico del telefilm, in un contesto fanciullesco, ingenuo, volutamente ironico, in un’ambientazione “kitsch”, Catwoman costituisce la sfumatura indistinguibile, il grigio che si insinua tra il bianco del bene e il nero del male, la venatura adulta, la tentazione più pericolosa per il cavaliere di Gotham impersonato dal signorile Adam West. Catwoman è la donna che fa tremare Batman, la “nemica” che è anche sua “amica”, l’avversaria che è altresì la creatura femminile che più lo attrae. Un bel problema per un miliardario tutto d’un pezzo come Bruce Wayne, un bell’impiccio per un vigilante esemplare che tiene sempre a ricordare, a tutti coloro che osservano le sue avventure attraverso l’occhio meccanico di una telecamera, i giusti comportamenti da seguire.

Catwoman è, dunque, la lusinga, il desiderio per un uomo casto e integerrimo come il Batman di Adam West. Pur agendo con la semplicità e la sventatezza che contraddistingue ogni personaggio del programma, ella sa essere maliziosa, provocante nei movimenti, melliflua nel parlato. Julie Newmar, con i suoi folti capelli, il suo vitino di vespa, stretto da una cintura color dell’oro, con i suoi fianchi ben sagomati, le sue gote tonde e rosee, e il colore bruno del suo costume che esalta ogni sua forma, era troppo bella, se non addirittura irresistibile per non elevarsi al di sopra di ogni altro supercriminale della città di Gotham. Catwoman ruberà, in parte, il cuore di Batman che, però, costretto a rispettare i suoi obblighi civili, saprà rinunciare a qualsiasi tentativo di corteggiamento. Entrambi, ad ogni nuovo scontro, reclameranno un bacio che sembrerà non arrivare mai. Tuttavia, in un episodio, i due gusteranno un gelato insieme, molto vicini, a un passo l’uno dall’altra. Ciò che più si avvicinerà ad un appuntamento.

Batman – La serie” è nota per il suo tocco “Camp”. Con questo termine, si vuole intendere l’uso intenzionale e sapiente del Kitsch. Al contempo, con il termine Kitsch si definisce uno stile artistico che finisce per scadere nel “cattivo gusto”. Già cinquant’anni fa, il filosofo italiano Umberto Eco aveva posto l’attenzione sul concetto di “Kitsch” e sulla sua introduzione, sempre più insistente, nella cultura di massa. Il cattivo gusto, per Eco, soffre della medesima sorte che Benedetto Croce riconosceva come tipica dell’arte: tutti sanno benissimo cosa sia e non temono di individuarlo, salvo trovarsi imbarazzati nel definirlo. Il Kitsch, in particolare, potrebbe essere illustrato come una forma di menzogna artistica che cerca di generare nello spettatore un particolare effetto. Hermann Broch, citato dallo stesso Eco nella sua opera seminale “Apocalittici e integrati”, avanza l’idea che senza una piccola dose di Kitsch nessun tipo di arte possa esistere.

I creatori della serie televisiva di Batman sembrano aver ghermito questo pensiero, facendo loro il carattere più evidente del “Kitsch” e piegandolo ai propri voleri, tramutandolo in “Camp”. I costumi poveri, sciatti dei due protagonisti, le trame sempliciotte, le battute scontate fanno parte di un uso deliberato e attentamente inscenato, di una forma d’arte satirica volta a generare il riso mediante l’ostentazione taciuta del grottesco.  

Nel 1966, tra la messa in onda della prima e della seconda serie, venne prodotto un lungometraggio: la prima, vera trasposizione di Batman per il grande schermo. Nell’opera filmica, Batman e Robin si trovano ad affrontare una pericolosissima alleanza di super-cattivoni: il Joker (in tal caso ribattezzato “Jolly”), l’Enigmista, il Pinguino e Catwoman hanno stretto un patto per mettere alle corde il vigilante e non lasciargli alcuno scampo.

Tra combattimenti con squali affamati, bombe da disinnescare, fughe rocambolesche e zuffe estremamente coreografiche, Batman dovrà guardarsi bene dal più insidioso dei fatali pericoli: l’amore. Difatti, la donna-gatto (interpretata dall’attrice Lee Meriwether, data la temporanea assenza di Julie Newmar), nelle sue sembianze da donna comune, intreccia con Bruce Wayne un romantico corteggiamento mentre, allo stesso tempo, nei panni di Batman e Catwoman i due continueranno ad essere schierati su fronti opposti. Un elemento che, con le dovute differenze, verrà rimesso in scena da Tim Burton in “Batman - Il ritorno”.

Batman – Il film” raccoglie tutti gli elementi estrosi della serie televisiva, miscelandoli alle caratteristiche stravaganti della stessa, elevando tali prerogative all’ennesima potenza. Il risultato è un susseguirsi di bizzarrie, di sequenze ai limiti del farsesco.

Si resta perplessi, piacevolmente “sconvolti”, si ride di gusto, talvolta a crepapelle, nel mentre si gustano i trucchi clowneschi, le trovare inverosimili, i buffi espedienti narrativi adoperati nell’opera cinematografica. “Batman – Il film” fa del Camp una forma d’espressione sofisticata, genuina, paradossale e divertentissima. 

Anche un sociologo come Arthur Asa Berger rivolse il suo sguardo, attento e scrupoloso, verso la popolare serie televisiva e sul fenomeno che essa generò, la cosiddetta “Batmania”. Il Berger notò come l’impostazione del format fosse decisamente “enfatica”. Tenne a ricordare ciò lo stesso Adam West, in un’intervista concessa a John Stanley. L’attore statunitense confidò che il progetto della serie era quello di rappresentare Batman da un punto di vista satirico. Tuttavia, tale “satira” non era del tipo più comune ma di un tipo del tutto speciale. L’elemento satirico consiste proprio nell’atteggiamento stilistico con cui il tutto si svolge e si sviluppa. Le caricature, le esagerazioni, le ridondanze sono accuratamente preparate e volute, ma non sortirebbero lo stesso effetto se non venissero recitate con totale sincerità.

Il compito di Adam West era quello di restare “serio” davanti al più comico degli equivoci, di rendere “credibile” il più illogico dei colpi di scena, di attenuare l’esagerazione fintanto da renderla sottilissima, fine, arguta.

Arthur Asa Berger bolla il film del 1966 con un giudizio inequivocabile: “orrendo”. Al di là del suo parere piuttosto inclemente, ciò che è più interessante scorgere nelle parole dello studioso americano è lo strano “destino” a cui andò incontro il Batman di Adam West. Come sostenuto dallo stesso Berger, nella mitologia del fumetto, Bruce Wayne, indossando il costume dell’Uomo Pipistrello, diviene una figura spaventosa, mostruosa che deve osteggiare figure altrettanto mostruose e grottesche, molte delle quali possiedono connotazioni animalesche. Il Cavaliere Oscuro è sempre stato un eroe torbido, implacabile, la cui ambientazione tetra e violenta ben si prestava ad una fascia di lettori prettamente maturi. Batman, nella sua prima incarnazione dal “vivo”, finì per essere deriso proprio dagli adulti che avevano letto i suoi racconti, venendo, al contrario, amato incondizionatamente dai bambini, i quali presero per schiette, per giuste, per appassionanti ed eroiche le audaci azioni che il Crociato Incappucciato compiva settimanalmente sui teleschermi delle loro case. Secondo il pensiero del Berger, gli adulti dell’epoca vedevano Batman come l’emblema della cultura Camp: un esempio “vivente” della crisi dell’eroe, il quale, nell’America degli anni ’60, non esisteva più, decaduto completamente come modello simbolico, come mito oramai desueto. Al contempo, per una nuova generazione di bambini quell’eroe spontaneo, premuroso e buono era ancora saldo, robusto, integro e non si era affatto consumato.

Il più grande merito del Batman degli anni ’60 fu quello di formare ed educare milioni di giovanotti sparsi per tutto il mondo, cresciuti con i sani valori dell’onestà e della rettitudine, principi cari allo stesso Adam, che volle, più volte, rapportarsi con l’idea romantica di un gentleman in calzamaglia.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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"Joker" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
  • Arthur, l’uomo nello specchio

Cosa mostra uno specchio? Ciò che ha dinanzi a sé, risponderebbe qualcuno.

In effetti, esso riflette ciò che vede, l’apparenza, la pura esteriorità. Ciascun specchio possiede l’abilità di replicare un gesto, di ricambiare uno sguardo, di duplicare semplicemente una sagoma. E lo fa con distacco, con gelida austerità. Lo specchio copia un’immagine, riproduce un corpo, ma non coglie l’intimità, il carattere, la personalità di chi si pone al suo cospetto. Esso si limita a “bissare”, a sdoppiare le epidermiche sembianze. Talvolta, chi osserva attentamente la propria figura davanti ad un vetro fatica a riconoscerla come vorrebbe. Una ruga di troppo o un affanno marcato sulla pelle possono mutare il riflesso, sino a renderlo diverso, inaspettato.

Scrutando uno specchio, una persona nota se stessa, prigioniera di quei contorni. In alcuni romanzi di fantasia, gli specchi sono soliti riflettere soltanto gli esseri umani che sono ancora in vita, o per meglio dire, i corpi che custodiscono, come scrigni, un’anima. In tali racconti, i vampiri non possono essere rispecchiati da una qualunque superficie riflettente. Essi, infatti, sono deceduti, non possiedono più alcun barlume di umanità e, per tale ragione, lo specchio decide di non rimandare i loro aspetti, di non riprodurre i loro profili. I vampiri non esistono davvero, hanno perduto il dono della vita e permangono sulla Terra malgrado la loro natura. Di conseguenza, lo specchio, come se fosse un oggetto investito dal peso della ragione, sceglie volutamente di non ricreare la loro parvenza.

La pellicola “Joker” comincia proprio con un uomo che contempla se stesso dinanzi ad una levigata superficie riflettente. Arthur Fleck siede a un tavolo da trucco e guarda dritto davanti a sé. Mira la propria faccia, pallida e triste. Prova, allora, a mutare l’espressione del suo volto accorato, spingendo le proprie labbra verso l’alto, sino alle gote, ma è tutto vano. Non appena cede allo sforzo, la bocca ritorna alla posizione naturale, e dagli occhi scendono giù gocce di liquido trasparente. Per tutta la vita, Arthur non ha vissuto un solo momento di appagamento. Costui arrivò, persino, a interrogarsi circa la propria reale esistenza. Questo dubbio non poteva avere un fondato riscontro, poiché lo specchio seguitava a mostrare la sua forma. Arthur non era un defunto che errava senza scopo, lo specchio, in tal caso, non lo avrebbe riflesso. L’immagine che vedeva nello specchio doveva garantirgli la sua tangibile esistenza ma non gli bastava.

Quella stessa superficie palesava i suoi dolori, li rendeva nitidi, esteriorizzava in modo cristallino i supplizi che egli tollerava giorno dopo giorno e che gli scavavano sempre di più il viso. Arthur cercò, allora, di coprirli con il trucco. Intrise la pelle nel candido cerone, attorno agli occhi disegnò delle lacrime azzurre e cosparse, infine, le labbra di rosso. Arthur si truccò da clown per celare lo strazio, per indossare una maschera comica che potesse occultare la mestizia dell’animo. Lo specchio continuò a rifletterlo, ma della sua fisionomia avvilita non era rimasto che un impercettibile accenno, sepolto sotto l’abbondante uso del cosmetico. Adesso, la faccia gioiosa di un pagliaccio e non più di un uomo disperato veniva plagiata dal freddo materiale sorretto da quel tavolino. A quel punto, Arthur smise d’osservarsi, si rimise in piedi ed entrò in scena.

Arthur è un cittadino qualunque di Gotham City. Giorno dopo giorno, egli si trascina via, lungo strade affollate, schiavo delle proprie turbolenti angosce. Alienato, fortemente disturbato, questi percorre giornalmente una lunga scalinata per tornare nella propria dimora, una sudicia casa situata nei bassifondi della città. Per una sorta di bizzarra e cruda ironia, Arthur soffre di un particolare disturbo mentale che lo porta a scoppiare a ridere in maniera fragorosa ogni qual volta avverte uno stato emotivo di forte tensione. Le sue risate appaiono come una sorta d’incontrollabile riflesso condizionato. Arthur ride freneticamente, senza mai volerlo, tenta di soffocare il proprio insano riso senza poterci mai riuscire. Le risate lo torturano, si stampano sulla sua faccia nei momenti meno opportuni e scompaiono solamente dopo un tempo lungo ed un’attesa estenuante.

  • La salita scenica dalla morte alla vita

Sin dalla più tenera età, Arthur sogna di diventare un comico e di spargere gioia e felicità in tutto il mondo. I suoi sogni, però, sono destinati a scontrarsi con una dura e repressiva realtà. Da che ha memoria, Arthur ha vissuto nella povertà, vittima di una società opprimente che schiaccia i deboli sino a ridurli allo stremo. Arthur, abitualmente, si reca ad incontrare una psichiatra, presso i servizi sociali. La dottoressa, di per sé, non lo ascolta minimamente, sembrando del tutto incapace di comprendere i tormenti che affliggono questo delicato paziente. Arthur ne è consapevole ma riesce comunque a trarre conforto da questi incontri grazie alla possibilità di poter avere accesso a delle medicine, che tengono a bada i suoi disturbi. Tuttavia, quando il governo di Gotham deciderà di tagliare i fondi ai servizi sociali, Arthur si ritroverà completamente solo, privo dell’accesso ai medicinali che frenavano i suoi primordiali impulsi. Il disagio mentale, dunque, si acuirà in lui.

Per settimane, Arthur subisce le aggressioni dei teppisti per strada, patisce le angherie dei colleghi. La rabbia dell’uomo, il livore verso una società assenteista che volta le spalle al cittadino più bisognoso, che calpesta il povero divorandolo mentre giace, inerme, a terra, fagocitandolo in una morsa, si esacerbano nel suo cuore, che continua a battere sebbene non produca più alcun sentimento. A lungo andare, Arthur diviene un essere freddo, distaccato, pericoloso. Egli abbraccia pienamente la “morte” per intraprendere una nuova vita, la sua prima vita. Arthur, che non si era mai sentito vivo, accetta definitivamente l’inesistenza della sua parte umana e rinasce con una nuova veste. Joker vede la luce dal buio di una società sordida. L’omicidio, la perpetuazione della morte, divengono le fonti con cui Arthur attua la propria rivalsa. Da vittima, egli sceglie di assurgere ai ranghi del truce, dell’assassino che perpetra un delitto per un intangibile senso di vendetta.

Ed è proprio un agire vendicativo quello di cui Arthur si farà dispensatore. Una vendetta che troverà sfogo nei riguardi dei ricchi, dei potenti, di coloro che hanno genuflesso gli altri, i più deboli. Joker diventa, così, un simbolo della lotta di classe, un emblema per il ceto meno agiato. Sul finire delle tragiche vicende, il personaggio cardine dell’opera conquista la fama, l’attenzione che tanto aveva agognato, ma in un modo del tutto differente da come, in principio, si era auspicato. Non sarà con il riso, sarà con l’attuazione dell’orrore che egli diverrà popolare. Arthur, infine, non porterà gioia nel mondo ma anarchia, terrore. Dinanzi ad una città in fiamme, preda di un gregge famelico, di una mandria imbizzarrita, Arthur non proverà disgusto, bensì riderà. Per la prima volta davvero. Egli non avrà più bisogno di sospingere le proprie labbra con le dita, sino alla parte più alta delle guance. Gli basterà sporcarsi la bocca di sangue e ghignare sadicamente. Il riso, per lui, sarà, finalmente, una reazione naturale.

Nel crescendo del film, la lenta ed estenuante trasformazione di Arthur in Joker viene inscenata come se fosse una prolungata ascensione piuttosto che una caduta nel vortice della follia. La metamorfosi del protagonista viene celebrata come un trionfo. Quella di Arthur è stata, infatti, una lunga salita verso una vetta su cui nessun altro avrebbe potuto mai spingersi. Con fatica, rantolando, subendo le offese, le denigrazioni, gli insulti, le prepotenze del prossimo, Arthur salirà sempre più in alto. Una volta raggiunta la cima di questa piramide eretta dall’insoddisfazione, Arthur vedrà finalmente se stesso, il proprio vero riflesso nello specchio, ed otterrà la sua ambita libertà. Trasformandosi in Joker, Arthur guadagnerà il culmine della “scalinata”, una scalinata del tutto simile a quella che egli percorreva quotidianamente, la stessa scalinata su cui danzerà, una volta indossate le vesti e assunti i colori del clown, principe del crimine, sulla propria pelle.

In quanto reietto, abbandonato, maltrattato, Arthur inizia la sua storia dal basso, dai ghetti, dalle periferie desuete e dismesse. Lasciandosi andare alla propria follia, accogliendola come l’unica possibilità di esistenza per poter affrontare un mondo oscuro e minaccioso, Arthur giungerà alla sommità del picco, e da lassù vedrà tutta la realtà da una nuova prospettiva; un punto di vista aberrante, in cui la mostruosità combacia con l’ordinaria normalità. Il vortice che trascina Arthur verso la pazzia, invece che farlo precipitare, lo conduce sino all’acme. Pertanto, egli diviene “speciale” una volta mutato in un pazzo omicida, un animatore di folle che fa della violenza la propria arma di seduzione. E’ questa la schiacciante parabola di “Joker”. L’inquietante messaggio che il film rilascia in merito al personaggio ispirato ai fumetti DC Comics viene incarnato dalla metamorfosi di quest’uomo indigente, di questo disagiato trascinato sino allo sfinimento, che rinnova se stesso in qualcosa d’inaspettato, d’orrido, di abominevole.  

  • Gotham City, una metropoli finta

Joker” è un film confezionato a regola d’arte, un grandissimo esempio di cinema. Una produzione coraggiosa, provocatoria, che fa breccia in maniera dirompente, fragorosa, roboante. “Joker” è il frutto di una lavorazione ardita, temeraria, da cui si origina una ventata d’aria fresca in un genere cinematografico divenuto saturo e consueto. Vanta un’interpretazione straordinaria, impressionante, decisamente coinvolgente, una regia notevole, una fotografia estremamente suggestiva: tanti elementi che elevano il lungometraggio su molte altre produzioni contemporanee. Senza alcun dubbio, Joaquin Phoenix convoglia in sé l’essenza dell’intero film. La sua stupefacente, sbalorditiva, dolorosa, conturbante e commuovente resa scenica di Arthur costituisce il nucleo dell’intero lavoro. “Joker” è un film che colpisce, che si appiccica addosso e non si stacca più.

"Joker" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters

L’ultima fatica del regista Todd Phillips e della Warner Bros è da considerarsi un risultato notevole, eccellente, un prodotto che si regge totalmente sulle spalle infossate, gracili, del suo attore principale. Un’interpretazione magistrale, una regia che omaggia i cult del passato, una colonna sonora da brivido, una scenografia bellissima, una fotografia favolosa, più fredda nella prima parte, quella introduttiva e analitica, più calda nella parte restante, in cui il Joker calcherà il suolo di Gotham col suo incedere rovinoso e letale, sono tutti questi che ho appena elencato i punti di forza di quest’opera, imponente nella sua realizzazione.

"Joker, ritratto in bianco e nero" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters

Joker” è una pellicola imperdibile, ciononostante non è esente da qualche carenza, da qualche limite, da qualche difetto sparso. Il film si concentra quasi esclusivamente sull’approccio introspettivo. Tale approfondimento psicologico, pur essendo lungo, attento, minuzioso, valevole cede, in alcune scelte, alla banalità, cominciando dal modo in cui i personaggi secondari, coloro che spingeranno Arthur verso l’orlo della pazzia, vengono delineati sullo schermo.

Tutti i personaggi di contorno con cui Arthur interagisce sono monodimensionali, e hanno un solo e comun denominatore: sono tutti cattivi. Quasi tutti i caratteri che Arthur incontra sul proprio cammino lo trattano male, lo aggrediscono. Costoro gli negano aiuto, gli evitano garbo e gentilezza. Ognuno di essi mostra il carattere di un egoista, di un insensibile, di un crudele e di un irrispettoso. Che siano avventori incontrati tra le vie di Gotham, partner di lavoro, oppure presunti amici, essi sono vere e proprie figure malvagie, che non esitano a picchiare, ad insultare, a svilire. Ognuno, a modo suo, finisce per arrecare dolore al protagonista, alimentando in lui la diffidenza e l’avversione verso il prossimo. Non c’è bontà, non c’è affetto, non c’è neppure amore nei cuori dei cittadini di Gotham. Quasi nessuna delle personalità mostrate nel film risulta essere diversificata.

Il cineasta Todd Phillips presenta al suo pubblico un mondo ben preciso, tremendo, caliginoso, cupo, fosco, in cui non vi è alcuna speranza. Un mondo sciatto, una metropoli sozza, colma di reietti, di criminali, di parvenu corrotti, di persone comuni prive di alcuna sensibilità, di politici che perseguono soltanto i propri interessi, di ricchi egoisti, in altre parole: un mondo ricreato ad hoc, finto, estremamente stereotipato.

  • Un padre “mortificato”

In questo scenario così uniformato, così appianato, in cui vengono soltanto rimarcate le differenze tra i poveri ed i ricchi, viene banalizzata la figura di Thomas Wayne, ridotta anch’essa ad un mero stereotipo. Il padre di Bruce è una figura, sovente, citata nella prima parte del lungometraggio, una sagoma incerta che verrà via via presentata e rivelata. Anch’egli viene mostrato come un uomo freddo, egocentrico, aspramente indifferente verso i problemi dei più deboli, praticamente l’esatto opposto di come il personaggio è stato storicamente tratteggiato tra le pagine dei fumetti. Thomas Wayne, il papà del futuro paladino di Gotham, è sempre stato descritto come un uomo di buon cuore. La virtù identificativa dei genitori di Bruce, Thomas e Martha Wayne, è sempre corrisposta all’incondizionata bontà. Ambedue sono sempre stati rappresentati come persone visceralmente buone, attente, prodighe, gentili, perennemente disposte a sfruttare il loro potere, la loro ricchezza, le proprie influenze per supportare i più sfortunati, i bisognosi d’aiuto. Nei fumetti, Thomas e Martha non vengono mai disegnati e caratterizzati come i tradizionali “ricchi” che pensano solo ai propri interessi, i miliardari che covano menefreghismo e senso di superiorità nei riguardi dei meno abbienti.

In “Joker”, Thomas Wayne subisce un netto appiattimento, perdendo tutte le caratteristiche che lo rendevano tanto speciale nella mitologia di Batman e, in particolar modo, nel cuore e nei ricordi di Bruce Wayne. Thomas viene, conseguentemente, livellato, adattato al luogo comune del magnate indifferente, superficiale, dell’uomo disinteressato alle difficoltà della povera gente. Sebbene voglia candidarsi a sindaco per risolvere i gravi problemi che affliggono Gotham, Thomas, nel film, non viene mai inquadrato sotto una luce positiva, al contrario la sua persona giace in bilico tra la superbia e l’arroganza. Ma egli, come già detto, non è il solo ad andare incontro a questo simile fato. Sono tutti i comprimari del personaggio principale a subire tale processo di abbattimento. Per giustificare i cambiamenti di Arthur, per generare il processo di “empatizzazione” tra lo spettatore ed il Joker, il regista ha scelto di rendere gli altri simili ad esseri imperturbabili, spietati, cinici, isolati, creature fatte di pietra, sacrificando l’oggettività, il realismo, e minando, così, il taglio veritiero di una storia che mira proprio ad essere più attinente al “vero” possibile. Del resto, il regista sceglie di raccontare la storia con gli occhi di Arthur, limitando intenzionalmente la parzialità del tutto. Gotham non è quindi facilmente capibile se non per impressioni indeterminate.

  • Le follia di Arthur, da “Taxi Driver” a “Joker

Todd Phillips confeziona un’opera citazionista, un lungometraggio intenso, potente, maestoso, valevole, tremendamente emozionante. Un’opera destinata a divenire una pietra miliare del genere. “Joker” nasce con l’intento di narrare le origini di un antagonista, mostrando, da un punto d’osservazione piuttosto ravvicinato, l’animo, lo spirito, l’interiorità di un uomo malato e tutto il susseguirsi degli eventi che lo hanno portato sul baratro della pazzia. Questa analisi viene condotta con grandi intenti ma, talvolta, finisce per arenarsi nella prevedibilità. La pellicola è permeata da alcuni cliché, è strutturata con schemi già visti ed utilizzati (“Taxi Driver” e “Re per una notte”), da motivi ripetuti, e apporta poco di straordinariamente originale al contenuto se non alla forma.

L’approfondimento psicologico che l’opera esegue sul personaggio di Joker evoca il dramma, lo spasimo, il martirio di una creatura angustiata. Emotivamente, il film genera un senso di commozione, di pietà, d’intenerimento nei confronti del povero Arthur fino a quando, naturalmente, egli non eccede, “tradendo” le proprie vestigia umane per evolversi in un mostro. Le cause che spingono Arthur a cedere alla liberatoria follia omicida vengono scandagliate meticolosamente. I traumi infantili, il senso di abbandono, la solitudine, le speranze disilluse, i tradimenti e gli scherni perpetrati dalle figure di riferimento, la madre e il comico Murray, idolo di Arthur, sono questi appena riportati i fattori scatenanti che piegano le resistenze del povero derelitto. Queste sorgenti che provocano un acuto dolore al protagonista permettono allo spettatore di ben comprendere la desolazione che dilania la mente ed il cuore di Arthur, risultando efficaci ma anche leggermente scontate. Non vi sono risvolti inattesi, eventi inaspettati o circostanze sorprendenti a generare Joker. Sono tutti tormenti prevedibili, traumi pronosticabili, violenze intuibili semplicemente immaginando a priori cosa potesse aver condotto Joker a diventare ciò che tutti conosciamo. Tutto viene trattato con profondità, con attenzione, con rispetto, ma, ad un’occhiata più arguta, si nota come questo tutto sia un qualcosa di sensibilmente significativo ma ugualmente risaputo. Nella sua origine, esposta in una maniera così plateale, il Joker di Phillips perde l’alone del mistero. Pur ricercando un’accurata originalità, il copione plasma un malvagio non prettamente diversificato dagli altri, un ennesimo pazzo divenuto tale perché ingannato dalla madre, abusato nell’infanzia, respinto sul lavoro, obliato dagli altri. In Arthur non si percepisce l’unicità, l’esclusività che ha il Joker fumettistico. 

 “Joker” vuol narrare la gestazione e il parto di un essere perfido, della nemesi di un grande eroe. Ma riesce a mostrare realmente il Joker?

Cos’è che rende Arthur il Joker? Cos’è che differenza questo protagonista da, ad esempio, Travis Bickle, il personaggio principale di “Taxi Driver”, opera basilare a cui “Joker” si ispira nettamente nello stile e nell’esecuzione?

L’evoluzione che investe i due personaggi, Arthur e Travis, è molto simile, tanto da essere sovrapponibile. Entrambi, emarginati, si trascinano, notte dopo notte, fra le periferie cittadine. Via via che osservano la realtà sotto una nuova lente, comprendono gli orrori, le depravazioni di una metropoli malata, repleta di cittadini perversi ed incurabili. Entrambi vengono lasciati soli, condannati ad avere come unica compagnia la loro voce interiore che li tormenta, li agita, li esaspera. L’uno e l’altro hanno facilmente accesso ad un’arma che diverrà il mezzo con cui veicolare il loro odio, il modo con cui incanalare la propria ira. Dunque, facendo le dovute proporzioni, cosa differenzia davvero Arthur da Travis? Perché chiamiamo Arthur “Joker”? Perché ce lo suggerisce semplicemente il titolo? Perché Arthur decide d’appellarsi in tal modo o perché s’impasticcia il viso come un burlone?

Qual è il confine che separa Arthur da Travis? Dov’è la differenza tra i due se non in un semplice espediente simbolico dato dal trucco scenico?

  • Arthur Fleck è il Joker! E perché lo sarebbe?

Cosa possiede Arthur del Joker? Poco, in realtà. Egli è una versione alternativa, realistica, il prodotto di una società deforme, la personificazione di un dramma intimo, di una sofferenza immane che sfocia nell’apatia. Il Joker di Phoenix è un’incarnazione diversificata, adattata alla realtà ordinaria, ma proprio per tale ragione dobbiamo domandarci: cosa rende Arthur il Joker?

Arthur non è il Joker, è un uomo qualunque. Ed è questa la “morale” più spaventosa del film in sé. Tutti noi potremmo essere Joker! Joker è una ferita lacerante che non può essere rimarginata, un trauma insuperabile che libera i mostri interiori. Anche l’uomo comune, il meno adatto, può diventare Joker se va incontro ad una serie di eventi devastanti. Il tutto può consumarsi in una sola, nefasta giornata. E’ una grigia giornata a rompere ogni freno inibitore e a scatenare gli anarchici desideri di libertà.

Persino il Joker dei fumetti viene presentato come un uomo qualunque. Ma, se vi soffermate un attimino a pensare, anche gli stessi supereroi, in genere, sono uomini qualunque: persone ordinarie a cui accade qualcosa di straordinario. Un incidente in laboratorio, un imprevisto, un evento inconsueto trasformano una esistenza normale in un qualcosa di profondamente nuovo. Anche il Joker era un essere come tanti altri. Ma il film “Joker” dimentica una parte fondamentale dell’evoluzione di questo villan: l’incidente. Il tuffo nel vascone contenente le sostanze chimiche è l’elemento di svolta, l’accadimento che segna la vera nascita del Joker. La storia del famoso antagonista non deve essere vincolata a questo episodio, naturalmente. Tuttavia, il Joker non sceglie di truccarsi, il trucco gli viene imposto. Ed è proprio nella deturpazione estetica che il Joker vede la propria nascita. Il suo viso imbrattato, alterato, insudiciato in maniera irreversibile rappresenta la fine, un qualcosa da cui non si può più tornare indietro.

Joker, una volta emerso dalla pozza chimica, scruta il suo riflesso ed impazzisce. In quell’attimo, la vita gli appare come un gigantesco ed assurdo scherzo. L’uomo, disperato, si ritrova con il viso avvolto da una miscela di colori: la pelle è chiazzata di bianco, le labbra di rosso, i capelli di verde. E’ tutto così assurdo e grottesco che il Joker comincia a ridere. Nel proprio riflesso, Joker vede il macabro riso maligno di un destino crudele e beffardo. Per lui, non resta che ridere, che accettare l’ironia della situazione.

Il trucco da clown non è un’opzione vagliata e decisa, non è una pittura da battaglia né un simbolo da competizione, ma è una tragedia che ha mandato in cocci la sua ragionevolezza. Joker avverte la follia dentro di sé, ma è la bruttezza estetica a farlo inorridire, poiché da quella non vi è più scampo. Lo stesso Joker di Heath Ledger, sebbene non avesse davvero il volto tempestato di colori, nutriva un’ossessione per le proprie cicatrici. Esse gli avevano eternato la faccia, l’avevano fermata in un sorriso agghiacciante. Egli pativa una fissazione per le sue cicatrici e, di volta in volta, inventava una storia diversa su come aveva subito tali ferite. Il Joker nasce Joker dal dolore interno, dalla pazzia intima, ma anche e soprattutto dall’orrore esterno mirato sul proprio corpo. Nella sua estetica deturpata, il Joker vede il proprio squilibrio interiore, per molto tempo domato, represso, sopito, fuoriuscire improvvisamente in tutta la sua irruenza. Nel suo volto, bloccato in un ghigno innaturale e costante, Joker ammira l’insania che aveva all’interno e che adesso è trasbordata fuori, attaccandosi con quei colori sgargianti alla sua epidermide.

Al Joker di Phoenix manca questo evento, ciò che rende Joker pienamente Joker: l’aver subito una bizzarra disgrazia fisica. Il Joker di Phoenix non ha il volto stretto in una risata perpetua, sceglie volontariamente di mascherare il proprio viso. Egli non è costretto a diventare Joker, sceglie di esserlo. Ma è la semplice la scelta a renderlo tale?

Il Joker del fumetto subisce questa bislacca sciagura proprio perché la storia di questo criminale vuol suggerirci che non è soltanto un uomo normale a poter diventare Joker. Invero, è un uomo normale a cui succede qualcosa di tremendamente anormale a poter diventare Joker. Un episodio che trasforma un volto comune in una maschera comica partorisce Joker.

Il “giullare” interpretato da Phoenix salta totalmente questo processo di iniziazione. Egli sceglie di diventare Joker truccandosi semplicemente, ma è come se non lo diventasse mai realmente. Questo perché l’ironia sadica del Joker, la sua verve originale, il suo senso dell’umorismo crudele, cruento ma pur sempre artistico, non emergono in lui. Tutte queste distintive caratteristiche che differenziano tale villan dal comune sociopatico, dal semplice “matto”, dal consueto criminale efferato, in quest’ultimo adattamento non vengono affatto evidenziate se non per impercettibili richiami. Il Joker di Phoenix è uno squilibrato, un maniaco, uno psicopatico con una maschera di trucco, così come possono esserlo tanti altri disseminati per il mondo. Mirando l’azione finale del Joker di questo lungometraggio si vede soltanto violenza, torbida, oscura, vendicativa, ma pura e semplice violenza, nient’altro. Ed il Joker è anche di più!

  • L’ironia del clown: “Niente battute?! Sharpy, ma ha letto la mia cartella clinica?

Il Joker di Phoenix è diverso, in svariati aspetti. Questo lo dimostra anche la scelta che il personaggio compie nel selezionare le proprie vittime, i propri omicidi calcolati. Egli uccide chi gli ha mosso ingiuria, chi lo ha offeso, chi è stato scortese con lui. Fredda il proprio idolo, reo di volerlo prendere per i fondelli e risparmia il suo vecchio collega affetto da nanismo, poiché l’unico a non averlo mai deriso. Scelte che poco hanno a che vedere con la glaciale indifferenza del Joker.

Con quanto sto scrivendo non sto, di certo, affermando che il Joker del film del 2019 non sia un vero Joker. Nei fumetti, il personaggio possiede notevoli incarnazioni e non esiste una versione univoca e totale, or dunque l’interpretazione di Phoenix va intesa come un qualcosa di nuovo, d’apprezzare in qualunque caso. Detto questo, la vena scherzosa, beffarda, tagliente resta un elemento che è faticoso non riuscire a trovare in Joker. Quella di Phoenix è certamente una versione degna, riuscitissima, potente, che verrà amata, venerata dai fan e dai cinefili sparsi per tutto il globo terrestre. E’, a mio dire, semplicemente una versione troppo generica, troppo poco fumettistica, talmente realistica da far svanire i caratteri del fumetto da cui il Joker è tratto per divenire un personaggio non più da carta stampata ma solo e soltanto da cinema. Pertanto, un cattivo adattabile a tanti altri film, a tante altre trame, un personaggio che non vanta l’unicità del Joker cartaceo. L’opera finisce, di conseguenza, per creare un cattivo sinistro, lunatico, complesso ed articolato, ma non il Joker nella sua veste classica, conosciuta, iconica.

Il riso misto al terrore, l’ironia miscelata alla paura, la lucidità alla follia, il macabro all’idilliaco: è questo che rende Joker se stesso. Senza la sua inimitabile ironia, il Joker perde la sua caratteristica di base. Sacrificando la burla, l’insana comicità, si perde il Joker. Vi è tanto dolore, tanta rabbia, tanta ira nelle parole proferite dal Joker di Phoenix, ma non vi è nessuna vena macabra nella sua parola, soltanto bile, sdegno, furore. Questo è, in parte, giustificabile tenendo presente che questo film si limita solamente a narrare un inizio, ma non basta. Guardando questo film si vede l’agire di un disagiato, un reietto, di un abbandonato, un disilluso con problemi psichici che trova nella brutalità un modo per potersi sentire vivo. Se questo Arthur non avesse il volto truccato da Joker, perché dovremmo riconoscerlo, indicarlo come tale?

Nella pellicola di Todd Phillips si avverte la paura di far ridere, di usufruire della goliardia del Joker, come se essa fosse una caratteristica che ne mina la serietà, il terrore che il Joker dovrebbe alimentare. “Joker”, fotogramma dopo fotogramma, crea e modella con grande perizia la genesi di un qualunque disagiato, di un qualunque sofferente, sacrificando le restanti caratteristiche di una personalità che è estremamente precisa, iconica ed unica sin dall’esordio. Non vi è ironia, giocosità, spirito nel Joker di Phoenix proprio perché il suo personaggio si attiene con tutte le sue forze ad un taglio realistico. Ma così facendo, la fantasia, l’inventiva, l’originalità del fumetto vengono neutralizzati.

Todd Phillips, pur con tutti gli innegabili meriti della sua eccellente opera, non ha avuto l’audacia che ebbe Tim Burton quando, con il supporto di Jack Nicholson, portò in scena la follia artistica, senza freni, ironica, raccapricciante, funebre eppure ugualmente in grado di strappare un sorriso, del Joker. E’ molto più facile portare in scena la violenza, la perfidia di un personaggio che ricerca solo la vendetta, piuttosto che mostrare un antagonista che, nell’ironia, nel surrealismo ha la propria caratteristica imprescindibile. Anche in un contesto concreto, veritiero, pragmatico, realistico come quello della recente opera filmica sarebbe stato certamente possibile mostrare, sul finale, un Joker sarcastico, irridente, sardonico, caustico nel consumare le proprie atrocità sempre col sorriso sulle labbra. Un Joker che, dal dolore sopportato, avrebbe fatto fuoriuscire il proprio dirompente, insano e fatale buonumore.

Il Joker di Todd Phillips rinuncia alla comicità perché è cosciente di una grande verità: con l’ironia non si anima realmente la folla, la si ravviva, maggiormente, con la cruda violenza.

"Arthur Fleck, il Joker umano" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
  • Considerazioni finali

 “Joker” non è la storia del Joker. E’ la storia di un uomo abbandonato, di un qualunque di noi esseri umani. La sostanza del Joker, la parola del Joker, la sua immagine, non sono che una metafora, un pretesto per immortalare, su di un nastro di celluloide, la tragedia di un ragazzo che voleva diffondere gioia e serenità ma finirà per elargire morte, nichilismo, sovversivismo.

L’opera filmica partorisce un Joker umano, un’allegoria più che un vero carattere. “Joker”, più che un film sul personaggio in sé, è, infatti, da considerarsi un thriller psicologico che usufruisce dell’appellativo “Joker” per estendere la propria analisi all’uomo normale, al negletto, al cane di paglia stanco d’essere vessato. Una volta intuita questa verità, si può affermare, in conclusione, che “Joker” sia un film non rivoluzionario ma ottimamente realizzato, compassato, greve, angoscioso, un tripudio di buonissimo cinema e meriterà gli Oscar che, con ogni probabilità, porterà a casa. Da fan sfegatato della DC Comics ne sarò felicissimo.

Voto: 8/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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(Libera e personale composizione sul personaggio di Mr. Freeze, uno dei massimi antagonisti di Batman)

  • Chiamatemi Victor!

Durante una fredda serata invernale, un uomo, di cui vorrei narrare il vissuto, se ne stava immobile nella foresta, tra le fronde degli alberi che avevano perduto il lor colore verde. In quello strano luogo, regnava un tacito buio, non vi era alcun suono della natura a ravvivare il silenzio, nessun raggio di luce a rischiarare l’oscurità. La fauna aveva trovato riparo dal vento pungente tra le piccole tane, sui rami, persino tra le fessure scavate nei tronchi; la flora, invece, ne aveva assorbito i nefasti effetti. Le chiome degli alberi avevano lasciato cadere le foglie ingiallite, avvizzite nel procedere dell’autunno e ora avvolte da una coltre di neve. Tutto era divenuto silente, il bosco appariva esanime ma pur sempre vivo. Chiuso in se stesso, smarrito tra i sentieri dell’intima coscienza e rinchiuso in un guscio di metallo che lo isolava dall’esterno, costui osò lasciarsi andare a dei pensieri esuli, liberi, fuggenti. Furono tante le riflessioni che gli sovvennero di lì a breve. Aveva spesso la mente in tempesta, un turbinio dentro un fortunale. In lui si sovrapponevano in sequenza decine e decine di rimembranze che assumevano le forme di minuscoli fiocchi di neve venuti giù dal cielo con copiosa insistenza. Quella sera si era soffermato a ragionare sullo scorrere delle stagioni, su quanto l’inverno potesse destare l’essenza segreta della vita, ma soprattutto…sul proprio passato.

Tanto tempo fa, un dì lontano lontano, viveva un uomo, ad oggi, dimenticato. Aveva il volto candido come la coltre bianca, i capelli corvini, arruffati in un folto ciuffo a mo’ di cespuglio, e gli occhi cerulei, vispi e agitati come un mare in tempesta. Sulle gote e attorno al mento non si intravedeva   neppure un accenno di peluria. Sul naso portava un paio di ingombranti occhiali con spesse lenti. Era imponente, così alto da esser costretto a restare curvo e col capo chino verso chi, dal basso, gli rivolgeva parola. L’uomo di cui desidero narrare il passato era un uomo di scienza, e si chiamava Victor. Non diede mai un certo valore al suo nome, per lui era poco più che un sostantivo.

C’è un che di magico attorno ad un nome. I nomi sono un insieme di lettere atte ad identificare una persona, un oggetto, un’entità. Cosa sarebbe il mondo senza i nomi? Probabilmente, un luogo privo d’identità chiare e ben distinte. I nomi rendono cristallina, come acqua di sorgente, l’idea di un qualcosa, e permettono di discernere ciò che evochiamo con la mente e desideriamo custodire nel cuore. Ciononostante, i nomi indicano ma non danno una conoscenza assoluta. Essi rendono riconoscibile una “categoria”, una corrispondenza, ma non determinano l’entità né raccontano più di quanto dovrebbero. William Shakespeare era solito ricordarlo: una rosa, chiamata in un modo differente, perderebbe forse il suo profumo? Rinuncerebbe ai suoi petali delicati? Non avrebbe più alcuna spina lungo il suo gambo? Una rosa rimarrebbe tale anche se le venisse affibbiata una nuova denominazione. Dunque, qual è la vera importanza di un nome? Talvolta, esso non è che un appellativo, altre volte, invece, possiede la grandezza di serbare una storia, se non addirittura di anticipare la vocazione di una vita.

Victor non si era mai soffermato a pensare al proprio nome e a quanto esso riuscisse a celare più di quanto potesse far intendere. Sin da bambino, egli era un assiduo lettore. Trascorreva le giornate rinchiuso nella biblioteca di famiglia a leggere quanti più libri poteva. Victor aveva un appetito insaziabile e, anno dopo anno, ingurgitava nozioni di scienza, chimica, anatomia e medicina. Anche la letteratura di fantascienza gli scaldava il cuore, soprattutto quella relativa ai racconti in cui taluni personaggi di fantasia riuscivano ad ingannare la morte con il prodigio della loro mente. Il protagonista di un vecchio romanzo inglese, scritto da Mary Shelley, condivideva con Victor lo stesso nome. Non se ne accorse per numerosi lustri, ma Victor Fries aveva in comune molto di più della semplice appartenenza nominale con Victor Frankenstein, personaggio cardine dell’omonimo capolavoro letterario. Quel nome che li accomunava, quel “Victor”, presagiva l’esiziale aspirazione di una scoperta funesta che entrambi ebbero relativa alla vita e alla morte, seppur con le dovute diversità.

Al dottor Frankenstein interessava soltanto la vita umana: la sua distruzione e la sua creazione.”

La manipolazione della nascita, la resurrezione, la creazione di un’esistenza originaria, inusitata, erano i fondamenti che ossessionavano l’insana ricerca di questo arcaico scienziato. Frankenstein agognava di creare una vita diversa, difforme. Scovò così nella mostruosità la nuova normalità. Victor Fries, invece, si interrogava sulla longevità dell’esistenza e sull’inevitabile dipartita di un essere vivente, e non riusciva a capacitarsene. Aveva appreso quante più competenze di medicina poté, eppure, faticava a comprendere come l’uomo riuscisse ad accettare la morte. Fu proprio in quegli anni che egli si appassionò, con sempre maggiore trasporto, alla stasi criogenica. Fries condusse i suoi primi esperimenti su alcune bestiole malate, tentando di arrestare la loro sofferenza, di evitare ciò che per loro era oramai inevitabile. Il freddo, per lui, divenne il mezzo per tentare di arginare la triste mietitrice, di combatterla e, un giorno, sconfiggerla definitivamente. Erano, però, ricerche insolite, sinistre, per un ragazzo. Quando Victor fu scoperto, venne allontanato dai suoi famigliari, intimoriti da una genialità così difficile da addomesticare. Fu spedito in collegio, e poi proseguì i suoi studi di criogenia in solitudine.

Victor Frankenstein voleva plasmare una “sostanza” distorta, partorire una creatura inconsueta, rivoluzionaria, finì, invece, per concepire un mostro violento, subnormale, primitivo: la regressione della sua ricerca. Al contrario, Victor Fries voleva far sì che la vita non smettesse di protrarsi, e che il filo teso di un’esistenza mortale continuasse ad essere filato da Cloto e Lachesi, e che non potesse essere più reciso, neppure dalla vecchia dall’inquieto nome, Atropo.

  • Caldi ricordi

Diversi anni dopo, Fries trovò lavoro presso la GothCorp come biologo molecolare esperto in criogenia. Un mezzodì di fine ottobre, Victor stava passeggiando tra i quartieri affollati di Gotham Plaza. Svoltò verso la strada che dava sul mare, desideroso di raggiungere la baita più vicina. Di lì a poco, notò una donna seduta da sola su una panchina e rivolta verso il tramonto. Aveva lunghi capelli biondo platino che le destavano un viso rosato, accentuato da due guance purpuree, occhi blu come un cielo senza nuvole e profondi come un pozzo colmo di segreti e un lungo vestito azzurro lievemente mosso dal vento. Intorno al collo, portava un ciondolo d’argento con un ricamo circolare simile a un batuffolo di neve. Quando la vide, Victor si sentì toccato da una brezza leggera, carezzevole, mite come un soffio delicato sulla pelle. Non poté mai dimenticare il primo incontro con Nora, la sua futura sposa, il momento più caldo del suo remoto trascorso. Era bella come una fioritura di marzo, tanto raggiante da somigliare ad una stella del mattino, così delicata come un bucaneve sbocciato a fine inverno. Victor le si avvicinò con timore d’esser ignorato, ma lei gli rivolse attenzione con un sorriso timido e gioviale. Molti mesi dopo, la prese in moglie e vissero insieme felici.

Arrivò poi la malattia, infausta e terribile come un’improvvisa tormenta. Era accaduto tutto così rapidamente, Nora si stava spegnendo, giorno dopo giorno. Si accingeva a morire, afflitta da un male interno che la stava divorando. Victor non riusciva a darsi pace. Non gli interessava più dormire, neppure mangiare. Tutte le sue energie erano impiegate a trovare una cura, ma il tempo, inclemente, non avrebbe concesso alcuna possibilità.

Avete mai visto un fiore? Una cosa così bella, così piena di vita, appassire poco a poco e marcire.  Nora aveva una dolcezza incomparabile, era talmente graziosa d’esser divenuta, agli occhi del marito, un fiore raro, unico, splendido, deciduo, che nasce una sola volta e che muore troppo in fretta. Nora si era tramutata in un fiore di cactus, il fiore più bello di tutti, che sboccia una volta l’anno e scompare ventiquattro ore dopo. Ella stava svanendo, la meraviglia della sua vitalità si stava affievolendo, la sua pelle rossastra stava diventando cerea, il tocco della sua mano stava sperdendo ogni forza, era esangue e la sua espressività mortifera. Una sera, vedendolo stremato dalla fatica, Nora gli sussurrò con voce fioca che dovevano arrendersi, e godersi insieme quel poco che potevano ancora. Ma Victor non poteva accettare un tale destino, non poteva perderla, né ora né mai! Decise così di utilizzare le sue conoscenze per conservarla criogenicamente, fin quando non avesse trovato una terapia adeguata. Raccolse il fucile congelante, il fiore all’occhiello del proprio lavoro, una sua invenzione che riusciva a solidificare e raggelare istantaneamente ogni cosa colpita dal suo raggio. Quando guardò per l’ultima volta Nora muoversi, pianse, pigiò il pulsante e la colpì.

Custodì poi il corpo congelato in una teca, che avrebbe contemplato giorno e notte, in attesa di risvegliarla per essere guarita. Nora restò per sempre il ricordo più fervido che Victor mantenne nelle proprie gelide memorie. Quella bara di ghiaccio contenente il corpo e l’anima del suo amore fu l’ultima cosa che egli vide prima dell’incidente. Nel suo laboratorio, una notte fredda, un fascio di luce lo avvolse, e un’onda criogena lo avviluppò. Cadde in una pozza d’acqua ghiacciata, ricoperto da sostanze chimiche che gli penetrarono nei tessuti, mutandogli il metabolismo. Quando emerse, aveva perduto i capelli, l’epidermide era livida, ed appariva gelido come la morte. Avvertì prima un torpore, poi un formicolio, e infine una fitta lancinante. Il freddo che generava il suo respiro riuscì ad attenuare la sofferenza fisica, mai quella dell’anima.

Analogamente alla propria adorata consorte, Victor patì il freddo, e rimase prigioniero di uno scrigno di ghiaccio. Perduta la sua sposa, sospesa tra uno speranzoso risveglio e il sempiterno dormire, egli abbracciò un imperituro inverno. Victor emanava frigidità al sol tocco, ogni cosa che la sua mano lambiva veniva investita da un gelo artico e moriva. Persino lui fu sul punto di soccombere. Non poteva sfuggire al freddo, non poteva scampare alla sua presa. Costruì, dunque, una tuta ermetica che gli permettesse di mantenere il proprio corpo al di sotto dello 0, con un elmo in vetro che lo mantenesse separato dall'ambiente esterno. Celò i suoi occhi dietro un paio di occhiali neri come pece da cui scintillavano due luci rosse come rubini incastonati su di un volto imperscrutabile. Quel giorno Victor morì, non restò che nulla del suo credo, se non la volontà inalterabile di salvare la propria sposa. Mr. Freeze aveva visto la luce. Ero nato!

  • Cuore di ghiaccio

Il “freddo” svela solo una parte dei suoi molteplici misteri, quella più superficiale, come se fosse una montagna di ghiaccio sorta nell’oceano e che procede alla deriva, trasportata dalle correnti. In molti, coloro che intravedono solo l’apparenza di un “iceberg”, credono che esser “freddi” significhi esser vacui, privi di affetti, malvagi. Io non lo sono… Non lo sono mai stato! Vivere in un progressivo e inalterato inverno vuol dire esser consci del dolore. Il gelo concilia la riflessione, l’inverno la vicinanza.

L’autunno traghetta la natura come un nocchiero, sino alle sponde di un ciclo caduco. Il terreno, cosparso di foglie rattrappite, è il preludio all’avvento del gelo, della stagione più temprante di tutte. D’inverno non nasce la vita, i fiori non fioriscono, i semi non germogliano, le colture scarseggiano. L’ultima stagione dell’anno porta con sé il fardello d’esser mesta, algida, stanca. L’inverno è un sentimento languido ed accorato, non ha la rifulgenza della primavera, la sfavillante letizia dell’estate, la fioca malinconia dell’autunno - ne sono consapevole. Ciononostante, esso è rinvigorente. E’ il suo incanto, la sua immutata magia. Osservare un paesaggio innevato, restando nel tepore della propria casa, vicino ad un caminetto acceso, con la persona più cara, è quanto di più significativo si possa provare. Il freddo ha il potere di conferire intimità agli istanti, arrestare il progredire del tempo, di rendere una cosa bella perpetuamente tale, di cristallizzare una scena, d’arrestare lo svolgersi di un momento fintanto da renderlo indelebile. E’ pur vero che l’inverno non è primavera, non possiede, tra le proprie corde vocali, il canto soave di una madre natura che attua la fioritura attraverso una nenia di rinascita, il pianto di un’esistenza appena nata. Il freddo non genera la vita, ma riesce a conservare, a proteggere, a mantenere intatta la spiritualità di uno corpo fiacco, piegato dalla malattia. Il freddo è quanto di più lontano e, al contempo, più vicino alla vita e alla sopravvivenza ci possa essere.

Niente resiste al freddo più acuto, eppure, io vivo insieme ad esso, in un abbraccio indivisibile, in una coesistenza all’unisono. Chiamatemi Mr. Freeze, quello che Victor era, io non lo sono più. Imprigionato in questa armatura di ghiaccio, ho ottenuto l’immortalità, ciò che ho inseguito nei miei studi. Non ho mai compreso perché l’uomo accettasse, in maniera così rassegnata, il proprio corso, e perché la morte avesse, infine, sempre ragione sull’esito dei mortali. Come può un uomo che ha perduto l’amore, continuare a vagare in solitudine su questa Terra, in quel dedalo infido e ingannatore che è il mondo esterno? Come si può genuflettere il capo ad un fato tanto crudele? Perché tutti continuano a piangere i propri morti senza impiegare ogni sforzo per annientare la morte? Io non potrei mai assecondare l’addio della mia diletta. Il mio freddo immobilizza, dona l’eterna giovinezza, allontana la vecchiaia, interrompe ogni decadimento, anestetizza il dolore corporale ed infonde una durevole presenza. Nulla germoglia al freddo ma tutto può essere alleviato con esso. Una vita umana fluisce troppo in fretta. L’istante andato, l’attimo smarrito, il momento perduto, tutti loro svaniscono via come neve disciolta al sole, e possono essere conservati da intangibili ricordi. In fondo, cos’è un ricordo se non un refolo freddo, che fissa un periodo e lo immortala nel sovvenire della mente. Nora è ancora, e sempre sarà, il mio ricordo più caro, il solo che riesca a riscaldare e a scandire i battiti del mio cuore di ghiaccio. Il freddo, come una rievocazione, può eternare il passato più lieto. Ma io non voglio che la mia Nora, la mia sola primavera, resti un elusivo riecheggiamento.

"Mr. Freeze" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Intrappolato in questa mia tuta criogenica, non posso sentire il vento sfiorarmi il viso, non riesco a toccare la mano di chi amo. Il freddo è stata l’unica salvezza per la mia amata, ma è stata altresì la mia più grande condanna. Sono scese le tenebre. Questo bosco e quella luna, alta nel firmamento e sottile come un filato d’argento, non hanno più nulla da suggerirmi coi loro lamenti laconici. E’ il momento di tornare dentro, nel mio rifugio più tetro. Mi inginocchio dinanzi alla teca di vetro in cui dorme Nora. Quando la guardo riposare nella sua cripta come una principessa di ghiaccio, le poche lacrime che riesco a versare raggiungono a stento le gote e si dissolvono nell’aria. E’ questa la nostra caverna, il luogo dove tormenti e paure restano fuori, lontano; qui, all’interno, rimane solo la leggiadria di un sogno. Troverò il modo di curarti, amore mio. Te lo giuro!

Lei è sempre giovane e bella, sogna, librandosi in un volo senza fine, e non ha alcun affanno sul viso. Tengo in mano un carillon, con una ballerina che danza, con indosso un abito azzurro, raggiunta da una nevicata incessante. E’ lei! E’ Nora come sarà un giorno, dolce e nuovamente forte quando tornerà a vivere. Attivo il meccanismo della scatola musicale, mentre fuori comincia a fioccare la neve, la calda carezza del nostro algente inverno; le domando se vuole ascoltare la nostra canzone. Mi risponde di sì.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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"Batman, Catwoman e il Pinguino" - China di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

  • Nascita

Tutti i rampolli dell’alta società di Gotham vestivano con frac neri, papillon e camicie bianche, camminavano in gruppi numerosi con andature preimpostate, talvolta goffe, somigliando a pinguini imperatori su scivolosi ghiacciai. Il ricco Tucker Cobblepot non era diverso da questi! Una sera, se ne stava immobile davanti alla grande finestra del salone. Il suo sguardo verso l’esterno sembrava volesse ricercare, tra i candidi fiocchi di neve, una tanto agognata serenità. Sebbene apparisse distinto, la sua faccia non riusciva a nascondere l’inquietudine che lo attanagliava. Se il portamento del nobiluomo non suggeriva più del dovuto, i suoi occhi smarriti continuavano a tradirlo. Per stemperare l’intollerabile tensione, il magnate fumava una sigaretta infilata nel suo bocchino, mentre con l’arcata superiore dell’occhio sinistro stringeva il solito monocolo. D’un tratto, egli avvertì l’urlo straziante della moglie. Ester si trovava nella stanza adiacente il soggiorno, e stava dando alla luce il loro erede, Oswald. La prima a sgattaiolare via da quella camera fu una sconvolta infermiera. La seguì il medico, coprendosi il volto con un fazzoletto di stoffa. Tucker corse dalla moglie, e quando la raggiunse si lasciò andare ad un grido di disgusto. Ester stava bene, ma il nascituro era spaventosamente deforme. Nel periodo natalizio, il bambino giaceva rinchiuso all’interno di una gabbia nera, per via dei suoi atteggiamenti aggressivi. Orripilati dal concepimento del loro primogenito, e addirittura spaventati dalla sua violenza, i genitori meditarono un piano per sbarazzarsi della creatura. Si incamminarono in una fredda serata invernale alla volta di un parco in cui, un tempo, sorgeva uno zoo. Tutt’e due mandavano avanti la carrozzina dentro la quale riposava, come in una oscura prigione, l’ignaro neonato. Quando furono in prossimità di un ponte, gli sposi incrociarono un’altra coppia, intenta anch’essa a passeggiare per strada sospingendo una carrozzina bianca.

Il regista inserisce questa famigliola per un breve passaggio e, altrettanto fugacemente, la fa sparire. Ma chi erano costoro? E se fossero i Wayne con il loro neonato Bruce? Non c’è dato sapere con certezza, e se, per questioni d’età, Oswald e Bruce si sarebbero potuti incontrare appena nati. Resta ancora oggi suggestivo il mistero circa questo strano incontro. Bruce e Oswald, i futuri Batman e Pinguino, nella visione del cineasta hanno in comune più di quanto credano. Se la storia non fosse andata così come stabilito dall’opera filmica, Bruce e Oswald, rampolli della nobiltà Gothamita, avrebbero frequentato i medesimi ambienti e, pertanto, si sarebbero conosciuti in tutt’altre vesti. Un fato imprevedibile, sin dalle origini, ha voluto, tuttavia, snocciolare un futuro diverso per i due, destinati a scontrarsi come acerrimi nemici. Oswald era una prole ripudiata, dominata da un destino terribile che lo ha voluto orripilante nell’aspetto e nel carattere, Bruce, invece, era un figlio adorato, la cui sorte avversa lo ha scelto come testimone inerme di un omicidio in una drammatica notte, quella in cui persero la vita i suoi cari.

Tucker e Ester sganciano il vano culla dalla carrozzina e, senza apparenti remore, gettano l’infante nel fiume così che possa morire per il gelo. Sconvolti, i due si soffermano ad osservare il particolare involucro che, trascinato dai fluttui, scompare nei bui cunicoli delle fogne. Come accadde a Quasimodo, il protagonista del capolavoro letterario di Victor Hugo, “Notre-Dame de Paris”, Oswald venne abbandonato per la sua bruttezza e per la sua inaccettabile diversità. La ricca e blasonata famiglia dell’antagonista del lungometraggio, così come è stata ideata da Tim Burton, si contrappone all’umile famiglia di gitani a cui apparteneva Quasimodo, l’uomo formato a metà, così come crudelmente era stato soprannominato da Claude Frollo, arcidiacono della Cattedrale parigina.

Il destino di Oswald è dunque offerto al volere delle acque, un accadimento che rievoca il racconto biblico di Mosè, anch’egli affidato alle correnti del Nilo dalla madre Jocabel. Parallelismi simili che però dipanano un’intenzionalità contraria: se Mosè era stato lasciato per essere salvato, Oswald viene abbandonato per essere obliato.

Invero, la culla del piccino viene dondolata dalle putride acque fognarie fino ad una grande caverna sotterranea del “Mondo Artico”, luogo in cui ha trovato asilo una colonia di pinguini, ultimi superstiti della sezione antartica del dismesso zoo cittadino. I pinguini rinvengono la “cesta” con il nascituro, adottandolo come fosse un cucciolo della loro specie.

"Batman" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

  • Solitudine

33 anni dopo gli eventi fin qui narrati, Gotham City è sotto la protezione di Batman (Michael Keaton), vigilante mascherato e paladino della metropoli. A turbare la ritrovata quiete della città sono le voci riguardanti gli avvistamenti del “Pinguino”, un misterioso essere mezzo uomo e mezzo uccello che si cela nelle fogne.

Molteplici sono i riferimenti religiosi che possono essere colti nel film di Burton. Oswald nasce nella stagione natalizia, un periodo in cui la religione cristiana celebra la venuta al mondo di Gesù.  Oswald (Danny DeVito), conosciuto con lo pseudonimo di “Pinguino”, torna nella sua città natale quando ha compiuto il trentatreesimo anno di vita. Un’età straordinariamente simbolica per la fede cattolica, poiché richiama l’ultimo anno d’esistenza terrena del Messia. Questi interessanti elementi fanno sì che la figura del Pinguino si presti, con le dovute proporzioni, ad una rilettura “mistica”, tanto da poter essere considerato il “profeta” di una nuova razza, in cui l’umanità e la bestialità animale si mescolano in un agglomerato raccapricciante.

In un imprecisato momento della sua vita, Oswald venne assoldato come fenomeno da baraccone. Raggiunta l’età adulta, il “freak” aveva il seguente aspetto: era un uomo tarchiato e informe, per di più calvo, anche se dalla sua nuca scendevano lunghe ciocche di capelli neri, unti e sudici. Un vistoso naso aquilino, appuntito e spiovente come il rostro di un grosso rapace, era la prima cosa del suo volto a balzare all’attenzione. I denti erano neri come la pece, e le sue mani avevano soltanto due dita, poiché le restanti tre si erano fuse insieme, formando una sorta di pinna.  Il suo incedere era dinoccolato e dava la sensazione d’essere affaticato: in tutto e per tutto egli assomigliava ad un Pinguino. L’aspetto designato per l’antagonista del film fu accuratamente ideato e realizzato sui connotati fisici dell’attore Danny DeVito attraverso un impegnativo lavoro di trucco. Burton voleva creare un cattivo grottesco e agghiacciante, sociopatico e terrificante, un personaggio che venisse odiato ma che, inaspettatamente, potesse anche essere compatito. La deformità del Pinguino non riguarda solo l’aspetto fisico ma anche la mente e parte del suo cuore. Oswald è tanto mostro esteriormente quanto interiormente, peculiarità che più lo differenzia dal Quasimodo di Hugo. Nel corso della sua esistenza, il Pinguino sviluppò una bizzarra ossessione per i “para-pioggia”. La sua nutrita collezione di ombrelli può essere considerata alla stregua di un arsenale, poiché il Pinguino nel tempo li ha modificati, trasformandoli in micidiali armi.

La prima apparizione di Bruce Wayne nella pellicola lo mostra trattenersi, insonne, nel suo studio. Il volto è sperduto, l’espressione corrucciata e la mano è posizionata all’altezza del mento, come se volesse rimarcare la riflessività del momento. Bruce è un pensatore e, in quegli attimi, egli sta scorrendo il suo passato. In fuggevoli attimi di ripresa, Keaton ha la capacità di esternare il tormento interiore del suo Batman, conturbato nel rimuginare. Il Bruce Wayne di Michael Keaton dorme di rado: di questo ne avevamo avuto un assaggio già nel precedente capitolo “Batman” del 1989. Dopo la notte trascorsa con la fotoreporter Vickie Vale, il protagonista faticava a prender sonno, e preferiva scacciare gli incubi vissuti ad occhi aperti temprando il proprio fisico con gli allenamenti. Anche in “Batman Returns”, cogliamo questa tensione silente, un’angoscia che tiene l’eroe in uno stato di allerta e di isolamento.

Selina Kyle (Michelle Pfeiffer) è un’impacciata e sciatta segretaria alle dipendenze di Shreck. Vive sola nel suo appartamento e possiede un gatto come animale da compagnia. Selina è gentile e premurosa in una realtà urbana infingarda e cattiva. La tragica morte per omicidio a cui andrà incontro, e il soprannaturale evento di resurrezione che la riporterà in vita, muteranno il carattere della donna la quale, una volta rientrata in casa, perderà il controllo di se stessa e distruggerà ogni elemento della propria casa che le ricordi la parte più pura, infantile e sognante della sua vita.  Selina strapazza e annienta i suoi peluches, imbratta col colore le magliette più “giovanili” del suo guardaroba, distrugge la casetta delle bambole che aveva sin da bambina per poi cucirsi un aderente vestito nero. Nasce da un parto violento e liberatorio Catwoman, l’essenza più incontrollata, tumultuosa, vendicativa e sensuale di Selina Kyle.

Batman, il Pinguino e Catwoman, sono, a loro modo, soli, incompresi, tormentati e nevrotici. Se Bruce ed Oswald personificano il bene e il male, Catwoman oscilla pericolosamente in ambedue i lati, incarnando un equilibrio instabile di luce e oscurità.  E’ interessante notare come i tre protagonisti corrispondano, nei loro alter-ego, ad animali: il pipistrello, il gatto e, per l’appunto, il pinguino.

  • Sospetto

Oswald, dopo aver scoperto la propria identità, ha l’intenzione di scalare le vette del potere municipale sino a ridurre la città di Gotham in cenere. Shreck prepara un accurato piano per riabilitare agli occhi dei cittadini-votanti la figura del Pinguino, aspirante sindaco di Gotham. “Batman Returns” mostra con quanta facilità possa essere manipolata l’opinione pubblica mediante un’orchestrata comunicazione politica basata sulla propaganda con l’ausilio dei media televisivi, i quali possono modellare ad arte, come argilla fresca, un’immagine distorta della realtà. Il Pinguino si presenta come il candidato perfetto, e attorno alla sua persona fa sì che si palesi l’alone astratto ma percettibile di un uomo umile, privato dei diritti che gli spettavano dalla nascita, orrido ma dal cuore d’oro. Sfoggiando un look in stile vittoriano, con frac, cappello a cilindro e monocolo, il mostruoso “uomo-anfibio” si trasforma in un “gentiluomo” raffinato, una mutazione che i giornali paragonano all’evoluzione del brutto anatroccolo in cigno.

Batman segue preoccupato l’ascesa al potere del Pinguino e nutre dei grossi sospetti. Già prima di quei giorni, una notte, l’eroe si era recato ad osservare l’agire del losco figuro, occupato a raccogliere informazioni sui primogeniti di Gotham con il “pretesto” di ricercare le proprie origini. La scena che vede Batman procedere con la batmobile durante una copiosa nevicata non è soltanto fascinosa ma didascalica circa le abilità intuitive del supereroe. In questa sequenza emerge infatti l’acume fine e il prodigioso intelletto di Bruce, il quale sospetta correttamente di un reo. La sfida a distanza tra il cavaliere oscuro e il Pinguino è appena cominciata.

"Batman e Catwoman" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

  • Passione

Tra il crociato incappucciato e la donna dai poteri felini si consuma, nelle lunghe notti di Gotham, una tormentata relazione passionale che vede l’amore e l’odio fondersi in un connubio torbido e divorante. Parallelamente alla relazione intrecciata nelle loro vesti mascherate, i due, senza conoscere le rispettive identità segrete, iniziano a frequentarsi anche come Bruce e Selina in pieno giorno. Passando dalla mattina alla sera, oscillando dalla luce all’oscurità, dal viso scoperto a quello nascosto da una maschera, in “Batman Returns” verità e inganni, segreti e bugie perpetrati dai due amanti s’intrecciano in una mescolanza separatoria eppure indistinguibile. Sia nelle loro vesti comuni di uomo e donna, sia nei loro panni di vigilatori in costume, la fatale attrazione che lega i due innamorati non fa che attanagliarli in un gioco distruttivo, dominato da un impeto carnale che sfocia in un erotismo selvaggio. Basti notare il costume della stessa eroina che evoca l’immagine di uno stringente e provocante abito sadomasochistico. Persino la frusta, l’arma utilizzata dalla donna per colpire e ferire Batman in uno dei loro interminabili duelli, richiama un tipo di arnese prestato a fini sessuali.

Il cavaliere oscuro e la “gatta ladra” si odiano e si amano, si perdono e si cercano, combattono senza esitazione nelle sommità dei grattacieli e poi cedono tanto da scambiarsi un intenso bacio sotto il vischio, dando consistenza e vigoria ad un rapporto in cui la violenza non è altro che un riflesso del desiderio, ed un colpo sferrato in combattimento risulta essere la richiesta disperata di una tenera carezza.  Contrariamente a ciò, tra Bruce e Selina, (attenzione non tra Batman e Catwoman), il rapporto appare più cristallino, poiché si instaura un amore che rappresenta quanto di più umano e speranzoso essi possano esprimere, quando non sono più schiacciati dagli obblighi imposti dai mantelli e dalle maschere. Durante un ballo in maschera, i tormentati amanti si incontrano per concedersi un lento. Proprio in tale contesto, essi rivelano la loro reciproca identità. Nella circostanza in cui tutti indossano un costume mascherato, Bruce e Selina colgono l’occasione per sdrucirselo di dosso vicendevolmente.

Se Batman e Catwoman sono obbligati a scontrarsi pur bramandosi, Bruce e Selina potrebbero riuscire a conquistare un futuro insieme. A tal proposito, togliendosi la maschera, sarà proprio Bruce ad implorare Selina, anch’ella strappatasi di dosso il suo “cappuccio”, di seguirlo nella sua casa, dimenticando il peso dato dalle rispettive controparti. Nei loro aspetti “umani”, entrambi ricercano un futuro insieme salvo poi dover rinunciare ad esso con totale frustrazione.

  • Abbandono

Varie e ambiziose erano le aspirazioni del Pinguino, ma, come un uccello che non può volare, egli non poté levarsi da Terra e raggiungere ciò che più agognava. Oswald dovette desistere dai suoi propositi quando Batman riuscì a smascherare le sue malefatte pubblicamente. Respinto dai cittadini di Gotham, isolato da Shreck, Cobblepot tornò al suo covo, meditando vendetta. Il suo efferato piano è pronto ad essere attuato: la cattura e l’assassinio di tutti i primogeniti della città, così da far pagare loro la “fortuna” d’essere figli di una famiglia che non li aveva dimenticati. Sarà nuovamente Batman a sventare i suoi intenti e a fermarlo poco prima che lo stesso Pinguino trovi la propria fine.

La scelta dell’antagonista di voler uccidere i primogeniti costituisce un ennesimo metro di paragone con il racconto biblico dell’esodo. La decima piaga d’Egitto scatenata da Mosè prevedeva, infatti, la discesa sulla Terra dell’Angelo della Morte, che avrebbe sottratto la vita dal corpo dei primogeniti dell’Egitto.

Il Pinguino era un essere cattivo, brutale e insensibile, ma allora perché negli istanti in cui procede lento, e seguita a trascinarsi nel suo stesso sangue, la musica malinconica e lo scorrere delle immagini riescono a far commuovere con una simile efficacia? Forse perché il Pinguino era un mostro di origine controllata, solo e malato, che fu abbandonato in egual maniera quando nacque così come quando morì. Lo avevano lasciato i genitori, lo aveva lasciato il morente Shreck, anche i membri del triangolo rosso scelsero, alla fine, di voltargli le spalle e scappare dalla sua crudeltà. Soltanto i pinguini rimasero con lui fino a che non esalò l’ultimo respiro. Gli stessi, procedendo insieme, spinsero il corpo di Oswald verso l’acqua, laggiù dove sarebbe dovuto morire quando non era che un bimbo in fasce. Come un corteo funebre, sotto gli occhi di Batman, i pinguini, anch’essi dimenticati dagli uomini quando lo zoo venne abbandonato, danno al loro simile l’addio in quel sepolcro acquatico. Forse Oswald aveva ragione quando disse che non era un uomo, ma un animale a sangue freddo visto che solo il regno animale lo aveva accettato.

La morte del Pinguino è una scena triste, che suscita nel cuore degli spettatori una silenziosa, commuovente e mostruosa compassione.

  • Fine

“Batman Returns” è il film più cupo, triste e drammatico mai girato sul cavaliere oscuro. La regia ispiratissima di Burton e la maestria interpretativa degli attori, tutti in stato di grazia, hanno permesso alla pellicola di fregiarsi dello status di cult.

Il secondo ed ultimo Batman Burtoniano mostra, negli ultimi scampoli del proprio corso, Bruce, separatosi da Selina, nel mentre ammira dal finestrino della sua auto il freddo ma sereno paesaggio di una Gotham innevata. E’ Natale, e ancora una volta l’unico “mostro” che ha scelto di non farsi corrompere e avvelenare dalla mostruosità della crudeltà umana continua a vegliare sulla città. Si tratta proprio di Batman, l’unico e solo eroe in grado di ergersi con razionalità sull’aberrazione. Tutto d’un tratto il batsegnale brilla nel cielo, richiamando l’arrivo del Supereroe, sotto lo sguardo vigile di Catwoman.

Voto: 8/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Ai piedi dei due eroi sopravvissuti, Batman e Wonder Woman, giace il corpo senza vita di un superuomo. “Dio” è caduto dal cielo, Superman è morto! Al termine di un aspro conflitto che lo ha veduto vincitore e, al contempo, vittima sacrificale, i suoi resti inermi, privi di un qualsiasi anelito di vita giacciono a terra, in un suolo macchiato del suo stesso sangue. Superman non volerà più nel cielo, riposerà sottoterra. Fu questo l’ultimo atto di “Batman V Superman”. La grande “S”, quel simbolo idiomatico che in Kryptoniano significa “speranza”, impressa su di uno sfondo azzurro come il cielo senza nuvole, che solcava impavida il firmamento, scomparve per sempre dallo sguardo degli uomini. “Justice League” riprende da questo punto ben preciso nell’arco narrativo dell’universo cinematografico DC Comics, e ci mostra gli esiti conseguenziali di una morte così inaspettata. E’ un mondo in crisi, scosso dalla notizia della dipartita di un amico, di un paladino della giustizia, di un protettore invulnerabile. Batman intuisce che la Terra è oramai indifesa, esposta pericolosamente alle minacce di invasori senza scrupoli, pronti a discendere dalle remote regioni dell’universo, coscienti che Kal-El non veglia più sul pianeta da cui è stato adottato. Bruce decide di costituire una lega di giustizieri, composta da uomini con capacità straordinarie, noti come metaumani. E’ l’alba della Justice league.

(Attenzione pericolo spoiler!!!!)

“Justice League” sbarca al cinema con il gravoso compito di proseguire l’universo filmico DC Comics, più volte funestato da giudizi inclementi, e di portare, per la prima volta sul grande schermo, la lega della giustizia, la collaborazione tra i più grandi supereroi della storia del fumetto americano. Diretto per buona parte da Zack Snyder, poi sostituito alla regia da Joss Whedon, “Justice League” è sostanzialmente avvicinamento, conoscenza, fiducia e unione.

  • Paradisiaca unione, infernale disgiunzione

Il concetto di “comunanza” è il fulcro basilare della storia, e progredisce perpetuamente durante lo scorrere della visione. Sin dal palesarsi dell’antagonista, Steppenwolf, ricorre il tema dell’inscindibile unione, la quale genera una forza indissolubile.  Steppenwolf fu un’entità arcana, un guerriero imponente, dalla forza sovrumana, armato di una robusta e affilata ascia grondante sangue. Questo combattente era a capo di un infernale esercito di parademoni con cui intendeva schiavizzare la Terra e soggiogarla al proprio dominio distruttore. Sull’orlo del baratro, gli abitanti della Terra, qualunque spazio essi occupassero, sia il regno marino, che quello terrestre, e ancora il regno di Temishira, unirono le loro forze a difesa di un bene universale.  Steppenwolf venne combattuto e sconfitto da un immenso esercito, sorto dall’alleanza tra uomini, amazzoni e atlantidei. Fu l’ultima testimonianza storica di una inseparabile alleanza. Da quel giorno non si ebbe più alcuna intesa tra i viventi dei tre regni, e il mondo progredì nell’apatia e nel disinteresse generali. Con il trapasso di Superman, Steppenwolf fa ritorno dal suo esilio, deciso a terminare ciò che aveva lasciato incompiuto, e per farlo ha bisogno delle mitologiche tre scatole madri da cui fuoriesce un potere smisurato. Le tre scatole madri sono state volutamente separate e nascoste in epoca antica poiché, se rinvenute e messe assieme, potranno alimentare il potere di Steppenwolf fino a renderlo invincibile.

Batman illustrazione Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Anche in merito alle tre scatole madri, “Justice League” effettua un’analisi sul concetto di “unione”. Il potere in esse contenuto è smisurato, e per tale ragione, le scatole furono separate, onde evitare un ulteriore accrescimento di una forza già incontenibile. Unione e divisione, due parole appartenenti a significati diametralmente opposti ma che sono soggette alla medesima indagine nel film. Dal vincolo trittico tra le tre scatole madri fuoriesce un potere malvagio, dalla cooperazione tra i supereroi, invece, emerge una forza votata al bene. L’eterna lotta tra il bene e il male in “Justice League” assume i contorni di uno scontro tra la forza perentoria della lealtà e tra la disfatta apocalittica della divisione perpetrata da Steppenwolf. Lo scenario paradisiaco dell’alleanza tra i supereroi della Justice League si contrappone al fronte della disgiunzione infernale alimentata dall’oscurantismo di Steppenwolf. La stessa arma, padroneggiata con efferata maestria da Steppenwolf, possiede una sorta di allegoria del genere. L’ascia è un’arma divisoria, in grado di “spaccare”, di spezzare e divincolare un legame, di annientarlo con la violenta separazione di un taglio netto.

  • Viaggio conoscitivo

E’ un bisogno inevitabile per il bene della Terra quello che sospinge l’uomo-pipistrello e la principessa delle Amazzoni a reclamare i più grandi eroi del mondo. E’ giunto il momento per decretare la scesa in battaglia di Barry Allen/ Flash, di Arthur Curry/Aquaman e di Victor Stone/Cyborg. Quello che balza all’attenzione è che sono supereroi alle prime armi. “Justice League” non traspone le icone della DC Comics al massimo della loro potenza, li rende, in vero, supereroi più fragili, come fossero agli inizi del loro viaggio di adempimento.

Aquaman dipinto da Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Ciò che accade in epoca antica, si ripete, in un certo senso, in età contemporanea: non viene radunato un esercito quanto un manipolo di supereroi rappresentativi e pronti a credere nel bene. “Io ci credo” afferma con decisione Wonder Woman! La fedeltà, il crederci, la fiducia reciproca sono tutte caratteristiche fondamentali per l’insaldarsi di una relazione cooperativa. E’ così che la lega della giustizia si plasma sotto i nostri occhi, nella difficoltà di un’interazione tra sconosciuti. “Justice League” è un viaggio di comprensione e di amicizia. E’ un film introduttivo e al contempo formativo. Spetta ad un solo rappresentante della “casata” degli uomini riunire le forze della Justice League. In questo viaggio esplorativo, concernente l’interazione tra supereroi diversi tra loro, Batman assurge ai canoni dell’uomo mortale e sprovvisto di poteri, all’esponente virtuoso di un’umanità distaccata.

  • Umanità e ispirazione

Ben Affleck veste gli abiti di un Batman tormentato, come fosse fuoriuscito dalla tavolozza di un fumetto e siffatto in carne ed ossa tanto è il rimando estetico che dà la sua presenza scenica se confrontata alla controparte cartacea. L’interpretazione di Affleck verte sull’umanizzazione del cavaliere oscuro. Il mostrare con animo provato le ferite fisiche calca la fragilità del crociato incappucciato, soggetto, in quanto uomo, al dolore e a un maggiore rischio in battaglia. Bruce Wayne è un uomo apparentemente comune, che si erge rispettosamente sui suoi simili per selezionare un team di protettori, ma mai per elevarsi a loro guida, in quanto avverte di non essere sufficientemente ispiratore per gli uomini. Il Batman di Affleck si prefigge un compito, quello di ridare vita a Superman. L’uomo d’acciaio, a detta di Wayne, era molto più umano di lui.

La fragilità umana del Batman di Affleck è dualistica: da una parte ci mostra l’unicità di un eroe mancante di poteri ma, allo stesso tempo, l’insofferenza di un supereroe che confessa di non sentirsi parte integrante dell’umanità stessa. L’umanità di Batman reca in sé una caratteristica che evidenzia i disagi, le turpe, e gli incubi del cavaliere di Gotham, elementi disturbanti che gli impediscono d’essere un eroe ispiratore e solare come lo era Superman, extraterrestre ma molto più integrato nella vita quotidiana rispetto a Bruce Wayne.

L’ispirazione è un argomento caro alla pellicola della “Justice League”. E’ un mondo privo di figure ispiratrici quello a cui le scenografie urbane di “Justice League” danno vita. Non vi è più ispirazione nel votarsi a una causa altruistica, non vi è ispirazione nello sforzarsi di vedere una luce fioca che lampeggia nelle profondità di un’opprimente oscurità. Neppure Lois Lane trae ispirazione alcuna dai suoi sentimenti per approcciarsi alla scrittura, e per comporre un testo che possa ridare speranza ai lettori del Daily Planet. Il compito della Justice League è più oneroso di quanto possano credere: essi devono scuotere gli animi degli indifesi e restituire loro la speranza di un domani luminoso.

Justice League” è un film sui supereroi, intesi in senso classico, coloro i quali vengono forgiati nelle fiamme divampanti della speranza, e ha il merito di presentarci i protagonisti in un tempo dilatato.

  • Supereroi: diversità e analogie

In principio, i guerrieri della Justice League hanno in comune soltanto le loro sbalorditive capacità, ma devono comprendere le reciproche affinità per divenire una squadra. “Justice League” fa interagire personaggi provenienti da “realtà” ed esistenze diversificate. Per tale ragione, la pellicola crea un gruppo eterogeneo nelle cui differenze emergono i corrispondenti pregi. Ezra Miller ci regala un Flash allegro, giocoso ed inesperto. Veniamo a conoscenza della tragica storia della sua infanzia, ma ciò non ci impedisce di notare come Barry, sebbene patisca la solitudine, viva la sua vita con il sorriso e con la speranza ottimistica che un giorno tutto possa cambiare. Barry è in piena attività da pochi mesi, è una scia rossa invisibile e inafferrabile. A Flash è spettato l’impegno di far divertire il pubblico mediante una verve comica opportunamente sceneggiata per far sorridere ma non certo ridere. Barry, con la sua dialettica gioiosa, vuol solamente strappare un accenno di sorriso, non ha affatto l’intenzione di far ridere a crepapelle. E’ questa una chiave interpretativa dell’opera, la DC Comics, per quanto con “Justice League” abbia sacrificato l’atmosfera cupa e drammatica dei precedenti lungometraggi, non tramuta se stessa. Mantiene una serietà limite e l’alterna ad alcuni momenti più spensierati ma mai costanti o esagerati, fino ad ottenere un ritmato equilibrio tra toni gravi e divertimento.

Il Barry Allen di Ezra Miller è un ragazzo timido, introverso e insicuro, e la sua interpretazione flirta col pubblico perché ci dona l’illusione che anche una persona apparentemente impacciata possa nascondere un potere fantastico che imparerà a dominare. Per come è sceneggiato, il suo potere è un dono non una maledizione. L’esatto contrario di Cyborg. Cyborg vive la sua nuova vita come se dovesse pagare il prezzo di una resurrezione incorporea. E’, infatti, risorto dalla morte per rivivere con una veste robotica, cibernetica ed eroica. Anche Aquaman è insoddisfatto, risente del peso della sua investitura da Re di Atlantide, e si unisce alla lega con più di qualche remora. L’Aquaman di Momoa è un eroe indomito e indomabile, schietto e possente, ma dietro la sua scorza coriacea e cinica nasconde l’orgoglio nell’essere sovrano di un reame acquatico e di far parte di una compagine di eroi.

Solitudine, malcontento, frustrazione, voglia di cercare il proprio posto in un mondo che necessita di eroi, sono solo una parte degli stati d’animo e dei desideri che accomunano i supereroi della lega della giustizia. Nei loro caratteri diversi sono riscontrabili più similitudini di quanto parrebbe superficialmente. Persino l’evento religioso e sovrannaturale della resurrezione, vissuto da Cyborg, si verifica nuovamente con Superman, quando egli verrà riportato in vita dagli eroi della Justice League. Le vicende e le sensazioni emotive vissute dai supereroi finiscono per dipanare un analogo e ingarbugliato intreccio. “Justice League” è la progressione, nonché l’evoluzione intima, di un manipolo di eroi. Questi eroi, prima ancora di divenire una compagnia indivisibile, ritrovano la propria identità grazie al rapportarsi tra loro.

Ed è con Superman e Wonder Woman che la Justice League scova i suoi emblemi carnali, le ideologie personificate e ispiratrici che tanto stava ricercando. Clark e Diana vengono caricati di una virtù trascendentale, perché incarnano le fattezze del dio uomo e della dea donna. Il ritorno dell’ultimo figlio di Krypton rappresenta lo schiudersi di una nuova alba, avvenuto dopo un “crepuscolare tramonto” che aveva ceduto il passo alla notte più buia. Gal Gadot con la sua Wonder Woman illumina lo schermo con la delicatezza di un volto bellissimo, con la grazia, il coraggio e la benevolenza di un’icona elegante, elevandosi al rango di eroina-simbolo più sfavillante della Justice League.

  • Conclusioni

“Justice League” è un valente e piacevolissimo Cinecomic, che incespica soltanto in poche pecche. Discutibile e lacunosa è la caratterizzazione del cattivo di turno. L’antagonista Steppenwolf è privo di carisma, non ha intriganti motivazioni dietro il suo oscuro agire, se non quelle d’annientare l’Umanità. Egli risulta, pertanto, mortificato a discapito di un’attenzione dedicata, e più che ben eseguita, agli eroi protagonisti. Le due ore di visione scorrono via con rapidità, tuttavia, si avverte distintamente il taglio di alcune scene che avrebbero reso il film ancor più avvincente. Sarà lecito attendersi una versione estesa con l’uscita del formato Blu-ray.

Justice League” diverte ed emoziona con una storia lineare, con adrenaliniche scene d’azione ma soprattutto con un’ottima caratterizzazione dei personaggi. “Justice League” è un film che vuol rammentare l’importanza di credere negli eroi, e quanto essi siano importanti nel reggere sulle loro possenti spalle il peso della configurazione della speranza, di un’ispirazione che possa rincuorare l’animo timoroso degli uomini soli. Un fardello che può piegare il corpo di un solo supereroe, non se questi è supportato, nel reggere tale vincolo, da altrettanti supereroi. E’ questa la Justice League, la solida fratellanza che fa la differenza e ne costituisce la forza; è questa l’unione ispiratrice.

Justice League dipinta da Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Quella che ristora l’animo degli scrittori, come accade sul finale a Lois Lane, e li invita a comporre ancora un altro pezzo, le cui parole vengono intrise nell’inchiostro e scritte coi sentimenti.

Voto: 7/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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La trama di “Batman Arkham City” si sviluppò secondo la precisa direttiva d’esplorare le potenzialità di un’esperienza videoludica nuova, che si basasse su un’irrinunciabile concezione risalente al primo capitolo, “Batman Arkham Asylum”. Tale prerogativa, basilare nel concept della storia, prevedeva infatti che il videogiocatore venisse calato in una realtà virtuale in terza persona, che poneva il personaggio giocabile in una storyline che lo vedeva agire in solitaria. Batman è da sempre l’eccellenza dell’eroe solitario. Sebbene venga affiancato da una serie di affascinanti alleati, come Robin, Batgirl, Nightwing e Oracle, l’uomo-pipistrello è l’archetipo del vigilante sfuggente, introverso e misantropo. In “Batman Arkham Asylum” il crociato incappucciato agiva in solitudine, e soltanto la voce di Oracle, udibile tramite comunicazione radio, ravvivava la sua silenziosa e isolata missione. In “Arkham City” avverrà lo stesso, questa volta però sarà la voce del fedele Aflred ad interloquire con lui.

L’elemento che poneva Batman in solitaria, in uno spazio circoscritto e insidioso quale poteva essere il manicomio di Arkham, caduto preda del dominio degli internati, era essenziale nel mettere in scena l’alone drammatico di un eroe che si trovava costretto a sopravvivere e a riportare ordine in un mondo rovesciato dalla follia del Joker. Batman era l’incarnazione della ragione che respirava come alito di vita in un luogo in cui la pazzia criminale aveva prosperato. Da questa idea prolificò la trama di un sequel che potesse vedere Batman a fronteggiare da solo i suoi letali nemici.

Il videogioco “Batman Arkham City” venne distribuito l’11 ottobre del 2011 ed è ambientato subito dopo gli eventi del primo. Quincy Sharp, ex direttore del Manicomio di Arkham, dopo essere stato eletto sindaco di Gotham City, elabora e avalla un progetto che prevede la costruzione di mura ciclopiche che possano proteggere la parte più vecchia e mal ridotta della città di Gotham. Questa costruzione serve a svuotare il manicomio di Arkham e la prigione di Blackgate da ogni detenuto, che verrà in seguito trasferito in quella parte di città, trasformatasi in una sorta di gigantesca prigione cittadina ribattezzata Arkham City. Nelle intenzioni di Sharp, tutti i criminali dovranno essere deportati fin laggiù e abbandonati all’interno di quelle mura, dove ad ogni scoccare dell’ora prestabilita, gli elicotteri sorvoleranno il perimetro e sganceranno razioni di cibo. La città di Gotham, spogliata dal crimine, sarà al sicuro in quanto Arkham City verrà sorvegliata costantemente da guardie d’elité che impediranno ogni tentativo di fuga.

Tra i maggiori contestatori di una pratica così rischiosa e immorale c’è il miliardario Bruce Wayne che dà via a una costosa propaganda politica per opporsi alla realizzazione di Arkham City. Purtroppo gli appelli del ricco magnate non avranno esiti positivi e la grande città-prigione vedrà presto la luce. Quando Wayne verrà rapito e condotto all’interno della città, egli non potrà che farsi strada tra i pericoli di Arkham City vestendo l’armatura di Batman.

Batman, oltre a voler riportare ancora una volta l’ordine in un mondo piegato al caos totale, deve, allo stesso tempo, stare in guardia dalle minacce che la città criminale potrà arrecare a Gotham. Il Joker, malato e prossimo a morire, mira infatti a salvarsi disperatamente con una cura che Mr. Freeze sta studiando per lui, e per assicurarsi la collaborazione di Batman, ha minacciato di contagiare col proprio sangue gli ignari pazienti di Gotham. La situazione si complica ancor di più quando Batman viene infettato dal sangue del clown, rischiando anch’egli di morire. In questa corsa contro il tempo per trovare l’antidoto, l’uomo-pipistrello dovrà altresì fermare Hugo Strange, psichiatra truce e sadico che conosce la sua vera identità ed è in combutta con l’immortale Ra's al ghul, il quale mira a fare una strage ad Arkham City.

Il secondo capitolo della saga di Arkham propone una storia innovativa che accresce gli scenari di gioco raddoppiandone la grandezza. Il mondo virtuale da esplorare non è più limitato ai confini dell’isola di Arkham, ma il giocatore può muoversi liberamente in un’intera città. Batman si muove sfruttando la rapidità del proprio rampino, il quale gli permette di scalare i piani più alti dei palazzi e avanzare di zona in zona. I quartieri brulicano di malavitosi armati di armi da taglio e da fuoco che spesso possono cogliere Batman in gruppo e circondarlo. Il giocatore dovrà sfruttare appieno l’abilità estrema di Batman nel combattimento corpo a corpo per respingere le orde violente che mirano ad ucciderlo. Muovendosi per tutta la città, il giocatore potrà inoltre imbattersi in diverse missioni secondarie che aumenteranno le ore di gioco, oltre a poter ricercare i trofei e svelare gli enigmi lasciati dall’enigmista e sparsi per tutta Arkham City. Durante la progressione del gioco, il player otterrà diversi upgrade che potranno essere utilizzati per migliorare le prestazioni da combattente di Batman, potenziare la sfera difensiva della sua armatura e sbloccare tecniche e abilità segrete.

“Arkham City” è un videogioco realizzato come avventura singola destinata alla capacità di ogni giocatore di potersi immedesimare nell’interazione con Batman. Il crociato incappucciato potrà nuovamente far uso dei suoi straordinari gadget, e la modalità detective è stata ampliata e notevolmente migliorata. Batman avrà la possibilità non soltanto di trovare tracce scientifiche con la visuale della propria maschera ma di raccogliere tutte le prove della scena del crimine con l’analisi ambientale.

La qualità grafica del videogioco è  davvero eccellente, ed essa è stata ulteriormente migliorata nella rimasterizzazione eseguita per la nuova edizione destinata alle console next-generation, come la Playstation 4. Arkham City è una città fredda, desolata, triste, appestata da un’aria fetida che viene alimentata dalla malvagità delle anime che vivono su essa. L’incedere della pioggia che potrà presentarsi di tanto in tanto durante l’avventura, e le zone cittadine in cui cadrà la neve, aiutano il giocatore a calarsi in un contesto suggestivo che esalta il carattere maturo e tenebroso del cavaliere oscuro.

Batman disegnato da Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Quello che colpisce nell’immediatezza è il valore di una trama articolata. L’Arkham City sembra esser sorta dall’ispirazione della grande Mela dell’opera di John Carpenter “1997: fuga da New York”. Nel film di John Carpenter, New York era diventata una città avulsa dal mondo, chiusa da mura che impedivano l’uscita e l’accesso, e in cui vivevano in uno stato di totale anarchia i peggiori criminali d’America. Quello che inquieta ancor di più nell’Arkham City è che il governo di Gotham non opera alcuna differenza nella selezione dei criminali, equiparandoli nei rispettivi crimini. I ladruncoli sono stati rinchiusi e abbandonati a loro stessi con gli psicotici Serial Killer. I più deboli vivono per breve tempo all’interno della città e finiscono per morire di fame o di ipotermia non avendo né cibo né un rifugio in cui ripararsi. Chi vuol cercare di sopravvivere finisce per non avere scelta e divenire un seguace dei malavitosi più potenti. Arkham City è dilaniata da una guerra interna che pone su due fronti gli schieramenti del Joker e quelli del Pinguino che si contendono il dominio totale della città. Ogni ora che passa la sicurezza già precaria di Arkham City viene insidiata dall’arrivo di nuovi pericolosissimi criminali come Due Facce e Mr. Freeze, quest’ultimo che vive nella zona più gelida della città, dove la temperatura scende al di sotto dello 0. Arkham City è un distopico manicomio urbano, in cui la follia non giace più sopita e rinchiusa tra gli spaventosi interni della costruzione dell’isola di Arkham ma si è accresciuta, arrivando ad avviluppare un’intera città.

 

“Batman Arkham City” è un gioco fantastico e avvincente, una discesa negli abissi della mitologia di Batman e dei suoi villan. Il gioco offre un’analisi etica sul destino degli uomini che vivono in questa città sovversiva, in special modo per la volontà di Ra's al ghul. Il suo folle piano che prevede la distruzione di Arkham City e la morte di tutti i criminali rappresenta l’insano volere di distruggere il male perpetrando altro male. Ra's al ghul vorrebbe epurare la città di Gotham dal crimine e distruggerla per fondare un utopistico centro urbano privo di corruzione. Un volere agognato per un intollerabile senso di onnipotenza che fa sentire questo antagonista come un profeta vendicatore. Batman, una volta guarito, riuscirà a sventare i suoi piani rivoluzionari prima di fronteggiare il Joker.

Il finale, scioccante, avviene all’interno di un vecchio teatro abbandonato, come fosse l’atto finale di un dramma concretizzatosi nell’eterna lotta tra il bene e il male e che adesso volge inaspettatamente all’ultima interpretazione scenica del copione. Il Joker reciterà le sue ultime battute dinanzi ad un solo spettatore: Batman, che assisterà, spiazzato, alla morte della sua nemesi.

“Arkham City” è stato per la Rocksteady il secondo capitolo di una trilogia d’impareggiabile bellezza e profondità nel mondo dei videogiochi. Una crescita ancor più marcata nell’animo di Bruce Wayne, disturbato, avvilito, e per questo ancor più solo.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

Potete leggere il nostro articolo "Batman - Il cavaliere oscuro e quel suo lungo inverno" cliccando qui.

Per leggere il nostro articolo "Batman Akrham Asylum - Benvenuti in manicomio" cliccate qui. 

Per leggere il nostro articolo "1997: fuga da New York" cliccate qui.

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Batman ritratto da Erminia A. Giordano per CineHunters

Batman venne concepito da un’idea di un artista, tale Bob Kane. Agli stadi embrionali non era che un’immagine fetale, abbozzata, che fiorì nella fantasia fino al giorno in cui l’ora di venire al mondo giunse. La matita e i colori veicolarono la sua nascita come ostetriche e permisero il parto di questa creatura che conobbe la vita su di un foglio di carta, nel momento esatto in cui quella matita finì d’imprimere il suo ultimo tratto. Quel primo disegno andava considerato come un infante che aveva aperto per la prima volta gli occhi al mondo, ancora ben diverso dall’aspetto che assumerà quando maturerà nello sviluppo che i suoi genitori creativi infonderanno in lui. Il primo ritratto di Batman fu uno schizzo delineato con il desiderio di dare essenza ad un supereroe non ancora chiaro e cristallizzato con limpidezza nelle forme e nel costume. Solo un simbolo era evidente sin dal principio: quello di un grosso pipistrello che l’eroe avrebbe dovuto portare sul petto come fosse un emblema. Era Batman, che in quella sua iniziale raffigurazione lasciava echeggiare il suo primo pianto, come fosse venuto al mondo al cospetto dei propri creatori. Bob Kane e Bill Finger lo perfezionarono nelle settimane a venire e gli conferirono il dono della parola, racchiusa in nuvole d’inchiostro. Era il 1939. Ma Batman reificò nel pensiero di Kane ancor prima, essendo stato ispirato da un’immagine anch’essa stampata su carta e risalente addirittura a secoli e secoli antecedenti la data del periodo. Erano i disegni curati a mano da Leonardo da Vinci e rappresentanti il Grande Nibbio, la macchina volante progettata dal Genio tra la fine del 1400 e l’inizio del 1500. Gli appunti didascalici e le illustrazioni del Grande Nibbio furono raccolti dal da Vinci nel Codice sul volo degli Uccelli. Leonardo, che sempre cercò di creare una macchina che potesse replicare il volo degli uccelli e renderlo possibile per l’uomo, realizzò una versione della suddetta idea che mimasse una sorta di volo in planato. L’apertura alare del marchingegno attirò l’attenzione del fumettista che ne trasse suggerimento per creare il mantello dell’eroe, il cui dispiegamento replicava l’apertura alare della macchina e, altresì, dei pipistrelli.

Batman vide la luce nella storia dell’arte, il suo mito si accrebbe col volere della concretizzazione di una fantasia e nel desiderio della scoperta, dell’invenzione. Dalla stretta collaborazione tra Kane e Finger i particolari del costume si accentuarono fino a dar forma all’eroe come lo conosciamo oggi, con un background definito, un’identità umana e una storia. Batman conobbe il mondo quando completò il proprio iniziatico processo di formazione e, come albo a fumetti, venne pubblicato per l’etichetta DC Comics nel maggio del 1939; qualche anno dopo Superman, e prima di Flash, Lanterna Verde e Wonder Woman.

La figura dell’uomo-pipistrello divenne, col passare degli anni, un’icona incomparabile nel mondo del fumetto e nell’immaginario collettivo popolare. Il fascino tenebroso e maledetto del cavaliere oscuro permane tutt’oggi come se non fosse mai stato scalfito dal passare delle decadi. Batman è comparabile a un’opera che conserva la magnificenza originaria, e necessita soltanto sporadicamente di qualche lieve ritocco, eseguito dagli esperti restauratori, i quali correggendo leggermente l’estetica e modernizzando la storia riescono a rendere le sue avventure sempre al passo coi tempi.

Batman Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

Dietro la maschera dell’uomo-pipistrello si nasconde il miliardario Bruce Wayne. Bruce, quando era soltanto un bambino, ha assistito alla morte dei propri genitori, uccisi sotto i suoi occhi da un ladro di strada. Il drammatico evento segnò irrimediabilmente il piccolo, che giurerà sul corpo esanime del padre e della madre, che farà tutto ciò che sarà in suo potere per impedire ad altri di provare la medesima sofferenza arrecatagli da un malvivente. Il trauma cui venne investito da bambino gli farà sviluppare uno stato di diffidenza, di paranoia e sospetto che, da un lato, affinerà le sue straordinarie qualità intellettive e investigative, dall’altro minerà i suoi rapporti con le altre persone. A quella fatidica notte, i suoi creatori fecero risalire alcuni elementi che andranno poi a formare la personalità del protagonista e che fungeranno da spiegazioni esaustive su quella che sarà la sua scelta. Bruce stava guardando uno spettacolo a teatro riguardante la maschera di Zorro. Come lo spadaccino che combatteva per l’indipendenza della sua gente così Batman avrà un costume color nero che potrà aiutarlo a mimetizzarsi tra le ombre. Bruce crescerà tra le cure di Alfred, il suo maggiordomo, e da lui spalleggiato, ma dalla lussuosa residenza, comincerà la sua personale battaglia contro il male che aleggia sulla città e che cercherà d’estirpare con sempre crescente vigore. Batman tutela la città di Gotham, una metropoli rigida, sozza, ricolma di quartieri sudici e periferie traboccanti di delinquenza. E’ una città fortemente inquinata, le cui esalazioni di gas si levano dagli scarichi infiammati, un centro urbano dal sapore antico, ricco di grattacieli che si stagliano alti verso il cielo e che recano sui propri esterni Gargoyle in pietra. Questi scenari gotici sono terreno fertile per le imprese del crociato incappucciato.

Definire Batman un antieroe dark è quanto ma sbagliato. Batman è un giustiziere, un vigilante che accetta volontariamente la propria missione di salvataggio e veglia, e alla sua gente ha offerto, in un patto vincolante, la sua vita. L’adempiere questo compito che non avrà mai fine è lo scopo della sua intera esistenza, ed egli lo assolverà fin quando la sua battaglia contro le forze del male non esigerà la sua morte. Batman non corrisponde quindi ai canoni tradizionali dell’antieroe cinico, disinteressato, che compie l’azione eroica sebbene non voglia volgere completamente se stesso alla causa. Batman è l’esatto opposto, colui che dedica tutto ciò che ha al perseguimento di un obiettivo che non ha mai fine. Al contempo, tuttavia, Batman si differenzia dall’eroe incorruttibile e senza macchia, solare e ottimista, generoso e altruista, tutti criteri personificati da Superman. Batman è un eroe oscuro, deciso, violento con i criminali più efferati, tormentato e distolto. Egli, nella sua interpretazione più classica, agisce sulla linea che demarca i due stadi esistenziali dell’eroismo, quello dell’eroe vero e dell’antieroe, poiché non corrisponde completamente né all’uno né all’altro. Egli vive in una sorta di stasi sospesa tra le due realtà parallele, ed è ciò che calca maggiormente l’unicità di questo supereroe. Batman si differenzia dagli altri personaggi anche perché non possiede alcun superpotere, è un uomo comune, mortale e vulnerabile, ma che si è sottoposto ad addestramenti severi e tempranti che ne hanno fortificato il fisico, le abilità e la tenacia, permettendogli di superare il limite delle possibilità umane.

Batman è l’umanizzazione di una rara forma di paura. Egli deciderà di sfruttare il pipistrello, quel volatile notturno che tanto gli aveva arrecato spavento da bambino per farne un suo simbolo e terrorizzare i criminali. Batman si riveste della sua stessa paura per divenire un demone della notte dal terrificante aspetto che possa seminare il panico nel cuore e nella mente dei malavitosi. Eppure, egli si fa carico di una paura particolareggiata, un sentimento di allerta che da una parte si erge ad effige immateriale di terrore verso tutti coloro che compiono azioni malvagie, dall’altra ha l’obiettivo di costituire l’emblema carnale di giustizia e bontà. La paura intessuta tra i filamenti del mantello di Batman è un’arma contro i criminali di tutto il mondo ma anche un rifugio, come fosse un drappo di velluto sotto cui gli innocenti possono trovare riparo. Timore e speranza possono essere trasfigurati nel simbolismo di due mani che si toccano vicendevolmente e combaciano come epidermide appartenente alla stessa natura, ed esse si uniscono, piegando ogni dito nello spazio corrisposto e lasciato libero dal palmo. Le due mani si stringono in un’univoca presa, rappresentando un’alleanza comune di terrore e speranza. Batman è paura ma è altresì gioia per gli indifesi. Egli agisce nell’ombra ma è come fosse un faro di luce che schiarisce l’oscurità della notte. Il vigilante viene come posseduto da questo continuo dualismo tra luce e oscurità che lo vede sostare nell’ombra come un faro prossimo ad accendersi. Batman è la metamorfosi di una notte buia, di una mezzanotte che rintocca per scandire l’inizio di un’attività criminale senza tregua, ed egli combatte per fermarla prima del sorgere delle prime luci dell’alba: egli è notte che trascorre per garantire un nuovo giorno, che possa essere più sereno di quello già trascorso.

Il Batsegnale che proietta in cielo il simbolo del pipistrello è il grido d’aiuto di un popolo che vede in quel fascio di luce l’allegoria di un provvidenziale salvatore.

La mitologia di Batman è composta da innumerevoli Villan che hanno personalità complesse, pieni di sfaccettature psicologiche e caratteriali con storie curate e approfondite. Tra gli avversari più pericolosi di Batman, Due Facce è colui che più di altri ricalca il tema della dualità, della personalità divisoria che in un mondo governato dal disordine ha come unica fonte di giudizio la sorte, immaginata sotto forma di una moneta, il cui lancio è capace di dare un solo esito tra due possibili scelte. Dopo di lui meritano una menzione speciale:

  • Il Pinguino, dall’aspetto grottesco e dal carattere insensibile e orripilante, che rappresenta una sorta di boss del crimine anch’esso chiamato col nome di un volatile. Vestito con tuba, frac, e munito di monocolo, porta sempre con sé un… ombrello.
  • Lo Spaventapasseri, vera e propria personificazione estetica del fantoccio, che incute paura agli uccelli per allontanarli dalle coltivazioni, diventa esso stesso paura da riversare sul “volatile umano” quale è Batman. Crane è la parte più tetra dell’emozione della paura trattata nelle opere di Batman, trasformando l’astratto terrore immaginato in un incubo che la vittima crede di star vivendo davvero. Se Batman è “paura” avversa ai soli criminali, Crane si eleva al rango di paura universale, metamorfizzata e siffatta ad uomo, che può contagiare chiunque come un’infezione per cui non esiste alcuno antidoto. Lo Spaventapasseri crede fermamente che ogni scelta compiuta dall’uomo sia legata alla paura.
  • L’enigmista, il cui vero nome è Edward Nigma, è una personalità distorta e compulsiva. E’ ossessionato dagli enigmi con i quali anticipa spesso le sue prossime mosse, sfidando le autorità a capire ciò che si nasconde dietro i suoi indovinelli. Nigma è intimorito dall’arguzia di Batman e vuol metterlo alla prova in una sottile sfida d’intelligenza che verte sul comprendere le mosse dell’avversario anticipandone gli indizi contenuti tra gli enigmi.
  • Freeze, glaciale avversario con un cuore di ghiaccio che batte solo per la propria sposa. Freeze adopera con destrezza un’arma congelante e può sopravvivere solo restando all’interno di una speciale tuta criogenica che mantiene la temperatura del suo corpo al di sotto dello 0.
  • La velenosa e bellissima Poison Ivy, crudele madre natura somigliante a un’eterea ninfa dei boschi che cammina a piedi spogli restando nuda, rivestita di sole foglie. Ella è in grado di dar voce e anima alle piante ed è il simbolismo vivente della feroce vendetta della natura sull’indifferenza dell’uomo.
  • Bane, colossale nemico dotato di una forza sovrumana alimentata dal Venom.
  • L’immortale Ra's al ghul che anela a un utopistico mondo privo di criminali e che ricerca il bene generando altro male in un’esistenza che verte all’eternità.
  • Hugo Strange, sadico psichiatra dalla sopraffina intelligenza.

La galleria dei nemici comprende molti altri avversari di spessore. Tra questi, villan come Clayface, Killer Croc e Solomon Grundy rappresentano uno stadio successivo, dove la deformità della mente tipica dei precedenti avversari viene sostituita da una mostruosità nel corpo.

Contro ognuno dei suoi acerrimi nemici, Batman sperimenta una sfida che ne mette a dura prova la resistenza, l’audacia e la perspicacia. Lo Spaventapasseri, ad esempio, sfida le paure inconsce e mai superate di Batman, Ra's al ghul i suoi intoccabili dogmi di incorruttibilità e di discernimento tra moralità e immoralità, e Poison Ivy, come l’antieroina Catwoman, con la sua bellezza fa vacillare la sua resistenza in quanto tentazione sensuale del male. Le pulsioni sessuali che Bruce prova nei confronti delle donne fatali quali possono essere Poison Ivy, Talia al Ghul e Harley Quinn vengono sublimate nel suo intenso e passionale rapporto con Selina Kyle, la più rappresentativa tra le donne pericolose che è riuscita a far invaghire Batman di lei e a costruire un rapporto in cui l’amore e l’odio si intrecciano in un contesto avventuroso e d’azione. 

Ad allietare la solitudine di Batman sono i personaggi di Robin, Nightwing e Batgirl, divenuta poi Oracle, ed in particolare Alfred che riveste il ruolo di padre adottivo, alleato e confidente. Tuttavia, la misantropia di Bruce è un male incurabile. L’astraente senso del dovere che lo opprime gli impedirà di poter mai vivere una vita normale.

Bruce Wayne, come vollero Bob Kane e Bill Finger, è un figlio dannato. Un cavaliere maledetto, ossessionato dalla reminiscenza della morte dei suoi cari genitori. Egli vive schiacciato da un irrazionale senso di colpa che lo conduce a sentirsi come responsabile della loro morte. Batman è un eroe disturbato, la cui “sofferente pazzia” trova ristoro nella battaglia per un fine superiore. Quella di Batman è un’assuefatta follia razionale che viene sepolta sotto il peso dell’armatura che lo aiuta a tollerarne il dolore. Quella che definisco la sua follia razionale è diametralmente opposta alla follia irrazionale, insana e omicida del Joker, la sua nemesi. Batman e Joker sono due facce di una medaglia che li vede uno contro l’altro, in una atavica battaglia tra bene e male. Joker è ossessionato dalla sua esistenza, ed è attratto da ciò che rappresenta l’eroe mascherato non l’uomo. Batman è la democrazia equilibrata, Joker l’anarchia dell’insurrezione sregolata. I due vengono stilisticamente rappresentati in maniera opposta anche per un piccolo dettaglio che molto spesso sfugge all’attenzione: la seriosità e l’ilarità.

Joker genera l’incubo reale di una felicità spensierata e senza regole che sfocia nella cruenta apatia. Quello di Batman è un temperamento drammatico, afflitto, angoscioso, quella del clown è invece una lucida follia, esternata in una risata inquietante che trova piacere nell’attuazione del dolore. Batman soffre e alimenta la bontà insita del suo animo nell’afflizione, Joker incrementa la propria malvagità nella vivacità macabra della comicità. Nella contrapposizione tra Batman e il Joker, la drammaticità rappresenta il bene e l’ilarità il male. La compromessa sanità mentale di Batman ricerca l’ordine, l’instabilità mentale del Joker il caos, in un continuo gioco fatale che li vede contrapposti.

L’architettura imperscrutabile del palazzo mentale qual è la mente di Batman è paragonabile alle salde mura di Arkham, dove restano segregate nelle profondità irraggiungibili delle celle le torbide paure e i tormenti ansiogeni di un uomo che ha trasformato il dolore in fuoco che arde per dar calore e fiamma al suo volere.

Batman custodisce dentro di sé uno spirito crucciato, un animo desolato e oppresso. Le sue disperate fatiche compiute sempre con enorme rischio sembrano voler far intendere che Batman non tema mai la morte e che l’accolga come una liberazione. Come un autunno prossimo a cessare, l’anima del cavaliere oscuro può essere descritta come un paesaggio malinconico con cumuli di foglie rattrappite che giacciono senza vita e colore sul freddo terreno. E’ lo spirito di un uomo che vive da sempre in un interminabile inverno, stagione che avverte interiormente e che scandisce ogni giornata della sua vita con pioggia copiosa e nevicata incessante. Batman vive in un lungo inverno che non può essere ravvivato da alcun soffio estivo. E’ proprio in una notte gelida che Batman appare in piedi sulla cima di un palazzo, quando la luna piena su nel cielo sembra essere alle sue spalle e un fulmine che tuona dal nulla illumina per qualche istante la sua sagoma minacciosa.

Batman è mente pensante che riflette sull’asperità dell’esistenza con il gelo dell’inverno, la sola atmosfera che lo avvicina ad un senso di quella chiusura intima che motiva la propria battaglia. Bruce nella malinconica bellezza dell’inverno ha trovato se stesso, la sua doppia vita, la sola causa eroica che dà un senso normale a un mondo anormale.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Batman ha appena posto fine a un’azione criminale del Joker e, dopo averlo catturato, si appresta a condurlo al manicomio di Arkham. Nel frattempo, un misterioso incendio è divampato nel Penitenziario di Blackgate, cosa che ha costretto la polizia a trasferire centinaia di detenuti, tra i quali molti ex uomini del Joker, proprio nell'Arkham Asylum, che al momento è stracolmo di delinquenti e assassini. Batman raggiunge l’isola di Arkham e cede il Joker alle guardie della residenza. L’eroe, però, fiuta qualcosa e decide di scortare il Joker fin quando egli non verrà rinchiuso in una delle celle di massima sicurezza. Purtroppo i suoi sospetti si rivelano presto fondati. Grazie alla collaborazione di alcuni corrotti all'interno dello staff di Arkham, Joker ha reso possibile l'incidente di Blackgate e la penetrazione all'interno dei sistemi di sicurezza del manicomio della sua compagna Harley Quinn. Joker riesce improvvisamente a liberarsi e a darsi alla fuga all’interno del manicomio. Batman, immediatamente, si lancia all’inseguimento ma si ritrova ben presto a dover affrontare parecchi ostacoli: Joker ha infatti posto il proprio dominio sul manicomio e, per mezzo del controllo sui sistemi operativi dell’isola, ha ordinato l’apertura della gran parte delle celle di ciascun detenuto. Batman, “intrappolato” nel manicomio, dovrà così combattere, per sopravvivere, contro i suoi più aspri avversari, ormai resi liberi.

Il videogioco di “Batman Arkham Asylum” nacque su di una "tavolozza" immacolata. I creatori attinsero a piene mani dalla mitologia del cavaliere oscuro, quella più cupa, ma al contempo quella più classica delineatasi in 70 anni di storia editoriale tra le arti sequenziali dei fumetti. La biancastra superficie venne tinteggiata con colori scuri. Un alone di cupa consistenza fu reso tale con pennellate coercitive, quasi a formare su nel cielo una nuvola minacciosa, preludio dell’atmosfera claustrofobica che si sarebbe potuta avvertire durante l’esperienza di gioco. L’avventura videoludica, paragonabile, a mio giudizio, a un quadro tetro e dai contorni misantropici, è basata proprio sulla solitudine e su di un senso costante d’abbandono. Arkham Asylum è riassumibile nell’accezione dell’eroe solitario ingabbiato con la sua nemesi. L’isola di Arkham venne scelta come scenario apposito atto a evidenziare un’ambientazione avulsa dal resto della città.

Batman disegnato da Erminia A. Giordano per CineHunters

Nell’eroismo del cavaliere oscuro e nella sua calma flemmatica, il videogiocatore si appresta ad affrontare temibili avversari. La sola presenza alleata per Batman è rappresentata da Oracle, che comunica con lui dalla Batcaverna.

L’isola di Arkham è alquanto vasta ed è suddivisa in diversi reparti, dai giardini botanici (in cui è rinchiusa Poison Ivy) al reparto di terapia intensiva, dalle fogne sotterranee (in cui si trova la cella del terrificante Killer Croc) al centro di massima sicurezza dove sono internati i più pericolosi criminali dell’isola.

Il videogiocatore può sfruttare appieno le devastanti doti combattive di Batman mediante l’uso di specifiche combo. Ma Batman, in genere, attacca sempre con un tasto specifico, può saltare per allontanarsi da mischie trucidanti e colpire più avversari attraverso la sua estrema agilità, che dovrà essere “contenuta” e indirizzata con le levette dal giocatore verso l’obiettivo designato per colpirlo. Ogniqualvolta un personaggio sta per attaccare, un fascio d’avvisaglia è facilmente riscontrabile all’altezza del personaggio stesso e se il giocatore premerà in tempo il tasto apposito potrà far contrattaccare Batman. Gran parte dei confronti che il crociato incappucciato dovrà affrontare contro gli uomini del Joker sono tuttavia sfide d’abilità, tempistica e intelligenza. Spesso il cavaliere oscuro si troverà all’interno di ampie stanze in cui si muovono liberamente uomini armati. La corazza di Batman seppur resistente (potrà essere ulteriormente potenziata) non può tollerare scariche continue di mitragliatori e per tale ragione, il giocatore dovrà attaccare i nemici armati senza farsi vedere. Batman, adoperando il suo rampino, potrà nascondersi sui gargoyles che stagliano, internamente ed esternamente, sui tetti del manicomio. Studiando l’incedere dei movimenti degli avversari Batman dovrà preferibilmente isolare i suoi nemici e, precipitando dall’alto, li tramortirà. La maschera di Batman è dotata di un particolare visore, la cosiddetta “modalità detective” che può essere attivata mediante un semplice tasto e permetterà al videogiocatore di poter scrutare ogni dettaglio di un luogo, come un supporto a raggi X.

Il videogioco non si configura soltanto come un’avventura carica d’azione e di divertimento, ma si presenta come una specie di prodotto cinematografico riadattato a carattere videoludico: la narrazione del gioco è paragonabile a quella di un film. L’animo tormentato di Bruce Wayne, "affossato” sotto il costume di Batman, emerge specialmente nelle sequenze in cui lo spaventapasseri attacca il supereroe col suo letale veleno. Un qualcosa che a stento riusciamo a percepire, da principio, ma che cominciamo a comprendere quando, muovendoci all’interno del manicomio, grida angoscianti e rumori sinistri si odono da luoghi imprecisati. L’ambiente cambia, comincia persino a piovere tra i locali dell’edificio fino al manifestarsi dello Spaventapasseri. Batman si trova così in una realtà parallela, materializzatasi nella sua mente, in cui dovrà affrontare le sue più temibili paure e rivivere la tremenda reminiscenza della morte dei suoi genitori. “Arkham Asylum” è altresì la lotta e la rivalsa della ragione (incarnata in Batman) sulla follia (personificata nel Joker e nel manicomio sottomesso).

Queste sono delle peculiarità didascaliche che elevano il videogioco a vero e proprio strumento di analisi. Giocando si può sempre più indagare la personalità di un’icona dei fumetti e scorgere la profondità delle tematiche trattate dalle opere di Batman e ben comprensibili dietro la semplicistica lotta tra il bene e il male.

Tra i gadget, su cui il giocatore potrà contare, vi è il batarang, che potrà essere potenziato fino a garantire il lancio contemporaneo di tre batarang, il rampino che permette a Batman di  agganciarsi ai cornicioni e di spostarsi dall'alto senza essere notato, il bat-cavo che aiuta l’eroe a superare i precipizi, il bat-artiglio che consente di rimuovere ostacoli a distanza, come grate e inferriate (potrà essere ulteriormente potenziato con l’aggiunta di tre ganci), e infine il sequenziatore criptografico, un palmare che consente di hackerare i computer e di sbloccare serrature elettroniche.

Durante lo svolgersi del videogioco, Batman potrà scovare i trofei dell’enigmista, reliquie verdi simboleggianti un punto interrogativo. Sparsi per l’isola e nascosti tra i più disparati meandri del manicomio, si potranno trovare oltre duecento trofei. A questi si dovrà aggiungere un avvincente ricerca sui cosiddetti enigmi. Questi ultimi sono basati quasi totalmente sulla mitologia narrativa di Batman e spaziano da piccoli dettagli scenografici appartenenti ad alcuni personaggi dei fumetti (la maschera di Catwoman, l’ombrello del Pinguino) a rappresentazioni nascoste tra le pareti e visibili soltanto da una giusta angolatura. Batman potrà risolverli, una volta trovati, attivando la modalità detective e scannerizzando i vari soggetti dell'ambiente circostante. Spesso per risolvere tutti gli enigmi, Batman necessiterà di tutti i potenziamenti della sua armatura, e ciò porterà il videogiocatore a dedicarsi a tale ricerca solo al termine dell’avventura. Per facilitare il ritrovamento di tutti gli enigmi, che constano anche della distruzione delle cosiddette dentiere del Joker, della raccolta dei nastri dei colloqui e della decodifica delle cronache di Arkham, Batman potrà trovare delle apposite mappe che indicheranno i luoghi in cui giacciono nascosti gli enigmi.

I nastri dei colloqui riguardano alcuni dei più letali nemici di Batman e sono delle memorizzazioni degli incontri avuti dai pazienti con gli psichiatri del manicomio. Batman potrà raccogliere fino a cinque nastri per ogni personaggio: Harley Quinn, Poison Ivy, lo Spaventapasseri, Killer Croc, Victor Zsasz e ovviamente, il Joker.

Le cronache di Arkham sono, invece, delle pietre incastonate tra le pareti più antiche del manicomio. Tali raffigurazioni scolpite in pietra recano su esse il simbolo di uno scarabeo e una serie di parole apparentemente indecifrabili. Attraverso l’analisi ambientale, Batman potrà decodificare le parole che il videogiocatore udirà con la voce di Amadeus Arkham, il fondatore del manicomio. Su ogni pietra, Amadeus Arkham ha inciso la propria drammatica vita, che riecheggia in eterno tra le fredde mura del manicomio.

Tali narrazioni permettono un coinvolgimento emotivo del videogiocatore con la realtà fittizia assai profonda ed emozionate del gioco.

Il videogioco consta oltre che di una storia avvincente, anche di molteplici sfide sbloccabili e selezionabili dal menu principale. Tra queste vi sono quelle dedicate agli scontri, in cui Batman dovrà raggiungere degli elevati punteggi per vincere la sfida, e le sfide in modalità “predatore notturno” basate sull’eliminazione dei nemici armati secondo le direttive specificate all’inizio del livello. Le sfide vennero ulteriormente ampliate nelle successive edizioni “GOTY” o “Game of the year edition”.

“Batman Arkham Asylum” inaugurò un ciclo di videogiochi di straordinario successo: ebbe infatti due seguiti e un prequel, titoli ancor più curati e maggiormente votati all’ampliamento della giocabilità. Gli scenari si sposteranno sul fronte cittadino, nella Gotham più bisognosa d’aiuto, ma il fascino misterioso che il manicomio conferì nella limitatezza del suo spazio resta inarrivabile.

Al termine dell’esperienza di gioco, quando Batman trionferà ancora una volta sul suo acerrimo rivale e la razionalità prevarrà nuovamente sull’insana follia, un fascio di luce irradierà il cupo grigiore del manicomio. Una luce carica di speranza, capace di rischiarare le tenebre sorte sull’isola di Arkham. La tavolozza dell’opera recherà improvvisamente su essa un’immagine radiosa nel cielo: il simbolo di un pipistrello, il batsegnale.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Alfred Hitchcock si interrogò durante tutta la sua prolifica carriera su un quesito che sembrava turbarlo così tanto da richiedere un’assidua ricerca mai del tutto conclusa: fin dove si potesse spingere il concetto di “arte”. Era il 1948, e in un caldo pomeriggio newyorkese, tra le pareti di un ampio salone dall’arredamento alquanto pesante, si stava tenendo un ricevimento tra amici. Sprofondati comodamente in un divano situato proprio davanti a un’ampia vetrata che si affacciava su una giungla di palazzi, gli ospiti dialogavano tra loro. Gli argomenti della conversazione volgevano sui canoni del più classico dei dibattiti tra intellettuali: ci s’interrogava sull’idea di morale e su come essa dominasse, sin dai precetti educativi, l’indole degli uomini cresciuti in una società governata da leggi democratiche. Quella che sembrava una semplice, anche se a tratti fin troppo pretenziosa, chiacchierata tra amici, subì un cambiamento improvviso nel modo di discutere quando si toccò il tema dell’omicidio, aspetto ovviamente centrale dei film di Hitchcock.

Due dei partecipanti si domandavano se l’omicidio potesse essere elevato ad una vera e propria forma d’arte. Una teoria filosofica, partorita da alcuni di loro ai tempi del college, avanzava l’idea che certi individui vi nascessero proprio con la predisposizione, e di conseguenza fossero stati “scelti” per poter compiere omicidi, poiché sprovvisti dalla sensibilità e dalla morale comune che, a detta loro, venne creata in principio per placare l’animo barbarico degli uomini. Hitchcock attraverso l’inquietudine di uno scambio di battute cercò di mostrare in “Nodo alla gola” la crudeltà di certi individui capaci, attraverso un’oratoria asservita al momento, di rendere artistico un gesto scellerato, di mutare in una forma di raro “talento” un atto di pura follia.

  • Da Hitchcock a Burton

Quarant’anni dopo, Tim Burton traspose per la prima volta al cinema il personaggio del Joker in “Batman”, primo film dai toni dark dedicato al tormentato eroe DC Comics. Lo immagino corrucciato, teso come una corda di violino, rinchiuso nel proprio studio, con una lampada accesa in prossimità di una catalogata raccolta di fascicoli. Lo vedo proprio così, Tim Burton, più selettivo e meno lascibile, più rigoroso e notevolmente meno commerciale e ripetitivo nelle scelte rispetto al recente passato.  La scelta cadde sul nome che circolava già dal 1980 per voce diretta di Bob Kane: Jack Nicholson.  Era il profilo più complesso da conquistare, e proprio per questo era stato lasciato come ultima prestigiosa risorsa. Pur di averlo Burton e la Warner erano disposti a fare carte false, persino a giocare sporco, prima seducendo e poi abbandonando un più che interessato Williams (tra le primissime scelte insieme a William Dafoe e Tim Curry), per mettere pressione e convincere Nicholson ad accettare la parte, facendo infuriare proprio Robin, che offeso mandò all’inferno l’intera produzione.  Il celebre ghigno di Nicholson, già portato alla ribalta da Stanley Kubrick in “Shining”, trovava massima esaltazione nelle tecniche di modellamento dei truccatori di “Batman” che “fermarono” l’espressività di Nicholson in uno spaventoso riso perenne.

L’approccio che Burton diede al folle criminale racchiude in sé qualcosa che, a mio modo di vedere, è paragonabile alla tematica sollevata da Hitchcock e di cui facevo cenno precedentemente. Attraverso il Joker di Nicholson, Burton tentò, con acclamato successo, di trasporre i canoni artistici del Joker cartaceo: ovvero quelli di un folle criminale che nella più “pura” delle malvagità trova una vena beffarda, uno spirito parodistico in grado di ridere della sofferenza stessa. Jack Nicholson si dirà orgoglioso della sua performance, descrivendola come una rappresentazione teatrale della Pop Art.

  • L’origine del Joker – Tra cinema e romanzo grafico

Ispirandosi alla graphic-novel “The Killing Joke”, Burton decise di portare in scena le origini di un Joker che mostra sin da subito segni d’instabilità mentale, con violenti sbalzi d’umore che sfociano in un’aggressività fredda e calcolatrice. Jack Napier, è questo il vero nome del personaggio nel film, è un gangster temuto della malavita cittadina, che aspira a succedere al boss Carl Grissom (Jack Palance). Approfittando di una presunta retata che la polizia di Gotham sta per fare all’interno della Chimica Axis, Grissom incarica Jack di guidare alcuni dei suoi uomini nell’irruzione all’interno della fabbrica, così d’appropriarsi, prima dell’arrivo della polizia, di tutti i documenti che testimonierebbero il collegamento con Grissom. Il boss mafioso in verità ha già provveduto a nascondere i documenti incriminanti, indirizzando pertanto Jack in una trappola, dove troverà la morte per mano dei poliziotti di Eckhardt, un agente corrotto. In fabbrica irrompe anche Batman (Michael Keaton) in una delle sue prime apparizioni. Nella concitazione del momento, Jack spara ad Eckhardt freddandolo a distanza, prima di imbattersi nel cavaliere oscuro. Durante la conseguente colluttazione, Napier cade dalla piattaforma precipitando in una grande vasca contenente dell’acido. Pochi attimi dopo la fuga dell’eroe, una mano pallida riemerge dalle acque verdastre della pozza di scarico.

La camera si sposta successivamente verso un sudicio vicolo, poco frequentato, probabilmente ubicato in una delle periferie malavitose di Gotham City, dove un “povero” chirurgo tenta di sottoporre Napier, miracolosamente sopravvissuto, a un delicato intervento di chirurgia estetica, nonostante l’uomo abbia i nervi completamente recisi. Il chirurgo resta impietrito vedendo il volto del gangster che reclama con forza uno specchio. Nella scena in cui Napier vede il proprio riflesso perennemente ghignante e ormai sfigurato dal bagno chimico, esce di senno, e la sua mente imbocca definitivamente la via della follia. Jack comincia a ridere. In quella smorfia sorridente e in quell’aspetto clownesco, l’uomo interpreta il perverso scherzo di un fato dannato che nel castigo perenne ha voluto beffarsi di lui. Come un bambino che emette il suo primo vagito così il Joker nacque, facendo riecheggiare la sua prima, amara, folle risata: un’insana risposta alla propria dannazione. Il Joker ride di se stesso, del triste destino che la vita gli ha riservato. L’uomo si rifugia così nella follia, vedendo in essa l’unica ancora di salvezza a cui aggrapparsi per sfuggire a una realtà talmente atroce da non poter essere accettata se non con il torbido ausilio della pazzia primordiale. Una singola, orribile giornata, come la definì Alan Moore nel suo celebre romanzo grafico, distrugge l’animo dell’uomo, ormai privo di alcun freno inibitore. Non possiamo sapere se il Joker sia stato davvero dannato da un destino crudele e pertanto elevato al rango di “assassino prescelto” come teorizzavano i manipolatori protagonisti dell’opera di Hitchcock, ma senza dubbio il Joker diviene la personificazione di una dissennata allegria. 

Dal buio alla luce: avviene così la rinascita di un personaggio portatore di morte. L’oscurità accompagna il Joker nella sua prima, definitiva apparizione. Ripresentatosi nella dimora di Grissom, Napier avanza, continuando per diretta scelta stilistica di Burton a nascondere il proprio viso nel buio. “Il gioco di luci” è eccezionale in questi intensi momenti, perché nonostante una completa oscurità avvolga il Joker, man mano che avanza si comincia sempre più a notare il sinistro colore della sua pelle, talmente biancastra da poter essere individuata nel buio del salone. Grissom implora Jack di avere clemenza ma Napier nega l’esistenza di alcun Jack, riportando invece la notizia della morte dell’uomo che ha “abbandonato” il suo essere per lasciar posto ad un agire liberatorio: al Joker, che ci configura così come l’incarnazione di una esistenza priva dal benché minimo senso di umana coscienza.  Emerso finalmente alla luce, Joker toglie il cappello, concedendo l’estremo saluto. I capelli verdi, la pelle biancastra e le labbra di un rosso rubino, immobilizzate in un inquietante sorriso, vengono finalmente mostrati dalla sapiente regia di Burton che inquadra il Joker dal basso verso l’alto per accentuarne l’impatto visivo e la chiarezza dei connotati colorati. Una sadica risata dà il via ad una serie di colpi che il Joker scarica senza alcuna pietà sul corpo di Grissom, che di fatto è la prima vittima del clown di Gotham City.

Il Joker riversa sulla figura di Batman la colpa della propria tragedia e sulla città, un folle odio distruttivo. L’ascesa al potere per il Joker comincia con l’efferata uccisione dei capi delle fazioni mafiose della città di Gotham.

  • L’artista dell’omicidio

La scheda relativa a Jack Napier, sfogliata da Bruce Wayne nel proprio studio, riporta proprio di come Napier fosse un uomo estremamente intelligente, nonché molto portato per l’arte e l’alchimia. Grazie alle proprie competenze il Joker crea un veleno chiamato “smilex” che diviene tossico al contatto con delle particolari sostanze alterate già alla fonte dal Joker stesso. La città appare piegata al volere del criminale, che annuncia in diretta televisiva l’avvenuta contaminazione di tutti i cosmetici presenti nelle profumerie della città. Il Joker si fa promotore della sua stessa creazione, ridicolizzando le più comuni pratiche di sponsorizzazione pubblicitaria, insinuando il dubbio nelle persone se siano già in quel preciso istante entrate in possesso dei prodotti avvelenati senza rendersene conto. Tutto appare come un’esilarante storiella, messa in scena in un breve spot televisivo, in cui il Joker conforma il terrore alla parodia. Tale veleno procura un violento attacco psicotico nelle vittime che esalano l’ultimo respiro, dopo folli risate.  Il Joker lascia sul suo cammino una lunga scia di morti con un terrificante sorriso stampato in volto. La morte diviene pertanto uno scherzo per il Joker, un elogio euforico all’addio perpetrato da una risata incontenibile. Il Joker si eleva così, e per sua stessa ammissione, al rango di artista dell’omicidio. Un macabro senso dell’humor diviene parte integrante della dialettica del criminale, che unisce al proprio aspetto clownesco una raccapricciante parlantina tra l’ironico e il sarcastico, ricca di taglienti battute, il tutto tendente a rendere parodistica la crudezza e l’atrocità delle sue stesse azioni. Burton attraverso le gesta del proprio antagonista intraprende un’indagine sul concetto stesso di “comicità” domandandosi fin dove essa possa spingersi nell’indole esilarante di un uomo folle sia nell’animo che nell’aspetto.

  • La deturpazione dell’arte

Ma se già l’irrazionale ilarità delle azioni e dell’agire del Joker costituisce un paradigma specifico di base nella costruzione artistica di questo personaggio, è l’ideologia stessa di arte che merita un’analisi unica nell’opera del 1989. Il Joker crede in primo luogo che la morte sia una forma di espressione artistica estrema, che meriti un’accentuazione indipendente. La follia del criminale e il suo assurdo concetto di arte trovano una massima esaltazione nella celebre sequenza del museo di Gotham City.  Irrotto nell’edificio, il Joker comincia a devastare quadri dall’inestimabile valore, imbrattandoli con getti di vernice. Il Joker, pur considerandosi un artista in senso stretto, sembra non provare alcuna empatia per le maggiori opere pittoriche dei grandi del passato, prediligendo soltanto ritratti cupi e spettrali. Questa celebre sequenza che vede il Joker distruggere i quadri del museo, accompagnato da un brano vivace di Prince, nasconde l’aspetto drammatico del momento in sé. Il Joker compie azioni scellerate nella malata euforia delle proprie intenzioni, così Burton, sposando appieno le peculiari caratteristiche del personaggio, lo segue con una tecnica di ripresa volta a alleggerire la tensione, poiché non è nel volere del cineasta terrorizzarci in quei frangenti quanto farci riflettere secondo l’agire del Joker. Vi è la possibilità di poter scoppiare addirittura in una fragorosa risata quando Nicholson si scatena in danze improvvisate mentre sale le scale del museo. Non viviamo quegli attimi con una particolare agitazione, anzi ridiamo addirittura di ciò che sta accadendo, perché il Joker possiede lo stile paradossale di far ridere del proprio folle operato; ma è un pensiero a posteriori che il regista statunitense desidera generare. Questo Joker non impaurisce con la suspense o la violenza, quanto con l’essenza stessa della risata. L’arte viene così “stuprata” in un clima disteso e gioviale, in una contrapposizione che tenta di demarcare un confine ormai incerto: la beatitudine e il dolore, la felicità e la tristezza, la vita e la morte vengono inglobati dalla follia e posti sul medesimo piano esistenziale, come fossero due facce della stessa medaglia. Il Joker di Nicholson non desidera spaventarci quanto distruggere le nostre certezze, inducendoci a chiedere cosa sia realmente divertente, e se si possa scherzare dinanzi al caos distruttivo.

Il tutto procede in una disarmante tranquillità quando il Joker siede intorno ad un tavolo ed inizia a dialogare con la fotoreporter Vicki Vale (Kim Basinger), unica scampata al massacro del museo.  E’ interessante evidenziare la valenza dei costumi in queste scene: Joker indossa un basco viola che ricorda nelle forme il cappello dei pittori ottocenteschi. Non è la prima volta che il personaggio nel film esprime, attraverso il proprio abbigliamento, aspetti artistici. Resta indimenticabile infatti la scena in cui Joker si finge un mimo, usufruendo di una gestualità articolata e una mimica facciale buffa per camuffarsi tra gli artisti di strada. Scrutando le fotografie della donna, l’antagonista afferma di amare il modo in cui ella “cattura” i tratti morenti degli innocenti sul terreno di guerra. Nel film il personaggio della Basinger è stato nel Corto Maltese una fittizia località in cui era in atto un violento conflitto, riuscendo a scattare molte fotografie ritraenti le povere vittime dei bombardamenti. A quel punto il Joker, coperto da un trucco che nasconde la vera colorazione della sua pelle, si avvicina alla giornalista confessandole che lui stesso è un artista, che ha ormai superato il più banale dei dilemmi relativi all’estetica: “cosa è bello e cosa non lo è”. Joker riporta di come la gente si preoccupi spesso delle apparenze e a quel punto invita Alicia Hunt, una giovane donna con cui aveva avuto in precedenza una relazione, a raggiungerli. La donna indossa una maschera di ceramica mentre parla con voce provata, disarmonica. Joker comunica a Vicki che Alicia è la sua prima opera d’arte vivente, concepita secondo i suoi nuovi canoni estetici di bellezza. Su invito del Joker, la donna rimuove la maschera rivelando il proprio viso sfigurato. Vicki di scatto si alza terrorizzata.

Il Joker la segue ma la reporter riesce a trovare temporaneo riparo lanciandogli contro una brocca d’acqua, che raggiunto il viso del criminale gli guasta il trucco. Giratosi improvvisamente, il Joker rivela il suo vero aspetto, fatto di un’accozzaglia di colori, dove il bianco della sua nuova pelle si mescola ai toni del marrone del trucco ormai parzialmente slavato. Come un olio su masonite, realizzato con tratti aspri e pennellate violente e grondanti di colore, il volto del Joker si conforma in questi frangenti alla sua delirante ideologia di arte, mai lineare quanto terribilmente contorta e inestricabile. Batman fa irruzione nel museo sfondando la vetrata del piano superiore, salvando Vicki e fuggendo via con lei dall’edificio. L’arte per il Joker possiede un valore estetico e fatale, incentrato solo sulla sofferenza dell’essere umano. Egli distrugge le opere dei grandi pittori poiché le considera forme d’arte sorpassate, non più al passo con la dissacrante cultura di cui egli si fa promotore. La bellezza estetica per il Joker è paragonabile alla mostruosità, alla vera deformazione dell’arte, non più un’espressione in grado di catalizzare ogni sfaccettatura del sentimento dell’uomo quanto un modus operandi per testimoniare la sola crudeltà dell’agire umano.

  • Danzi mai col diavolo nel pallido plenilunio?

E’ la diabolica domanda che il Joker ripete a molte delle sue vittime prima di finirle. Bruce, sentendo quest’inquietante interrogativo, si sofferma sui ricordi che lo tormentano fin da bambino. Riemerge così la drammatica reminiscenza della morte dei propri genitori, l’evento che scatenò il desiderio di giustizia nel cuore dell’eroe. Bruce ricorda un ladro che nel buio sparò ai suoi genitori. Ancora una volta Burton ci mostra come la negatività del personaggio del Joker abbia agito, sin dal principio, in un instabile equilibrio tra luce e ombra: persino in questa che cronologicamente corrisponde alla sua prima apparizione, il criminale si nasconde nell’oscurità per poi mostrarsi alla luce soltanto per sorridere della sofferenza da lui stesso arrecata. Il freddo assassino sta osservando il bambino e, puntandogli contro la pistola, gli domanda: “Hai mai danzato con il diavolo nel pallido plenilunio?” I colpi sparati dal rapinatore sui coniugi Wayne hanno tuttavia attirato la polizia che si appresta a giungere sul luogo del delitto. L’uomo comprende che deve darsi alla fuga e voltandosi nuovamente verso il piccolo, lo grazia, salutandolo con un semplice “arrivederci.” Bruce, oramai adulto, deduce che il Joker è in verità lo stesso uomo che aveva ucciso i suoi genitori. Questa fu una licenza che Burton si concesse e inserì nel film per rimarcare ancor di più il destino che lega e attanaglia l’eroe al suo antagonista, creatisi involontariamente a vicenda.

  • L’ultimo scherzo del Joker

Come uno stravagante incantatore di folle, troneggiando su di una pittoresca torta da sfilata, Joker raduna un vasto seguito di incauti cittadini, attratti dalla promessa che il clown lancerà ai presenti venti milioni di dollari in contanti durante il festival per il duecentesimo anniversario dalla fondazione della città. L’avidità del popolo è una sentenza di morte per il gangster, il quale aziona un comando che fa spargere il gas smilex dagli enormi palloni da parata, cominciando a mietere diverse vittime tra i venali che tentano disperatamente di non inalare il gas, coprendosi la faccia con le banconote appena raccolte. Batman interviene per impedire al Joker di mettere in pratica la sua folle idea. I due si fronteggiano nella suggestiva e colossale cattedrale di Gotham City, proprio in cima alla torre, nell’antico e polveroso campanile.  Ricorre in questi frangenti il tema della danza, e di come essa possa venire rappresentata, quale atto sinistro. La figura del diavolo che danza illuminato dal plenilunio si correla di colpo con quella del Joker, il quale, danzando nei pressi del cornicione con Vicky Vale, diviene l’allegoria di quella stessa “interpellanza” di cui spesso si faceva truce portavoce. Batman gli ripete quel funesto interrogativo prima di colpirlo brutalmente. Il confronto tra i due avversari, culmine della pellicola, non si piega al semplice e aspro conflitto corpo a corpo quanto ad un’esternazione delle rispettive avversità. Il Joker riesce a spingere giù dalla cattedrale il cavaliere oscuro e la donna. Questa volta è proprio lui ad essere in salvo mentre il suo odiato avversario regge a fatica, aggrappato alle deboli e precarie sporgenze della cattedrale. Joker si arrampica su di una scala calata giù da alcuni dei suoi uomini che lo hanno raggiunto in cima grazie ad un elicottero.  Batman però usa il suo rampino legando il piede del Joker a un gargoyle. La statua cede e resta sospesa nel vuoto trascinandosi dietro il Joker che non riesce più a risalire. Rovina così tragicamente nel vuoto e vi trova la morte. Batman, dopo essere precipitato con Vicky dalla torre, riesce a salvare entrambi, con l’ausilio del suo rampino. Con il Joker eliminato e i suoi uomini arrestati, Gotham City è per il momento salva. La scena finale vede Alfred che accompagna Vicki a casa e Batman su un tetto mentre osserva con fierezza il Batsegnale, un simbolo di speranza che illumina il cielo.

Il commissario Gordon, insieme alla sua squadra di polizia, ritrova il corpo del Joker, schiantatosi al suolo. La camera di Burton procede dall’alto verso il basso, roteando l’immagine, fino al corpo esanime del clown, mentre in sottofondo si ode un’agghiacciante risata. Il volto del Joker appare disteso e forse con un ghigno ancor più tetro che nelle passate apparizioni. E’ morto, eppure sembrerebbe compiaciuto del suo ultimo atto. Una risata aspra, cupa, interminabile risuona per l’imbarazzo dei poliziotti che non riescono a spiegarsi da dove provenga. Gordon frugando tra gli abiti trova lo strano marchingegno che simula quella risata ossessiva. E’ l’ultima gag del Joker, la battuta conclusiva con cui decide di congedarsi dal proprio pubblico: egli riesce a ridere anche dopo la fine della sua esistenza, poiché la vita come la morte altro non è che un assurdo, artistico, equivalente scherzo.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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