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"Veronica Lake, la strega Irene" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

Angel era perplesso. Decisamente perplesso. Il suo volto pareva più pallido del solito, il che per un vampiro è tutto dire.

Non poteva credere alle sue orecchie. Cordelia l'aveva ingannato bene bene. Perfino Wesley, il fido aiutante del succhiasangue, era quantomeno titubante. 

"Mi stai dicendo che si tratta di una disputa da divorzio?" - chiese Angel, stupefatto. 

"Più o meno… Già!" – balbettò, imbarazzata, Cordelia. 

"Noi non ci occupiamo di queste cose!" - tuonò Angel, con tono categorico. 

E aveva ragione da vendere. La Angel investigazioni, la ditta investigativa fondata dal vampiro e dalla stessa Cordelia, si occupava di aiutare gli indifesi, di prestare soccorso ai deboli, di proteggere coloro che venivano minacciati dalle forze del male. Il lavoro che Cordelia aveva portato alla loro attenzione non aveva nulla e che fare con i loro compiti. Ma Cordelia non riuscì a resistere, quel cliente era disposto a pagarli profumatamente per perorare la sua causa. E poi, come ebbe a dire la stessa Cordelia, quel caso poteva avere un non so che di soprannaturale. Stando a quanto affermava il marito che intentava la causa di divorzio, infatti, sua moglie era una vera strega!

Angel guardò Cordelia con un'espressione che era un misto tra l'arrabbiatura e la compiaciuta ironia. "Dubito fortemente che si tratti di una VERA strega!" - concluse Wesley. 

Angel, Cordelia e Wesley nel diciottesimo episodio della prima stagione di "Angel": "La forza dell'odio".

Eppure, il vampiro e i suoi collaboratori potevano concedersi il beneficio del dubbio. Del resto, tutti e tre dovevano sapere che, qualche volta, capitò davvero ad un essere umano di sposare una strega. Intendo un’autentica strega, dotata di poteri magici, non una donna tanto rabbiosa e perfida da essere paragonata ad una arpia.

Come stavo dicendo, capitò ad alcuni uomini di prendere per moglie una strega a tutti gli effetti. Una strega buona, per loro fortuna.

Ad esempio successe, intorno agli anni Sessanta, ad un certo Darrin. Come dite? Chi era questo Darrin?

Un uomo come tanti altri, un onesto lavoratore, un americano modello. Si innamorò di una certa Samantha, una donna bella, intrigante, e piena di segreti. Già, proprio così: Samantha era una strega coi controfiocchi. Le bastava muovere rapidamente le labbra e il naso, come in una sorta di smorfia, per fare accadere qualcosa di insolito.

Ogni qual volta avesse voluto, Samantha avrebbe potuto spolverare casa da cima a fondo senza sforzarsi minimamente, in un battito di ciglia, mettiamola così... O per meglio dire in un battito di labbra e con un colpetto di naso. Avrebbe potuto cucinare in pochi secondi i piatti più succulenti, con un buffetto della sua espressività: il sogno di ogni casalinga.

Ma Samantha voleva ricorre alla magia solamente quando era proprio necessario, un po' perché le piaceva vivere come una donna qualunque, un po' per non fare preoccupare troppo il povero Darrin, che non si abituerà mai alle stravaganze della moglie e a tutte le stramberie dei parenti di lei e di tutto il loro mondo magico. Ma Samantha non lo faceva solamente per quello, per dare sollievo a Darrin: lo faceva prima di tutto per lei. Voleva dimostrare a sé stessa d'essere una donna forte, intraprendente, instancabile, che riusciva ad essere una buona moglie, una fantastica mamma, una gran lavoratrice senza l'ausilio di alcuna trovata magica. Samantha incarnava il desiderio di affermazione, di forza d’animo, di coraggio di tutte le donne degli anni Sessanta: donne capaci di farsi strada con il proprio impegno, la propria abilità, il proprio talento.

Ancor prima di Darrin e Samantha, ci fu un'altra coppia che si formò nonostante le differenze: lui era un uomo mortale, lei, beh, una strega con addosso trecento anni di età, o giù di lì. Portati alla grande, si intende.

La strega in questione si chiamava Irene e aveva il volto di Veronica Lake nell’opera cinematografica “Ho sposato una strega” del 1942. Questa pellicola in bianco e nero è un fantasy garbato e delizioso, spiritoso e gradevole, pregno di una comicità fanciullesca e delicatissima. La “cattiveria” della streghetta Irene, dedita a compiere scherzi e diavolerie semi-innocenti nei confronti della sua vittima prediletta, l’uomo di cui finirà per innamorarsi, catturano l’essenza gioiosa e lo stile fiabesco della storia immortalata dal cineasta René Clair.

Irene – la strega protagonista del racconto visivo – è una fattucchiera molto particolare. Già! Ma come potrei descrivere Irene? Da cosa potrei partire? Ma certo, anzitutto dovrei dire che è bellissima. Lo giuro, quando fu eternata su quel nastro di pellicola, lo era per davvero. Era più bella di quanto le parole possano riuscire a renderle giustizia.

Veronica Lake vi aspetta anche qui.

Aveva un volto da ragazzina, innocente seppur scaltra, due occhi grandi e profondi - che ricordavano le acque limpide di un laghetto delimitato da rosee sponde – che spuntavano al di sotto di due sopracciglia sottilissime, curve come un arco teso. Ma il particolare che più balzava all’attenzione del suo aspetto erano i suoi capelli: una folta chioma dorata le cingeva completamente il volto, scendendo giù lungo le spalle. I riccioli che aveva e che si intersecavano fra loro somigliavano a vortici cascanti, onde increspate di giallo che si sollevano prima di distendersi sulla battigia. Parte dei capelli le precipitava sulla fronte e le copriva metà del viso. Uno dei suoi occhi restava così celato allo sguardo dell’interlocutore e ciò le conferiva un’aria misteriosa, sinistra, ed elusiva. Il suo ovale, occultato a metà da un drappo color dell’oro, avrebbe potuto irretire anche il più accorto tra i viandanti, persino il più resistente ai sortilegi di questa strega tanto amabile e gentile… All’apparenza.

Irene, dunque, aveva un occhio celato da una parte dei suoi capelli d'oro. Sapete che anche un'altra strega, in un racconto visivo molto diverso, aveva un occhio coperto?

Questa strega, però, non manteneva il suo occhio adombrato da un ciuffo di capelli bensì lo teneva nascosto da una benda e per un motivo molto serio: chiunque avesse guardato dritto in quell'occhio avrebbe visto il futuro, precisamente il momento della propria morte. Nel film "Big Fish – Le storie di una vita incredibile", la “strega” in questione viveva in una casa diroccata, ricoperta di rami e fogliame, ed era molto avanti negli anni, tanto vecchia e rugosa da fare spavento, e occultava il suo occhio maligno perché nel suo bulbo oculare vi era l'immagine della fine. 

La storia di una vita incredibile, tra streghe, lupi mannari e giganti, vi attende qui.

Irene era una strega molto diversa dalla presunta fattucchiera di “Big Fish”: era giovane, nonostante l'età, eternamente giovane. Era graziosa e minuta come una fata. E soprattutto, se qualcuno avesse guardato nei suoi occhi non avrebbe visto la spaventosa sequenza della propria fine, ma avrebbe visto due cerchi azzurri, profondi come due pozzi colmi d’acqua cristallina e scintillanti come due stelle che brillano di una luce che non si estingue mai. Irene era brava a preparare pozioni col suo calderone, a rimestare le brodaglie con il suo grosso mestolo, ed era ancor di più abilissima a svolazzare in sella alla sua scopa. Ma qual era la storia di Irene? Sì, insomma, quale fu il suo vissuto?

Beh, tutto cominciò nel XVII secolo. Erano anni difficili quelli. Anni di caccia alle streghe. Specialmente nella cittadina di Salem. Le fanciulle che vivevano vicino ai boschi, all’interno di spelonche cupe e fatiscenti, da cui echeggiavano miagolii di gatti neri, potevano essere facilmente scambiate per truci megere. Irene non viveva in un antro angusto e tenebroso, non aveva con sé un gatto dal manto scuro, al contrario viveva col suo papà: uno stregone tozzo e dispettoso, dedito a combinare guai per tutta Salem. Padre e figlia, strega e stregone, verranno scoperti dagli abitanti del villaggio e condannati, come la tradizione del periodo soleva impartire, al rogo. I due verranno arsi vivi, non prima di aver lanciato una perigliosissima maledizione: sarebbero tornati, un domani, e si sarebbero vendicati sugli eredi di coloro che avevano sancito la loro fine terrena.

Passarono i secoli. Le anime di Irene e del papà rimasero prigioniere alle radici di un grosso albero. Nella prima metà del Novecento, un giorno come un altro, durante un temporale, un fulmine colpisce la vecchia quercia liberando l’anima della strega e del suo genitore. I due mediteranno subito vendetta. Irene, in particolare, è decisa più che mai a vendicarsi contro i suoi carcerieri, o per meglio dire contro un discendente dei suoi aguzzini: Wallace Wolley, un nobiluomo.

La strega vuole assoggettarlo, più precisamente vuole: “Renderlo il suo schiavo e farlo tanto soffrire”. Ma per fare ciò avrà bisogno di un corpo.

Lo dirà lei stessa allo spirito del papà: “Sarebbe bello avere delle labbra... labbra per sussurrare bugie... labbra per baciare l'uomo e farlo soffrire. Padre, perché non posso avere labbra, occhi e capelli?”.

Le streghe… Valle a capire… Per loro gli occhi, le labbra, il naso e i capelli sono così fondamentali: a Samantha Stephens le labbra e il naso servivano per attuare i suoi incantesimi, alla strega di “Big Fish” il suo occhio era necessario per spaventare il prossimo e mostrarne la dipartita, per Irene i capelli erano opportuni per aumentare il proprio fascino, l’ingrediente segreto del suo filtro d’amore.

Irene desidera infatti fare innamorare Wallace di lei. Lo spirito della streghetta, pertanto, si reincarna in una bella fanciulla, dalla folta chioma dorata. Irene è furibonda: non può dimenticare il torto subito. La vendetta, tuttavia, troverà un ostacolo insormontabile anche per la più determinata delle streghe. Non ci sarà intruglio, contro-incantesimo, scudo magico che terrà: Irene finirà per innamorarsi perdutamente di Wallace e verrà ricambiata a sua volta.

Dapprima, Irene si introduce nella vita di Wallace come un vortice tumultuoso, una tempesta che scuote il placido protagonista e la quiete della sua dimora. Wallace tenta in ogni modo di calmare l’indole pestifera di Irene, senza mai riuscirci. In Wallace traspare la dignità di un uomo d’alto rango, di un borghese raffinato, che si trova costretto a fare i conti con una donna umile e tutta pepe, che semina il disordine (e porta con sé il divertimento) nella sua smisurata villetta, forse, fino ad allora, rimasta un’abitazione troppo seria e noiosa. Wallace se ne accorgerà pian pianino: Irene, con le sue arti magiche, sta portando nella sua vita una ventata di aria fresca, nuova, imprevedibile, una sferzata di energia. Scrutandola a più non posso, Wallace si rende conto di quanto Irene sia speciale.

Al contempo, la strega, che desidera soggiogare completamente la sua povera “vittima”, prepara una pozione d’amore che, per errore, berrà lei stessa. Così, tutto l’odio e l’ira che serbava nei confronti della casata a cui Wallace appartiene vengono meno e in lei sboccia un affetto sincero e inarrestabile.

L’amore, lentamente, cambia completamente il carattere della strega, che da essere pestifero e indisponente sceglierà di divenire una donna buona, gentile e tanto, tanto devota.

L’amore che nasce tra Irene e Wallace è quello inaspettato e decisamente non convenzionale, un tipo di amore che vede coinvolte due anime separate dal tempo e incontratesi inaspettatamente. Due anime che si sceglieranno fra tante, nonostante gli attriti iniziali. Non vi è distanza, differenza, che possa dividerle: strega e uomo si ameranno senza esitazione.

Neppure Wallace, inizialmente, sa spiegarsi cosa gli accade quando passa tutta la notte a guardare Irene, fino alle prime luci dell’alba. Imbambolato… O per meglio dire “incantato” da quella strega, Wallace l’ammirerà inebriato, arrivando perfino a citare Dante e Beatrice.

Oh sì, ci sono state migliaia e migliaia di persone come noi, che vivevano lontano, mai sospettando di essere destinate l’una all’altra. E quando si incontrarono, i loro cuori si compresero senza esitazione. Prendiamo, per dirne una, il fatto di Dante e Beatrice: lui la vide una volta sola, ma in quell’attimo il mondo si inondò per lui di una luce abbagliante.”

Che anche Beatrice fosse una fattucchiera sotto mentite spoglie? Dopotutto, Dante, osservandola, cedette al “maleficio”, si innamorò di lei e proprio a lei dedicò le sue rime più belle. Per Wallace, guardare Irene significò mirare il bagliore di una luce tanto intensa da irradiarlo fino al cuore. E Irene, suo malgrado, cedette a sua volta a quello strano sentimento che mai aveva provato prima; lei, una strega tanto diabolica e vendicativa, si era fatta soggiogare da un sortilegio troppo potente per essere sconfitto.

L'amore dopotutto è più forte di qualunque incantesimo. 

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Tutte le volte che nomino “Big Fish” a mia madre, lei mi risponde con una domanda: “il film delle scarpe?”. E sorrido. Sorrido perché penso sia curioso che tra racconti di giganti gentili, di streghe in grado di profetizzare la morte semplicemente con “lo sguardo”, e di bavosi lupi mannari famelici, la prima cosa che a lei viene in mente sono sempre le scarpe. Le scarpe in determinati frangenti del film non sono semplici calzari ma, specie se tolte e abbandonate, assumono un significato ineludibile, simbolicamente metaforico, un’allegoria d’intensa forza esplicativa. Ci si guadagna la libertà nel perdere le scarpe e nel lasciarle annodate a penzoloni su di un filo teso, legato alle due estremità che fanno quasi da “portale” alla città di Spectre, dominando il viandante non appena quest’ultimo varca la soglia del soffice terreno sito alla fine della foresta. 

Spectre è la quiete, l’arrivo, la fine. E’ una città immobile, avulsa dal mondo esterno, avvolta nella felice compiutezza e nella baldoria quotidiana che non lascia spazio alla novità ma solo alla rilassatezza e all’assuefazione sognante di un mondo alienato nella goliardia. Per certi versi Spectre è un luogo estraniato dalla fantasia, poiché la perpetua perfezione risulta oltremodo difficile da trovare e da tollerare anche nell’accettazione di un mondo fantastico. Se tutto è perfetto, il medesimo “tutto”, può diventare adattamento e consuetudine noiosa?

Spectre è l’ultima fermata del treno, il capolinea della vita se la intendiamo come scoperta, viaggio, come la ricerca di emozioni altalenanti ma pur sempre nuove. Mia madre nelle scarpe lanciate e annodate su quel filo ci vede, a suo dire, una libertà pagata con la prigionia. Un’affermazione suggestiva ma dal sotto-testo inquietante persino nell’analisi di una storia reale e immaginifica. Per godersi la confortante patina di Spectre bisogna rinunciare al resto, lasciarsi alle spalle ciò che si poteva scoprire nel viaggio continuo della vita, che sia dolore o sollievo. La libertà coincide con la felicità durevole ma scevra dallo stupore, la prigionia invece, con la rinuncia a un qualsivoglia ritorno al mondo al di là della foresta. Persino la monotonia quotidiana viene spazzata via dall’incantesimo di Spectre, e no, un uomo come Edward Bloom non può certo sopportare di non poter trasformare qualcosa di normale in qualcosa di straordinario. Se fosse rimasto lì, circondato da un sogno, non avrebbe più potuto crearne altri lui stesso. “Neanche mi aspetto di trovare un posto migliore” dice Edward al suo addio.

Nessuno è mai andato via da Spectre, ma lui non è mai stato un uomo qualunque e non ha mai ricercato la fine del viaggio quando aveva appena intrapreso il proprio pellegrinaggio. Doveva andare via, anche senza le sue scarpe. Sarebbe stato più faticoso ma ne sarebbe valsa la pena. E un giorno, quando sarebbe ritornato, non avrebbe più visto quella città come la ricordava. Si impegnerà a restituirle quello splendore che portava nel profondo del suo cuore e dei suoi ricordi, ma neppure in quel momento, si fermerà lì. Non tornerà più. Poiché la sua sola casa è quella dove c’è Sandra ad attenderlo.

Quando nomino “Big Fish” a me stesso, quando rievoco le sue fotografie "fatiscenti", i suoi colori favolistici e il viso angelico e fatato della giovane Sandra Bloom, quando ci penso, ecco, la mia mente richiama con rapidi stacchi mnemonici la scena dell’incontro tra Edward e sua moglie, e la magia del suo ricordo, dove ancora una volta la fantasia supera la normalità. Il vedere Sandra voltarsi in corrispondenza del suo sguardo in lontananza, e quel folgorante colpo di fulmine istantaneo, per poi perderla, bruscamente tra la folla, diventa un momento di sola, assoluta poesia incantatrice: il mondo intorno a lui si è fermato, egli ha avuto modo di avvicinarsi, di scorgerla a pochi passi. Era splendida. I capelli biondo rossastri le cingevano il viso, gli occhi erano persi nel vuoto ma seguitavano a mantenere comunque la bellezza di uno sguardo naturale, e quel vestito azzurro che indossava veniva irradiato dalla luce dei riflettori del “palcoscenico” che sembravano illuminare solo e soltanto lei, come fosse la prima attrice di uno spettacolo teatrale. Edward la contempla solo per pochi istanti, ma non può che fissarla nella sua mente come se la rimirasse continuamente. Scolpisce i lineamenti di quel volto angelico nella propria intimità come se volesse inciderli su di una pietra liscia e levigata. E proprio quando sta per toccarla, ella svanisce, come nelle migliori e più crudeli fiabe. Il tempo ha ripreso a muoversi e per recuperare ciò che aveva perduto, ha accelerato, facendo dissolvere, tra le persone comuni, l’amore della sua vita. 

Lasciarsi alle spalle Spectre, nella logica di una narrazione colma d’immaginazione, ha segnato l’abbandono di un luogo perfetto per ricercare l’amore etereo e d’eterna durevolezza, in una vita non stratificata ad un singolo aspetto ma lunga e avvincente. Edward avvierà una ricerca di tre anni soltanto per venire a conoscenza del nome di quella donna che ne ha rapito ogni volere, inizierà un corteggiamento più difficile del previsto ma proprio per questo non meno esagerato e sfiorerà un matrimonio impedito dal reclutamento e dalla guerra: Edward si sarebbe perso tutto questo. La morte apparente del soldato, lontano dalla propria dimora e dalla propria compagna svanisce, come nelle migliori e più felici fiabe, questa volta, quando Edward riappare da dietro un drappo steso in giardino e riabbraccia finalmente Sandra. Non avrebbe vissuto questo “finale” e sarebbe stato un errore imperdonabile. Il guardarsi tra gli asfodeli, in un’esplosione di colore, in un’esaltazione visiva straordinaria è il vero momento perfetto che supera persino il paesaggio pittoresco di Spectre. Un bacio sarebbe stato ancora prematuro. Avranno tutta la vita per baciarsi e il resto dei loro anni per conoscersi. In quel momento, il solo guardarsi negli occhi e sorridere, risultava il raggiungimento di un sogno dalla fantasticheria adamantina. La perfezione non è nei giorni vissuti ma nel singolo momento, quello che blocca la naturale scorrevolezza degli eventi.

Non potevo che commentare l’opera di Tim Burton attraverso uno speciale articolo, rievocando per essa il mio personale ricordo. Come un cantastorie, anch’io emulando Edward ripenso a “Big Fish” e ne rinarro gli eventi in base a ciò che per me hanno significato. E con un pizzico di fantasia, mi cimento a scriverne attraverso le mie più sentite reminiscenze . Né una recensione né un’analisi critica: soltanto la raffinata pregevolezza della comprensione del film mediante quell’espediente narrativo tanto caro al suo protagonista: riportare in auge un ricordo, il più intenso di una vita incredibile.

Forse il primo pensiero che possiedo di “Big Fish” potreste trovarlo più “banale” rispetto a quello di mia madre. Antepongo una storia d’amore a un dettaglio scenografico non di certo indifferente, ma credetemi, in una fantasia sognante la mia scelta ha il suo perché. Vedere l’amore di una vita, rimirarla in volto e credere che tutto intorno a sé sia inutile, quasi immobile, è dannatamente ciò che potrei desiderare ma che questa realtà non mi permette di adempiere. E no, allo stesso prezzo, io preferisco la fantasia…

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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