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Passeggiando per le vie di Manhattan, dopo aver fatto shopping da bloomingdale, una donna dai ricci capelli d’oro chiede all’amato quali siano i nomi femminili inglesi più belli. La giovane era desiderosa di scegliere un nome per se stessa che fosse pronunciabile nella lingua madre del compagno. Per tale ragione comincia a chiedere all’uomo di elencarle tutta una serie di nomi in modo da poterne scegliere uno – il migliore – insieme. “Beh…ce n’è sono migliaia” - pensò subito il giovane, e iniziò ad elencarli. Jennifer, Joanie, Hilary e Linda furono i primi nomi che iniziò a proferire. D’un tratto, l’uomo si fermò per un istante e si chiese: “dov’è che siamo?! Ah sì, Madison…”.  Prima che proseguisse nella sua elencazione, la ragazza lo interruppe bruscamente - “Madison! Mi piace Madison!” -  L’uomo scoppiò a ridere incredulo – “Ma Madison non è un nome…” - disse. In effetti la parola Madison era scritta su un’insegna stradale sita a pochi passi da loro, indicante il viale “Madison Avenue”. La ragazza parve dispiacersi. Allorché l’uomo le aggiunse prontamente: “Va bene, vada per Madison”. Sul viso della giovane tornò il sorriso, felice di aver scelto un nome che le piaceva così tanto da renderla ancor più “definita” agli occhi del fidanzato.

Madison è un bellissimo nome, di certo inusuale, anzi per la donna che per prima lo scelse era decisamente originale, unico, come unica, d’altronde, era lei stessa, dolce e bella da togliere il fiato. L’angelica bellezza di quella dama che si aggirava tra le strade di Manhattan non poteva che essere battezzata se non con un “epiteto” speciale. Ma chi era, in verità, Madison? Era Daryl Hannah!  Così si chiamava, e si chiama tuttora, la ragazza che stava donando la propria immagine a quel personaggio che aveva scelto un così singolare nome per se stessa. Era il 1984 e Daryl Hannah era Madison, una sirena innamorata a New York.

Daryl Hannah nacque a Chicago, nell’Illinois, il 3 dicembre del 1960, figlia di Susan, una produttrice polacca, e di Donald Hannah, capo di una società di rimorchiatori e chiatte da carico. Daryl era una ragazzina estremamente timida e riservata. Era così taciturna da bambina che le fu diagnosticata una lieve forma di autismo. La mamma decise di ritirarla dalla scuola per un anno e di lasciare che la figlioletta vivesse per un po’ nel suo piccolo mondo, rifiutando i consigli dei medici, i quali avevano consigliato il ricovero in un istituto specializzato. Daryl amava dondolarsi, osservare e rifletterci su. Sempre con fare introverso, guardava la realtà che si snocciolava intorno a lei. Sebbene cresceva isolata dagli altri bambini, Daryl conosce i suoi primi amici, ovvero i personaggi fittizi dei film, e trova rifugio nel magico mondo del cinema. In quegli anni Daryl soffriva anche d’insonnia e trascorreva molte notti dinanzi al piccolo schermo, a guardare quanti più film poteva. Quando vide “Il mago di Oz” s’innamorò di quella realtà immaginaria. Provò persino ad avvicinarsi al televisore nel tentativo di varcare lo schermo ed entrare in quel mondo fantastico. Fu in quel momento che nacque la sua passione per il fantasy, e si accese in lei, come per incanto, la voglia di diventare un’attrice. La madre, infine, trascorso un anno rivelò di aver avuto ragione a non seguire il parere dei medici. E così fece che la figlia piano piano si reintegrasse nel mondo circostante. Daryl le fu eternamente grata: grazie alla lungimiranza della madre poté seguire la sua aspirazione. Daryl ha poi frequentato la Francis W. Parker School, e in seguito ha deciso di iscriversi alla University of Southern California.  Prima di esordire nel mondo del cinema ha studiato danza e recitazione.

L’arte della recitazione diventa per lei l’opportunità di valicare i confini di una nuova realtà nella quale può intuire anticipatamente come muoversi, così da superare, con maggiore facilità, la sua timidezza. I personaggi sceneggiati hanno per lei il vantaggio di essere pre-costruiti, così da poterli studiare e renderli, al contempo, naturali, aggiungendo quel tocco interpretativo che solo lei saprà in seguito conferire.

L’esordio assoluto per Daryl Hannah arriva nel 1978 quando, diretta da Brian De Palma, è nel film “Fury”. Da allora e per i successivi decenni si farà dirigere da registi quali Ridley Scott, Ron Howard, Ivan Reitman, Oliver Stone, John Carpenter e Quentin Tarantino.

  • Blade Runner: bambola letale

Nel 1982, alla sua terza apparizione cinematografica, Daryl Hannah è la principale antagonista femminile del capolavoro di fantascienza “Blade Runner” di Ridley Scott. L’attrice, giovanissima, si presentò ai provini per la parte di Pris sfoggiando un look studiato ad hoc per creare un’estetica evocativa del personaggio. Pris doveva avere un aspetto punk. Per tale ragione molte ragazze arrivarono ai provini con le parvenze più disparate. Ci fu chi si truccò come una bambola di plastica, con le guance color rosa e i capelli in piega. Un’altra giunse tutta vestita d’argento con impressi fulmini stilizzati. Daryl, invece, aveva indossato una parrucca fatta di peli di Yak che fungevano da capelli corti biondi ad ampio caschetto. Ammise, molti anni dopo, di sentirsi brutta e inadatta in quell’ansiosa mattina. Ma la parte andò a lei, e il look che aveva presentato colpì così tanto il regista da indurlo a sceglierlo come aspetto preminente del personaggio di Pris.

Pris, abbreviazione di Priscilla, è una replicante, un modello cibernetico creato il 14 febbraio del 2016 dalla Tyrell Corporation. Non a caso il personaggio di Pris è stato costruito in quella precisa data, a San Valentino. Pris è una donna-androide concepita per il diletto e il piacere. Un giorno, lei fugge insieme al compagno Roy Batty e ad altri quattro replicanti dalle colonie extra-mondo, dove visse per tre anni come una schiava, e si nasconde sulla Terra. La replicante vaga sola tra le periferie cittadine di Los Angeles. I suoi capelli sono bagnati e gonfi dall’incedere della pioggia, e il suo volto è leggermente imbrattato dallo sporco e dallo smog della città. Ella si nasconde tra i rifiuti in vigile attesa. Di lì a poco passa un uomo chiamato Sebastian. Pris lo convince a farsi ospitare nella sua dimora. Sebastian è un uomo dalla salute cagionevole, un genio dell’ingegneria e un maestro nella costruzione. Egli è talmente solo da essersi costruito giocattoli di grandi dimensioni, dagli aspetti più che particolari, che sanno muoversi e anche parlare.

Una volta in casa, in attesa che Roy Batty la raggiunga, Pris si trucca. Pasticcia il suo viso col cerone e lo fa diventare bianco come la porcellana, e tinteggia i contorni dei suoi occhi di un nero intenso. Il complesso ruolo della replicante venne fatto proprio da Hannah che caratterizzò l’androide alternando, con rapidi stacchi espressivi, smorfie dolci ad altre inaspettatamente inquietanti. Daryl fa di Pris un ritratto incerto, generante paranoia, in cui la fiduciosa serenità evocata dalla ragazza si mescola ad una forma di esasperato timore. Ella è talmente bella da invogliare all’attrazione, eppure, quei suoi fulminei modi sinistri non fanno che mettere in allerta chi vorrebbe avvicinarsi a lei. Daryl lascia che i suoi occhi comunichino più di quanto possano fare le sue labbra carnose nel proferire parola. Gli occhi di Pris penetrano la sfera emotiva di chi incrocia il suo sguardo, attraversano la corporalità sino a giungere nell’intimità e suscitare le più svariate interpretazioni emotive. Ella alterna sguardi più dolci e aggraziati ad altri più cupi e glaciali, come se i suoi occhi diventassero di ghiaccio; due luci ipnotizzanti, talvolta, rendono le sue iridi di un rosso magnetico. Ma non solo, in una breve sequenza, Pris rotea le pupille fino a farle scomparire, lasciando intravedere soltanto la sclera bianca, come se volesse rendere il suo sguardo inaccessibile.

Pris è un personaggio articolato e contorto. Ella è stata creata dall’ingegno dell’uomo, non è che un costrutto artificioso modellato per essere soggiogato da un padrone che vorrebbe fare di lei un mero strumento di piacere. Non ha diritti e alla nascita non conosce libertà. Inoltre, la sua breve vita sta per giungere al termine. Pris rivendica con Roy Batty il proprio posto su di un piano esistenziale paritario a quello dell’uomo, inteso come creatura umana, e vuol spezzare le catene che la terrebbero assoggettata alle pulsioni di uno schiavista.

Pris è come fosse una bambola bella e dannata, pericolosa e fatale. Suggestiva la sequenza in cui lei, indossato un body bianco da ballerina, si finge un giocattolo inanimato. Deckard, appena entrato nella casa di Sebastian, si trova davanti una sala piena di giocattoli, grossi pupazzi e statue in meccanico e compassato movimento. Alcuni di questi giocattoli restano immobili, privi di vita come ci si aspetterebbe. Tra questi si nasconde Pris, che finge d’essere la rappresentazione “statuaria” di una ballerina acrobatica inerme, coperta da un lungo velo bianco trasparente che sembra preservarla. Deckard la guarda con sospetto quand’ecco che lei si anima, dimostrando d’essere vera e lo attacca. Una sequenza emozionante nella quale il personaggio di Daryl rivela di non essere un debole fantoccio privo di vita, camuffato tra gli esseri umani, ma una creatura forte e persino letale.

Daryl, al suo primo, vero ruolo importante, offrì un’interpretazione curata e minuziosa. Con “Blade Runner”, uno dei film più belli della storia del cinema, Daryl Hannah scrisse subito il proprio nome nelle opere di culto della cinematografia mondiale.

  • “Splash – Una sirena a Manhattan”: tra la terra e il mare, l’archetipo della donna eterea

Come tenne a confessare in un’intervista, da bambina, Daryl era attratta dal divampare dei focherelli accesi. Il fuoco, elemento della natura, nel suo movimento attirava la sua attenzione. Crescendo, però, fu un secondo elemento della natura a catturarla: il mare. Daryl Hannah si era innamorata della fiaba di Hans Christian Andersen “La sirenetta”. Gli piacque così tanto che immaginava d’essere lei stessa una sirena ogni qualvolta nuotava in mare. Daryl, sin da piccola, era una nuotatrice straordinaria, veloce, elegante e abilissima nell’imitare i movimenti sinuosi di una sirena. Quando le porte del cinema hollywoodiano le si spalancarono davanti, ella sognava ancora di poter essere la Sirenetta di Andersen. Nessun adattamento della tragica fiaba dello scrittore danese vi era, in effetti, in cantiere. Ma il regista Ron Howard, spalleggiato dal produttore Brian Grazer, stava per girare un film basato su una sceneggiatura che portava la firma di Lowell Ganz, Babaloo Mandel e Bruce Jay Friedman. Stando a quanto affermavano i tre sceneggiatori era la storia più bella che mai avessero scritto nella loro vita. Ispirata, ma solo ispirata, alla fiaba di Andersen, la sceneggiatura raccontava l’avventura di una sirena che giunta a Manhattan per congiungersi all’uomo di cui si era perdutamente innamorata, veniva a sua volta ricambiata in maniera incondizionata. La sceneggiatura faticava a trovare una casa di produzione pronta a dare il via libera al progetto, finché non fu letta dalla Walt Disney. La Disney, che veniva da un decennio di grossi fallimenti, si mostrerà tuttavia reticente nell’accettare una storia sognante ma adulta e un copione che prevedeva alcune, sia pur brevi e composte, scene di nudo per la protagonista. Desiderosa comunque di non farsi scappare il film, la Disney inaugurò la Touchstone Pictures, un marchio di produzione e distribuzione separato, creato ad arte per realizzare film destinati ad un pubblico non infantile. Iniziò così la produzione di “Splash – Una sirena a Manhattan”, opera diretta dal futuro premio Oscar Ron Howard. Il lungometraggio si avvalse di un cast di giovani interpreti, pronti a divenire stelle di prima grandezza nel firmamento hollywoodiano: da Tom Hanks a John Candy, fino alla protagonista assoluta: Daryl Hannah. Daryl realizzava così un sogno, quello di poter diventare una “vera” sirena.

Dicevano gli sceneggiatori, prima d’iniziare le riprese, di aver descritto in “Splash” “la donna perfetta”. Ma una creatura femminile, dalla bellezza tanto splendente da poter essere adamantina, doveva ancora assumere forma, consistenza e corpo, in altre parole, tutti loro dovevano scovare l’attrice che rendesse Madison viva e vera. Daryl Hannah fu scelta immediatamente per la parte. La sua bellezza spontanea, linda, quasi celestiale, e quei suoi sorrisi angelici emanavano un senso d’innocenza assoluto. Daryl interpretò la sirena e la rese incredibilmente reale, come fosse la creatura del mare più bella che era mai stata raccontata, nonché osservata da occhio umano. Il modo così naturale con cui si muoveva in acqua, agitando con grazia la sua rossa coda pinnata, la semplicità con cui raggiungeva le profondità del mare durante le lunghe e impegnative riprese del film e la disinvoltura con cui seguitava a mantenere gli occhi aperti sott’acqua, mentre osservava quel mondo sommerso, la resero una sirena reale, concreta, in grado di oltrepassare i confini scenici e offrire con leggiadra disinvoltura ciò che lei in realtà voleva.

Quando arrivò a Manhattan, il personaggio di Daryl affiorò dalle acque completamente nuda, coperta soltanto dai suoi lunghissimi capelli biondi. La sirena, nell’interpretazione dell’attrice, scruta il mondo terrestre e si rapporta con esso per mezzo di una sincera e incontenibile curiosità. La sirena di Daryl osserva tutto ciò che la circonda con l’innocenza di una creatura amorevole ma spaesata e desiderosa di conoscere nuove cose. La sua espressione incantata e felice quando guarda il volto dell’amato, la sua pelle bianchissima e liscia così come appare quando emerge dall’acqua e poggia i suoi candidi piedi sulla terraferma, sono tutti caratteri estetici e interpretativi che Daryl donò al suo personaggio migliore. Daryl era a tutti gli effetti la personificazione, narrata e resa viva, della Sirenetta di Andersen, se questa non fosse morta in così tenera età, ma se invece fosse vissuta e maturata come una donna meravigliosa. Madison è la sirena “in carne ed ossa” più simbolica di sempre. Persino i disegnatori della Disney, quando iniziarono la lavorazione de “La sirenetta”, si ispirarono in parte alla sirena di Daryl Hannah, scegliendo di colorare i capelli di Ariel di rosso per non renderla troppo somigliante a Madison.

“Splash – Una sirena a Manhattan” è un fantasy con una grande cura del dettaglio scenico. Il personaggio di Allen (Alan in italiano) interpretato da Tom Hanks è indissolubilmente legato alla sirena, la sua anima gemella che vive nel regno del mare. Notiamo come egli nel proprio ufficio tenga un acquario. Anche a casa, in camera da letto, l’uomo ha un acquario, che suscita un sorrisetto sulle rosee labbra di Madison. Alan possiede anche delle grandi conchiglie che tiene su un tavolino di vetro. Egli, all’inizio del film, ammette, prima di rivedere la sirena, di sentirsi sereno e felice soltanto quando raggiunge la spiaggia di Cape Cod e si sofferma a guardare i fluttui. Inconsciamente egli è attratto dai marosi perché sa che tra le onde nuota la sua Madison, e cerca di colmare quell’assenza con espedienti e oggetti che richiamano il mare. “Splash – Una sirena a Manhattan” è la storia d’amore tra due esseri appartenenti a due regni differenti, separati tra loro. Ma grazie ad un profondo legame, i due riescono a scegliere un solo piano esistenziale in cui vivere la loro vita insieme, senza mai separarsi.

Una delle scene più romantiche del film vede Alan donare a Madison un carillon con due miniature custodite in una sfera di vetro che raffigurano una coppia d’innamorati nell’atto di danzare. E’ la prima volta che Madison ha l’opportunità d’ascoltare la musica romantica. E lo fa con quel carillon. Il regalo di Alan ha una valenza profonda, perché è come se riuscisse a catturare un brano musicale e ne facesse dono all’amata, la quale può riascoltare la musica ogni volta che ne ha voglia. La melodia che cadenza i passi delle due statuine del carillon viene poi ripresa da un violinista di strada, che suona davanti a Madison e Alan mentre si tengono per mano. Quella malinconica melodia, ripresa dal violinista, si sposa all’interpretazione che Daryl Hannah fa della sua sirena, una creatura così carezzevole e armonica da non essere compendiabile né dalla terraferma né, forse, dal mare stesso; ella è uno spirito etereo, come fosse dell’aria, una celestiale melodia uscita dalle corde del più nobile tra gli strumenti musicali.

Madison, come avevano preannunciato gli sceneggiatori, è l’archetipo della donna perfetta. Ella attraversa il regno marino e quello terrestre con grazia eterea. Una luce radiosa, dalla fonte imprecisata, spesso la illumina per accentuare la sua candida natura. E’ una cristallina visione dal carattere puro. Ciò che la differenzia dalla Sirenetta anderseniana è che lei non vuole rinnegare la sua natura. Madison ama essere una sirena, e decide di camminare sul suolo terreno soltanto per poter riabbracciare il suo amato. Madison, non è combattuta dal voler mutare la forma corporale del proprio essere, cerca, invece, di districarsi tra i due mondi per poter vivere il suo sentimento. Lei, sul finale, è pronta a rinunciare con sofferenza alla sua vera natura solo per amore di Alan. Ecco perché quello di Daryl è un ritratto completo di sirena. Daryl fa di Madison un dipinto delineato dall’arte della recitazione sulla sua stessa epidermide, il che la porta a combinare perfettamente i caratteri somatici della femminilità e dell’animosità della donna e della sirena. Madison è una creatura dall’aspetto gentile e delicato, ma anche una donna forte, coraggiosa e passionale, ma soprattutto innamorata.

“Splash – Una sirena a Manhattan” fu un enorme successo di critica e di pubblico. Costato appena 8 milioni di dollari ne incassò 6 soltanto nel suo week-end di apertura. Gli incassi ammontarono, infine, a quasi 70 milioni di dollari: fu tra i dieci film più visti dell’anno. Il lungometraggio venne candidato al Premio Oscar per la migliore sceneggiatura originale e al Golden Globe per il miglior film. Vinse il premio della critica conferito dalla National Society of Film Critics per la migliore sceneggiatura, e proprio Daryl Hannah vinse il suo primo Saturn Award come migliore attrice protagonista. “Splash” fu accolto da recensioni entusiastiche ed è tutt’oggi considerato uno dei migliori film degli anni ’80 e una delle storie d’amore più romantiche che siano mai state proiettate sul grande schermo. Grazie al successo di “Splash”, la Touchstone Pictures poté continuare a produrre film importanti nei successivi decenni. Insieme a “Chi ha incastrato Roger Rabbit”, “Splash – Una sirena a Manhattan” è considerato il film simbolo degli anni ’80 per la casa di produzione.

Può il nome di un personaggio assumere un valore sociale? E’ ciò che accadde all’uscita di “Splash – Una sirena a Manhattan”. Il nome della protagonista entrò nel linguaggio comune. Col passare degli anni il nome “Madison” divenne sempre più diffuso fino a che, agli inizi del Duemila, fu addirittura il terzo nome più diffuso in America. Daryl ebbe il merito di generare un fenomeno sociale difficilmente ripetibile, ergendosi col suo straordinario personaggio a fonte d’ammirazione e di ispirazione.

Dopo quel sensazionale successo, Daryl fu diretta da Reitman in “Pericolosamente insieme” e da Oliver Stone nel thriller dal vasto apprezzamento critico “Wall Street”. Nel 1987 fu la meravigliosa protagonista Roxanne nell’omonimo film di successo diretto da Frederic Schepisi, una rivisitazione, in chiave moderna, della commedia teatrale di Edmond Rostand “Cyrano de Bergerac”. Due anni dopo, precisamente nel 1989, recita fianco a fianco con Julia Roberts, Shirley Maclaine e Sally Field nel drammatico “Steel Magnolias”. Sarà poi il fantasma di una sposa uccisa in un delitto passionale in “High Spirits”, e ancora, nel 1992, la protagonista femminile de “Avventure di un uomo invisibile”, pellicola diretta dal maestro John Carpenter e ricca di bellissimi effetti speciali. Interpreta la figlia di Jack Lemmon e nuora di Walter Matthau in due commedie dai grandi incassi al botteghino come “Due irresistibili brontoloni” e “That’s Amore – Due improbabili seduttori, e in televisione prende parte allo sceneggiato “Una donna in crescendo”, e al remake de “La finestra sul cortile”.

Nel 2003 e nel 2004 torna sulla breccia del successo planetario venendo scelta da Quentin Tarantino per il ruolo dell’antagonista Elle Driver in “Kill Bill vol. 1” e “Kill Bill vol. 2”.

  • “Kill Bill” – Il fascino del male

Tale svolta artistica costituisce per Daryl l’opportunità di caratterizzare una personalità così diversa da quella che è lei in realtà. Per questo ruolo, Daryl non deve più adoperare la sua inconfondibile dolcezza espressiva, deve diventare una maschera cruenta, fredda, efferata, austera e sadica. Elle più di tutti gli altri “cattivi” del film che affrontano uno ad uno “la sposa” Beatrix (Uma Thurman) è quella che più si avvicina ad assurgere a nemesi al femminine della protagonista. Quella di Daryl sarà un’interpretazione intensa e trascinante. L’attrice sperimenta così il fascino del male, dando spessore a una donna indomabile e ad un’assassina senza scrupoli. Elle è crudele, feroce, trae piacere dalla sofferenza altrui ed è altresì una combattente implacabile. E’ diventato celebre il monologo del personaggio, declamato sui resti di una delle sue vittime uccise da un mamba nero. Un monologo letto da un taccuino e recitato con grande capacità dall’attrice, che ha saputo alternare alle parole pronunciate, una ritmata emissione di fumo dovuta al mozzicone di sigaretta accesa che reggeva tra le labbra. Quel fumo “spezzava” il parlato e cadenzava il suo malvagio interloquire. Per questa sua interpretazione, Daryl vince un nuovo Saturn Award, questa volta come miglior attrice non protagonista. Dopo Pris e Madison, Elle è il terzo dei suoi ruoli più iconici.

  • Amare la vita

Quello che personalmente mi ha sempre affascinato di Daryl Hannah è il suo sorriso. Ogni qualvolta viene intervistata, l’attrice conclude spesso le sue frasi con un sorriso sincero, venato di lieve imbarazzo, abbassando anche il capo, come se tentasse di nascondere il volto. Con quello stesso sorriso Daryl è probabile che ammiri la bellezza del creato, affronti le difficoltà della vita e intraprenda le sue dure battaglie per la salvaguardia dell’ambiente. Daryl Hannah ha sempre alternato alla sua carriera cinematografica un costante attivismo ambientale. L’attrice dagli anni ’80 non ha fatto altro che ispirare molti appassionati che l’avevano mirata sul grande schermo con quell’inconfondibile nome, e da allora cerca ancora di ispirare le persone, tentando di trasmettere il suo amore per il mondo e la vita.

Come Madison, anche Daryl guarda alla vita con speranza e amore, con dolcezza e fiducia. Sembra che quella coda rossa continui a calzarle a pennello quando lei nuota nel mare e ricorda quanto gli oceani siano importanti e debbano essere preservati dalle contaminazioni. Una vita, la sua, vissuta nella riservatezza prima e nella celebrità poi. Che sia una replicante, una spietata antagonista, o un’incantevole sirena Daryl ha sempre lottato strenuamente per ciò in cui credeva. Lei vuole celebrare le bellezze di un mondo “esterno”, quello stesso mondo che per un anno, da bambina, non vide poi molto. Attraverso il cinema ha interpretato una forma fantastica di realtà, e nella vita vera ha sempre affrontato con coraggio le avversità.

Love life” resta sempre il suo inconfondibile motto, perché lei, dopotutto, è ancora Madison, una sirena che ama fortemente la vita.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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  • Lamento vitale

Quando nasciamo, i nostri vagiti annunziano l’impeto di una vita appena sbocciata. Con i nostri occhi chiusi e stretti nello sforzo di generare il pianto, versiamo sulle nostre piccole gote lacrime sincere, intrise d’infinita gioia di vita. Credo sia teneramente adorabile soffermarsi a riflettere sulla valenza di un generico “lacrimare”. Nella nostra vita, piangiamo nei momenti più tristi, e a volte anche in quelli più lieti. La reazione emotiva esternatasi nell’azione del pianto possiede sempre una virtù empirea e tangibile. Si potrebbero lambire quelle lacrime fuoriuscite dai condotti lacrimali. Chi vuol comprendere il perché stiamo versando quelle gocce che racchiudono al loro interno sia ansie che emozioni, potrebbe raccoglierle e leggerle con gli occhi del cuore nell’empatico tentativo di svelarne il vero significato di ogni singola stilla. Lacrime di tristezza e di gioia: sono le più comuni, sebbene siano anche le più diverse. Nello scorrere della nostra esistenza piangiamo sia nella sofferenza come nella felicità, nella perdita di una persona cara come nello sbocciare di una vita nuova. Ma quando nasciamo, il nostro è un pianto istintivo, un naturale grido di partecipazione alla vita. Non vi sono sentimentalismi da indagare, in quel pianto si innesca la più pura e incontrollabile vitalità. Nelle lacrime rilasciate dai nostri minuscoli occhi e nelle pupille che si dischiudono per la prima volta, la vita trova il modo di sorgere e iniziare un cammino.

Le lacrime versate in un giorno di pioggia e l’immagine di un occhio che osserva in maniera indefinita, come fosse “staccato” dal resto del corpo, sono due allegorie basiche della mitologia del “Blade Runner” del 1982, opera di fantascienza che indaga l’esistenza e l’impossibilità di arrestare la morte. E’ proprio con l’immagine di una vigile pupilla, dilatatasi davanti alla camera, che “Blade Runner 2049”, sequel del capolavoro di Ridley Scott, alza il sipario. L’occhio spalancato è metafora di un inizio, simbolo di un’osservazione appena esordita, come se il seguito concepito e diretto da Villeneuve stesse nascendo in maniera subitanea nella sua prima sequenza d’apertura.

  • “Blade Runner 2049” – Un sequel stupefacente

E’ stata una gestazione estenuante quella che ha fatto da avvento alla nascita di un vero e proprio sequel dell’opera senza tempo di Ridley Scott. Ed è stato altresì un parto complicato quello che ha portato alla nascita di un film così appagante per gli amanti del genere, eseguito con meticolosa abilità da ostetrici artisti della parola, dell’immagine, del suono e dell’emozione generata dal connubio, minuziosamente perpetrato, dei precedenti fattori.  Sono trascorsi 35 anni dal primo “Blade Runner”. Tre decenni di paziente attesa e di ponderazione: quella di poter realmente filmare il seguito di un lungometraggio, tanto rivoluzionario quanto portatore di una sfida impossibile da vincere. Tuttavia, il regista Villeneuve ha raccolto il “guanto della singolar tenzone”. Alla fine è riuscito in ciò che sembrava così arduo: girare un film che mantenesse rispetto e esternasse malinconica riverenza all’opera magna originale, ma che voltasse rotta e proponesse un’ammirabile novità tematica e stilistica. “Blade Runner 2049” è un film ben fatto, meraviglioso e armonico. Semplicemente sontuoso!

La pioggia è l’evento atmosferico che richiama l’immagine di un pianto protratto e incessante. Torrenziale è la pioggia che bagna la Los Angeles del 2049 in cui è sempre notte e dove ologrammi pubblicitari vengono fatti materializzare con l’aspetto di corpi umani titanici, dotati di movimento coordinato e predisposto. Che tipo di lacrime bagnano la città di Los Angeles? Lacrime di gioia o di inconsolabile tristezza? Lacrime per glorificare la vita in ogni sua forma?!

 

L'agente K dipinto da Erminia A. Giordano per CineHunters

 

In questa metropoli dispotica e desolata, si muovono, in un alternarsi scenico, le anime di umani e replicanti, ed esse procedono come fossero traghettate dalle correnti ventose di una giornata comune. Sono trascorsi trent’anni dagli eventi di “Blade Runner”. L’agente Rick Deckard è scomparso, e i vecchi replicanti sono stati tutti terminati prima d’essere sostituiti da replicanti di tutt’altro tipo, creati da Niander Wallace (Jared Leto). I replicanti di Wallace sono anche loro esseri creati per venire dominati, stretti e incatenati sotto il giogo dei padroni. Essi sono destinati allo sfruttamento e alla schiavitù nelle colonie extra-mondo, seppur vengano descritti dal loro creatore come creature angeliche forti e resistenti, necessarie per il sostentamento dell'uomo e per il suo sviluppo. Wallace è un dio-creatore che plasma i replicanti come argilla tra le mani.

  • L’amletismo di un replicante

Protagonista della storia è l’agente K, interpretato da Ryan Gosling, un Blade Runner avveniristico, flemmatico, solo apparentemente freddo e distaccato. Egli non è un essere umano, è un androide ultimo modello, un replicante che dà la caccia ai vecchi replicanti modello Nexus, fuggiti per scampare alla terminazione.  Durante un’operazione di recupero e annientamento di un replicante, tale Sapper Morton, l’agente K rinviene una scatola sepolta sotto un albero morto. All’interno dell’oggetto, vengono rinvenuti i resti scheletrici di un replicante Nexus femmina. Gli analisti scopriranno che la replicante è deceduta a causa di un taglio cesareo effettuato chirurgicamente per far nascere il bambino. Sconvolti dalla scoperta, i superiori dell’agente K gli ordinano di fare tutto il possibile per trovare l’erede e ucciderlo, poiché la notizia che una replicante possa aver avuto un figlio potrebbe creare un'instabilità nel delicato equilibrio tra umani e androidi. L’agente K, restio e tormentato nel dover compiere un simile ed efferato gesto, comincerà la sua indagine che lo porterà a scoprire l’identità della replicante rimasta incinta: si tratta di Rachel, la donna innamorata e ricambiata a sua volta da Rick Deckard (Harrison Ford). In una ricerca così complessa, che ha radici in un passato vecchio di trent’anni, l’agente K scoprirà di essere anch’egli, in parte, coinvolto nel caso.

“Blade Runner 2049” è un eloquente e laconico atto comunicativo pur sempre verbalmente espresso ma anticipato da una impercettibile espressione del volto che preannuncia astrattamente ciò che poco dopo verrà espletato concretamente. La dialettica assume un potere valente ma secondario poiché superflua nel far comprendere il sentimento tra un essere umano e un replicante, già comprensibile dall’importanza di un singolo sguardo. In un contesto come questo l’agente K nei suoi esasperati silenzi è l’inequivocabile e ideale protagonista. Ryan Gosling non fa eccedere un’espressività costantemente mutevole, e proprio per tale ragione si rivela perfetto come interprete amletico di un agente meditante. K vive in una casa postmoderna, in cui la tecnologia futuristica è amalgamata in modo eterogeno a quella più tradizionale. La sua cucina a gas è alternata a una stanza in cui un riflettore posizionato sul tetto fa visualizzare la sagoma digitalizzata di Joi, una bellissima donna di cui K è perdutamente innamorato. Joi (Ana de Armas) ricambia incondizionatamente K seppur essa non sia che un estetico agglomerato ineffabile di luce e immagine. Quella che “Blade Runner 2049” inscena con dolente poetica è la meravigliosa e nuova frontiera di una storia d’amore impossibile. Joi è intelligenza artificiale in grado di provare, con coscienza e razionalità, affetto e in particolar modo, amore.

  • Amore platonico, passione intellegibile

Ella è intelligenza artificiale seppur sia un artificio non propriamente meccanico, quasi etereo e impalpabile in quanto contenuto e riflesso da una macchina proiettante. Joi è “intrappolata” in una proiezione, non ha consistenza fisica ma ha volontà, non ha un corpo ma possiede un’anima, non è incarnata ma è visivamente personificata. Un qualcosa di tragico ma narrativamente incredibile anche solo da descrivere. Joi ha voluto ribattezzare K con il nome di Joe, per conferirgli un che di umano. K, dal canto suo, ha voluto far dono alla sua “sposa” di uno strumento, un comando che può custodirla al di fuori di quel “proiettore” che può renderla visivamente mirabile solo tra le austere pareti della loro casa. Con quel comando ella può sciogliere il legame che la trattiene tra quelle mura e valicare i limiti dell’edificio assieme a K. Ella in quell’oggetto ha riposto senza remore la sua esistenza virtuale poiché se dovesse deteriorarsi, cesserebbe di materializzarsi per sempre, come se fosse anch’ella una donna vera, in balia della morte, nel caso in cui venisse “attaccata” e “distrutta”. Se lei gli ha donato un nome, lui ha cercato di donarle una nuova forma di stasi: entrambi provano, in un disperato e romantico tentativo, di umanizzarsi vicendevolmente. Il primo luogo che Joi desidera “visitare”, una volta uscita dalla dimora, è la terrazza del palazzo, sulla quale entrambi vengono investiti da una lieve pioggia che accompagna il loro primo momento d’accenno di “libertà”. Ancora una volta la pioggia, come toccante pianto, sembra cadenzare la vita in “Blade Runner”.

Tra K e Joi esiste un amore platonico e inestinguibile, virtuale ma reale, a cui viene poi conformata una passione indomabile, trasfigurata nell’intellegibilità, che tocca le vette del romanticismo gemmeo. Ella è fisicamente inconsistente, corporalmente effimera ma animosamente ricolma. Quando lui l’accarezza, la sua mano rende la nitida visione della donna opacizzata, poiché soggetta a dissolvere la qualità della sua trasparenza al minimo tocco. La sequenza in cui Joi deciderà di sincronizzare il suo corpo visivo a quello di una donna vera, sovrapponendosi a lei, pixel dopo pixel, per garantire a K la possibilità di consumare il loro amore, è una delle scene più intense e toccanti del film, e riesce a mantenere per tutta la sua durata una passione tersa e persino sognante. Un atto d’amore sentimentale nato e divampato nella sintonia connettiva di due anime “meccaniche” che si congiungono nel bisogno umano di sfiorarsi e toccarsi con concretezza. Un semplice abbraccio, una carezza sul viso per K e Joi assume l’aspetto di un rapido momento d’essenza eterna.

  • I ricordi

“Blade Runner 2049” è un noir fantascientifico impreziosito da una folgorante fotografia. Ha un ritmo volutamente compassato per rimarcare con la dovuta attenzione le scene introspettive e le peregrinazioni solitarie del protagonista, sempre analitiche. La sua è un’investigazione compiuta su due fronti che si intersecano: la ricerca dell’identità dell’erede di una replicante si intreccia a quella inerente la possibile vera identità dell’agente K. K è un replicante che desidera ardentemente d’essere speciale, e non un mero “prodotto”, e nutre la speranza che i ricordi che possiede non siano innestati ma possano essere veri.

La vivezza sensoriale dei ricordi ha i contorni di una finestra spalancata sul passato che può essere pre-costruito o assolutamente veritiero. I replicanti, a cui sono stati impiantati ricordi artificiali, necessitano di quelle memorie per poter restare stabilmente a contatto con la loro intimità, pur essendo consapevoli che quelle rievocazioni non sono altro che il frutto di artificiosi palazzi mentali sapientemente orchestrati con dovizia di particolari. Essi sono un rifugio per rammentare un’identità, anche a costo d’ingannarsi e impantanarsi in una fangosa menzogna.

Con i ricordi riusciamo a padroneggiare la capacità di “dialogare con noi stessi”. I ricordi in “Blade Runner 2049” sono delle raccolte archiviate e possono avere una duplice natura, vera o forgiata ad arte, positiva o negativa. Ricordi paurosi e tristi si alternano con le memorie più felici ed idilliache di un passato che non c’è più. Tali testimonianze memorizzate in “Blade Runner 2049” sono lo specchio dell’anima e riflettono l’interiorità di un essere umano così come di un replicante. La memoria è alimentata dall’emozione, dal sentimento che ad essa è accomunata, e l’effetto sensoriale dell’amigdala può modellare le emozioni provate in quel determinato momento fino a farle rivivere. Attraverso la sfera mnemonica si compie l’investigazione dell’agente K che arriva a interloquire con la più grande creatrice di ricordi per replicanti, la dottoressa Ana Stelline (Carla Juri). Ella vive protetta all’interno di un’ampia cupola che ne preserva la cagionevole salute. Ana è portatrice di una splendida immaginazione con la quale riesce a dare contorno, spessore, forma e colore a un ricordo che si può toccare con mano. Ella è una creatrice di ricordi e li realizza come fossero quadri dipinti con un pennello inesistente su di una tela evanescente, impercettibile come un lieve soffio di brezza. Quando ella vedrà il ricordo che accompagna da sempre l’agente K, ricordo a tal proposito necessario alla comprensione dell’indagine, scoppierà in un accorato pianto e affermerà che tale memoria è vera e non propriamente innestata. Ciò porterà K a credere che lui stesso sia il figlio perduto di Rachel e Rick.

  • Il miracolo della vita

Quella di “Balde Runner 2049” è esaltazione dell’arte cinematografica nella sua essenza più profonda e pura. E’ comunicazione silenziosa, riflessiva, meditabonda, arte che conferisce pregio allo sfondo, rilievo significante alla scenografia, validità alla taciturna espressione di un viso disteso e pensante. E’ emozione mai espressa completamente, ma incastonata nella magnificenza di un momento, nell’importanza di un gesto o di un’intenzione che potrebbe far capire molto di più di quanto semplice possa apparire. In “Blade Runner 2049” il sentimento umano batte come un cuore palpitante. Nella versione di Villeneuve la paranoia che un tempo avvertivamo guardando l’opera di Scott viene annullata. E’ la vita, intesa come miracolo della creazione, ad essere inebriata. La nascita del bambino concepito dall’amore tra Rick e Rachel, è la compiutezza di un prodigio.

Un evento straordinario, una grazia giunta dal cielo, che sconvolge Wallace, uomo che si esprime attraverso orazioni criptiche e ricche di accenni e riferimenti religiosi, come se fosse un antico profeta e oracolo affetto da cecità, ma che crede di vedere ciò che nessun altro è in grado di scrutare. K giungerà fino alla decaduta Las Vegas, megalopoli funerea e irriconoscibile se confrontata a ciò che fu un tempo. Laggiù rinverrà Deckard. Eccezionale la scena in cui Rick e K avranno un confronto fisico in una platea abbandonata sul cui palcoscenico si esibisce un ologramma fuori sintonia di Elvis Presley. Un passato che tecnologicamente si mescola a un presente futuristico.

Un ritorno, quello di Harrison Ford, straordinario. Ford nella sua maschera rugosa, assuefatta alla rassegnazione, alla rinuncia, trasmetterà la sofferenza di una vita di stenti, di allontanamenti forzati, di privazioni. Il Rick Deckard di “Blade Runner 2049” è un padre disperato più che un vecchio cacciatore di replicanti, e la recitazione di Ford accentua l’umanità e il senso di protezione paterna dell’uomo più che la glaciale freddezza di un ex agente. L’eroismo di K, che perderà la sua amata Joi lungo il proprio cammino verso il trionfo finale, sarà l’ultima speranza per Deckard di riscoprire la verità sul proprio erede: sulla propria figlia che altri non sarà che la dottoressa Ana.

  • Pianto finale

Ecco perché ella piangeva alla vista di quel ricordo, ecco perché K “vigilava” su quella reminiscenza dal valore inestimabile: era un innesto basato sulla verità, sul passato di Ana. Ancora una volta le lacrime all’interno del film testimoniano l’importanza di un sentimento, di un passato identificativo rivisto e rivissuto attraverso l’emotività umana. Quindi K riuscirà a salvare Deckard e lo condurrà ad incontrare la sua amata figlia.

“Blade Runner 2049” è un sequel coraggioso e bellissimo, vicino a raggiungere e ottenere di diritto, anch’esso come il predecessore, la caratura del capolavoro.

Quando K avrà adempiuto la propria missione, si sdraierà su una scalinata. La musica riprenderà i passi che scandirono il trapasso di Roy Batty nella celebre sequenza del primo “Blade Runner”. Non verserà lacrime nella pioggia: egli guarderà il cielo che in quel momento comincerà a “piangere” neve. La bianca coltre cadrà copiosa quando egli verserà le sue ultime lacrime sotto la neve ed emanerà l’ultimo respiro. Se Roy Batty aveva versato il suo ultimo pianto sotto la pioggia, Joe farà “scomparire” le sue lacrime nel fioccare della neve.

Anche Ana sarà avvolta dall’incedere di una neve virtuale poco prima di mirare per la prima volta suo padre. Chissà se anch’ella reagirà versando nuove lacrime sotto la neve quando scoprirà chi è la persona che ha dinanzi. Che sia gioia o tristezza, che si tratti di nascita o morte, le lacrime possono riuscire ad esprimere in egual valore l’immensa emotività di un istante che diviene immortale nel tempo. Il pianto è testimonianza di un sentimento, e il sentimento è testimonianza di vita. Che siano uomini o replicanti essi versano lacrime…e sono in vita.

Voto: 9/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Anno 2019, Rick Deckard (Harrison Ford in uno dei suoi ruoli più iconici) è un cacciatore di replicanti, chiamato ad un’ultima missione prima di ritirarsi. Quest’ultimo incarico concerne il ritrovamento di sei replicanti fuggiti dai campi di lavoro nelle colonie extraterrestri e rientrati sulla Terra per nascondersi tra la folla anonima. I replicanti sono fabbricazioni di androidi dall’aspetto umano. Deckard decide così di mettersi alla ricerca di quei “fuggitivi”. Nell’arduo tentativo di rintracciarli, Rick è affiancato da Rachel, una donna non consapevole d’essere essa stessa una replicante. Gli androidi rinnegati sono guidati da Roy Batty (Rutger Hauer) e Pris (Daryl Hannah) e mirano ad incontrare il creatore dei replicanti per ottenere un prolungamento della loro vita, che cessa dopo soli 4 anni…

Nel 1982, Ridley Scott tornava al cinema con l’ultima delle sue fatiche: “Blade Runner”. Si trattava del secondo lungometraggio di genere fantascientifico che recava la firma di Scott, due anni dopo il grande successo di “Alien”. Il cineasta statunitense era quanto mai deciso, quasi immantinente nel voler dimostrare nuovamente la propria attitudine a sollevare interessanti argomentazioni inscenate in contesti futuristici e altamente dispotici. Con la creatura aliena concepita da Hans Rudolf Giger e plasmata in terrificanti fattezze da Carlo Rambaldi, denominata Xenomorfo, Scott filmò in “Alien” l’incarnazione parassitoide di un innaturale terrore bestiale. Alien era la paura trasfigurata nella raccapricciante deformità di un essere ostile e predatorio, che con la sua orripilante tecnica riproduttiva reinterpretava una violazione fisica, uno stupro al corpo umano, che veniva tramutato obbligatoriamente in ospite e, al compimento della propria straziante morte, in genitore partoriente di una paura immonda, data alla luce dal dolore di un parto violentemente imposto. Alien era un incubo primordiale a cui dare corpo difforme e atroce movenza, gesto efferato e rumore sinistro, verso spasmodico e respiro convulso.

Con “Blade Runner” la fantascienza di Scott navigò lontano, si protrasse lungamente verso uno stadio successivo, e attraversò le lande desolate di un universo narrativo, in cui avrebbe ricercato altre complessità tematiche, basate sull’analisi dell’esistenza, della religione e dell’autocoscienza. Con “Blade Runner” la paura obbrobriosa di un mostro d’imprecisata natura viene accantonata per essere sostituita da una evoluzione stilistica umano-centrica, ovvero che pone l’umanità al centro di un articolato dibattito filosofico e morale. Gli scenari cambiarono, e Scott non basò la sua storia incentrandola sui limiti circoscritti di una nave spaziale, bensì sul centro urbano di una Los Angeles nebulosa e sozza, inquinata e claustrofobica, così come appare in questo immaginario 2019. “Blade Runner” apprende la paura di “Alien” e la converte in un ansioso climax paranoico e tremendamente sospettoso. Il termine significante della parola “certezza” vacilla maledettamente, come fosse un concetto aleatorio e vacuo. “Certo” può anche significare “errato”. Nulla è realmente certo in “Blade Runner”; la certezza non esiste, non è altro che una chimera, un’illusione scientifica che avviluppa ciò che è umano e ciò che non lo è, e che viene inglobata in un’atmosfera angosciosa, carburata dalla costante inquietudine su chi sia un autentico essere umano e chi un replicante mimetizzatosi camaleonticamente con il resto della popolazione.

I replicanti non necessitano, tuttavia, delle medesime qualità dei camaleonti, non hanno bisogno di mutare il loro colore epidermico a seconda del terreno e dello spazio che li circonda, essi sono iperrealistiche riproduzioni del derma, e sono totalmente somiglianti agli uomini. Pertanto, il camuffamento verte sul mantenere un atteggiamento “tranquillo”, nella speranza d’evitare d’essere scovati e sottoposti al test per il riconoscimento.

“Blade Runner” è un noir fantascientifico, gotico e ombroso, ambientato per la quasi totalità nelle ore buie della giornata, quando il sole tramonta e le ombre degli uomini e dei replicanti vengono livellate e poi annullate dalla scomparsa del sole. Se i noir di un tempo erano girati in bianco e nero, e il fumo della sigaretta accesa fumata dai protagonisti si levava in alto, come una nuvola grigiastra che immerge i personaggi in un’atmosfera irrespirabile, in “Blade Runner” i colori sono distillati sulle illuminazioni esterne degli sfondi piovosi ma incupiti dalle scenografie fredde, buie, tenebrose. La storia di questa pietra miliare del cinema fantascientifico è quella di un avvenire crepuscolare per la razza degli uomini, in cui il sorgere di un domani chiaro, limpido parrebbe d’impossibile previsione.

“Blade Runner” è un inarrestabile pianto amaro e malinconico, che si manifesta nella pioggia copiosa che bagna la città con triste abitudine. Si vive in un avvilente presente nel quale la vita scorre via come lacrime sotto la pioggia. Il clima alienante emana un’insicurezza intollerabile. A cominciare dal personaggio di Rachel (Sean Young), così bella e generosa da rendere la verità sulla sua origine ingiusta, poiché risulta inaccettabile che essa non sia nata col dono della vita umana. Rachel è una replicante che non sa di esserlo, un destino dall’esito pauroso che mette in dubbio persino la veridicità dei ricordi d’infanzia, innestati in modo artificioso nella sua sfera mnemonica. Essa quando scoprirà la sua vera natura ne rimarrà inorridita. Nulla può essere come sembra nell’opera di Scott: umanità e artificiosità si mescolano in un affresco dai colori indistinguibili. Sebbene la natura di Rachel sia tale, Deckard se ne innamora e vorrebbe fuggire via con lei da una così avvilente quotidianità urbana.

L’indagine ricercata del protagonista si abbina alla disperata fuga per sottrarsi all’implacabile passare del tempo che consuma gli ultimi granelli di sabbia nella clessidra dei replicanti capeggiati da Roy Batty, ai quali restano pochi giorni di vita prima della dipartita. E’ la fascinosa analisi esistenziale che “Blade Runner” attua. Gli androidi, vivi e senzienti per loro stesse ammissioni, desiderano quello che non potranno in alcun modo ottenere: una vita durevole che possa essere impreziosita da un allungamento del tempo loro concesso. Essi sono stati creati da un padre che ne depreca le volontà, considerandoli dei figli illegittimi, ammassi di cute e circuiti. L’atto della creazione viene rivestito di un’accezione abominevole, poiché adempiuto da un insensibile creatore che genera una forma di vita senza curarsi della conseguenza delle vittime (i replicanti) che ricevono il peso di un’ingiuria. Tale offesa riguarda proprio i replicanti, la cui sola colpa al momento della nascita è quella d’essere stati confezionati, impacchettati e dischiusi dal torpore di un parto mai avvenuto, per fini lavorativi. Essi investigano sul loro imminente futuro, semmai dovessero averne uno, parallelamente all’investigazione che Deckard compie per stanarli e distruggerli. Mentre essi anelano alla speranza di una vita in modo anche violento e privo di remore, Rick è costretto a escogitare il modo per annientarli.

Quando Roy Batty incontrerà il creatore dei replicanti assisteremo ad una fantomatica e intensa riproposizione fantascientifica di un “essere vivente” che si imbatte nel proprio Dio, in colui che dall’alto di un sapere universale ha generato la vita. La richiesta di Roy Batty, proferita con una fermezza che cela la disperazione, è quella riguardante un prolungamento dell’esistenza. Quando riceverà la risposta negativa, ovvero l’impossibilità di evitare il deterioramento dei circuiti allo scoccare del quarto anno, Batty bacerà il suo creatore e lo ucciderà. Un bacio d’addio, di rassegnazione, il “bacio di Giuda” rilasciato da un replicante che si è sentito esso stesso tradito, e che si prepara a compiere un parricidio, o altresì una sorta di omicidio compiuto da un essere ai danni di un dio creatore che si è mostrato non misericordioso nei riguardi della sua creatura. Roy Batty parrebbe assumere i contorni religiosi del Lucifero insorgente.

A questo punto i replicanti rimasti sarebbero fuori controllo, e vorrebbero vendicarsi. Deckard li insegue per porre fine ai loro tormenti e per far cessare i pericoli ad essi accomunati. Segue una colluttazione brutale, nella quale Roy Batty dimostra la sua forza sovrumana e la ferrea durezza con cui vorrebbe uccidere Deckard. Tuttavia, sul finire delle vicende, quando ormai Deckard provato e prossimo a morire sta per lasciarsi cadere da un precipizio verrà raggiunto dall’androide che lo raccoglierà col suo braccio e lo trarrà in salvo. Roy Batty, il replicante, mostra un’inaspettata misericordia, una pietà che nessuno ebbe nei suoi riguardi. Agguanterà ed espleterà un’umanità sopita e a quel punto più vera che mai, perdonando il suo inseguitore e permettendogli di continuare a vivere.

«Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di morire

Quando declamerà il suo celebre monologo finale, un canto funebre di commiato, lascerà traspirare quanto la vita, veritiera o irreale, sia ineffabile, e i ricordi, le storie, le singole esperienze e le meraviglie dell’universo osservate in un battito di ciglia e conservate nei ricordi di un animo vitale possano svanire come lacrime che abbandonano gli occhi e scivolano giù lungo le guance al momento della morte. Ciò che abbiamo vissuto scomparirà, i momenti andati diverranno momenti perduti. Ma essi potranno essere in parte custoditi nell’eredità dei nostri discendenti, negli affetti delle persone a noi più care. Questo non è possibile per un replicante, e per tale ragione, nel finale sarà il salvataggio di Roy Batty ad assumere un significato profondo. Esso verrà rammentato dal protagonista come testimonianza di un gesto di riconoscenza, effettuato in punto di morte.

“Blade Runner”, ancor più che una parabola sull’esistenza, trovo sia un racconto allegorico sull’impossibilità d’arrestare la morte. Lo spegnersi di una vita è il passo finale di ogni singolo essere. Tutti noi nasciamo e siamo consapevoli che la nostra permanenza sulla Terra sarà solo temporanea, una sorta di assoluto passaggio. La morte, come scrisse J.R.R. Tolkien, è un dono che “Eru Ilúvatar” ha elargito agli uomini di Arda, i quali quando sarà il momento dovranno abbandonare la propria dimora per calcare l’etere e le bianche sponde. La morte potrà essere un’altra via per gli uomini, ma per i replicanti? Non ci sarà nulla, tutto svanirà in un solo e fatale istante dopo poco più di quattro anni, un tempo drammaticamente misero ed esiguo. Nel suo tragico “spegnimento”, la personalità misteriosa di Roy Batty ha sublimato l’importanza della “sopravvivenza”, offrendo la vita a colui che era un suo nemico.

Rick, rimessosi in piedi, si ricongiungerà a Rachel, e con essa scapperà via. Al termine del lungometraggio, l’alone del sospetto seguita a permanere. Un dubbio venuto alla luce nel corso degli anni, alimentato da piccoli indizi di natura mitologica, che assumono l’aspetto di un unicorno, e che disseminati nelle varie versioni inducono noi spettatori a vestire gli inaspettati panni di “cacciatori di replicanti”. E se persino Dekcard fosse un replicante?

Voto: 9/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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