“Quegli imbecilli che marciano con il passo dell’oca come lei, dovrebbero leggerli i libri invece di bruciali!” - affermava con fermezza Sean Connery quando, in “Indiana Jones e l’ultima crociata”, vestiva i panni del professore Henry Jones.
Una frase proferita in uno scenario non certo idilliaco, in cui l’oscurantismo promanato dal Terzo Reich era prossimo a prevalere. Il professor Jones, in quel frangente, si rivolgeva ai soldati delle milizie tedesche, colpevoli di ardere intere cataste di libri. Un gesto barbaro, perpetrato per tentare d’estinguere ogni barlume di cultura, ogni anelito di conoscenza.
Le parole scritte inducono i lettori a pensare, a riflettere, a ragionare. Durante l’ultimo conflitto mondiale, secondo il credo totalitario del gerarca nazista, l’erudizione "autonoma" e la stessa istruzione "indipendente" dovevano essere cancellate, avvolte dalle fiamme. Il fuoco serviva, così, per ridurre in cenere i componimenti stampati e con essi annientare la libertà d’espressione, disfare l’intelletto e sopprimere la ragione.
Lo scrittore Raymond Bradbury trasse, in parte, ispirazione dall’orrida pratica nazista per scrivere e pubblicare, nel 1953, il suo capolavoro letterario “Fahrenheit 451”, da cui è tratto l’omonimo adattamento cinematografico di François Truffaut del 1966. La storia si sviluppa in un imprecisato futuro distopico in cui è severamente vietato dalla società dominante leggere o solamente possedere dei libri. Scorrere attentamente con lo sguardo un testo scritto, dunque, è un atto proibito, un autentico crimine. Persino le strisce a fumetti vengono tratteggiate su sfondi bianchi, amorfi, come se fossero anonime sequenze illustrate e prive di dialogo, di un messaggio, di un valore. Sono le grandi antenne che sovrastano la sommità degli edifici e le televisioni che da esse traggono la propria fonte di trasmissione a porre le menti degli uomini sotto un giogo incantatore che seduce, intontisce gli esseri umani sempre più spettatori passivi e sempre meno inclini alla lettura.
In questo scenario angosciante e surreale, i Vigili del fuoco hanno il tassativo compito di individuare i libri e bruciarli. Che drammatico e inaspettato “rovesciamento di fronte” ha offerto questa società futuristica!
I Vigili del fuoco, gli eroi della realtà d’ogni giorno, nell’opera filmica, vengono "reinterpretati", osservati sotto unaveste negativa, sotto un’uniforme antagonistica. I Vigili del fuoco di “Fahrenheit 451” sono rivisitazioni inusuali, generate da un governo indolente. Essi non sono, in effetti, dei “vigili” poiché non vigilano per nulla sugli incendi, non si battono per fronteggiare le fiamme; del resto le abitazioni, come tengono più volte a ricordare gli stessi, sono costruite con materiali ignifughi e dunque i compiti che un tempo essi espletavano quotidianamente sono diventati obsoleti, inutili, sorpassati. Gli incendi non si verificano più in questo mondo distorto che appare, però, così inquietantemente vero.
I pompieri, dunque, non spengono più le vampe ardenti, si prodigano, invece, nel provocarle: utilizzano il fuoco, lo generano loro stessi con l’ausilio di un lanciafiamme che brandiscono con disinvoltura per appiccare roghi sempre più frequenti, in cui consumare i libri rinvenuti nei posti più disparati. La dicitura impressa su alcuni elmetti di questi pompieri, ovvero “451”, induce a ricordare la scala Fahrenheit, una sorta di metafora con cui, di lì a poco, i libri cominceranno a prender fuoco, nell’inesorabile processo di combustione.
Il protagonista di questa storia atipica e spaventosa è il giovane Montag, appunto un pompiere. Montag si è arruolato come volontario, affascinato dalla "divisa" scura, eppure egli sembra non sapere molto circa il trascorso della Caserma in cui ha scelto di prestare servizio, circa il passato del Corpo Ufficiale a cui ha deciso di appartenere, tant’è che quando la sua nuova amica, Clarissa, un’insegnante conosciuta in metropolitana, gli rivela che un tempo i Vigili del fuoco estinguevano gli incedi e salvavano vite umane, egli si mostra alquanto sorpreso da una simile confessione. Montag, come tutti del resto, non si fa troppe domande. Le persone che quotidianamente egli osserva con una mal celata indiscrezione si muovono come automi sommessi, privi d’emozione, esenti da sogni, del tutto sprovvisti di fantasia. Essi sono poco più di un manipolo di anime grette, scialbe, mancanti di immaginazione, di pensiero astratto, spogliate dell’estro sognante che può derivare dalla coinvolgente lettura di un libro.
Montag non è una persona loquace, tutt’altro, è un uomo schivo e introverso. Ma quando Clarissa gli porrà una fatidica domanda, ovvero se lui ha mai sfogliato, se ha mai letto uno dei volumi che ha bruciato, il suo spirito si ridesterà dal torpore. La curiosità prevarrà nel suo cuore e sarà portato ad aprire uno dei tanti tomi capitatigli tra le mani, a decifrare i “segni” e i “simboli” in esso contenuti.
Montag comincerà, allora, a nascondere sempre più libri in casa e a leggerli tutti d’un fiato. Inizierà dapprima con “David Copperfield”, facendo non poca fatica, ripetendo il tutto a voce alta, mantenendo il segno con l’indice della mano destra e carpendo le parole con le dita e con la bocca ancor prima che con lo sguardo. Per Montag sarà un vero e proprio processo di apprendimento: riscoprirà cosa comporta la lettura, saprà quanto la mente potrà aprirsi sollecitata dai lunghi e intensi periodi di una pagina scritta.
Da quel giorno in poi, egli non riuscirà più a fermarsi. La lettura diventerà per il personaggio cardine di quest’avventura un bisogno irrinunciabile, in quanto carburante che muove la sua emozione un tempo abulica, piatta, spenta, ora più viva e accesa che mai.
Invero, nei suoi prolungati silenzi, Montag si era già dimostrato in passato un accanito lettore. Egli non parlava molto perché amava ascoltare, afferrare il pensiero degli altri, scrutare l’interiorità, sondare ciò che si cela oltre la parvenza, “leggere” le anime di tutti coloro che si rivolgevano a lui o che se ne stavano a pochi passi, quieti, afflitti o inanimati.
Montag sceglierà, infine, di ribellarsi, scapperà via e si rifugerà in campagna, divenendo un “uomo-libro”, un custode di memorie, di ricordi, di parole, di ghiribizzi e di sensazioni. Montag redime la sua esistenza, riscatta sé stesso, incarnando nei suoi silenzi, nei suoi laconici momenti e nelle parole dei libri da lui ripetute, la figura eroica con cui identifichiamo, in maniera classica, i veri Vigili del fuoco.
"I libri in fiamme" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
Montag personificherà, sul finale, l’essenza di un uomo puro, di un amico, di un eroe in grado di salvaguardare e proteggere, con la propria conoscenza e abnegazione,il destino dell’Umanità.
"Coraline e la porta magica" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
Un’esile figura svolazzava,
tutta sola, in mezzo al blu. Il vento la sosteneva, cullandola tra le sue
invisibili braccia. Continuava a trotterellare su se stessa, librandosi tra la
terra e il cielo. Il respiro di un’essenza indefinita l’avvicinava a sé, chiamandola a gran voce. Ma come aveva fatto a
finire lassù quella donzelletta tanto silenziosa?
Nessuno se lo era chiesto, poiché nessuno ebbe mai modo di vederla davvero. Quella piccola “volteggiatrice” aveva i capelli bruni, raccolti in due treccine e indossava un grazioso vestitino rosa. Vagava tra le stelle, leggera come una candida piuma. Faceva sì che le correnti la trasportassero senza opporre resistenza. Giaceva sospesa e priva di forze. Le braccia fragili scivolavano verso il basso, le gambette facevano altrettanto e lo sguardo restava impassibile, fissando il vuoto. La sua era un’espressione impietrita, mortificata da due occhi tondie neri ottenuti con dei bottoni. No, costei non era una bambola come tutte le altre. Non possedeva uno sguardo raggiante, tanto meno iridi cromatiche. Sorrideva, ma il suo sorriso era falso e spento.
Terminò presto il suo cammino, irruppe da una finestra e venne accolta da due mani argentee. La bambola fu poggiata su un banco da lavoro, pronta per essere messa a nuovo. Il vestito le venne tagliuzzato, la chioma corvina strappata via, la bocca scucita. La parte interna della sua esigua massa, fatta di semplice cascame, venne prontamente sostituita dalla misteriosa restauratrice. I suoi arti metallici seguitavano ad armeggiare con ago e filo. Utilizzando gli appositi strumenti, costei rimodellò le labbra del tenero balocco e gli appuntò due occhi lindi, anch’essi ricavati da due bottoni. La bambola riacquistò il suo smalto, ma l’aspetto era decisamente cambiato.
Ora i capelli apparivano azzurri, l’abito rosa non c’era più, rimpiazzato da un impermeabile giallo. Ben più di qualche lentiggine era stata posta su entrambe le gote. Quando la bambola fu ultimata, sospinta dalla restauratrice, oltrepassò la soglia e quindi volò via.
In un clima autunnale, tra
gli alberi di un bosco, in un giorno come un altro, una ragazzina si aggirava
curiosa di scorgere i paraggi della sua nuova abitazione. Il grigio del cielo cosparso
di nubi l’avviluppava. Il giallo smorzato delle foglie formava un tappeto sul
terreno, scintillando debolmente: erano quelli gli ultimi sussurri di veglia di una natura prossima ad addormentarsi. Quel giorno, Coraline passeggiava in cerca di un
vecchio pozzo abbandonato. In quei pressi, la fanciulla conobbe Wybie, un
ragazzino timido che in seguito le donerà
una bambola, la medesima con cui è iniziata questa strana storia. “Una piccola me” – esclamò Coraline,
mirando per la prima volta il trastullo. La bambola somigliava, in tutto e per
tutto, alla stessa Coraline. Ma chi era Coraline?
Una bimbetta esuberante, coraggiosa, risoluta e tanto… stanca. Sì, si potrebbe descrivere in questo modo la protagonista di questo racconto. Coraline era stanca di non essere ascoltata, stanca di essere ignorata dai suoi genitori, costantemente presi a lavorare, assorti a comporre, battendo a macchina a ritmi frenetici. Però, che nome bislacco Coraline!
Caroline sarebbe stato
più consono, più usuale beh decisamente più appropriato - avrebbe sostenuto
qualcuno. Eppure, la mamma ed il papà preferirono “affibbiare” alla figlia tale
nome, forse per conferirle, sin da subito, un’aura
di specialità. Coraline era unica, lo si doveva capire sin dal principio,
da quando si sarebbe presentata agli sconosciuti. A Coraline il suo nome
piaceva e si arrabbiava molto quando i suoi interlocutori finivano per
“storpiarlo”, per “raddrizzarlo”, per “accomodarlo”. Solitamente, le persone
con cui la fanciulla interagiva la chiamavano Caroline, senza pensarci su due
volte. Ma non sarebbe stato giusto far loro una colpa, dopotutto i nomi più rari, quelli inusuali, unici
sono difficili da recepire nel nostro mondo.
Al contrario di Coraline,
Wybie non apprezzava particolarmente il
suo nome. Glielo appiopparono senza che potesse ribellarsi quand’era un
frugoletto. Un destino molto comune, del resto non siamo noi a scegliere i nostri nomi, ci vengono
caritatevolmente assegnati. E’ sempre qualcun altro a “imporceli” o, per meglio
dire, a farcene dono.
Dare un nome a un pargoletto, così come ad un oggetto, è una peculiarità del tutto umana. Noi uomini diamo nomi ai nostri figli per donare loro la parvenza di un’identità. A volte, i figli ricevono i nomi dei nonni per far vivere, in loro, il ricordo di una persona amata, che continua ad essere rievocata nel tempo ogniqualvolta viene pronunciato quel nome. Noi esseri umani siamo davvero strani, diamo nomi anche alle cose per sentirle più vicine, per dar loro una forma più intima, una sostanza, persino un cenno di umanità. Cosa sarebbe il mondo senza i nomi? Un luogo privo d’identità chiare e ben distinte. I nomi rendono cristallina, come acqua di sorgente, l’idea di un qualcosa, e permettono di discernere ciò che evochiamo con la mente e desideriamo custodire nel cuore. Mediante i nomi, gli esseri umani distinguono se stessi e gli altri. Ed, infatti, i nomi sono tutte singolarità umane. Lo credeva anche il gatto nero con cui Wybie era solito andare in giro. Tra i gatti, come sostenuto da questo felino dal manto scuro, non c’è bisogno dei nomi, e quindi non li usano. Soltanto le persone si servono di un nome, in mancanza del quale non saprebbero come identificarsi. Gli uomini li usano perché non sanno chi sono in realtà, mentre i gatti, al contrario, lo sanno molto bene e non lo dimenticano mai.
Coraline
aveva un nome alquanto distintivo, eppure anch’ella
non sapeva chi fosse realmente, cosa volesse dalla sua vita. Girovagando
per casa, scontenta e amareggiata, la piccola voleva trovare il proprio posto, un luogo in cui potersi sentire amata, incui
poter essere felice. In cuor suo, Coraline desiderava che i
suoi genitori le elargissero l’affetto e la vicinanza che sognava da sempre. Ma
bisogna stare sempre attenti a ciò che si desidera perché i sogni,alle volte, possono realizzarsi.
Quando l’avventura di Coraline ebbe inizio, la bambina aveva undici anni e, con i suoi genitori, si era appena trasferita in una grande casa isolata, denominata Pink Palace. L’abitazione era antica, vastissima, alquanto malconcia ma particolarmente accogliente. Il papà sosteneva che tale dimora avesse più di 150 anni. Le case tanto indietro nel tempo, si sa, nascondono sempre qualche segreto tra le proprie mura. E Coraline lo scoprirà una notte, quando aprirà una porticina incastonata in una parete.
La piccola, sgattaiolandovi dentro, seguirà un lungo tunnel che la condurrà in un’altra dimensione. Qui, Coraline incontra due persone del tutto identiche ai suoi genitori, meno che per una sinistra caratteristica dei loro volti: due bottoni cuciti al posto degli occhi.
In questa dimensione, la
protagonista riceve le premure e gli affetti che aveva sempre sognato. Notte
dopo notte, la fanciulla torna nell’Altro Mondo, oltrepassando la porta magica
e gustando le prelibatezze che l’Altra Madre prepara per lei. Tutto in questa
onirica ed ovattata realtà si mostra perfetto come Coraline ha sempre voluto. Ma la perfezione non fa parte della
tangibile realtà. Se qualcosa si mostra scevro da alcun difetto, allora quel qualcosa è finto, artefatto,
esattamente come può essere una bambola
graziosa, priva di imperfezioni e inumana.
Coraline non si pone troppe domande, è ancora piccola per dubitare dei modi caritatevoli che tutti, nell’Altro Mondo, hanno nei suoi riguardi. Invero, Coraline sente di aver trovato il reame ideale, lo spazio che attendeva da sempre, dove l’erba è verdissima e tutto perpetuamente più luminoso.
Una sera, l’Altra Madre
propone a Coraline di restare con lei. Coraline, dapprima indecisa, scopre che l’unico
modo per restare è quello di farsi cucire i bottoni e strappare via gli occhi.
Inorridita e terrorizzata, la giovane fugge via, comprendendo, così, come
quella terra pervasa da meraviglie non sia altro che una regione tenebrosa e ostile.
Nel disperato tentativo
di sfuggire alle grinfie dell’Altra Madre, Coraline s’imbatterà negli spettri
di tre bambini rapiti, in passato, dalla stessa donna e irretiti. I bambini,
accettando di restare con l’Altra Madre, hanno
smarrito i loro occhi e le loro vite sono state divorate dalla medesima, in
verità, una orripilante megera.
La dimensione in cui
Coraline giace, adesso, imprigionata si palesa, infine, per ciò che è davvero: un luogo in cui ristagna la pura malvagità.
Gli sguardi degli abitanti di questo “Altro Mondo”, soffocati dai bottoni,
queste tonde “gemme” nere come pece, non lasciano trasparire alcuna luce. Gli occhi sono lo specchio di un’anima
umana, quando non è possibile scorgere nulla, in essi, che non sia una macchia
nera, vuol dire che di umano in quel corpo non è rimasto più nulla. Ogni
cittadino di questa fittizia città non è che un’aberrazione, un mostro celato
dietro un sotterfugio d’epidermide.
La dimensione ricreata ad
arte dalla strega, dunque, è
un’illusione, una patina ingannevole, una velatura che occulta l’orrore
dietro la finta bellezza. La realtà dell’Altro Mondo è fascinosa e seducente come il male stesso che, non di rado,
si mostra, da principio, per ciò che non
è.
I
bottoni, impuntati sugli occhi, rappresentano la chiave d’accesso al regno dei
morti. Similmente all’obolo, la moneta che veniva poggiata
sotto la lingua o, in alternativa, proprio sugli
occhi chiusi dei defunti, per pagare il nocchiero Caronte, i bottoni,
anch’essi poggiati sugli occhi dei trapassati, rappresentano l’argento con cui è possibile pagare,
inconsapevolmente, il passaggio da un
mondo imperfetto ma vero, ad un mondo perfetto ma finto e ancor più crudele.
I bambini ingannati dalla strega non
potevano saperlo ma è come se, accettando i bottoni, avessero pagato il loro
obolo a Caronte per venire traghettati verso una landa desolata. Coraline lo
capirà appena in tempo, prima che sia troppo tardi.
Ma
perché la strega attira a sé i bambini? Perché vuole qualcuno da
amare? Perché vuole qualcosa da mangiare? Forse, per entrambe le ragioni.
La cura e la delicatezza con cui la strega prepara la bambola destinata a Coraline, all’inizio di tutto, evocano, sottilmente, il bisogno, la voglia di questa sinistra figura di creare una vita, di avere un figlio. Con i suoi arti, la megera plasma un’esistenza fatta di stoffa, un corpicino umano ricreato perfettamente ma incapace di animarsi, di poter essere vivo. La strega non può creare la vita, poiché non è capace di amare. Ella è una donna cattiva che può soltanto generare qualcosa di artificiale, di sintetico. Con le sue bambole, lei spia le sue incaute vittime per attrarle verso di sé, per farle innamorare, per adorarle e divorarle al contempo. L’intera sopravvivenza della strega si basa, dunque, sull’incapacità di dare la vita vera, sul bisogno di amare e sull’impossibilità di poterlo fare, data la natura contorta e mentitrice della stessa.
“Coraline e la porta magica” è un racconto letterario ed un racconto
visivo in cui la paura, l’orrore, vengono
mascherati dalla gentilezza, dalla bellezza
che inganna ogni sguardo superficiale. La musica vivace e mai greve che
accompagna i momenti più inquietanti dell’opera nasconde, di proposito, l’alone
sinistro che permea le sequenze in cui la strega rivela il proprio disgustoso
aspetto e tenta di ingurgitare Coraline, intrappolandola nella sua rete. Tutto,
in “Coraline”, non è che un continuo
paradosso: l’orrido viene inscenato con il bello, il malvagio volere
dell’antagonista viene eclissato per gran parte del tempo dalla sua cordialità,
la mostruosità del suo regno viene adombrata da un velo esteriore di spregevole
incanto. Sono soltanto gli occhi, i bottoni, a non poter essere mascherati
dalle gelide arti della strega. Essi,
con la loro buia freddezza, sussurrano continuamente la verità: l’Altro Mondo è un nucleo oscuro, in cui non
vi è salvezza per l’anima che un occhio umano è sempre in grado di far
riverberare.
Coraline riuscirà a
sconfiggere la fattucchiera grazie al provvidenziale aiuto di Wybie e del gatto
nero, e a salvare i fantasmi dei poveri bambini. Gli spiriti dei tre giovinetti
voleranno su in cielo, liberi e non più soggetti al giogo della strega, non più risucchiati dal suo fiato. Ciò
che la strega non riusciva in alcun modo ad accettare è che i bambini veri non
possono essere intrappolati, non possono restare accanto a chi non amano
davvero. I fanciulli non sono bambole senza vita, e la strega non riuscirà più
a trascinarli verso di sé, similmente a come avveniva al principio, quando
quella bambola con le fattezze di una piccina veniva trasportata via verso una finestra spalancata. Le bambole sono prive di energia, i
ragazzini come Coraline, invece, possiedono la forza per poter contrastare il
male. Proprio dinanzi a Coraline, il cielo, tinteggiato con un blu cobalto,
lo stesso colore utilizzato da Vincent Van Gogh per dipingere i gorghi
vorticosi della sua “Notte Stellata”,
accoglierà queste anime, finalmente in pace.
"Coraline e l'Altra Madre" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters
Soltanto quando sarà
salva, Coraline avrà imparato ad apprezzare la realtà per come è davvero, a
voler bene ai suoi genitori con i loro pregi e con i loro difetti. Sono questi, in particolare, a rendere una persona bella
così com’è: semplicemente umana!
E abbiamo pianto, “tessoro”, perché
eravamo tanto soli
Sorse un sole giallo in un giorno mite e radioso. La primavera era arrivata, e con i suoi vividi colori adornava i boschi. Sulle sponde dell’Anduin, gli alberi erano cresciuti rigogliosi e pieni di vita. Fiori variopinti germogliarono nei prati, e l’erba delle collinette della Contea era divenuta delicata e verdissima. Approfittando del bel tempo, due minute figure decisero di recarsi in una delle foci del fiume per una battuta di pesca. Su di una piccola imbarcazione, uno hobbit lasciava penzolare la lenza dalla canna da pesca, mentre il suo giovane amico si accingeva a innescare il proprio calamento. Quest’ultimo aveva gli occhi strabuzzati e teneva in mano una creaturina strisciante, osservandola con un ghigno irrisore. La lambì pochi istanti dopo con un piccolo utensile a forma di uncino. D’un tratto, uno di loro avvertì il morso di un pesce all’amo. “Ne ho preso uno, Smeagol” – disse il fortunato pescatore. “Tiralo fuori, Deagol” – esortò l’altro.
Il pesce, grande e grosso,
tentò di liberarsi con tutta la sua forza e riuscì a trascinare lo hobbit in
acqua. Deagol raggiunse il fondale e vide, nel limpido dell’alveo, un tremolante folgorio. Volse la mano e
ghermì quella perla dorata priva di alcuna conchiglia. Risalito in superficie,
Deagol cominciò a rimirare l’oggetto donatogli dal rigagnolo e ad accarezzarlo
come fosse una preziosa sfera perlacea.
Quando lo hobbit schiuse la mano, l’Unico, che giaceva su di essa, emergeva dal
lercio fango col suo fulgido chiarore. Il
colore dell’anello, mischiato allo sporco del terreno, emanava un’attrazione
ambigua: la bellezza apparente unta dalla sporcizia. L’anello rifulgeva
come il più seducente dei gioielli, ciononostante la melma scura che lo
insudiciava suggeriva l’oscurità celata dietro la più fervida perfezione.
Smeagol raggiunse Deagol di
tutta fretta, seguitando a sorridere scherzosamente. Intravide anch’egli lo
scintillio dell’anello e ne rimase profondamente rapito. Il suo sguardo
stralunato si confuse nel cerchio del tesoro. Smeagol chiese l’anello, come regalo per il suo compleanno. Deagol
rifiutò ed i due hobbit, ammattiti e deliranti, ingaggiarono un’aspra lotta. Smeagol
impazzì, e nella colluttazione uccise Deagol soffocandolo. Raccolse poi
l’anello, dedicandogli il più distorto e morboso dei suoi sorrisi.
La storia di Smeagol,
come quella di Bilbo, cominciò in un giorno di festa. Smeagol trovò l’anello al
mezzodì del suo compleanno, Bilbo se ne liberò la sera del suo centoundicesimo
anno di età. Nel prologo de “Il Signore
degli anelli – Il ritorno del Re”, l’occhio meccanico di Peter Jackson
dilatò la propria palpebra mirando un animale nauseabondo. Quel verme,
catturato dalla sadica presa del mezzuomo, suggeriva il tipo di essere che
Smeagol sarebbe presto diventato. Una
volta ottenuto l’anello, Smeagol si tramuterà lentamente in un essere
“viscido”, subdolo, untuoso, “insinuante”, un verme, per l’appunto, ingollato e
rigurgitato dalle tenebre.
La natura rinfrancante
che avvolgeva Smeagol e Deagol fu spettatrice silente e sconvolta di un folle
assassinio. Nell’Eden verdeggiante, Smeagol compì un atroce delitto: uccise un
suo congiunto. Il tetro affiorato dalla cristallinità dell’Anduin condusse gli
Hobbit alla follia. La quiete della foresta ed il sole luminoso che irradiava
il tutto non potevano preludere all’orrore che di lì a poco si sarebbe
verificato. E’ proprio in un’atmosfera di gioia, di pace, che il male
dell’anello trova il modo di promanare il proprio potere. L’Unico sconvolge la
serenità di una giornata felice, turbandola con l’orrore. Smeagol e Deagol
erano amici, famigliari, eppure, nel giro di pochi attimi, si tramutarono in
mostri, avvelenati da un aroma ipnotico, da una esalazione tossica che li rese
subito dipendenti da quel tesoro.
L’Unico irretì
istantaneamente lo spirito contorto dello hobbit e ne fece il proprio schiavo. Come Caino così Smeagol pose fine alla vita
del proprio “fratello”, invidioso della sua scoperta, agognando quella sua
conquista. L’Unico appariva inestimabile come uno scettro regale. Come Eteocle e Polinice, i due consanguinei
della mitologia greca, figli del re Edipo, Smeagol e Deagol combatterono tra
loro per ereditare un potere raro, prestigioso come la corona di un regno.
L’Unico, similmente al trono di Tebe, poteva essere conquistato soltanto da uno
dei due. Pur di impadronirsi di quell’oggetto, Smeagol e Deagol combatterono
tra loro fino alla morte. A differenza di Eteocle e Polinice, entrambi periti
in duello, tra i due hobbit, uno di loro riuscì a prevalere. Eteocle, come
Deagol, riceverà una degna sepoltura, Polinice come Smeagol no. Smeagol non morirà, subirà una metamorfosi
che lo renderà, col tempo, un cadavere errante dal pallido colorito, una
carcassa ambulante sprovvista di alcun tumulo. In quel mattino sorse un sole
giallo, l’indomani, a seguito dell’omicidio perpetrato da Smeagol, sarebbe
sorto un sole rosso poiché era stato
versato del sangue innocente.
Per aver commesso un tale
peccato, Smeagol verrà scacciato, espulso come uno straniero malvagio e
dall’anima informe. Smeagol non fu più uno hobbit, non fu più umano. Assunse le
sembianze di un individuo amorfo e sgradevole alla vista. Diventò, pertanto, lo straniero di ogni popolo, un essere
che non apparteneva più ad alcuna razza della Terra di Mezzo. Smeagol divenne
Gollum, indecifrabile nella propria mostruosità, unico come unico era l’anello che possedeva.
Smeagol si ritirò nelle
caverne, solitario, e lì, nel buio, avulso dal resto del mondo, dimenticò chi
fosse, smise di ricordare il sapore del pane, la delicatezza del vento, persino
il suo nome. Il corpo si deformò, e la gola cominciò a fargli molto male. Ad ogni parola pronunciata, Smeagol
rigurgitava un frammento della propria passata umanità, fino a che il dolore
scomparve del tutto, e dalla sua gola fluì il suo nuovo appellativo. Dai
suoi versi strazianti si udì “Gollum,
Gollum”. I suoi denti si fecero neri e appuntiti, la sua carne si fece
purulenta come prova emblematica del suo spirito consumato.
Peter Jackson, per
l’ultimo capitolo della trilogia, scelse di alzare il sipario mostrando il
tormentato avvenuto di Gollum. Questi,
come preannunciato da Gandalf nelle Miniere di Moria, rivestirà, sia nel bene che nel male, un ruolo fondamentale nell’ultima fase del viaggio di Frodo e Sam e
per il destino dell’anello. Il prologo de “Il
ritorno del re” pare volerlo preannunciare. L’esito del conflitto passerà
dalle sue mani.
Gollum tiene tra le sue
dita il destino dei popoli liberi di Arda come una moira. Una sua scelta errata
potrà spezzare le sorti, recidere con il taglio netto di un paio di forbici il
filo del fato.
Sveglia, dormiglioni!
Nelle lande desolate
della terra nera, la luce del giorno si era affievoliva. Le giornate si erano
fatte più corte, e su tutto l’ombra era calata. Il fumo esalato dal Monte Fato
copriva il cielo con una fitta bruma, e i raggi del sole non riuscivano a
valicare il fosco nell’aria. Le arti di Sauron avevano generato ammassi gassosi
di nuvole ferrigne che occultavano ogni barlume di luce, così che gli eserciti
del sire di Mordor potessero spostarsi con grande rapidità.
Frodo e Sam riposavano,
nascosti all’interno di una esigua spelonca. Gollum arrivò di soprassalto e li
esortò a riprendere il cammino. Frodo dedusse che le giornate si erano fatte
sempre più buie e avvilenti. Sam
raramente si lasciava sopraffare dalla tristezza. Il tempo angusto, però, era
capace di abbattere il suo spirito. Già durante i passi iniziali de “Le due torri”, Sam, osservando quei
nembi cupi e carichi di pioggia che dominavano la volta celeste di Mordor,
ammise di sentirsi impaurito. L’atmosfera torva e fuligginosa che avviluppava i
due hobbit, oramai sempre più vicini alla meta, metteva a dura prova le loro
resistenze e anche le loro speranze. Ma nulla poteva far demordere Sam. Subito
egli ricordò a Frodo che avrebbero dovuto dilazionare il cibo rimasto per il
viaggio di ritorno. Frodo, allora, rispose laconico con la sola espressione del
viso. Il nipote di Bilbo voleva nutrire ancora fiducia ma dal suo volto
trapelava un’ansia mista a profonda negatività.
In questo frangente, Samvise confida nella concreta possibilità di poter adempiere alla missione del proprio padrone. Pensare a rateizzare i viveri per il ritorno voleva dire, per Sam, valutare tangibilmente la fattibilità della sopravvivenza. Già da questa significativa affermazione è percepibile la tenacia che anima Sam. Sebbene il compito sia tutt’altro che agevole, egli non paventa l’eventualità che i due possano perire nell’impresa. Sam non lascia che il clima opprimente di Mordor genufletta il suo animo speranzoso. Man mano che le forze del suo padrone cederanno, Sam si farà carico di lui e del suo fardello.
La morte di Saruman
Gandalf, Aragorn, Legolas e Gimli raggiungono Isengard e ne osservano la caduta. Sui ruderi dell’industria guerrafondaia, Merry e Pipino banchettano prima di riabbracciare i loro amici. L’acqua del fiume ha diluito la perfidia di Saruman, le fiamme delle fornaci sono state estinte; il tronco, le foglie ed il verde hanno prevalso sul ferro e sull’acciaio.
Barbalbero riceve i
coraggiosi visitatori, accogliendoli nel suo nuovo reame depauperato dalle
insidie di Curumo. Il vecchio Ent ammette d’essere sollevato nel rivedere
Mithrandir, poiché Saruman, anche da sconfitto, risulta essere pericoloso.
Rinchiuso nella torre di Orthanc, Curunir ha avuto modo di prender coscienza
del proprio fallimento. Il bianco macchiatosi di nero emerge sulla cima del sozzo
pinnacolo. Lassù, Saruman seguita ad
osservare i suoi rivali dall’alto. La costruzione scenica ideata da Jackson
per questa sequenza è estremamente simbolica.
I buoni, vincitori del conflitto al Fosso di Helm, giacciono al suolo e, col capo rivolto all’insù, intravedono il loro nemico, il quale, persino nella disfatta, permane ancorato alla propria arroganza. Sulla vetta di Orthanc, Saruman manifesta nuovamente la propria albagia, e continua a sentirsi potente, superiore a coloro che avrebbe dovuto difendere. Su quella prominenza, lo stregone lascia che la sua protervia discenda fino al basso.
Lo stregone è fermamente convinto che le forze di Sauron si dispiegheranno numerose, abbattendosi sul più grande del regno degli uomini come un martello sull’incudine. Saruman pecca ancora di tracotanza, e presume che l’imminente vittoria dell’Oscuro Signore potrà essere ritenuta anche sua. Saruman non fu mai modesto, non amò mai le creature piccole ed indifese della Terra di Mezzo. Professandosi come il più potente e saggio degli Istari, Saruman non volse mai attenzione ai più deboli, se non per schiacciarli. Saruman si innalzò su di un piedistallo figurato. Sulla cima della torre, negli ultimi momenti della sua esistenza terrena, Saruman non metterà da parte la sua superbia. Guarderà ancora i suoi interlocutori dall’alto e da quella prominenza cadrà. Lo stregone verrà pugnalato alle spalle da Grima, il quale, a sua volta, verrà colpito a morte da Legolas. Ferito, Saruman precipiterà giù e morrà. Più in alto volle salire, più rovinosa fu la sua caduta. La prepotenza di Saruman cessò in quel lampo. Gandalf, mai innalzatosi al di sopra dei suoi simili, vide la fine di un vecchio amico dal bianco vestito e dal cuore nero.
La fine di Saruman, ideata per la versione estesa della pellicola, fu notevolmente differente rispetto a quanto scritto da Tolkien. Jackson riteneva concluso l’arco narrativo dello stregone corrotto. Saruman fu annientato dalla natura, dalla rivolta degli Ent. Nulla più sarebbe rimasto del suo potere. Abbracciando questo credo, Jackson decise di far morire Saruman nella sua Isengard decaduta. Nel romanzo del Professore, Saruman compariva sul finale come ultimo nemico, dopo aver assoggettato al proprio potere la Contea. Questa parte della storia sarebbe risultata eccessiva nella trasposizione cinematografica che, per ragioni di tempo e di ritmo, doveva necessariamente concludersi con la distruzione di Sauron ed il ritorno pacifico ad una Hobbiville mai realmente coinvolta nei drammi della Terra di Mezzo. La Contea, per Jackson, rimase sempre un luogo isolato dal resto di Arda. Una terra integra ed inalterata che non ricevette mai alcuna influenza dagli orrori della guerra.
Di tutti gli hobbit ficcanaso, Peregrino
Tuc, tu sei il peggiore!
Pipino scorse nell’acqua
un riverbero. Dunque si avvicinò, e raccolse una sfera vitrea. Gandalf, intuito
di cosa si trattasse, prese la gemma e la celò nel suo mantello. Quel piccolo globo inespressivo era un
occhio perennemente dilatato. Col suo gesto, Gandalf volle occultare lo
sguardo al Palantir, intimorito da colui che, lontano, stava guardando.
Carlo Collodi scrisse che “La curiosità, massime quando è spinta troppo, spesso e volentieri ci porta addosso qualche malanno”. Peregrino Tuc non riusciva a dormire né a distrarsi. Essere perennemente indiscreto era una sua prerogativa. Come tutti i Tuc, Pipino era interessato, invadente, avventuroso, impiccione e, come terrà Gandalf stesso a precisare, ficcanaso. Pipino guardava, doveva sempre guardare! La consistenza misteriosa del Palantir aveva interdetto ogni sua attenzione. Nel cuore della notte, Pipino si alzò e sottrasse la pietra veggente dalle mani di Gandalf. Volgendo il proprio sguardo nel Palantir, Peregrino, inavvertitamente, vide l’occhio infuocato di Sauron. Il Signore degli anelli si insinuò nella mente del piccolo hobbit, torturandolo. Pipino si salvò appena in tempo, grazie al tempestivo intervento di Gandalf.
Pipino,
come un burattino che sognava di diventare un bambino vero, era sovente curioso
ed ingenuo. La sua troppa curiosità gli stava costando
caro. Eppure, Pipino col suo errore riuscì a scorgere qualcosa d’importante. Vide un albero morente ed una città in
fiamme. Sauron avrebbe indirizzato le sue armate verso Gondor, per
distruggere Minas Tirith. La curiosità di Pipino gli arrecò dolore,
cionondimeno gli permise di anticipare i tragici eventi che si sarebbero
consumati di lì a breve.
Intenzionato ad avvertire
Gondor dell’incombente attacco, Gandalf si dirigere a Minas Tirith con Pipino.
Merry si congeda dal suo inseparabile amico, tra le lacrime e la mestizia. I
due non si erano mai separati. Sin dalla più tenera età, in qualsiasi pasticcio
fossero finiti, Merry era sempre rimasto accanto a Pipino. Ambedue, però, non si trovavano più nella fresca campagna, intenti a
giocherellare per tutta la notte sino a che il sole, emerso dalle ombre
dell’oriente, avrebbe proiettato i suoi raggi sul manto erboso della Contea.
Da Rohan a Gondor, Merry e Pipino avrebbero assistito e combattuto la guerra
più grande del loro tempo, e lo avrebbero fatto restando lontani. I conflitti generano addii, separazioni e
raramente la guerra porta alla riconciliazione. I due hobbit si renderanno presto
conto di quanto le battaglie siano le calamità più gravi.
L’albero del Re
In sella ad Ombromanto,
Gandalf ed il gracile hobbit volsero verso la città bianca. Minas Tirith
sorgeva su di una collina, ai piedi di un’imponente catena montuosa. Le mura della città erano state edificate
con la candida pietra, la quale scintillava come polvere di stelle quando
veniva raggiunta dall’abbraccio del sole ogni mezzodì. Pipino, piccolo
visitatore intimorito dalla vastità della capitale, colossale nella propria
maestosa presenza, varcò i cancelli del regno e giunse sino al settimo livello.
Nella cittadella, il mezzuomo toccò il suolo del vasto cortile. Lì, al centro, svettava alto come una
bandiera ed immobile come una scultura, un albero bianco senza neppure una
foglia. Pipino lo aveva già scorto quando pose lo sguardo sul Palantir.
L’albero di Gondor sarebbe presto stato arso da fiamme divoranti; di esso non
sarebbe rimasta che della cenere argentea. Quell’albero
era morto da molti anni e non dava alcun segno di resurrezione.
Tramontò il tempo in cui
l’albero del Re era rigoglioso e pieno di salute. La sua vitalità veniva
espressa dalla fioritura dei suoi rami. Nessun
fiore germogliava nei pressi come se attorno a sé l’albero emanasse un’aura di
sterilità. L’albero giaceva silente e quatto, dal suo tronco non sgorgava alcun
suono, dalle sue radici non trapelava il benché minimo anelito di rinascita.
Contrariamente agli alberi delle foreste, nessun Ent custodiva il riposo
dell’albero bianco. Esso, solitario, attendeva in un sonno senza respiro.
Peregrino Tuc, mirandolo
con la sua proverbiale indiscrezione, constatò che l’albero veniva sorvegliato
da alcune guardie fedeli. Erano gli uomini a proteggere il grande albero bianco.
Gli stessi nutrivano ancora speranza che esso, simbolo della gloria del reame
dell’uomo e della rinascita dei grandi Re, potesse, un giorno, destarsi dal suo
dormiveglia.
La speranza divampa
Poco dopo, Gandalf e Pipino incontrarono Denethor, il sovrintendente, mettendolo in guardia dall’avanzata degli eserciti di Sauron. Denethor, distrutto dal dolore per la morte del suo adorato primogenito, volle negare qualsiasi intervento e restò seduto sul suo seggio, immerso nella proprie tristi rimuginazioni.
Pipino, allora, si mise
all’opera. Arrampicatosi fino ad una torre, lo hobbit guadagnò la postazione
dei fuochi di segnalazione. Con coraggio e abilità, il mezzuomo accese la
grande pira e le fiamme si propagarono su di essa. In lontananza, alcune
vedette recepirono il segnale e diedero, a loro volta, fuoco alla catasta di
legno. Sulla cima di ogni monte, uomini vigilavano in costante allerta. Quando
videro il fuoco di Amon Dîn avvampare,
fecero altrettanto di postazione in postazione. Gandalf mirò il rosso delle
fiamme e constatò come la speranza divampasse nell’aria e valicasse l’acqua e l’aria,
le pianure ed i monti. La speranza si
estese oltrepassando ogni frontiera. I roghi luminosi alimentarono la
temerarietà di tutti.
Il fuoco, di colpo,
assume nel linguaggio estetico de “Il
Signore degli anelli” un valore speranzoso. In quelle fiamme è custodita la
fiducia, l’alleanza e la fratellanza che tiene uniti i popoli liberi della Terra
di Mezzo. Comunicando a distanza con l’accensione di una vampa, i gondoriani
reclamano la vicinanza dei loro fratelli. Il
fuoco, usato da Saruman in precedenza per distruggere, per bruciare, per
erigere una fabbrica guerresca, viene adesso usato da Gandalf per implorare l’umano
aiuto. La speranza prende i contorni
di una fiamma imperitura ed ondeggiante che, col suo acre fumo, si sparge sino
alla cupola celeste. In quel fuoco non vi è la brama di distruzione, bensì
la voglia di difendere tutto ciò che di bello c’è sulla Terra. Le lingue di
fuoco che fervono nel legno emanano l’aspettativa di una nuova alleanza che
potrà garantire la sopravvivenza della razza umana.
L’eterna memoria di un monarca
Così il segnale si protrasse fino ai confini di Rohan e fu avvistato da Aragorn. Proprio lui, l’erede al trono di Gondor e Arnor, ravvisò per primo la disperata richiesta d’aiuto del suo popolo. Le fiamme ardenti di Minas Tirith evocavano la venuta del re. Aragorn corse di gran carriera ed avvertì Théoden che Gondor necessitava dell’appoggio dei loro alleati. Théoden esitò per qualche istante. Perché avrebbe dovuto aiutare coloro che, governati da un funzionario freddo e distaccato, ignorarono il grido di dolore di Rohan?
In quell’attimo, quando Aragorn esortò i rohirrim a partire, Théoden ripensò a quanto detto da Saruman poco prima di spirare. Il Signore di Isengard accusò Théoden d’essere l’anello debole di una salda dinastia regale, e che il trionfo al Fosso di Helm non fu conquistato per meriti suoi. Théoden ribadì, sconvolto, questo concetto anche alla sua bella nipote, Éowyn. “Non è stato Théoden di Rohan a condurre il proprio popolo alla vittoria” - sibilò il regnante, per poi glissare su quanto pronunciato.
Théoden non
combatté con estrema vigoria durante il conflitto alla fortificazione di Helm
Mandimartello. Per la maggior parte del tempo, fino a quando gli Uruk-hai non
aprirono una breccia nel trombattorione, Théoden
stette a guardare, guidando i suoi uomini più con le parole e le esortazioni
che con la spada e gli scudi. Theoden,
ne “Le due torri”, appariva afflitto
dal maleficio infertogli da Curumo e Grima, il Vermilinguo. Era stanco,
dolente, ancora incredulo per la morte del proprio figliolo. Théoden trasse audacia soltanto nel
finale, quando Aragorn volle sollecitarlo a salire a cavallo e caricare i nemici
per un ultimo gesto di gloria. Agli occhi di Théoden fu Aragorn, coadiuvato dai suoi amici, a condurre Rohan
alla salvezza.
Il sire, angosciato da questa sua sensazione, accetta di rispondere alla supplica di Gondor, vedendo nella battaglia dei Campi del Pelennor l’ultima occasione per poter riscattare il proprio onore. Théoden sa, in cuor suo, che non vi è molta speranza. Gli eserciti di Sauron, cospicui e molteplici nelle loro schiere, li sovrasteranno. Eppure, il sovrano di Rohan vuole affrontarli ugualmente. Sarà dinanzi ai portoni di Minas Tirith che il destino del loro tempo verrà deciso. Théoden desidera conquistare la grandezza dei propri padri, ed è disposto a sacrificare la sua stessa vita pur di salvare il popolo indifeso della grande città bianca.
Nell’impeto della battaglia finale, Théoden vuol far echeggiare le proprie gesta. Come i celebri eroi della mitologia greca, il cui epiteto seguita a far eco nella gloria dei secoli, Théoden spera che il proprio nome venga ricordato in eterno, ma ancor di più egli si augura di poter essere ritenuto, dai propri sudditi, un Re magnanimo e valoroso così che la sua figura non possa sbiadire se confrontata a quella dei suoi avi.
L’ultimo viaggio di Arwen Undómiel
Arwen procede nei boschi
in sella ad un bianco destriero. Ella
indossa una veste cerulea come un mare calmo, rassegnato, le cui onde si adagiano
lente sulla riva, senza alcuna forza più ad animarle. Il suo volto candido,
radioso persino nell’accoramento
dell’addio, esterna l’arrendevolezza di un fato ineluttabile. Coi suoi
occhi azzurri, la dama di Gran Burrone osserva, docile, i boschi che la avvolgono
per un’ultima volta. Fu proprio in una
verde boscaglia che ella vide per la prima volta il suo amato. Tra le alte
betulle, Arwen scoprì un giovane che la stava osservando meravigliato. In quel
giorno, ella conobbe Aragorn e lesse il
proprio futuro nei suoi occhi.
Nel fitto bosco, lo splendido elfo femmina rimirò nuovamente il proprio avvenire. Un bambino sbucò dal nulla e corse felice, non curandosi affatto del passaggio dei nobili Eldar. Nessuno degli elfi lì presenti parve intravedere quel fanciullino dal biancastro vestito. Arwen orientò il suo sguardo su di lui e capì che era la sola a vederlo. Il bambino sorrideva felice tra i cespugli. Proseguì ancora fino a calcare un impalpabile balcone di pietra. Bianche colonne svettavano alte e, poco distante, un uomo volgeva lo sguardo verso l’orizzonte, oltre una ringhiera. Una luce solare affiorava dal profondo ed illuminava in ogni dove. L’uomo si voltò, rivelando d’essere Aragorn. I grigi capelli e la barba incolta suggerivano il naturale invecchiamento di un discendente di Numenor. Aragorn sollevò il bimbo, reggendolo con amore, e lo baciò sulla guancia. Attorno al collo, il fanciullo aveva la Stella del Vespro che brillava luminosa come una cuspide argentea. Quando Arwen riconobbe la gemma elfica, il piccolo le rivolse lo sguardo, ricambiando la sua attenzione, come se anch’egli riuscisse a vederla.
Eldarion, il futuro
figlio di Aragorn ed Arwen, apparve d’un tratto e per pochi attimi. Il piccino volle guardare sua madre senza
dir nulla, rendendola cosciente della sua prossima esistenza. Arwen si
commosse e comprese che il futuro non era ancora stato scritto. Arwen ereditò
per un solo momento il potere del padre, Elrond, infatti, aveva il dono della
preveggenza. Le parole del custode di Vilya riecheggiarono nella sua memoria: “Non c’è nulla per te qui, solo morte”. Arwen, però, aveva compreso che la vita non
era del tutto svanita dal remoto. Così, quando la rifulgente illusione si
dissolse come un’aurora, la dama abbandonò il percorso e tornò a Gran Burrone.
Arwen ha compiuto la sua scelta. Afferrando
quella fievole speranza, aggrappandosi a quel futuro non ancora sfumato, Arwen
ha rinunciato alla sua immortalità.
"Elrond" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
Elrond vede la figlia
rientrare nella Dimora Accogliente e le rivolge parola. Le mani della giovane erano
diventate fredde, e la forza degli Eldar la stava abbandonando. La grazia
perpetua degli elfi si era disfatta. Arwen era diventata mortale. Il padre
della nobile fanciulla non avrebbe voluto che la figlia perdesse la propria
eternità, e così anche lo stesso Aragorn. Questi, perdutamente innamorato di
Arwen, avrebbe desiderato, pur patendo il rimpianto, che ella mantenesse la
propria essenza immutabile. Aragorn sapeva che l’amore, il più grande amore,
corrisponde al sacrificio. Egli avrebbe, con dolore, rinunciato ad avere Arwen con
sé pur di saperla al sicuro per sempre.
Ma
né Aragorn né Elrond poterono decidere per lei. Arwen, come il più puro degli
esseri liberi e fulgidi della razza elfica, mostrò, in questa sua decisione, la
propria femminile indipendenza, la propria coraggiosa autonomia. Soltanto lei
poteva scegliere per se stessa, nessun altro. Arwen amava
tanto, amava spontaneamente senza compendiare alcun limite. La sola possibilità
di poter riabbracciare il suo Re e di poter mettere al mondo suo figlio la
condusse verso l’adempimento del suo volere. Arwen è una donna forte, coraggiosa, e con la sua rinuncia palesa il
più grande degli amori provati. Elrond fatica a trattenere le lacrime
quando scopre che la sua discendente non è più immortale. Il destino di Arwen è
adesso legato al destino dell’anello, poiché ella non ha più forze sufficienti
per resistere al male che si diparte da Mordor. Con le forze residue, la nobile
fanciulla invita il padre a riforgiare la spada. Le arti degli elfi possono,
infatti, ricostruire Narsil, la gloriosa lama che fu di Elendil ed Isildur.
Arwen, tenendo il viso
celato sotto un cappuccio, osserva i frammenti della spada. Ella certamente
ricorda l’ultimo colloquio che ebbe con Aragorn, Vicino ai resti dell’arma, ella infuse coraggio al suo adorato. Gli
disse che non doveva temere il proprio destino, poiché egli avrebbe affrontato
quel male e sarebbe riuscito a primeggiare. Arwen rammenta quanto affermato
e agogna di poter instillare nuovo eroismo nel cuore del suo sire. Dalle ceneri
una fiamma sarà risvegliata. Una luce
dall'ombra spunterà. Rinnovata sarà la lama che fu spezzata. Il senza corona di
nuovo re sarà!
Con quest’ultima richiesta, Arwen fa sì che Narsil, la spada che rappresentava la stirpe spezzata dei sovrani, venga ricostituita. La nascita di Andúril sarà il primo annuncio simbolico del ritorno del Re. L’ultimo viaggio di Arwen non si compì mai, poiché ella rimase ad attendere, tra la vita e la morte.
La fiamma dell’occidente
Aragorn sogna Arwen. Come accaduto alla dama di Gran Burrone, anche Aragorn vede l’imminente. Differentemente da lei che vide il futuro da sveglia, Aragorn lo scruta in sogno. Estratti imprecisi, tasselli sparsi, immagini velate si susseguono nel suo incubo agitato. Aragorn vede Arwen distesa su di un letto, sfinita. La sua pelle raggiante è divenuta cerea, quasi esangue. Arwen sussurra con una voce spezzata un ultimo pensiero: “Come avrei voluto poterlo rivedere, un’ultima volta!”. Dopodiché, Aragorn vede se stesso in piedi, al cospetto del trono di Gondor, mentre smarrisce la Stella del Vespro ed essa, lambendo il suolo, si disintegra. Il figlio di Arathorn si sveglia di soprassalto. Egli non sa che ha veduto un nuovo futuro, un avvenire scuro e burrascoso, che tende ad intrecciarsi con quello lieto osservato da Arwen. Cosa significa quanto sognato da Aragorn? Perché egli ha visto la gemma elfica scivolargli via e infrangersi?
L’eventualità
che la Stella del Vespro possa rompersi indica come il futuro sia incerto e
suscettibile di cambiamenti rapidi ed incalzanti.
La Stella del Vespro che l’elfo femmina ha ammirato beatamente al collo del suo
figliolo, rischia di venire distrutta. Se questo dovesse accadere, il futuro
contemplato dallo sguardo attonito e felice di Arwen cesserebbe di esistere?
Aragorn si desta nel
cuore della notte, impaurito da ciò che i suoi sogni gli hanno mostrato. Il ramingo
viene convocato da Théoden, il
quale, dopo averlo accolto in una tenda, si ritira. Aragorn riceve qui la visita
di Elrond, che afferma d’essere giunto fino a lì per volere di colei che ama.
Arwen sta morendo e la luce della Stella del Vespro che Aragorn regge stretta a
sé si è quasi del tutto spenta. La gemma
elfica simboleggia il cuore palpitante di Arwen. Il dissolversi della sua luce
testimonia il dolore che Arwen sta tollerando. Aragorn sa che per salvare
la sua amata dovrà abbattere il più terribile dei mali ma sa anche che le forze
di Rohan e Gondor non potranno soverchiare i reggimenti dell’Oscuro Signore.
Elrond sprona Aragorn a
diventare ciò per cui è nato. Vedendo Andúril,
la fiamma dell’Occidente forgiata dai frammenti di Narsil, Aragorn comprende che Arwen gli sta dando l’ulteriore coraggio di cui
ha bisogno. Toccando l’elsa, Aragorn estrae la spada e mira le rune incise
sulla lama. La casata dei Re è stata ricostruita, è il momento che Aragorn
metta da parte il ramingo. Nell’opera letteraria di Tolkien, Arwen tessette un
vessillo nero. Su di esso era stato cucito dalla donna l’emblema di Elendil. Sfiorando la stoffa con le sue mani,
Aragorn agguantò il coraggio per addentrarsi nel viottolo che lo avrebbe
portato alla dimora dei Morti. Quando quel vessillo sarebbe sventolato
alto, tutti avrebbero rimirato il primo, trionfante, annuncio del ritorno del Re.
Nell’adattamento cinematografico di Peter Jackson, Arwen non “filerà” alcun
stendardo poco prima che Aragorn volga verso la montagna. Sarà proprio la ricostituzione della spada, ordinata da Arwen, a sostituire
la potenza simbolica di quel vessillo.
Aragorn ed Elrond,
parlando in lingua elfica, sembrano rievocare un recente passato. Nell’Ultima
Dimora Accogliente, poco prima che l’alba sorgesse e la Compagnia dell’Anello
partisse, Aragorn indugiava solitario nei pressi della tomba di sua madre. Con la mano, Aragorn scostò foglie
avvizzite dall’autunno che sostavano sull’effige marmorea. Quando libererà
il volto della statua che ritraeva Gilraen, Aragorn allungherà la mano e carezzerà le fredde gote della scultura.
Fu accompagnato in quel commuovente saluto da Elrond, il quale gli ricordò come
sua madre volesse per lui un futuro sereno. Gilraen volle proteggere Aragorn
dal suo arduo destino, pertanto lo nascose tra gli elfi. A loro, ella donò la stella più luminosa. Aragorn, conosciuto tra
gli elfi con l’appellativo di Estel, crebbe e divenne l’incarnazione persistente
della speranza.
Aragorn ed Elrond, poco
prima di salutarsi, ripeteranno quanto la moglie di Arathorn era solita dire: “Ho dato la speranza ai dunedain, non ne ho
conservata per me.” E’ giunta l’ora che Aragorn assuma le
fattezze della speranza, e si erga a stella guida di tutti. Brandendo la
sua nuova spada, e animato da un ritrovato impulso, Aragorn s’incammina verso i
Sentieri dei Morti. Avrebbe voluto compiere questo rischioso viaggio da solo,
ma isuoi fedeli amici, Legolas e Gimli non glielo permisero.
I tre avevano cominciato
quest’avventura insieme, ed insieme l’avrebbero finita.
"Legolas" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
Legolas del Reame Boscoso
Una lunga chioma flava
cingeva un volto lindo, nel cui centro vi erano incastonati occhi azzurri, vigili e sapienti, che tanto avevano visto del mondo.
Costui era abbigliato con i colori della natura. Una considerevole dose di verde agghindava la sua veste ed una traccia
di marrone ciò che ne restava. Ghirigori ed ornamenti elfici guarnivano il
suo abito, impreziosendolo come ricami cuciti sulla seta. Legolas, l’elfo regale di Bosco Atro, giunse a Gran Burrone col suo
fedele corsiero. Lungo la schiena portava un arco con una faretra colma di
frecce e alla cintura due lunghi pugnali dai manici d’oro. L’erede di Thranduil
scese da cavallo e tornò a rimirare le bellezze della valle di Rivendell.
Quando tutto ebbe inizio,
quando la Compagnia dell’Anello vide l’albore della nascita, Legolas prese parte
al Concilio di Elrond, deciso a prestare il proprio aiuto. L’elfo conosceva Aragorn sin dalla sua giovinezza, e nutriva per lui un
affetto profondo e sincero. Fu proprio Legolas a difendere Aragorn dalla
stolta accusa di Boromir, che lo definì un mero “ramingo”. Legolas scattò
diritto, e tenne a precisare che Aragorn “Non
era un semplice ramingo, ma l’erede al trono di Gondor”. Legolas nutre per Aragorn l’affezione di un
migliore amico e, al contempo, la premura di un padre. Legolas era vecchio.
Vecchio come un elfo di aurea levatura, e pertanto eternamente giovane ed in
forze. La nascita di Legolas risale ai primi anni della Terza Era. Egli visse
per svariati secoli, ed assistette ai molteplici cambiamenti della Terra di
Mezzo. In virtù della sua “anzianità”,
Legolas provava per Aragorn ciò che, in seguito, proverà anche per Gimli, vale
a dire il sentimento di un’amicizia inattaccabile e l’amorevolezza di una
figura saggia e paterna.
Legolas era alto e
slanciato, come tutti gli altri elfi suoi analoghi. Qualcuno, cadendo in
errore, avrebbe potuto supporre che la sua statura fosse la più solenne tra i 9
della Compagnia dell’Anello. Prerogativa dei discendenti di Numenor era una
vistosa altezza. Aragorn, conseguentemente, risultava essere il più alto dei 9
compagni, persino più alto dell’elfo di Bosco Atro. Questi si distingueva come un arciere formidabile, ed un combattente
agile ed inafferrabile.La sua vista
acuta era in grado di adocchiare e discernere luoghi e creature sfuocate ed
elusive. Con ogni suo gesto, Legolas estrinsecava l’etereità della sua
razza. In particolare, sul passo di Caradhras, quando la neve fioccava copiosa,
flettendo le resistenze umane dei suoi amici, Legolas non avvertì alcun freddo né patì la tormenta. Come una
creatura di stoica resistenza, egli neppure risentiva del gelo, udendo per
primo l’empia voce di Saruman dispersa nell’aria.
Legolas è un essere
assennato e paziente, altruista e generoso. Sin dall’inizio, quando siederà nel
consiglio di Elrond, egli non si lascia coinvolgere nelle discussioni con
Gimli, evitando di redarguire il suo futuro amico quando questi lo aveva
accusato di voler assumersi il compito di distruggere l’anello. Soltanto per un
breve momento Legolas perderà le proprie sicurezze, e non farà uso della sua notoria
pacatezza. Quando gli eserciti di
Isengard marceranno sul Fosso di Helm, Legolas si farà prendere dalla
disperazione e confiderà ad Aragorn che non vi è speranza e che tutti i
presenti sarebbero morti. Poco dopo aver ascoltato quanto detto dall’elfo,
Aragorn si infurierà, affermando con fierezza che sarebbe morto volentieri come
un uomo di Rohan, consapevole che le possibilità di poter sopravvivere si erano
ridotte ulteriormente. Per una volta,
Aragorn, il più “giovane”, mostrò la fiducia che il più “anziano” non avrebbe
mai dovuto far vacillare in sé. Legolas se ne renderà presto conto, e, con la
sua grande sapienza, si riconcilierà immediatamente con Aragorn.
Col trascorrere dei
giorni, Legolas e Gimli stringeranno un rapporto di grande amicizia. Gli elfi
ed i nani, da sempre divisi da un’incomprensibile rivalità verranno finalmente
accomunati.
Legolas seguiterà sempre
a proteggere i suoi più fedeli amici, Aragorn e Gimli, quei “bambini” così come una volta egli stesso lì definì negli scritti
del Professore. E li difenderà come un padre. Quando Gimli verrà minacciato
da Eomer, sarà proprio Legolas ad armare il suo arco per schermare il suo amico
e, al Fosso di Helm, sarà sempre Legolas a salvare i due lanciando loro una
corda e issandoli lungo le mura, verso la salvezza. Nuovamente nella battaglia
finale davanti al Cancello Nero di Mordor, Legolas si preoccuperà di Aragorn,
prossimo ad essere sopraffatto dalla carica di un troll.
Da questi piccoli
dettagli, si può notare come Legolas protegga i suoi amici con la dedizione di
un amico e di un vecchio guardiano.
"Gimli" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
Gimli, figlio di Glóin
Il concilio di Elrond
avrebbe presto avuto luogo. Membri appartenenti alla razze più disparate
sarebbero accorsi per presenziare. Poco distante da Legolas, una figura
tarchiata si fece avanti. Due occhi
buoni e delle guance paffute si intravedevano al di sotto di un elmo argenteo,
ed un naso pienotto spuntava da un viso quasi del tutto “taciuto” da una fitta
peluria che si estendeva sino alla pancia carnosa.
Gimli era un nano della
dinastia di Durin, figlio di Glóin,
uno dei componenti della compagnia di Thorin Scudodiquercia. Egli visse per
molti anni ad Erebor, dopo che suo padre ed i suoi familiari espugnarono la
Montagna Solitaria. Gimli era un nano
astuto e risoluto, sin dalla giovane età. Molto tempo prima, quando il
padre partì per raggiungere Thorin, Gimli espresse il desiderio di seguirlo, e
di prendere parte alla comitiva capeggiata da Gandalf il Grigio. Tuttavia, fu
ritenuto dal genitore troppo giovane per partecipare ad una missione così
pericolosa. Gimli, allora, attese, aspettò che la vita gli riservasse
l’occasione di dimostrare la propria determinazione e fermezza.
Gimli ricordava ciò che
sin dai tempi più antichi veniva detto sugli elfi. “Non rivolgerti agli Elfi per un consiglio, perché ti diranno sia no che
sì.” Come tutti i suoi simili, egli
diffidava di loro, reputandoli furbi
ciarlatani. “Nessuno si fida di un
elfo” – sbraitò nel primissimo diverbio che ebbe con Legolas. Ciononostante,
quando Gimli si proporrà come rappresentante dei nani all’interno della
Compagnia dell’Anello, egli comincerà ad interagire con Legolas. In principio,
i rapporti tra i due furono tesi, poiché Gimli conservava ancora tristi memorie
nel suo cuore. Egli rammentava che Thranduil, padre di Legolas, tenne
prigionieri nel proprio palazzo Glóin ed
i suoi congiunti durante la loro peregrinazione verso Erebor. I torti subiti
dalla stirpe nanica vengono fatti propri da Gimli, il quale va fiero della sua distintiva
razza. Gimli è, infatti, un nano orgoglioso ed altero, estremamente dotato in
combattimento. Brandisce un’ascia massiccia con cui è in grado di abbattere
orchi ed Uruk-hai con la medesima semplicità.
Il
suo legame affettivo con i suoi affini è tanto profondo.
Gimli fu il primo a proporre a Gandalf di attraversare le Miniere di Moria,
poiché era convinto che, in quei luoghi, Balin avesse ricostituito il reame di
Nanosterro. Quando Gimli oltrepassò i cancelli occidentali e vide, con
sgomento, che Moria si era tramutata in un sepolcro, fece sì che un urlo di
dolore si levasse alto, svanendo come un’eco nella profondità della Terra.
Nel giorno seguente,
Gimli rinverrà la tomba di Balin, scorgendola in una camera che era stata
assediata. Si inchinò dinanzi ad essa e
pianse. Una luce proveniente da un uscio scavato nella pietra irrompeva
dall’alto, illuminando il loculo. L’avello era cinto dai resti scheletrici di
altri nani, massacrati dagli orchi e dai troll di caverna. Gandalf troverà un
tomo impolverato, stretto tra le mani ossute di un vecchio e caro combattente.
In quel volume, Gandalf leggerà gli ultimi momenti di lotta vissuti dai nani
che tentarono di riconquistare il reame dannato di Moria. Gimli ricaverà dalla morte dei suoi simili la forza e la vanagloria per
affrontare le tenebre che avviluppavano Nanosterro. Egli manifestò la sua
audacia quando, irto sulla tomba di Balin, prese le sue asce e disse: “Che vengano pure, troveranno che qui a Moria
c’è ancora un nano che respira!”.
Gimli
capì quel giorno che si sarebbe elevato e sarebbe stato, un giorno, considerato
uno dei nani più celebri ed importanti dell’intera storia di Arda.
Gimli fu il solo nano a sopravvivere alle miniere e fu, altresì, il solo a
comprendere e a rimirare la bellezza degli elfi. Ammaliato dallo splendore di
Lady Galadriel, Gimli imparerà ad apprezzare
la grazia elfica, e deciderà di custodire la ciocca dorata. Col passare del
tempo, Gimli stringerà una profonda amicizia con Legolas, abbattendo ogni
divisione.
Quanta grandezza vi è nel cuore di Gimli? Egli è l’unico nano a combattere le battaglie più importanti della Guerra dell’Anello. Mentre tutti i suoi conformi si ritirarono nelle montagne, indifferenti al dramma arrecato da Sauron, Gimli fu l’unico ad ergersi come rappresentate della propria razza. E così fu ugualmente il solo ad ammirare l’essenza degli elfi, a provare amore ed amicizia per loro.
Gimli è un guerriero
implacabile e feroce ma anche un dispensatore di gioia e di sorrisi. Peter
Jackson scelse Gimli come personaggio ideale per distendere la tensione ed
elargire felicità. Gimli appare, infatti, molto simpatico non soltanto per il
pubblico che lo osserva ma anche per gli stessi personaggi. Éowyn, triste e affranta dai mesi di
prigionia vissuti nel suo castello con lo zio, divenuto inavvertitamente
schiavo del maleficio di Saruman, tornò a sorridere per la prima volta proprio
grazie a Gimli.
Il nano raccontava
aneddoti bislacchi sulla sua specie e poi, quando il suo cavallo s’imbizzarrì e
corse d’improvviso, egli cadde rovinosamente giù, suscitando le risate
affettuose della dama di Rohan. Gimli
dona vivacità, brio, felicità a coloro che lo osservano. Ed è forse questo il più grande pregio di
un personaggio astuto e di un guerriero imbattibile.
Aragorn, Legolas e Gimli
sono vincolati da un’amicizia incrollabile. Nel rapporto tra un elfo, un uomo ed un nano non vi è disparita, non vi
è differenza. E’ questa una metafora che tutti dovrebbero dedurre e fare
propria per comprendere come tutti i figli della Terra siano uguali nelle loro
diversità, poiché ogni diversità può essere una risorsa conoscitiva.
Alla vigilia della
battaglia, Aragorn prenderà la via verso il labirintico Sentiero dei Morti.
Legolas e Gimli, amici fedeli, non lo lasceranno solo. Poiché nella vera amicizia non vi è considerato l’abbandono.
Solo un’ombra ed un pensiero
Éowyn era
sveglia, cauta e vigilante come da consuetudine. Rimase accorta anche in piena notte. Vide coi suoi occhi attoniti
Aragorn andare via. Tentò di fermarlo, ma egli, garbatamente, le disse che
doveva lasciarla. Éowyn confessò
implicitamente il suo amore al ramingo, ma questi, cortese come solo i puri di
cuore sanno essere, le rispose che non poteva ricambiare e offrirle quello che
tanto desiderava. Il cuore di Aragorn
apparteneva ad Arwen, qualunque cosa fosse accaduta.
Éowyn si
intristì. Ella, innamorata di un’ombra e
di un pensiero, assimilò la forza dalla delusione, la spavalderia
dall’amarezza. Respinta delicatamente dall’uomo di cui si era invaghita, Éowyn poté incanalare il proprio
cordoglio e mutarlo in coraggio. Bramando
di morire dando la propria vita per i suoi cari, la creatura femminile escogitò
il modo di scendere in guerra.
Ella si avvicinò allora a
Merry, anch’egli respinto dai più. Éowyn era una principessa “ignorata” ed
una donna trascurata dai soldati. Merry, dal canto suo, era soltanto un
mezzuomo, non un uomo integro. La portata del suo braccio non era stimata dagli
altri guerrieri e la sua modesta stazza era fonte di derisione. Nessun
cavaliere lo avrebbe voluto come fardello. Merry voleva combattere per i suoi
amici, ma nessuno credeva in lui. Soltanto Éowyn intuì la forza nascosta nel suo cuore. Ella veniva sottovalutata dagli uomini
stolti, poiché era “soltanto” una donna,Merry, invece, veniva sottostimato in quanto minuto. Restando
vicini, Éowyn e Merry
paleseranno come le semplici apparenze siano fuorvianti. Éowyn si travestirà da soldato e, in
incognito, si infiltrerà tra i ranghi dei rohirrim.
Il coraggio e l’eccezionale forza delle donne vengono espressi pienamente dalla principessa di Rohan. Analogamente a quanto fatto da Arwen, Éowyn dimostrerà che nessuno potrà mai decidere per sé stessa al suo posto. La dama di Rohan cavalcherà verso Gondor, calpestando le discriminazioni e diventando un’eroina.
Merry seguirà la bella fanciulla. Lo Hobbit era stato da poco eletto scudiero di Rohan. Anche Pipino, il suo amico lontano, aveva guadagnato la carica di Guardia della Cittadella. Entrambi, però, sapevano che le loro investiture erano poco più che patine di poco valore. Avrebbero dovuto dimostrare nei momenti topici cosa erano davvero capaci di fare. Pipino, da una parte, salverà la vita a Faramir, preda del folle volere distruttore del padre, Merry, a sua volta, salverà Éowyn, durante il combattimento con il Re Stregone di Angmar. Faramir ed Éowyn, salvati dai due hobbit, si incontreranno nelle case di cura di Minas Tirith e lì si innamoreranno.
La carica dei rohirrim
Seimila lance furono
scosse, altrettanti scudi frantumati. L’esercito di Sauron aveva asserragliato
Osgiliath. Innumerevoli legioni si protrassero sino ai campi del Pelennor,
occupando l’intera vallata. Con le catapulte, gli orchi avevano inferto i primi
danni alla struttura esterna di Minas Tirith. Il cancello principale fu
brecciato e molti orchi riuscirono ad invadere i vari livelli della città,
seminando morte. Gandalf e Pipino si rifugiarono nella cittadella. Gandalf
volle infondere serenità al suo piccolo amico. Egli giudicava Pipino come un avventato ed uno sciocco. Più volte, a
Moria, volle rimproverarlo per la sua leggerezza. Quando la morte sembrò vicina,
Gandalf notò, forse, la sensibilità di Peregrino Tuc, il quale stava già
pensando alla fine. A quel punto,
Mithrandir volle tranquillizzare lo hobbit, ricordandogli che la morte è
soltanto un’altra via, che dovremmo prendere tutti. Una volta valicato il
“paradiso”, ogni anima trapassata può contemplare bianche sponde ed un verde
paesaggio sorto sotto una lesta aurora.
La descrizione astratta,
evocativa, di questo regno celestiale compiuta da Gandalf, corrisponde al credo
religioso, al sogno dell’infinito. I mortali sperano che dopo la fine ci possa
davvero essere l’immortalità dell’anima in un giardino di nuvole. Le bianche sponde tratteggiate dalle parole
dello stregone ristorano lo spirito dei credenti e danno loro la forza
necessaria per sostenere l’ultimo passo. Ma non era ancora l’ultimo atto!
Un
corno risuonò nella notte. L’alba era prossima a sorgere e le
armate dei Rohirrim erano sopraggiunte. Théoden
caricò il temperamento dei suoi uomini. Urlò: “Morte! Morte!” – il monarca di Rohan. Egli sapeva che sarebbe caduto in guerra e voleva far sì che la fama
dei Signori dei Cavalli echegiasse nell’eternità.Théoden non pensava in
quell’ultimo discorso alle bianche sponde che presto avrebbe mirato. Il paradiso agognato dal Re era la
memoria. Egli avrebbe vissuto nella
casa dei suoi padri e nelle illimitate reminiscenze della sua gente. Con la
morte i Signori dei Cavalli avrebbero ottenuto la vita eterna, nel ricordo, nella tradizione, nel racconto di ogni
generazione. I rohirrim marciarono, dunque, sui Campi del Pelennor con
incredibile audacia e travolsero i reggimenti avversari.
L’approdo degli Haradrim
La vittoria era vicina.
Le schiere di Sauron, benché più numerose, non poterono contrastare le
incursioni disperate degli uomini. Quando
tutto sembrò volgere per il meglio, versi atroci rimbombarono nel vento da un
breve distacco. La terra tremò, scossa da arti titanici poggiati
ritmicamente sulla distesa.
La cinepresa di Jackson inquadrò il volto stupefatto del regnante, poi seguì l’espressione sconvolta di Éomer. I rohirrim stavano osservando l’avanzata di una legione dalla devastante capacità offensiva. I soldati, impietriti ed esterrefatti, vennero colti dal timore. Jackson, similmente a quanto fece Steven Spielberg nel suo “Jurassic Park”, volle volgere il suo sguardo impassibile sui volti allibiti dei personaggi sulla scena, intenti ad osservare le mastodontiche sagome di alcuni animali. Il regista neozelandese non volle anticipare ciò che Théoden e gli altri stavano guardando, desiderò, invece, che gli spettatori avvertissero il pericolo attraverso lo sguardo inquieto degli eroi lì presenti. Sia in “Jurassic Park” che ne “Il ritorno del Re”, il pubblico percepisce l’avvento di un essere colossale mediante l’espressione intimorita dell’essere umano.
Gli Haradrim pervennero dal sud su enormi pachidermi. Una sfilza di Olifanti muoveva verso le mura di Minas Tirith. Tali fiere avrebbero raso al suolo tutto quello che si sarebbe parato loro davanti. Tolkien, forse ispirato dalle tecniche e dalle strategie belliche dell’antico condottiero cartaginese Annibale, ideò la razza degli Haradrim. Annibale era solito servirsi di grandi pachidermi tra gli schieramenti dei suoi eserciti. Nell’universo di Tolkien, i mûmakil erano elefanti grigi, con zanne d’avorio affilate e una mole possente. Alti più di un edificio, gli Olifanti venivano addomesticati dagli Haradrim e utilizzati come infallibili pedine di una scacchiera. In guerra, venivano dispiegati davanti potendo aprire ogni varco. L’enorme stazza di questi animali si rivelava adeguata per sbaragliare le unità avversarie e per abbattere ciascuna resistenza.
Nei Campi del Pelennor, i mûmakil sgominarono le fila dei rohirrim, generando il panico e lo scompiglio. I Rohirrim attinsero comunque ulteriore coraggio e riuscirono a tener testa alle titaniche creature. Nel caos del conflitto, Théoden venne artigliato da una creatura alata. Il re Stregone di Angmar spezzò il corpo del regnante di Rohan. Prima che la cavalcatura alata si cibasse dei suoi resti, Éowyn sopraggiunse e affrontò gli oscuri poteri del signore dei Nazgul. La ragazza trafisse il Re Stregone, colui che nessun uomo avrebbe mai potuto uccidere.
Una donna si innalzò oltre la più fulgida speranza ed abbatté un terribile male. Théoden spirò poco dopo, tra le braccia di sua nipote. Aveva raggiunto quello che anelava. Il ricordo di lui perdurerà per sempre tra i fuochi scintillanti ed imperituri dei più grandi monarchi di Rohan.
I Sentieri dei Morti
Un fiore nacque su di un
lattiginoso ramo. L’albero di Gondor
destò le sue braccia dal sonno e dai suoi polmoni lignei soffiò un alito di
rinascita. Nessuno notò quel fiore. L’albero
sentì che qualcosa stava avvenendo, che un Re stava rientrando, e risorse.
Sul cammino verso il Monte Fato, anche Frodo e Sam videro la statua di un
vecchio Re. La scultura era stata deturpata. La testa del sovrano ritratto, recisa dal resto dell’opera, giaceva a
terra, sul verde manto. La fronte era adornata da fiori colorati che nel
frattempo erano spuntati e che adesso formavano una sorta di corona attorno al
capo del Re. La natura lo aveva capito: Aragorn era prossimo a salire sul trono
di Gondor.
"Il ritorno del Re" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
In quel tempo, Aragorn si addentrò nei dintorni del Dwimorberg e perdette la diritta via. L’aria era diventata glaciale. I tre viaggiatori non incontrarono altrettante fiere sul loro cammino ma avvertirono la sensazione che il calore dei loro corpi gli fosse stato sottratto.
Aragorn
procede silente, incamminandosi in una selva oscura. Arrivato ad una
porta scavata nelle viscere della montagna, l’erede di Isildur varcò la soglia,
spingendosi in quel regno di morte dove la malvagità ristagnava e poteva essere
respirata come un effluvio maleodorante. Aragorn si incamminò verso
quella città dolente, tra l’eterno dolore e la gente perduta. Come il
sommo poeta, il ramingo discese nelle tenebre di un inferno terrestre e giunse nei
pressi di un limbo sconsacrato. Gimli non aveva ancora ben chiaro cosa si
celasse nei meandri di quella catena montuosa. Fu Legolas ad illuminarlo.
Legolas, rivestendo il ruolo di guida in questa discesa “agli inferi” nelle tenebre più tetre, assume i contorni del saggio Virgilio, il quale spiega ciò che nel buio attende d’essere liberato. Legolas racconta a Gimli che un tempo, un esercito negò aiuto ad Isildur quando questi ne ebbe necessità. Isildur maledisse quei soldati, imprigionandoli tra la vita e la morte. Essi non avrebbero avuto pace sino al giorno in cui riscatteranno il loro onore.
Gimli
rabbrividì nel percorrere il Sentiero dei Morti. I tre si protrassero sino ad
una sala dimenticata. Aragorn, Legolas e Gimli non avevano raggiunto l’Ade,
ma era come se si trovassero in un Antinferno. Laggiù, gli ignavi
vagavano come anime in pena. Essi non avevano preso posizione nella loro
vita, non mantennero mai la loro parola, il loro giuramento. I soldati
di Isildur erano diventati spettri crudeli e privi di alcuna dignità. Nella
vita preferirono astenersi dai loro compiti. E così come il Celestino V
dantesco non si preoccuparono mai d’adempiere ai loro doveri, ai loro obblighi.
Il Re dei Morti ed i suoi sudditi erano pigri, negligenti, anonimi, persone senza
infamia e senza lode, incapaci di scegliere, impossibilitati ad optare per il
bene o per il male. I fantasmi, da vivi, preferirono sottrarsi, restare in
disparte senza partecipare alla battaglia. Agirono meschinamente, senza schierarsi
mai a favore di un solo vessillo.
Aragorn incontrerà il Re dei Morti, il quale tenterà di ucciderlo. Nessuno può lambire la pelle di un non-morto, eccetto Aragorn, in quanto erede di Isildur. Il ramingo, per mezzo di Andúril, respinse l’attacco del Re. Questi rimase stupefatto nel notare che Aragorn poteva toccarlo. Nella versione cinematografica, il doppiaggio del Re dei Morti è differente rispetto a quello della versione estesa per una sola frase. Nel primo adattamento, esso dirà: “Quella stirpe fu spezzata” – riferendosi alla dinastia di Aragorn. Nel secondo adattamento, dirà: “Quella lama fu spezzata”, riferendosi a Narsil. Appare evidente, anche da queste differenze stilistiche e di parole, quanto la spada Andúril rappresenti, nella sua integrità, la ricostruzione della casata dei Re. Notando quella lama e vedendo Aragorn implorare il loro aiuto, i morti compresero chi avevano dinanzi: il vero erede al trono, l’unico che potrà liberarli dalla loro morte vivente.
I
morti accetteranno di combattere per Aragorn. Gli ignavi compiranno
finalmente una scelta.
Aragorn,
Legolas e Gimli, in testa all’esercito dei Morti, raggiungeranno le sponde di Gondor.
Sui Campi del Pelennor ristabiliranno il dominio degli uomini, decimando gli
eserciti nemici. Aragorn lo aveva giurato a Boromir in punto di morte: pur
non sapendo quanta forza aveva nel suo sangue, non avrebbe mai permesso che
Minas Tirith cadesse. E così fu!
Futuro nebuloso
Aragorn entra nella sala del re. Restando solo, il figlio di Gilraen pone la mano sul Palantir. Aragorn getta il suo guanto di sfida a Sauron. Egli vuole che l’Oscuro Signore cada nell’agguato e creda che gli uomini siano tanto sfrontati da attaccarlo a viso aperto. Aragorn vuole azzardare un ultimo tentativo. Riunendo gli eserciti di Rohan e Gondor, egli vuol marciare sul Nero Cancello, così da catturare lo sguardo di Sauron e tenerlo fisso su di sé. Sam e Frodo, se fossero vicini al Monte Fato, avrebbero la concreta possibilità di passare inosservati e giungere sino al baratro infuocato. Con il Palantir, Aragorn intima Sauron alla resa ma questi, riconoscendolo, gli mostra Arwen, inerte e cerea. Aragorn ne resta spiazzato, temendo che Arwen sia morta. In preda allo sconforto, Aragorn libera la presa dal Palantir e fa cadere, inavvertitamente, la Stella del Vespro al suolo. Ciò che aveva sognato si è avverato: la Stella del Vespro si è dissolta. Il futuro visto tra il sonno e la veglia da Aragorn si è avverato, ma non del tutto. Ciò vuol dire che la visione avuta da Arwen da sveglia è errata? Eldarion non avrà più la gemma elfica attorno al collo? Neppure lui esisterà più?
Invero,
come specificato da Elrond, il futuro in cui vi è ancora vita per Arwen è quasi
scomparso. Già, ma non completamente! Aragorn si appella alla flebile
speranza che il male promanato da Sauron possa venire assoggettato e sconfitto
e per questo decide di marciare su Mordor.
Padre e figlio
Faramir
non poté far nulla. Osgiliath venne asserragliata ed invasa col favore della
notte. Boromir l’aveva difesa prodemente tempo prima. Faramir non riuscì a fare
altrettanto. Le truppe nemiche erano superiori in numero. Con l’occupazione di
Osgiliath, l’esercito di Sauron avviò la propria mobilitazione sulla valle. Il
fallimento di Faramir avrebbe portato all’attacco a Minas Tirith. Faramir era
soltanto un uomo, non poteva fermare da solo le inarrestabili sortite nemiche. Eppure,
Denethor vedeva in lui l’inabilità, l’inettitudine. Il Sovrintendente di
Gondor versava ancora lacrime per la morte di Boromir, il suo figlio adorato.
Nella sua oscura follia, egli arrivò persino a confessare la propria
indifferenza nei riguardi di Faramir. Denethor avrebbe voluto che i posti dei
suoi figli fossero stati scambiati. Avrebbe agognato che Boromir vivesse e che
Faramir perisse. Un pensiero orribile tramutato in parole ed in un’esternazione
quando proferì tale agghiacciante verità.
Denethor
credeva di aver perduto Boromir in guerra. Non capì mai che egli perdette
suo figlio nel momento in cui volle ordinargli di portare l’anello a Gondor.
Quel pensiero mellifluo e insidioso offuscò la saggezza del primogenito.
Boromir avrebbe tenuto l’anello per sé, non lo avrebbe ceduto ad alcuno, non si
sarebbe più destituito da una simile possessione. Denethor condusse suo figlio
alla morte ben prima degli assalti operati dagli orchi. Faramir ne era
consapevole, cercò di avvisare il proprio genitore sul triste fato a cui andò
incontro Boromir ma senza riuscirci. Denethor ordinò a Faramir di condurre un
nuova offensiva su Osgiliath. La volontà del Sovrintendente divenne follia.
Faramir accettò, come ogni buon soldato volle assecondare l’ordine del proprio
comandante. Non agì come un uomo colto qual era, neppure come un assennato
studioso, rifiutando quell’atto suicida, volle compierlo, poiché Faramir si
comportò come un figliolo ubbidiente, devastato dalla mancanza di approvazione
del padre.
Poco
prima che la guerra cominciasse, il Capitano di Gondor guidò i suoi soldati.
Tutti li accolsero in un corteo funebre, salutandoli. In quella folla fiacca ed
angustiata, è possibile scorgere il volto di due piccoli bambini che
osservano: un maschietto ed una femminuccia. Non è la prima volta che questi
due pargoletti compaiono sulla scena. Se si osserva attentamente, si può notare
come Jackson abbia inserito questi due piccini in tutti e tre i film. Per la
prima volta, essi apparvero ad Hobbiville, durante il racconto di Bilbo circa
la sua disavventura con i troll. I due fanciullini tornano nel capitolo
successivo, rivestendo due ruoli differenti. Essi ne “Le due torri” restano nascosti nelle grotte del Fosso di Helm,
sorretti dall’abbraccio di alcuni famigliari. Ne “Il ritorno del re”, i bambini fanno parte della folla di Gondor. In
tutti e tre i capitoli della trilogia, essi osservano, silenti, gli eventi come
piccoli spettatori immersi nella pellicola.
Faramir avanzò verso gli avversari. Nel frattempo, Denethor, incurante, si accinse a pranzare. Si cibava con poca eleganza il Sovrintendente, sporcandosi continuamente il viso. La rozzezza delle sue scelte viene esternata dal modo volgare con cui si nutre. Quando Faramir verrà trafitto dalle frecce, la bocca di Denethor sarà macchiata di rosso, come se dalla sua bocca fuoriuscisse il sangue del proprio figlio. Con la sua ria lingua e con le sue labbra maligne, Denethor condusse i suoi figli alla morte.Quella scia rossa che cola lungo il suo mento evoca il sangue di un nobile che ha banchettato sul corpo morente del proprio figlio. Denethor, similmente al Conte Ugolino citato dall’Alighieri nella “Divina Commedia”, ha “desinato” sui resti del proprio eroico discendente.
Ma
Faramir non morì. Riuscì a sopravvivere e, grazie al provvidenziale intervento
di Pipino, raggiunse molto dopo le Case di Guarigione di Minas Tirith.
Moglie e marito
Éowyn fu trovata stesa a terra, morente. Éomer la scorse lontano e gridò devastato. Fu trasportata alle case di cura. Ivi venne guarita da Aragorn che rimarginò le ferite del suo corpo, anche se nulla poté fare per cicatrizzare la ferita che, non volendo, aveva inciso nel cuore della dama di Rohan. Nel sangue di Aragorn scorreva il potere della guarigione dei Numenoreani. Éowyn si riprese in fretta, ed in quel luogo incontrò Faramir.
Éowyn avrebbe desiderato morire in battaglia. Non le importava più niente. Credeva
che la vita non potesse elargirle alcuna felicità, e avrebbe voluto lasciare di
lei una meravigliosa reminiscenza. Ella capì a poco a poco che la vita poteva
ancora riservare molto per lei. Vide allora Faramir. Anch’egli aveva tentato di
morire. Non per la gloria, certo, ma per un desiderio di approvazione.
Faramir avrebbe voluto far ricordare il proprio nome al padre, e aveva creduto
che soltanto morendo ci sarebbe riuscito.
Éowyn non fu ricambiata da Aragorn, colui che per lei rappresentava un amore carnale e spirituale; Faramir, dal canto suo, non ricevette mai l’amore paterno che egli, da figlio, si sarebbe aspettato di avere dal genitore. Faramir ed Éowyn, entrambi feriti nel corpo da una guerra infausta e nel cuore da un amore non corrisposto, cominceranno a guarire insieme.
Poco distante dal Cancello Meridionale del regno, nella sesta cerchia di Minas Tirith, il secondogenito di Denethor si rimise in piedi. Volse lo sguardo in quei luoghi di asilo. Scorse i feriti, i malati, sorretti dalle amorevoli premure dei guaritori. Di colpo, Faramir mirò una bella creatura dai lunghi capelli impegnata a guardare l’orizzonte da un’altura. Gli occhi del gondoriano furono irradiati dalla fioca luce che dal corpo della fanciulla stillava. Éowyn sembrava essere una debole candela, la cui fiamma esigua consumava la poca cera rimastale. Un soffio di brezza avrebbe potuto “zittirla” del tutto. Éowyn era spenta come una mattina di pallido autunno, eppure, il Capitano di Gondor vide in lei un percettibile volere di fioritura. Ella era pronta a germogliare, a maturare come una donna felice in un giorno di primavera. Éowyn osservava gli eserciti procedere verso Mordor. In lei albergava la forza di combattere ancora. Eppure, quando Faramir le si avvicinò, i pensieri bellicosi svanirono del tutto ed Éowyn venne permeata dalla pace e da un affetto rifulgente. Lontana da ogni conflitto, Éowyn tornò a risplende di serenità.
Faramir adorava la scrittura, i vecchi racconti, la letteratura e la poesia. Fu finalmente felice di depositare arco e faretra. Si portò nei pressi della donna e i due si conobbero. L’affinità di Faramir accrebbe la fiammella dell’animo della dama e la candela tornò ad irrobustirsi.
L’amore tra Éowyn e Faramir non sboccia causalmente nelle Case di Guarigione.Il più puro e coinvolgente dei sentimenti può curare un corpo fiacco ed un’anima spenta più di qualsiasi altro rimedio. Il Capitano di Gondor e la signora di Rohan leniranno le proprie ferite vicendevolmente con la levità di una carezza e la dolcezza di un abbraccio. Sarà l’amore a ritemprare i loro fisici dimessi ed il loro spiriti fiacchi.
Al
mattino, sulla terrazza, Faramir baciò Éowyn
sotto un cielo assolato. Ambedue deposero le loro armi a terra, e,
finalmente liberi, si tennero per mano.
La distruzione
dell’Unico Anello
Frodo
e Sam giacevano sui pendii del Monte Fato. Frodo non aveva più alcuna forza, si
era ormai abbandonato all’abbraccio della calda roccia. “Non credo ci sarà un viaggio di ritorno, padron Frodo” – tuonò Sam.
Lo hobbit aveva perduto la speranza. Sam esternò un pensiero opposto a
quello pronunciato giorni prima. I due mezzuomini erano esausti. Sebbene
provati dal convincimento che non sarebbero sopravvissuti all’impresa, Frodo e
Sam continuavano a salire. Frodo si trascinava, ma il peso dell’anello divenne
insopportabile. Più le fiamme del Monte Fato si facevano vicine più l’anello
aumentava l’onere della propria custodia.
Sul collo dello hobbit si erano formate piaghe e lesioni, come se
l’Unico stesse divorando la carne del suo portatore. Sam si fece carico del
fardello, senza mai toglierlo al proprio padrone. Sollevò Frodo sulle sue
spalle e salì sino al passaggio.
Sam non fu mai tentato.
Non patì la corruzione dell’Unico. Ne ignorò sempre le cupe voci, le oscure
esalazioni. L’anello non poteva soggiogare l’animo di Sam, troppo candido. Sam
non ambiva a padroneggiare alcun potere, non aspirava ad assoggettare alcun
avversario. I suoi pensieri erano
rivolti alla propria casa, la sua amata terra. Non vi era menzogna, non vi era
cupidigia, non vi era avidità negli occhi di Sam. L’anello non poteva
servirsene. Conseguentemente, esso fece effluire tutte le sue arti oscure per
curvare la tempra di Frodo sino a condurlo allo stremo. Frodo non ce
l’avrebbe fatta senza Sam e, ugualmente, Sam avrebbe sofferto sin troppo se
fosse stato il solo portatore dell’anello. Ambedue, spalleggiandosi,
riuscirono ad adempiere a questo viaggio. Un’amicizia profonda legò Frodo a
Sam. Persino quando il padrone commise un grave errore e preferì seguire
Smeagol a discapito di Sam, l’amicizia tra i due non si dissolse. Sam comprese
che Frodo agì con stoltezza ma non fece nulla per fargli pesare il suo smacco.
Tornò indietro e salvò coraggiosamente il suo amico. Sam sostenne il
combattimento contro chiunque osasse intralciare il cammino verso la fine.
Nonostante venisse fronteggiato da esseri più grandi e potenti di lui, Sam non
si diede mai per vinto e riuscì a imporsi con la stoffa incomparabile del
proprio carattere. Sam da “spalla” divenne l’assoluto protagonista.
Sam,
il più grande degli eroi, nel mentre saliva e trasportava il proprio padrone
sulla schiena, pensò al panorama verdeggiante della Contea. Egli rimembrò la
bellezza della valle d’estate, la limpidezza del fiume Brandivino e la sua
fresca acqua. Ma soprattutto, Sam ammirò l’immagine, custodita nei suoi
ricordi, di Rosie Cotton. Nel calore infuocato del vulcano attivo, Sam
fu investito dalla frescura di una memoria che gli carezzò le guance stanche.
Rosie ballava felice, e teneva tra i capelli nastri bianchi che accentuavano
ancor di più il biondo dei suoi ricci. Quella parvenza materializzatasi nella
sua fantasia più nitida, servì a Sam per compiere l’ultimo sforzo. Raggiunto il
valico del Monte, Sam e Frodo furono aggrediti da Gollum. Come previsto da
Gandalf, Gollum avrebbe svolto un ruolo cruciale sul finale di questa storia. Infine,
Smeagol scelse il male, optò per essere ricordato solo e soltanto come Caino,
or dunque come un assassino.
Poco
distante dal Monte Fato, Aragorn capitanò gli eserciti di Gondor e Rohan. Non
vi era alcuna possibilità di vincere con la forza delle armi. Quello
orchestrato da Aragorn sarebbe stato l’ultimo atto per dare tempo a Frodo. I
popoli liberi non possedevano certezza. Non sapevano se il portatore
dell’anello fosse effettivamente in procinto di raggiungere la voragine di
fuoco. Aragorn per primo doveva soltanto sperare.
Aragorn
e Gandalf riposero le loro ultime aspettative nei loro cuori. Lo fecero da
sempre. Durante i festeggiamenti per la vittoria alla roccaforte di Helm,
Aragorn prese Gandalf in disparte e gli disse che di Frodo non vi era alcuna
notizia. Gandalf apparve pavido. Aragorn allora gli suggerì di pensare
fortemente a Frodo e capire cosa il suo cuore gli sussurrava. Gandalf
sorrise, poiché spesso il cuore è più saggio della ragione stessa.
Affidandosi ai loro cuori, ai loro sentimenti, gli eroi caricarono verso i
nemici, confidando nell’impossibile.
Aragorn infuse ardore
negli animi dei suoi fratelli. Non volle ingannarli. Non avrebbero ottenuto la
vittoria, ma avrebbero dovuto soltanto resistere. Reggere per tutto ciò che
ritenevano caro. L’era degli uomini non era ancora finita. Lo sarebbe stato un
giorno. Ma non quel giorno!
Aragorn
avanzò per primo e lo fece per Frodo. Pochi rammentarono Sam. Eppure, in
quei frangenti, proprio Sam si contorceva nella lotta con Gollum, per
facilitare l’ingresso nel valico del Monte Fato a Frodo. Ivi, il portatore fu
posseduto dall’Unico e la situazione parve precipitare. Aragorn cadde a terra,
schiacciato dalla forza bruta di un troll. Gli eroi della Compagnia erano
spossati e stremati. Gollum ghermì l’anello e lo ammirò sorridente. Egli fece
lo stesso sorriso del passato quando, da umano, osservò quel verme nauseante.
Frodo rinsavì, si mise in piedi e spinse Gollum giù. Questi morì e portò
l’anello con sé. Il male si disgregò. La torre di Barad-dûr collassò
e l’occhio di Sauron si spense nel suo stesso fuoco. Le armate di Mordor,
plasmate col potere dell’Unico, si dileguarono e gli eroi della Compagnia
sopravvissero.
Frodo rimase appeso, appollaiato alla sporgenza. Non aveva alcuna energia, stava per cedere. Giunse Sam e gli porse la sua mano. Frodo vacillò, poi scelse di afferrarla e lo hobbit lo portò su. Un momento simile i due mezzuomini lo vissero tempo innanzi. Quando Frodo volle andare a Mordor da solo, prese con sé una barca e lasciò Amon Hen. Sam lo seguì e per far fede al suo giuramento, arrivò persino a tuffarsi in acqua. Il povero hobbit non sapeva nuotare. Si perse così nel fondale, tendendo la mano verso l’alto. Frodo lo vide e allungò la presa per farlo salire a bordo.
Nel
Monte Fato avvenne il contrario: Sam, in alto, avvicinò la mano e acchiappò il
suo padrone. Frodo aveva salvato Sam da un sepolcro acquatico, Sam salvò
Frodo da una tomba di fuoco.
I
due hobbit, sfibrati, verranno recuperati da Gandalf e dalle aquile.
L’impossibile divenne possibile.
L’incoronazione
del sire Elessar
Gandalf
pose la corona sul capo di Aragorn. Questi quasi non trasse respiro.
Aveva fatto fronte ai dissidi più aspri, cionondimeno sentiva in cuor suo che
l’accettazione del proprio destino da Re fosse il compito più impegnativo e
ardimentoso che avrebbe dovuto ancora svolgere. I giorni di pace erano giunti.
Aragorn doveva guidare la sua gente verso un radioso avvenire. Finalmente si sentì
pronto per essere la stella brillante del suo reame. Aragorn, dunque, sospirò
felice, e si voltò verso il popolo che lo accolse festante. Intonò un canto e
camminò.
Egli intravide Arwen, nascosta dietro un drappo di seta. Il suo volto splendeva come il raggio di luna riflesso nello specchio d’acqua di un lago. Ella stringeva tra le mani una candida asta sulla cui sommità svettava un vessillo bianco. Su tale “araldico” era stato impresso l’albero di Gondor. Esso era rifiorito, aveva ripreso a vivere con il ritorno del vero Re. Petali di vario colore fioccavano dall’alto creando una magica atmosfera. Non vi era però spettacolo alcuno che potesse distogliere Aragorn dal volto della sua adorata. Arwen tenne lo stendardo e lo porse al suo amato. Ricambiò la sua espressione armoniosa ma solo per qualche istante. La dama di Gran Burrone manteneva il viso basso. Intimidita, peritosa la fanciulla tentennò, credette forse che l’incoronazione avesse mutato il cuore di Aragorn e che egli non volesse prenderla in moglie. Nella sua dolce esitazione, Arwen emanò la debolezza della sua mortalità, della sua umanità. Aragorn rimase sorpreso della timidezza della fanciulla. Per lui nulla era cambiato. Il male era stato disfatto e l’amore, adesso, poteva essere vissuto. Aragorn sfiorò le gote della nobile fanciulla ed ella sorrise, commuovendosi. A quel punto egli la baciò. Una fragranza di gioia avvolse i due innamorati. I loro occhi felici sfavillarono come stelle nel cielo. Aragorn e Arwen si abbracciarono e nulla più li separò. Il futuro più roseo venne coronato. Aragorn sposò Arwen nella città dei Re ed ella divenne la sua regina.
Il Signore degli
Anelli di Frodo Baggins
I quattro mezzuomini
tornarono nella Contea. Frodo, Merry e Pipino faticavano ad adattarsi nuovamente
allo stile di vita della Contea, Sam no! La purezza di quest’ultimo gli permise
di disfarsi in fretta di tutti i residuati di Mordor e di lasciarsi quella
fatica alle spalle. Egli adorava Hobbiville, non avrebbe anteposto a quel luogo
nulla al mondo. Sam rientrò nella sua terra natia e poté rivedere Rosie. La conosceva sin bambino e, forse, l’amò
ancor prima di comprendere cosa fosse realmente l’amore. Fino ad allora non
ebbe mai l’impavidità di dichiararsi. Che ironia! Samwise l’impavido, colui che affrontò orchi e progenie di Ungoliant,
che sconfisse goblin e luridi esseri, provava ancora un certo timore nel
guardare gli occhi profondi della bella Rosie. Il suo sguardo si perdeva in
lei. Talvolta, quando la ammirava in segreto ella avvertiva l’attenzione e
ricambiava lo sguardo a sua volta. Sam, allora, indirizzava gli occhi da
un’altra parte, imbarazzato. Il suo fiato
sembrava interrompersi quando provava anche solo a bisbigliarle qualcosa. Nei
mesi precedenti non riusciva neppure ad invitarla a ballare. Sam, il temerario
aveva una sola paura, a quanto dava a vedere: che Rosie potesse respingerlo. Una
sera prese l’iniziativa, confessò il suo amore a Rosie e la prese in moglie. Sam realizzò il suo sogno, spinto dal
coraggio e dalla sua amorevole umiltà, e fu felice.
Nelle settimane
successive Frodo si dedicò alla scrittura. Proseguì sulle pagine rimaste
intonse del libro di Bilbo. Tredici mesi dopo, ultimò il suo racconto: “Il Signore degli Anelli”. La ferita alla
spalla che Frodo aveva rimediato a Colle Vento continuava a fargli male. Essa non sarebbe mai scomparsa, segno di
come quello che aveva vissuto non sarebbe mai andato via. Frodo, allora,
decise di partire per un nuovo viaggio. Accompagnato da Bilbo, egli raggiunse
Gandalf, salutò Sam e navigò sino alle Terre Immortali. Sulle rive si sciolse
la Compagnia dell’Anello. I due hobbit protagonisti delle storie del Professore
fecero un’ultima avventura. Non sarebbero più tornati. Sam ereditò il libro di
Bilbo e Frodo. In quelle pagine, la scrittura, tanto amata da Tolkien, aveva
immortalato l’amicizia, l’ardore, l’eroismo di eroi le cui azioni echeggeranno
per sempre.
Sam tornò a casa, baciò
sua moglie e accarezzò i suoi figli. Per lui niente era cambiato. La Contea era
stata salvata ed egli la guardava. Essa era bella come era sempre stata.
Rientrò in casa con la propria famiglia e serrò la porta. La storia, com’era cominciata, finì in una casa scavata nella terra.
Tale vano non era certo un brutto buco, sudicio e umido, con la presenza di
vermi e pervaso da un lezzo maleodorante; e neppure spoglio, arido e inospitale,
senza nulla su cui sedersi né qualcosa da mettere sotto i denti: era un buco hobbit,
vale a dire comodo e accogliente.
Il narrato del “Signore degli anelli” si dissolse sulla
casa di Sam, lo hobbit che forgiò il destino di tutti.