
I saggi, di solito, sono proprio bravi con le parole. Ci avete mai fatto caso? Hanno sempre un proverbio simpatico dalla loro, un adagio didascalico, un aforisma dotto e avvincente pronto per essere snocciolato quando si presenta l’occasione. Altrimenti, che saggi sarebbero?
Peccato che nessuno dia mai realmente ascolto al loro parlato. Sì, certo, i più odono quanto gli viene detto, magari lo comprendono anche; è solo che dopo un po’ lo dimenticano e tendono a non applicare mai quei concetti nella vita di tutti i giorni. Prendiamo, ad esempio, ciò che disse un vecchio sapiente in una particolare circostanza; questi ebbe a dire qualcosa del genere: “È pericoloso uscire dalla porta di casa. Ci si mette in strada, e se non si dirigono bene i piedi, non si sa dove si può finire spazzati via dal soffio del vento”. Una frase interessantissima.
In effetti, il mondo che ci si schiude lì fuori, oltre le finestre delle nostre case, è un luogo vasto, pieno di sorprese, di meraviglie e perché no, anche di pericoli. Bisogna stare attenti quando ci si mette in strada, se non si conosce dove si sta andando. Chissà in cosa potremmo mai imbatterci. È molto più prudente starsene tra le mura domestiche, al calduccio, fidatevi di me.

Charlot sarebbe stato d’accordo con quest’ultima frase. In fondo, cosa c’è di meglio che passare la giornata all’interno della propria dimora? Dormire fino a tardi, in un confortevole letto, avvolti nelle lenzuola; trascorrere i pomeriggi sprofondati in poltrona, mentre la cuccuma soffia e fischietta su per la cucina. Nulla di più pacato e rilassante. Charlot lo sapeva bene e se avesse potuto scegliere state pur certi che non avrebbe lasciato il proprio alloggio alla buonora, così volentieri com’era solito fare giorno dopo giorno. Beh, a voler essere del tutto franchi, Charlot non aveva una vera casa tutta per sé. Non aveva una cucina spaziosa, un salotto accogliente, e nemmeno una cuccuma. Quindi, per forza di cose, era costretto a vagabondare di qua e di là, alla costante ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti. Pertanto non poteva minimamente dare ascolto alle parole di quel vecchio erudito già citato, anzi tutt’altro: Charlot era obbligato a mettersi in strada, a errare lungo sentieri sempre nuovi e per questo mai esplorati. Egli metteva sempre in conto la possibilità di imbattersi in qualcosa di minaccioso o, chi lo sa, in qualcosa che avrebbe potuto cambiargli la vita. In senso buono, si intende. E potete scommetterci che qualcosa di grosso stava per accadere.

Tutto ebbe inizio in un giorno come un altro. Il vagabondo percorreva una stradina di periferia, mantenendosi ben saldo sul marciapiede. Il suo passo era leggero, lesto come quello di una lepre che saltella qua e là per la radura. Charlot indossava i suoi soliti indumenti. Dico “soliti” perché quei vestiti erano gli unici abiti di cui disponeva. Or dunque: portava sul capo una bombetta malridotta, con un vistoso foro al centro, una giacca tutta impolverata, un gilet sdrucito, e un paio di calzoni di almeno due taglie più grandi. Ai piedi calzava scarpe nere, appariscenti e anch’esse molto larghe. In mano reggeva un bastone sottilissimo, con un manico a mo’ di punto interrogativo, e tra le labbra, poco al di sotto di quei baffetti a spazzola, stringeva una sigaretta. Una rarità, per uno squattrinato come lui. Chissà dove l’aveva recuperata.
Quel mattino, Charlot se ne andava ramengo per le strade di una periferia sudicia e maledettamente abbandonata. Dalle finestre dei palazzi circostanti piombavano mucchi di immondizia, che venivano scagliati senza badare troppo se lì nel vicolo ci fosse qualcuno. Qualcosa di simile colpì in pieno il povero Charlot. Egli, mantenendo sempre in testa la sua bombetta, non si scompose affatto, ci era abituato dopo tutto. Per i più, era quasi invisibile. Vagava quotidianamente come un fantasma, quasi fosse trasparente; mai nessuno posava lo sguardo su di lui. Si diede in fretta una ripulita e continuò a fumare, come se nulla lo avesse mai raggiunto. Di colpo, però, qualcosa attrasse la sua attenzione. Proprio lì vicino, a pochi passi da lui, echeggiava il pianto di un bebè. Charlot fece per avvicinarsi e scorse un pargoletto racchiuso in una candida coperta. Rimase sorpreso, per così dire. Un bimbo… E cosa ci faceva in quel luogo tutto solo? Che domande! I bambini non se ne vanno in giro da soli.

Ma è ovvio, qualcuno lo avrà lasciato lì, in quel posto tanto cupo. Ma come potevano averlo abbandonato solo soletto, accanto ad un bidone della spazzatura? Un momento, non è che riversando dall’alto tutta quella sporcizia, gli inquilini del palazzo dirimpetto abbiano per sbaglio lanciato anche quel batuffolo? Charlot sembrò chiederselo: alzò gli occhi al cielo, osservando le finestre di quell’edificio da cui erano piovuti tutti quegli scarti domestici. Niente, nessuno si era affacciato, nessuno reclamava il piccolino.
“Che stupido che sono”, pensò. Come si può lanciare per sbaglio un bambino? Ma allora come ci era finito fra quei rifiuti? Tutte queste domande, con ogni probabilità, affollavano la mente di Charlot. Ma non era il momento di porsi troppi interrogativi. D’un tratto, Charlot realizzò. Aveva ancora la sigaretta in bocca. “Gettala via, sciocco”, sembrò ripetersi fra sé. E così fece, la raccolse tra le dita e la lanciò più lontano che poteva. Indugiò un istante, poi prese il bimbo con sé e s’incamminò. Tu guarda cosa può succedere in un giorno qualunque. Aveva proprio ragione quel vecchio saggio: è pericoloso uscire dalla porta, ci si mette in strada e se non si sta attenti guarda dove si può finire. Charlot, guidato dalla brezza del mattino, si era spinto all’interno di un vicolo tetro e sordido, e proprio in quel luogo così inospitale aveva trovato un tesoro prezioso, un figlio inatteso per un padre totalmente impreparato.
Ma come ci era arrivato quel piccino in quel losco quartiere? Cos’era accaduto? Dov’erano finiti i suoi genitori?
Invero, il bambino aveva un solo genitore: sua madre. C’è da dire che la mamma del piccolo era stata sedotta e abbandonata da un artista piuttosto famoso, un pittore, per così dire. Durante la gravidanza, la donna visse per un certo periodo in un istituto di carità, dove partorì il proprio figlioletto. Una volta messo al mondo il bambino, la donna fu dimessa dall’istituto e si trovò senza una fissa dimora e per giunta senza un impiego.

Comincia il tal modo “Il monello”, una delle opere più intense e straordinarie del cinema di Charlie Chaplin. Una delle prime didascalie che la pellicola ci pone davanti riguarda proprio il triste destino a cui va incontro la madre del tenero “monello”. La frase che compare sullo schermo è la seguente: “La donna, il cui peccato è essere madre”. In un’epoca storica come quella in cui è ambientato il film, una ragazza che aveva messo al mondo una nuova vita al di fuori del matrimonio, e che adesso viveva sola, con un bambino da crescere, si era macchiata di un “peccato”, di un’onta impossibile da mondare.
In quei primissimi frangenti, la madre del piccino cammina per le vie, non sa dove andare né cosa fare. Non sa che futuro può assicurare al figlio, così compie un gesto estremo e straziante: sceglie di lasciarlo. Notando una macchina di lusso, parcheggiata dinanzi ad una villetta, la donna si avvicina, apre la portiera della vettura e depone il bimbo sul sedile posteriore. Fugge via, e in preda alla disperazione finisce per trovare ristoro su di una panchina. Passato il primo momento di disagio la donna viene assalita dai sensi di colpa e torna sui suoi passi, ma ormai è troppo tardi: l’auto è sfrecciata via, lontano, e del suo piccolo lei non avrà più notizia. Invero, la macchina è stata rubata da una coppia di malviventi, e sta per raggiungere uno dei quartieri più poveri e malfamati della città. Una volta arrivati alla meta, i due criminali si accorgono del pargoletto e fanno quanto devono per disfarsene, abbandonandolo vicino al bidone dell’immondizia, dove, di lì a poco, verrà notato da Charlot.
Cercando tra le coperte nelle quali il bimbo è avvolto, Charlot scopre un biglietto scritto dalla madre, che recita così: “Vi prego, amate questo orfanello e prendetevene cura”. Commosso, Charlot conserverà il biglietto nelle sue tasche malconce e, subito dopo, indugerà sul visino piangente del piccino. Non riuscirà a resistergli: Charlot accennerà un sorriso e in quel preciso istante s’innamorerà perdutamente del piccolo, proprio come un padre che scruta per la prima volta il viso del suo bambino appena venuto al mondo. La madre del piccino avrebbe desiderato per lui una ricca famiglia; il monello troverà invece la ricchezza di un’infanzia felice fra le braccia di un indigente che, solo apparentemente, non aveva nulla da offrirgli.

Esistono tante splendide storie che hanno inizio con un bimbo che, inconsapevolmente, deve dire addio ai suoi genitori ancor prima di conoscerli. Basti pensare al celebre fumetto di “Superman”, e alla sua trasposizione cinematografica risalente al 1978, in cui il protagonista, il piccolo Kal-El, viene posto all’interno di una minuta astronave argentea, in procinto di partire per lo spazio sconfinato. Il pianeta Krypton, luogo in cui Kal-El è venuto alla luce, è infatti prossimo alla distruzione e i genitori del piccino, consapevoli di questa fatalità ineluttabile, decidono di salvare la propria creatura, a costo di lasciarla andar via. Così, il padre di Kal-El, Jor-El, che nell’adattamento cinematografico a cura di Richard Donner possiede il volto di Marlon Brando, uno dei più bravi attori della storia del cinema, imposta la rotta della nave spaziale che custodirà il suo bambino all’indirizzo di un nuovo corpo celeste, preferendo come meta il pianeta Terra.
Mentre attorno a loro il suolo trema e un grido di dolore si eleva fino al cielo e al sole rosso di Krypton, i genitori di Kal-El se ne stanno immobili, abbracciati, osservando, mesti eppur sereni, il decollo dell’astronave che conduce il frutto del loro amore verso la salvezza. Di lì a poco, il pianeta Krypton esploderà e della stirpe a cui Kal-El apparteneva non resterà che un sommesso ricordo sperduto nelle profondità del freddo spazio siderale. Una volta approdato sulla Terra, il piccolo verrà trovato dai coniugi Kent che, per tutta la loro esistenza, avevano pregato Dio nella speranza di avere un bambino. La venuta di Kal-El, che sarà ribattezzato Clark Kent dalla sua famiglia adottiva, ha tutta l’aria di una risposta alle loro preghiere. Quella di Superman è la storia di un figlio abbandonato che è riuscito a scampare alla morte grazie al sacrificio e alla rinuncia dei suoi genitori biologici.
Perfino nei racconti biblici si fa menzione alla storia di un bambino abbandonato. Basti pensare al destino di Mosè. La madre Jocabel depose il proprio erede all’interno di una cesta, e spinse la stessa oltre le rive del Nilo. In quel gesto disperato compiuto da una madre che deve dire addio alla creatura portata in grembo, Jocabel affida la propria preghiera a Dio, implorandolo di vegliare sul futuro di Mosè. Jocabel fu costretta a salutare, forse per sempre, il piccolo, in quanto il faraone aveva dato ordine di uccidere tutti i nuovi nati maschi del popolo ebreo. Le acque del Nilo si prenderanno cura di Mosè, trasportandolo fra le braccia di un’altra madre che tanto desiderava un figlio. Mosè verrà raccolto dalla principessa d’Egitto Bithia, e sarà allevato quale principe delle due terre.

Ne “Il monello” di Charlie Chaplin accade qualcosa di simile: un genitore si priva dell’affetto e della vicinanza del proprio bambino sperando di elargirgli un avvenire più prospero e sereno. Nell’opera chapliniana, quello compiuto dalla madre è un disperato, riluttante e certamente controverso atto d’amore.
Nella storia delle letteratura, vi sono invece esempi in cui i bimbi vengono abbandonati perché disprezzati o odiati. Basti pensare alla storia di Quasimodo, il protagonista del capolavoro letterario di Victor Hugo “Notre-Dame de Paris”, ripudiato dai suoi genitori a causa della propria deformità, a volte paragonata all’incarnazione del demonio. Quasimodo verrà adottato da Frollo, l’arcidiacono della cattedrale, e fra le mura della chiesa crescerà, isolato dal mondo esterno. Quasimodo manterrà per gran parte della sua vita una devozione inflessibile nei riguardi del suo salvatore, Frollo, e per egli nutrirà un senso di soggezione e di costante dipendenza. Quasimodo sente d’essere vivo solamente per merito del suo benefattore, che non ebbe paura di lui e che lo crebbe, pur con austera severità e evidente distacco. Questo dettaglio del carattere di Quasimodo, questa sua riverenza nei riguardi di Frollo, viene rimarcata persino nell’opera musicale di Riccardo Cocciante, “Notre- Dame de Paris”, attraverso il brano chiamato per l’appunto “Il trovatello”, le cui prime strofe esordiscono così: “Se fui bambino anch’io fu perché fosti tu la vita per me, fu perché fosti tu quello che mi adottò e che non mi chiamò mai mostro”.

Nel racconto di Hugo, tuttavia, ci troviamo dinanzi ad un esempio diverso se confrontato al “racconto” de “Il monello”. Nel primo caso, la presa in cura del trovatello avviene per dovere cristiano, non per spontaneità paterna e soprattutto per convenienza. Frollo crede fermamente che Quasimodo un giorno potrà tornargli utile, e nei suoi riguardi non nutrirà né mostrerà mai alcuna vena affettiva. Ne “Il monello”, invece, il genitore che rinviene il trovatello nutre immediatamente nei suoi riguardi un affetto autentico e profondissimo e si fa carico di quella vita nonostante la propria situazione di indigenza.
Charlot porta il figlioletto adottivo nella sua dimora: un ambiente sistemato con mezzi di fortuna, in cui vi è un giaciglio a ridosso di una parete e un tavolo al centro della stanza. In quello spazio tanto esiguo eppur comodo, Charlot si dà da fare per provvedere a tutte le necessità del bimbetto: allestisce un'amaca a mo’ di culla, rimaneggia una vecchia caffettiera trasformandola in biberon, e ricava da una logora sedia, privandola del fondo, un vasino per i bisogni del suo piccolo ospite.

Passano gli anni, e il figlioletto di Charlot cresce e diventa un bambino vivace ed esuberante, un monello a tutti gli effetti. La situazione attorno al vagabondo non è cambiata poi molto: la società continua a respingerlo, a trattarlo come un reietto e non gli offre mai un’occupazione stabile. Non che Charlot la cerchi con tutte le sue forze, in realtà si accontenta delle piccole cose senza pretendere altro; egli continua a vivere alla giornata, circondato dalla ristrettezza, ma ha con lui un bene inestimabile, che lo fa sentire l’uomo più ricco e fortunato del mondo: il proprio bambino. Questi accompagna il padre tutti i giorni in giro per le strade, aiutandolo nella sua attività di vetraio ambulante. In questo caso, il monello è un vero e proprio “complice” e, vi assicuro, ne combina sì di malefatte. Raccatta le pietre, le scaglia contro le vetrate e poi fugge via. Di lì a poco passa, “per caso” ovviamente, Charlot con i suoi vetri di ricambio trasportati sulla schiena ricurva, e viene incalzato dai proprietari degli appartamenti a cui qualche “misterioso manigoldo” ha ridotto in frantumi le vetrate. Charlot ha così modo di lavorare e di rimediare qualche soldo.
Queste piccole “truffe” portate a termine da Charlot e dal suo figlioletto, a mio modo di vedere, fungeranno, in parte, da ispirazione per le astute “malefatte” di un altro papà e della sua figlioccia. Nella commedia degli anni ’90 “La tenera canaglia”, infatti, la piccola “Trucioli”, rimasta orfana e “adottata” dal senzatetto Bill - che Trucioli considera suo padre – mette in scena un astuto stratagemma per racimolare quanto meno un pasto caldo. Tutte le sere, infatti, si aggira con il padre adottivo in un parcheggio e non appena una delle auto presenti sta per uscire in retromarcia i due inscenano un siparietto in cui fingono che Bill sia stato investito, così da intenerire l’ignaro guidatore e farsi pagare una cena. L’analogia tra l’operato di Charlot e quello della piccola Trucioli è alquanto evidente: in entrambi i casi, si tratta di un “piccolo” imbroglio portato a termine per tirare avanti, sopravvivere ancora un altro giorno.

Ben presto, però, il sodalizio tra Charlot e il figlio cambierà, precipitando di colpo. L’autorità dell’infanzia volgerà il proprio sguardo intransigente verso l’alloggio di Charlot e scoprirà che l’infante che tiene con lui non è il suo vero figlio, onde per cui non esiterà a portarglielo via. Il monello a quell’improvviso distacco comincerà a piangere e a singhiozzare. Le lacrime, copiose e grandi come gocce di rugiada, righeranno le sue gote, ed egli, in preda alla disperazione, volgerà le mani all’indirizzo del padre, rimasto, nel frattempo, in strada, a ribellarsi agli agenti per quanto accaduto.
Seguiranno tante fughe rocambolesche, che si concluderanno nel modo più amaro: il monello verrà portato via e infine Charlot resterà solo. Seguiterà a cercare il suo bambino per ore ed ore ma non riuscirà a trovarlo.

Distrutto, si accascerà, e poggiando il capo sull’uscio di casa, si addormenterà. Ecco che in sogno rivedrà il suo monello che lo desterà dal torpore e lo inviterà a camminare con lui nel quartiere in cui hanno vissuto. Esso si è tramutato in un angolo di paradiso, in cui uomini e donne, con ali bianche, danzano assieme. Charlot non riesce a capire. Ciò che si schiude davanti a sé è pura fantasia, un’illusione, un miraggio onirico, null’altro che un sogno. Ma un sogno così vero, popolato da angeli. Quella che Charlot ha davanti è una ricostruzione della realtà, una ricostruzione immaginaria del mondo che lo ha sempre circondato, che adesso prende l’aspetto di una verità giusta ed appagante, in cui può di nuovo stare con il suo figlioletto, senza che nessuno lo distolga, senza che nessuno glielo porti via. Il monello dona a Charlot delle ali lucenti, ed ecco che attorno al vagabondo arriva il diavolo pronto a spargere zizzania, diffidenza, gelosia, odio fra gli angeli. Anche in quel mondo, così lindo e puro, Charlot, infine, non ha trovato il giusto ordine, non ha trovato il proprio posto per essere felice. Proverà a volare con le sue ali, come Icaro verso il Sole, ma un agente, piombato lì per caso, in quell’angolo di paradiso, vede Charlot volteggiare ed estrae così la sua pistola, freddandolo. Charlot non poteva fuggire, salire fino al cielo, carezzare le nuvole, contemplare l’astro lucente. Doveva restare giù, sul gelido suolo. L’angelo poliziotto – tutore di un mondo ingiusto - lo tempesta di proiettili, senza esitare. Il vagabondo cade al suolo e muore. Il monello nota il suo corpo senza vita, gli corre incontro e piange, abbracciandolo. Ma non era che un sogno tramutato in incubo.

Charlot si ridesta, e vede a pochi passi sempre un tutore della legge, che questa volta lo riporta alla vita. Questi esorta Charlot a seguirlo e lo conduce nei pressi di un’abitazione lussuosa. In quella casa abita una donna: è lei, proprio lei, la madre del monello. Non aveva mai dimenticato la sua creatura. Il tormento per ciò che aveva fatto non le aveva mai dato pace. Al contempo, la fortuna le aveva sorriso. Era diventata un’attrice ricca e famosa. Ma si sentiva incompleta, inappagata. Per tutti quegli anni non aveva fatto altro che cercare la creatura che aveva dato alla luce e proprio in quei giorni, all’insaputa di Charlot, lei l’aveva trovata. Aveva conosciuto il monello, gli aveva fatto dono di un orsacchiotto e poi, facendo irruzione nella dimora di Charlot, aveva recuperato quel biglietto che lei stessa aveva scritto molto tempo prima. La donna aveva capito tutto: quel ragazzino, così vivace e quasi instancabile, era il sangue del suo sangue e quel padre che se ne prendeva cura era colui che lo aveva sottratto al freddo e alla fame.
Charlot indugia sulla soglia. D’improvviso vede il monello oltrepassarla e corrergli incontro. La donna incoraggia Charlot ad entrare in casa. Il vagabondo non se lo fa ripetere, e fa sì che l’ingresso lo inghiottisca.
Una famiglia era nata quel giorno; fra un sorriso e una lacrima si erano riuniti.
Autore: Emilio Giordano
Redazione: CineHunters
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