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"Il vagabondo ed il suo monello" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

I saggi, di solito, sono proprio bravi con le parole. Ci avete mai fatto caso? Hanno sempre un proverbio simpatico dalla loro, un adagio didascalico, un aforisma dotto e avvincente pronto per essere snocciolato quando si presenta l’occasione. Altrimenti, che saggi sarebbero?

Peccato che nessuno dia mai realmente ascolto al loro parlato. Sì, certo, i più odono quanto gli viene detto, magari lo comprendono anche; è solo che dopo un po’ lo dimenticano e tendono a non applicare mai quei concetti nella vita di tutti i giorni. Prendiamo, ad esempio, ciò che disse un vecchio sapiente in una particolare circostanza; questi ebbe a dire qualcosa del genere: “È pericoloso uscire dalla porta di casa. Ci si mette in strada, e se non si dirigono bene i piedi, non si sa dove si può finire spazzati via dal soffio del vento”. Una frase interessantissima.

In effetti, il mondo che ci si schiude lì fuori, oltre le finestre delle nostre case, è un luogo vasto, pieno di sorprese, di meraviglie e perché no, anche di pericoli. Bisogna stare attenti quando ci si mette in strada, se non si conosce dove si sta andando. Chissà in cosa potremmo mai imbatterci. È molto più prudente starsene tra le mura domestiche, al calduccio, fidatevi di me.

Charlot sarebbe stato d’accordo con quest’ultima frase. In fondo, cosa c’è di meglio che passare la giornata all’interno della propria dimora? Dormire fino a tardi, in un confortevole letto, avvolti nelle lenzuola; trascorrere i pomeriggi sprofondati in poltrona, mentre la cuccuma soffia e fischietta su per la cucina. Nulla di più pacato e rilassante. Charlot lo sapeva bene e se avesse potuto scegliere state pur certi che non avrebbe lasciato il proprio alloggio alla buonora, così volentieri com’era solito fare giorno dopo giorno. Beh, a voler essere del tutto franchi, Charlot non aveva una vera casa tutta per sé. Non aveva una cucina spaziosa, un salotto accogliente, e nemmeno una cuccuma. Quindi, per forza di cose, era costretto a vagabondare di qua e di là, alla costante ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti. Pertanto non poteva minimamente dare ascolto alle parole di quel vecchio erudito già citato, anzi tutt’altro: Charlot era obbligato a mettersi in strada, a errare lungo sentieri sempre nuovi e per questo mai esplorati. Egli metteva sempre in conto la possibilità di imbattersi in qualcosa di minaccioso o, chi lo sa, in qualcosa che avrebbe potuto cambiargli la vita. In senso buono, si intende. E potete scommetterci che qualcosa di grosso stava per accadere.

Tutto ebbe inizio in un giorno come un altro. Il vagabondo percorreva una stradina di periferia, mantenendosi ben saldo sul marciapiede. Il suo passo era leggero, lesto come quello di una lepre che saltella qua e là per la radura. Charlot indossava i suoi soliti indumenti. Dico “soliti” perché quei vestiti erano gli unici abiti di cui disponeva. Or dunque: portava sul capo una bombetta malridotta, con un vistoso foro al centro, una giacca tutta impolverata, un gilet sdrucito, e un paio di calzoni di almeno due taglie più grandi. Ai piedi calzava scarpe nere, appariscenti e anch’esse molto larghe. In mano reggeva un bastone sottilissimo, con un manico a mo’ di punto interrogativo, e tra le labbra, poco al di sotto di quei baffetti a spazzola, stringeva una sigaretta. Una rarità, per uno squattrinato come lui. Chissà dove l’aveva recuperata.

Quel mattino, Charlot se ne andava ramengo per le strade di una periferia sudicia e maledettamente abbandonata. Dalle finestre dei palazzi circostanti piombavano mucchi di immondizia, che venivano scagliati senza badare troppo se lì nel vicolo ci fosse qualcuno. Qualcosa di simile colpì in pieno il povero Charlot. Egli, mantenendo sempre in testa la sua bombetta, non si scompose affatto, ci era abituato dopo tutto. Per i più, era quasi invisibile. Vagava quotidianamente come un fantasma, quasi fosse trasparente; mai nessuno posava lo sguardo su di lui. Si diede in fretta una ripulita e continuò a fumare, come se nulla lo avesse mai raggiunto. Di colpo, però, qualcosa attrasse la sua attenzione. Proprio lì vicino, a pochi passi da lui, echeggiava il pianto di un bebè. Charlot fece per avvicinarsi e scorse un pargoletto racchiuso in una candida coperta. Rimase sorpreso, per così dire. Un bimbo…  E cosa ci faceva in quel luogo tutto solo? Che domande! I bambini non se ne vanno in giro da soli.

Ma è ovvio, qualcuno lo avrà lasciato lì, in quel posto tanto cupo. Ma come potevano averlo abbandonato solo soletto, accanto ad un bidone della spazzatura? Un momento, non è che riversando dall’alto tutta quella sporcizia, gli inquilini del palazzo dirimpetto abbiano per sbaglio lanciato anche quel batuffolo? Charlot sembrò chiederselo: alzò gli occhi al cielo, osservando le finestre di quell’edificio da cui erano piovuti tutti quegli scarti domestici. Niente, nessuno si era affacciato, nessuno reclamava il piccolino.

Che stupido che sono”, pensò. Come si può lanciare per sbaglio un bambino? Ma allora come ci era finito fra quei rifiuti? Tutte queste domande, con ogni probabilità, affollavano la mente di Charlot. Ma non era il momento di porsi troppi interrogativi. D’un tratto, Charlot realizzò. Aveva ancora la sigaretta in bocca. “Gettala via, sciocco”, sembrò ripetersi fra sé. E così fece, la raccolse tra le dita e la lanciò più lontano che poteva. Indugiò un istante, poi prese il bimbo con sé e s’incamminò. Tu guarda cosa può succedere in un giorno qualunque. Aveva proprio ragione quel vecchio saggio: è pericoloso uscire dalla porta, ci si mette in strada e se non si sta attenti guarda dove si può finire. Charlot, guidato dalla brezza del mattino, si era spinto all’interno di un vicolo tetro e sordido, e proprio in quel luogo così inospitale aveva trovato un tesoro prezioso, un figlio inatteso per un padre totalmente impreparato.

Ma come ci era arrivato quel piccino in quel losco quartiere? Cos’era accaduto? Dov’erano finiti i suoi genitori?

Invero, il bambino aveva un solo genitore: sua madre. C’è da dire che la mamma del piccolo era stata sedotta e abbandonata da un artista piuttosto famoso, un pittore, per così dire. Durante la gravidanza, la donna visse per un certo periodo in un istituto di carità, dove partorì il proprio figlioletto. Una volta messo al mondo il bambino, la donna fu dimessa dall’istituto e si trovò senza una fissa dimora e per giunta senza un impiego.

Comincia il tal modo “Il monello”, una delle opere più intense e straordinarie del cinema di Charlie Chaplin. Una delle prime didascalie che la pellicola ci pone davanti riguarda proprio il triste destino a cui va incontro la madre del tenero “monello”. La frase che compare sullo schermo è la seguente: “La donna, il cui peccato è essere madre”. In un’epoca storica come quella in cui è ambientato il film, una ragazza che aveva messo al mondo una nuova vita al di fuori del matrimonio, e che adesso viveva sola, con un bambino da crescere, si era macchiata di un “peccato”, di un’onta impossibile da mondare.

In quei primissimi frangenti, la madre del piccino cammina per le vie, non sa dove andare né cosa fare. Non sa che futuro può assicurare al figlio, così compie un gesto estremo e straziante: sceglie di lasciarlo. Notando una macchina di lusso, parcheggiata dinanzi ad una villetta, la donna si avvicina, apre la portiera della vettura e depone il bimbo sul sedile posteriore. Fugge via, e in preda alla disperazione finisce per trovare ristoro su di una panchina. Passato il primo momento di disagio la donna viene assalita dai sensi di colpa e torna sui suoi passi, ma ormai è troppo tardi: l’auto è sfrecciata via, lontano, e del suo piccolo lei non avrà più notizia. Invero, la macchina è stata rubata da una coppia di malviventi, e sta per raggiungere uno dei quartieri più poveri e malfamati della città. Una volta arrivati alla meta, i due criminali si accorgono del pargoletto e fanno quanto devono per disfarsene, abbandonandolo vicino al bidone dell’immondizia, dove, di lì a poco, verrà notato da Charlot.

Cercando tra le coperte nelle quali il bimbo è avvolto, Charlot scopre un biglietto scritto dalla madre, che recita così: “Vi prego, amate questo orfanello e prendetevene cura”. Commosso, Charlot conserverà il biglietto nelle sue tasche malconce e, subito dopo, indugerà sul visino piangente del piccino. Non riuscirà a resistergli: Charlot accennerà un sorriso e in quel preciso istante s’innamorerà perdutamente del piccolo, proprio come un padre che scruta per la prima volta il viso del suo bambino appena venuto al mondo. La madre del piccino avrebbe desiderato per lui una ricca famiglia; il monello troverà invece la ricchezza di un’infanzia felice fra le braccia di un indigente che, solo apparentemente, non aveva nulla da offrirgli.

Potete leggere di più su Superman cliccando qui.

Esistono tante splendide storie che hanno inizio con un bimbo che, inconsapevolmente, deve dire addio ai suoi genitori ancor prima di conoscerli. Basti pensare al celebre fumetto di “Superman”, e alla sua trasposizione cinematografica risalente al 1978, in cui il protagonista, il piccolo Kal-El, viene posto all’interno di una minuta astronave argentea, in procinto di partire per lo spazio sconfinato. Il pianeta Krypton, luogo in cui Kal-El è venuto alla luce, è infatti prossimo alla distruzione e i genitori del piccino, consapevoli di questa fatalità ineluttabile, decidono di salvare la propria creatura, a costo di lasciarla andar via. Così, il padre di Kal-El, Jor-El, che nell’adattamento cinematografico a cura di Richard Donner possiede il volto di Marlon Brando, uno dei più bravi attori della storia del cinema, imposta la rotta della nave spaziale che custodirà il suo bambino all’indirizzo di un nuovo corpo celeste, preferendo come meta il pianeta Terra.

Mentre attorno a loro il suolo trema e un grido di dolore si eleva fino al cielo e al sole rosso di Krypton, i genitori di Kal-El se ne stanno immobili, abbracciati, osservando, mesti eppur sereni, il decollo dell’astronave che conduce il frutto del loro amore verso la salvezza. Di lì a poco, il pianeta Krypton esploderà e della stirpe a cui Kal-El apparteneva non resterà che un sommesso ricordo sperduto nelle profondità del freddo spazio siderale. Una volta approdato sulla Terra, il piccolo verrà trovato dai coniugi Kent che, per tutta la loro esistenza, avevano pregato Dio nella speranza di avere un bambino. La venuta di Kal-El, che sarà ribattezzato Clark Kent dalla sua famiglia adottiva, ha tutta l’aria di una risposta alle loro preghiere. Quella di Superman è la storia di un figlio abbandonato che è riuscito a scampare alla morte grazie al sacrificio e alla rinuncia dei suoi genitori biologici.

Perfino nei racconti biblici si fa menzione alla storia di un bambino abbandonato. Basti pensare al destino di Mosè. La madre Jocabel depose il proprio erede all’interno di una cesta, e spinse la stessa oltre le rive del Nilo. In quel gesto disperato compiuto da una madre che deve dire addio alla creatura portata in grembo, Jocabel affida la propria preghiera a Dio, implorandolo di vegliare sul futuro di Mosè. Jocabel fu costretta a salutare, forse per sempre, il piccolo, in quanto il faraone aveva dato ordine di uccidere tutti i nuovi nati maschi del popolo ebreo. Le acque del Nilo si prenderanno cura di Mosè, trasportandolo fra le braccia di un’altra madre che tanto desiderava un figlio. Mosè verrà raccolto dalla principessa d’Egitto Bithia, e sarà allevato quale principe delle due terre.

Mosè apre le acque del Mar Rosso. Potete leggere di più su "Il principe d'Egitto" cliccando qui.

Ne “Il monello” di Charlie Chaplin accade qualcosa di simile: un genitore si priva dell’affetto e della vicinanza del proprio bambino sperando di elargirgli un avvenire più prospero e sereno. Nell’opera chapliniana, quello compiuto dalla madre è un disperato, riluttante e certamente controverso atto d’amore.

Nella storia delle letteratura, vi sono invece esempi in cui i bimbi vengono abbandonati perché disprezzati o odiati. Basti pensare alla storia di Quasimodo, il protagonista del capolavoro letterario di Victor Hugo “Notre-Dame de Paris”, ripudiato dai suoi genitori a causa della propria deformità, a volte paragonata all’incarnazione del demonio. Quasimodo verrà adottato da Frollo, l’arcidiacono della cattedrale, e fra le mura della chiesa crescerà, isolato dal mondo esterno. Quasimodo manterrà per gran parte della sua vita una devozione inflessibile nei riguardi del suo salvatore, Frollo, e per egli nutrirà un senso di soggezione e di costante dipendenza. Quasimodo sente d’essere vivo solamente per merito del suo benefattore, che non ebbe paura di lui e che lo crebbe, pur con austera severità e evidente distacco. Questo dettaglio del carattere di Quasimodo, questa sua riverenza nei riguardi di Frollo, viene rimarcata persino nell’opera musicale di Riccardo Cocciante, “Notre- Dame de Paris”, attraverso il brano chiamato per l’appunto “Il trovatello”, le cui prime strofe esordiscono così: “Se fui bambino anch’io fu perché fosti tu la vita per me, fu perché fosti tu quello che mi adottò e che non mi chiamò mai mostro”.

Quasimodo e Frollo durante l'esecuzione de "Il trovatello", Notre Dame de Paris

Nel racconto di Hugo, tuttavia, ci troviamo dinanzi ad un esempio diverso se confrontato al “racconto” de “Il monello”. Nel primo caso, la presa in cura del trovatello avviene per dovere cristiano, non per spontaneità paterna e soprattutto per convenienza. Frollo crede fermamente che Quasimodo un giorno potrà tornargli utile, e nei suoi riguardi non nutrirà né mostrerà mai alcuna vena affettiva. Ne “Il monello”, invece, il genitore che rinviene il trovatello nutre immediatamente nei suoi riguardi un affetto autentico e profondissimo e si fa carico di quella vita nonostante la propria situazione di indigenza.

Charlot porta il figlioletto adottivo nella sua dimora: un ambiente sistemato con mezzi di fortuna, in cui vi è un giaciglio a ridosso di una parete e un tavolo al centro della stanza. In quello spazio tanto esiguo eppur comodo, Charlot si dà da fare per provvedere a tutte le necessità del bimbetto: allestisce un'amaca a mo’ di culla, rimaneggia una vecchia caffettiera trasformandola in biberon, e ricava da una logora sedia, privandola del fondo, un vasino per i bisogni del suo piccolo ospite.

Passano gli anni, e il figlioletto di Charlot cresce e diventa un bambino vivace ed esuberante, un monello a tutti gli effetti. La situazione attorno al vagabondo non è cambiata poi molto: la società continua a respingerlo, a trattarlo come un reietto e non gli offre mai un’occupazione stabile. Non che Charlot la cerchi con tutte le sue forze, in realtà si accontenta delle piccole cose senza pretendere altro; egli continua a vivere alla giornata, circondato dalla ristrettezza, ma ha con lui un bene inestimabile, che lo fa sentire l’uomo più ricco e fortunato del mondo: il proprio bambino. Questi accompagna il padre tutti i giorni in giro per le strade, aiutandolo nella sua attività di vetraio ambulante. In questo caso, il monello è un vero e proprio “complice” e, vi assicuro, ne combina sì di malefatte. Raccatta le pietre, le scaglia contro le vetrate e poi fugge via. Di lì a poco passa, “per caso” ovviamente, Charlot con i suoi vetri di ricambio trasportati sulla schiena ricurva, e viene incalzato dai proprietari degli appartamenti a cui qualche “misterioso manigoldo” ha ridotto in frantumi le vetrate. Charlot ha così modo di lavorare e di rimediare qualche soldo.

Queste piccole “truffe” portate a termine da Charlot e dal suo figlioletto, a mio modo di vedere, fungeranno, in parte, da ispirazione per le astute “malefatte” di un altro papà e della sua figlioccia. Nella commedia degli anni ’90 “La tenera canaglia”, infatti, la piccola “Trucioli”, rimasta orfana e “adottata” dal senzatetto Bill - che Trucioli considera suo padre – mette in scena un astuto stratagemma per racimolare quanto meno un pasto caldo.  Tutte le sere, infatti, si aggira con il padre adottivo in un parcheggio e non appena una delle auto presenti sta per uscire in retromarcia i due inscenano un siparietto in cui fingono che Bill sia stato investito, così da intenerire l’ignaro guidatore e farsi pagare una cena. L’analogia tra l’operato di Charlot e quello della piccola Trucioli è alquanto evidente: in entrambi i casi, si tratta di un “piccolo” imbroglio portato a termine per tirare avanti, sopravvivere ancora un altro giorno.

Jim Belushi e Alisan Porter in una scena de "La tenera canaglia".

Ben presto, però, il sodalizio tra Charlot e il figlio cambierà, precipitando di colpo. L’autorità dell’infanzia volgerà il proprio sguardo intransigente verso l’alloggio di Charlot e scoprirà che l’infante che tiene con lui non è il suo vero figlio, onde per cui non esiterà a portarglielo via. Il monello a quell’improvviso distacco comincerà a piangere e a singhiozzare. Le lacrime, copiose e grandi come gocce di rugiada, righeranno le sue gote, ed egli, in preda alla disperazione, volgerà le mani all’indirizzo del padre, rimasto, nel frattempo, in strada, a ribellarsi agli agenti per quanto accaduto.

Seguiranno tante fughe rocambolesche, che si concluderanno nel modo più amaro: il monello verrà portato via e infine Charlot resterà solo. Seguiterà a cercare il suo bambino per ore ed ore ma non riuscirà a trovarlo.

Distrutto, si accascerà, e poggiando il capo sull’uscio di casa, si addormenterà. Ecco che in sogno rivedrà il suo monello che lo desterà dal torpore e lo inviterà a camminare con lui nel quartiere in cui hanno vissuto. Esso si è tramutato in un angolo di paradiso, in cui uomini e donne, con ali bianche, danzano assieme. Charlot non riesce a capire. Ciò che si schiude davanti a sé è pura fantasia, un’illusione, un miraggio onirico, null’altro che un sogno. Ma un sogno così vero, popolato da angeli. Quella che Charlot ha davanti è una ricostruzione della realtà, una ricostruzione immaginaria del mondo che lo ha sempre circondato, che adesso prende l’aspetto di una verità giusta ed appagante, in cui può di nuovo stare con il suo figlioletto, senza che nessuno lo distolga, senza che nessuno glielo porti via. Il monello dona a Charlot delle ali lucenti, ed ecco che attorno al vagabondo arriva il diavolo pronto a spargere zizzania, diffidenza, gelosia, odio fra gli angeli.  Anche in quel mondo, così lindo e puro, Charlot, infine, non ha trovato il giusto ordine, non ha trovato il proprio posto per essere felice. Proverà a volare con le sue ali, come Icaro verso il Sole, ma un agente, piombato lì per caso, in quell’angolo di paradiso, vede Charlot volteggiare ed estrae così la sua pistola, freddandolo. Charlot non poteva fuggire, salire fino al cielo, carezzare le nuvole, contemplare l’astro lucente. Doveva restare giù, sul gelido suolo. L’angelo poliziotto – tutore di un mondo ingiusto - lo tempesta di proiettili, senza esitare. Il vagabondo cade al suolo e muore. Il monello nota il suo corpo senza vita, gli corre incontro e piange, abbracciandolo. Ma non era che un sogno tramutato in incubo.

Charlot si ridesta, e vede a pochi passi sempre un tutore della legge, che questa volta lo riporta alla vita. Questi esorta Charlot a seguirlo e lo conduce nei pressi di un’abitazione lussuosa. In quella casa abita una donna: è lei, proprio lei, la madre del monello. Non aveva mai dimenticato la sua creatura. Il tormento per ciò che aveva fatto non le aveva mai dato pace. Al contempo, la fortuna le aveva sorriso. Era diventata un’attrice ricca e famosa. Ma si sentiva incompleta, inappagata. Per tutti quegli anni non aveva fatto altro che cercare la creatura che aveva dato alla luce e proprio in quei giorni, all’insaputa di Charlot, lei l’aveva trovata. Aveva conosciuto il monello, gli aveva fatto dono di un orsacchiotto e poi, facendo irruzione nella dimora di Charlot, aveva recuperato quel biglietto che lei stessa aveva scritto molto tempo prima. La donna aveva capito tutto: quel ragazzino, così vivace e quasi instancabile, era il sangue del suo sangue e quel padre che se ne prendeva cura era colui che lo aveva sottratto al freddo e alla fame.

Charlot indugia sulla soglia. D’improvviso vede il monello oltrepassarla e corrergli incontro. La donna incoraggia Charlot ad entrare in casa. Il vagabondo non se lo fa ripetere, e fa sì che l’ingresso lo inghiottisca.

Una famiglia era nata quel giorno; fra un sorriso e una lacrima si erano riuniti.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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La redazione era in fermento. Tutti i giornalisti erano stati convocati, e con una certa urgenza. “Presto, muovetevi!” - Esortava il fotoreporter Jimmy Olsen. “Il capo vi sta aspettando, ed è rabbioso come sempre…” – Suppongo avrebbe concluso.

In fondo, nell’ampio ufficio, accanto alla finestra rimasta semiaperta, il direttore Perry White masticava nervosamente il suo sigaro. Teneva le braccia distese dietro la schiena, le mani congiunte, movendosi in maniera concitata davanti alla propria scrivania, sulla quale era stato riversato maldestramente un cumulo di fogli di carta. Perry si arrestò d’un tratto e fulminò con lo sguardo i reporter. Il loro giornale era in ritardo. In enorme ritardo.

I principali quotidiani di Metropolis avevano già sbattuto il personaggio del momento in prima pagina, l’uomo che, la sera prima, era stato visto volare con le braccia tese verso il cielo. Questa misteriosa figura affiorò dalla strada - spiccando il volo dall’asfalto grigio - e si diresse sino alla sommità di un edificio. Lungo il tragitto, l’uomo salvò la giornalista Lois Lane tenendola fra le braccia, per poi fermare con una singola e decisa presa di mano un elicottero che, perso il controllo, stava per precipitare nel vuoto.

Ne parlavano tutti i giornali, e il Daily Planet non era da meno.

Vola!” - Titolò il Post.

Guarda mamma, senza fili!” – osò il News.

Il Times esordì: “Bomba blu in picchiata su Metropolis”.

L’uomo dal mantello color del cielo sbalordisce la città.” – Tuonò infine il Planet.

Era l’avvenimento del secolo, la storia che ogni direttore di giornale sognava di raccontare. Perry lo sapeva, e per questo era su tutte le furie. Il Planet, come già detto, era in ritardo sulla tabella di marcia poiché si era semplicemente limitato a riportare la notizia di questo sorprendente avvistamento e non aveva fatto altro. Nulla di più. Nessuna aggiunta a quell’informazione, nessun dettaglio carpito da quella stupefacente figura che sorvolò i grattacieli del centro urbano. Perry non poteva tollerarlo. Le cose sarebbero dovute cambiare quel mattino stesso, e anche con gran premura.

White ammonì i suoi dipendenti. “Scovate l’uomo che sa volare!”. Voleva sapere chi fosse, conoscere il suo nome, ghermire la più impercettibile delle minuzie. “Chi era?”, “Dove abitava?”, “Da dove era venuto?”, “Cosa significa quella S che porta sul petto?”. I giornalisti dovevano cercare e sondare, pattugliare le strade, interrogare i testimoni che avevano assistito a quel salvataggio tanto sbalorditivo. Mentre White motivava i suoi cronisti, in un angolo sperduto della stanza Lois Lane leggeva un biglietto fattole recapitare in forma anonima.

Clark Kent e Lois Lane in una scena di "Superman". Potete leggere di più sul film cliccando qui.

Stasera alle 20:00 a casa sua. Speranzosamente, un amico”. Lois sorrise. L’uomo che sapeva volare si era messo in contatto, concedendole un appuntamento. Sul lato opposto della sala, ritto dinanzi alla porta, il timido Clark Kent, dietro i suoi occhialoni, indagava l’espressione di Lois, guardandola candidamente per poi distogliere l’attenzione.

Quella sera l’uomo dalla grande “S” sul petto planò sul balcone di casa Lane, guadagnando il terreno con i suoi stivali rossi. Esitò per qualche secondo sul cornicione, standosene diritto su esso. Costui era alto, con un ricciolo bruno che gli scendeva sulla fronte. Racchiuso in un costume azzurro, sormontato da un mantello rosso, il misterioso visitatore scese giù dal davanzale, avanzò verso la padrona di casa e si sedette a pochi passi da lei. L’intervista poteva dunque cominciare. Lois aprì il suo taccuino, e fece seguire un meticoloso e quasi sfacciato interrogatorio volto ad estorcere con le buone le tante verità custodite dal viandante figlio della volta celeste.

Superman aveva scelto lei, proprio lei, la celebre penna di Lois Lane per esporsi al mondo, per svelare a tutti i lettori giusto qualcuno dei suoi molteplici segreti.

Quando la conversazione stava per concludersi Superman porse la mano a Lois, invitandola a volare con lui. La giornalista non se lo fece ripetere due volte. Emozionata e, forse, un pizzico spaventata, la cronista mosse il braccio verso il suo accompagnatore, lasciando che l’eroe la sollevasse come fosse una piuma sospinta da un refolo. Stretta tra le braccia dell’uomo che le aveva salvato la vita, la donna librò oltre l’uscio, salì in alto, così in alto che le parve di poter toccare le stelle. Lambì le nuvole, le trafisse con il suo corpo, accorgendosi della tenue consistenza di cui erano fatte. I due continuarono a volare per molto tempo, mirando da lassù la città viva e palpitante nel pieno della notte, con tutte le sue luci che brillavano nel buio. Lois seguirà il suo eroe per l’aere, volgendo lo sguardo, di tanto in tanto, verso di lui e scrutandolo con soavità ma anche con la sua proverbiale curiosità di giornalista, mentre egli non smetterà di tenerla sempre per mano. (Un'altra coppia di innamorati volò, insieme, da una stella ad un'altra. Vi stanno aspettando qui.)

In quegli attimi, tra una planata sul mare e una salita verso il pallido chiarore della luna tondeggiante, Lois cominciò a chiedersi se Superman potesse leggerle il pensiero. Chi poteva dirlo? Forse avrebbe potuto, ma Lois non ne era certa. Dopotutto, quel superuomo che aveva accanto riusciva a prevalere sulla forza di gravità, a soffiare folate gelide dai suoi polmoni, a sollevare un’auto senza versare neppure una goccia di sudore. Perché, dunque, se era in grado di fare tutto questo non avrebbe potuto leggerle anche la mente?

Puoi leggermi il pensiero?” – Si domandava Lois in cuor suo. Fra tutti i suoi poteri, le sue straordinarie facoltà - il volo, la forza erculea, la velocità, la vista che dissolveva ogni ombra e schiariva l’oscurità - Superman era in grado di sfogliare l’io interiore di una donna innamorata? No, invero non poteva. La mente resta un luogo intimo, personale, segreto, inaccessibile. Neppure l’Uomo d’Acciaio può addentrarsi in una simile dimensione.

Lois, in quei frangenti, meditava. Le emozioni che scaturivano dal suo cuore si erano mescolate alle idee del suo cervello. Riusciva a pensare solamente all’amore, a quanto si era innamorata di Superman. Le sarebbe piaciuto che l’eroe dalla grande “S” fosse capace di perscrutare oltre la fronte. Così facendo, si sarebbe accorto immediatamente di quanto forte e vivo fosse il sentimento della donna. Non sarebbero servite confessioni, bisbigli, mormorii pronunciati con mal celato imbarazzo, con il rossore sulle guance. Sarebbe bastata una rapida lettura...

Già! Se solo la persona da noi amata potesse leggere nella nostra mente! Capirebbe tutto in un lampo. Avvertirebbe la forza del nostro sentimento, la sua purezza, che a volte le parole non riescono a descrivere appieno. Quanto vorremmo che ciò avvenisse per davvero!

Anche un altro personaggio, in una storia diversa da quella fino ad ora narrata, avrebbe tanto desiderato che la sua amata potesse farsi strada nella sua psiche. Sono certo che lo avrebbe voluto.

Questo personaggio era un vagabondo che visse all’inizio del Novecento. Quando la donna che amava gli sfiorò il bracciò e lo guardò negli occhi, egli mostrò i denti, sghignazzando tra il timido e l’impacciato. Chi lo sa, forse fu proprio allora, in quel momento, che egli si chiese realmente se ella potesse leggere nella sua mente. In tal caso sarebbe stato più facile, per lui, trasmetterle tutto ciò che provava laggiù, in fondo al petto.

Il vagabondo non era solito parlare. Le parole non facevano per lui. Egli preferiva comunicare con l’arte dei gesti e dei silenzi, con le occhiate e le movenze. La sua voce era difficile d’ascoltare e veniva soffocata dal suono della musica, il contrappunto di grazia e delicatezza che scandiva ogni suo passo, ogni suo cenno.

Charlot, così si chiamava questo vagabondo, nell’attimo in cui s’imbatté nuovamente nella sua adorata restò immobile a guardarle il volto. Ella lo scrutava curiosa, sgomenta, del resto era la prima volta che lo vedeva, anche se si conoscevano da tempo. Come dite? Vi state chiedendo com’è possibile che quella era la prima volta che lei lo vedeva se già si conoscevano? Perdonatemi, avete proprio ragione. È meglio fare un passo indietro, e riannodare alcuni fili pendenti del discorso.

Tutto ha principio in un giorno di festa.

In una piazza cittadina si sta svolgendo una cerimonia di inaugurazione. Un nuovo monumento, per la precisione un’imponente statua di marmo sta per essere svelata a tutti i convenuti. La scultura appare coperta da un ampio drappo di velluto. Una volta rimosso, la statua si mostra ai presenti in tutta la sua solennità. Si tratta di una raffigurazione scultorea della dea Giustizia. Tutti i presenti applaudono festanti, incantati dalla bellezza di quell’opera d’arte. Di colpo si interrompono, cessano nel loro battito chiassoso. Essi si accorgono che un individuo con addosso degli abiti consunti dorme rannicchiato ai piedi della statua, abbracciando il suo bastone con la stessa innocenza con cui un bambino abbraccia il suo orsacchiotto. Charlot si era appisolato proprio lì la sera prima, probabilmente trovando rifugio dal freddo sotto quell’ampio drappo che nascondeva la scultura da occhi indiscreti. La moltitudine emette un grido all’unisono: “Via da lì!”. Il goffo vagabondo si sveglia di soprassalto, e viene scacciato dalla folla inferocita. Così scivola lungo le gambe della dea, apre un passaggio fra le dita e fugge in strada, voltando le spalle ai cittadini inferociti. Dopotutto, Charlot non può trovare riparo nell’accoglienza della società dei tempi moderni che proprio non vuole un tipo come lui. Le persone che “adorano” quella scultura appena “issata” non sono dei “giusti”, bensì dei prepotenti che non esitano a scacciare il debole tramutandolo in reietto, che, pertanto, mai potrà trovare ristoro e uguaglianza dinanzi ad una giustizia terrena che, di fatto, è ingiusta per sua natura.

Vagabondando di qua e di là, Charlot giunge all’angolo di una strada dove incontra una giovane donna che vende dei fiori. La fanciulla gliene offre uno, raccogliendolo dalla sua cesta. Charlot lo accetta, restando ammaliato da quella dolce visione incarnata dalle fattezze della ragazza. Osservandola attentamente, Charlot si accorge che la donna è cieca. Intenerito, il vagabondo vorrebbe acquistare tutti i fiori ma purtroppo possiede a malapena una moneta nelle tasche sdrucite dei suoi pantaloni smisuratamente larghi. La fanciulla lo ringrazia per la sua gentilezza e lo saluta. Ella ha appena scambiato Charlot per un nobiluomo, perché nel momento in cui lo sta salutando sente sbattere la portiera di un’auto di lusso, una Rolls-Royce. L’uomo con la bombetta sul capo se ne rende conto, così, per non deluderla, fa per andarsene di soppiatto. Nei giorni a seguire, il vagabondo incontrerà ancora e ancora la fanciulla e non disdegnerà di farle la corte.

I giorni passano, le serate scorrono, Charlot vive la frenesia della città scoprendone i molteplici aspetti. Dapprima si avvicina alle luci accecanti, sperimentando il furore delle notti brave, in coppia con un improbabile amico conosciuto per caso: un ricco ubriacone che si mostra amichevole solamente quando è sotto effetto dell’alcol. Questi trascina Charlot tra gli sfarzi del suo “palazzo”, mescolandolo fra la creme dei ricchi magnati. Il vagabondo, dopo aver assaporato l’ebrezza del mondo dei privilegiati, fa visita alla fioraia, saggiando l’altro lato della città, l’altra “luce scintillante” di essa. Perlomeno, “scintillante” per chi ha negli occhi la giusta sensibilità per notarla.

Il vagabondo passa così alla piacevolezza, alla quiete, alla serenità, ciò che più si addice al suo animo nobile ma squattrinato. Charlot si sente a suo agio ogniqualvolta incontra la sua innamorata, la fioraia cieca. Soffermandosi accanto a lei, l’uomo con la bombetta sente di avere finalmente trovato il proprio posto nel mondo, all’interno di una società che lo ha sempre ripudiato. Fra tutte le luci della città, Charlot si è invaghito della luce più fioca, tenue, debole: quella emanata da una giovane donna indigente, dolce e gentile.

Un giorno, Charlot ha l’opportunità di scortare la fanciulla fino alla sua dimora. In sella ad un bolide rimediato per caso, il vagabondo accompagna la fioraia sino alla porta di casa, non prima di averle comprato tutti i fiori che reca tre le braccia. Prima che la giovane salga i gradini della scala Charlot la chiama a sé, trattenendole la mano.

Potrò rivederla ancora?” – Domanda il vagabondo, sfiorando con le labbra i dorsi di lei.

Quando vuole, signore.” – Arrossisce la ragazza.

Come un moderno Romeo, Charlot corteggia la sua Giulietta standosene ai piedi della minuscola scalinata, mentre la fanciulla, non di certo una Capuleti ma una povera venditrice di petali profumati, ascolta il suo parlato, versi d’amore improvvisati e, proprio per questo, ancor più veri. La giovane fioraia non può vedere Charlot, può soltanto ascoltarlo. Ella si innamora delle sue parole laconiche, delle frasi che egli le sussurra all’orecchio, mentre se ne resta giù, al primo gradino della rampa. (Potete leggere di più su Romeo e Giulietta cliccando qui.)

Charlot, un po’ come Cyrano di Bergerac, non può contare sulla prestanza del suo fisico per conquistare l’amore della sua amata, può contare a malapena sulla forza delle sue brevi parole, sulla profondità dei suoi gesti e sul valore delle sue azioni. (Il Cyrano vi attende qui.)

Di giorno in giorno, Charlot si reca dalla sua amata. Ella è solita toccargli il braccio quando gli parla. Non potendo vedere, la fanciulla usa il senso del tatto per stabilire un punto d’incontro con il suo amato, per riconoscerlo, per sentirlo vicino. La giovane continua ingenuamente a credere che Charlot sia un nobiluomo, ma non è questo che la attrae. Ella, come confiderà alla nonna, sente che Charlot abbia in sé molto di più del banale denaro: è ciò che è, sono i suoi comportamenti a renderlo tanto speciale. Il vagabondo serba, infatti, un cuore d’oro ed è deciso a fare quanto è in suo potere per curare la cecità della fioraia e sostenerla nella sua vita di stenti.

Dopo una serie di bizzarre peripezie, l’uomo con la bombetta in testa entra in possesso di una grossa somma di denaro che offre alla sua compagna. Grazie a quel sostanzioso bottino, la fanciulla potrà pagare una costosa operazione agli occhi e saldare i debiti dell’affitto. Prima d’andar via, Charlot le promette che un giorno tornerà. Di lì a poco, il vagabondo verrà catturato dalle forze dell’ordine e sbattuto in prigione per un banalissimo equivoco. La circostanza della statua su cui si era addormentato all’inizio del film stava a presagire il destino a cui sarebbe andato incontro il vagabondo: un destino bieco, crudele, ingiusto.

Diversi mesi dopo, Charlot esce di galera e cammina tutto solo per le strade. Un gruppetto di ragazzini maleducati lo infastidisce, schernendolo. Malconcio, Charlot si volta e osserva la vetrina di un negozio. Fra i petali dei fiori, egli scorge un viso: quello della sua amata. Ne resta interdetto. La donna lo osserva meravigliata e attonita. Non lo riconosce, non può riconoscerlo. Charlot le sorride e poi, con sommo stupore, si rende conto che la donna ha acquistato la facoltà di vedere. Charlot è commosso, ma cerca di non mostrarlo. L’uomo con la bombetta fa per andarsene ma la dama, colpita da quell’indugiare di Charlot, esce dal negozio e lo raggiunge, offrendogli un fiore. Si erano conosciuti esattamente così. Un fiore li aveva legati nel buio e adesso un fiore li avvicinava nuovamente nel candido chiarore di uno sguardo ricambiato. Charlot non vuole fermarsi, dunque la giovane gli sfiora il braccio. La stoffa dell’abito del vagabondo viene immediatamente riconosciuta dalla fioraia.

“Sei tu!” – Sussurra.

Charlot annuisce, portandosi la mano alla bocca.

“Puoi vedere, adesso?” – Chiede.

“Sì, posso vederti ora.” – Risponde, quasi in lacrime.

Charlot non sa cosa dire. Non era mai stato bravo con le parole e in quel preciso momento, sopraffatto dalle emozioni, non riusciva a far effluire neppure un fremito sommesso, un alito di voce. Scelse di sorridere. Una singola nota, un verbo esternato dalla bocca sarebbe risultato superfluo. Nessuna frase avrebbe potuto esprimere la gioia di quel nuovo incontro. Charlot tacque. La donna lo guardò, come non era riuscita mai a fare. Contemplò le gote sporche, il baffetto a spazzola, gli occhi profondi. Lì si attardò, come una lettrice che indugia su una frase di un libro tanto bella da rapirla. Cosa fece la ragazza in quell’attimo, in quello sguardo prolungato, tanto intenso da sembrare eterno? Si mise a sfogliare le pagine celate al di là di un velo fatto di bianca epidermide?

No, la fioraia non poteva leggere nella mente di Charlot. Se avesse potuto, sarebbe stata travolta da un amore pronto a sfociare come un fiume in piena, che abbatte ogni argine. Ma non fu necessario. La fioraia, con la sua cecità, era già riuscita a vedere oltre la maschera di Charlot, dietro la sua flebile voce e i suoi gesti buffi e impacciati, arrivando fino al suo cuore e innamorandosene. Charlot aveva fatto lo stesso. Guardandola con i suoi occhi vispi e luminosi, si era innamorato di ciò che ella custodiva nel buio delle sue pupille gravi e spente, che egli avrebbe desiderato accendere sin dall’inizio.

…Quindi no, Lois, nessuno può leggere nel pensiero. Neppure Superman. Si può solamente raggiungere il cuore con la “vista”, sia essa quella di un superuomo, di un vagabondo, di una piccola fioraia cieca.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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