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Esiste un confine sottilissimo in grado di demarcare l’artista dal mestierante. Il primo interpreta il secondo esegue; i visionari imprimono unicità al proprio lavoro, le maestranze generalizzano, l’artista scruta, sviscera e pone al vaglio col proprio sguardo penetrante ogni sfaccettatura della realtà circostante e la sovverte con la volontà del proprio “occhio”, il mestierante osserva e riproduce esattamente così com’è ciò che sta guardando. Potrei definirlo come un filo immaginario che delimita l’estro di un genio e la meccanica volontà di un lavoratore. Nella sequenza iniziale de “L’infernale QuinlanOrson Welles dimostra ancora una volta come la falsa realtà di un cinema d’autore venga piegata alla volontà dell’artista. In quanto tale, egli non si limita ad utilizzare la camera come un occhio attento che fissa i personaggi che si muovono intorno al suo raggio d’azione con imparzialità, come un dio annoiato, che veglia silenzioso senza poter tuttavia intervenire sugli eventi dei comuni mortali. La camera per Welles diventa uno strumento con cui mutare la finzione e seguire le successive estensioni. Come fosse argilla, Welles modella la storia e ne realizza una scultura in terracotta dai tratti stilistici più unici che rari. Come d’altronde fanno solo i veri artisti.

“L’infernale Quinlan” si apre con un piano sequenza della durata di poco più di tre minuti in cui la camera segue di pari passo lo sviluppo degli eventi che coinvolgono diversi personaggi tra loro. L’atto terroristico di terzi che grava sul futuro di altri viene magistralmente portato in scena tramite la visione silenziosa e imparziale, e aiuta a farci comprendere come qualsiasi gesto possa ripercuotersi di conseguenza su dei poveri ignari innocenti in una serata apparentemente tranquilla. Non vi sono tagli, è un’unica sequenza, ripresa in uno spazio molto grande, in cui viene presentato l'antefatto: una carica di dinamite viene sistemata all’interno di un’autovettura nel mentre i personaggi principali del film si muovono liberamente in città. Il movimento dell’auto prosegue fino a incrociare Vargas e la moglie (Charlton Heston e Janet Leigh) intenti a passeggiare in strada. L’oggetto inizialmente inquadrato (la dinamite) risulta essere solo un mezzo con cui Welles si serve per accendere la “miccia” di una storia che causerà lo scoppio, un deflagrazione di una potenza devastante. Il fuoco disfa la pietra che sotterrava alcune verità fraudolente e dall’esplosione, emergono le velleità fatte di fanfaluche di una città schiavizzata dalle forze del male. L’auto saltata in aria era di un facoltoso imprenditore, inizia così un’investigazione che coinvolgerà l’ispettore Vargas e il Capitano Quinlan (interpretato dallo stesso Welles) che porterà alla luce tragiche realtà sia sul fronte criminale sia su quello poliziesco.

Vargas e Quinlan sono due giganti della scena, rispettivamente appartenenti al bene e al male, immersi in uno scenario cittadino miserabile, corrotto, dominato dalla criminalità e dal malaffare. Vargas, un astuto poliziotto messicano, riuscirà a scoprire una fitta rete di bugie inerenti le metodologie investigative del sanguinoso Quinlan, uomo rozzo, buzzurro, di scarsa salute e affetto da obesità. Le differenze fisiche e caratteriali che intercorrono tra Quinlan e Vargas sono più che evidenti. Il primo appare cinico, trasandato, dalla moralità dubbia e compromessa. Il secondo, invece, è un uomo elegante, altero, dalla fisicità imponente, cosciente che il ruolo del poliziotto è quello di far rispettare la legge, senza mai sostituirsi ad essa. Quinlan è una personalità complessa, un uomo consumato da una tragedia che pur di seguire il proprio intuito spesso si avvale di prove riciclate, montate ad arte per incastrare il sospettato, senza avere alcuna prova concreta e necessaria per vagliare i propri dubbi investigativi. Vargas smonterà questo castello di menzogne in nome dell’indissolubile forza della giustizia. Ma l’opera di Welles, assai più complessa e pertanto impossibile da compendiare in un semplice riassunto narrativo, esercita una duplice analisi. Da un lato il tutore della legge, personificato in Quinlan, viene trasformato in un malfattore senza scrupoli, dall’altro il protagonista, sempre Quinlan, inteso come un uomo e non più un poliziotto, viene analizzato sotto un’altra veste, nella sua lenta e triste metamorfosi da incorruttibile detective ad assassino fedifrago. A questo punto emerge la forza coraggiosa dell’investigatore Vargas, il ricordo personificato di una legge giusta e nata per garantire l’ordine e proteggere, fin dove è possibile, tanto il reo quanto l’innocente.

“L’infernale Quinlan è un noir del 1958, tra le opere più fascinose e evocative del cinema di Orson Welles. Il lungometraggio, girato completamente in bianco e nero, vanta un cast di enorme spessore: Charlton Heston, Janet Leigh, Marlene Dietrich e lo stesso Welles recitarono ruoli influenti nella pellicola. Il film inscenò con pregevolezza molti dei classici espedienti che resero il noir non solo un genere ma l’espressione in chiaroscuro di un’arte visiva.

A cominciare dalla tipica partitura drammatica che in un crescendo di tensione diventa armonia instabile e nervosa, in un montaggio caotico e discontinuo nel perpetrare nello spettatore un senso di confusione e sgomento. Il gioco di luci e ombre sui corpi schiariti e le pareti oppresse dal nero, il fumo del mozzicone di sigaro stretto tra la bocca, come venisse “masticato” dal corpulento Capitano, che sale verso la parte alta dell’inquadratura, fino a scomparire sono altre caratteristiche evidenti di un genere studiato per esaltare ogni minuzia di un cinema investigativo in bianco e nero. Welles scelse di riprendere molte scene indirizzando la camera dal basso verso l’alto, metodo atto a rendere le presenze del Capitano, già di per sé opprimenti, ancor più ingombranti e invasive.

La recitazione non si affida soltanto al fattore vocale e gestuale, ma le fisicità stesse degli attori sono le particolarità esplicative e espressive di un’opera con pochi eguali. Gli attori vengono così immortalati spesso in pose statuarie, nell’atto di compiere un’azione, eppure in quei pochi secondi, sembra siano come catturati in una posa sospesa nel tempo. Nella celebre sequenza in cui Vargas ritrova il corpo moribondo della moglie, disteso su di un letto disfatto, la rigidità della presa di Heston, il bianco e nero che si contrappone all’ombra vera e propria del letto, ma soprattutto la posa di Janet Leigh, completamente abbandonata, con il volto esausto mosso verso l’alto e il braccio teso verso il vuoto, sono tutti aspetti di alto impatto visivo. Due posture di stampo classico, due personalità catturate in una teatrale immobilità, come fosse un quadro tratteggiato a china, dove si intrecciano speranza e paura.

“L’infernale Quinlan” è un’opera in cui l’opacità della luce possiede una valenza ipnotica tanto marcata da render tangibile la differenza tra bene e male, tra chiarore e oscurità.

Forze oppositrici e ben distanti tra loro: un po’ come gli artisti e i mestieranti.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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“Planet of the apes” preferisco definirlo come “un film senza titolo”, perché è una di quelle poche opere a non averne affatto bisogno se non per un uso strettamente pubblicitario e identificativo. Anzi, credo che quel titolo sveli fin troppo. Sono quattro parole che preparano lo spettatore alla visione di un mondo distopico. Lo si priva così del dirompente impatto perpetrato dall’effetto sorpresa. Supponiamo però di indossare, per circa due ore, le vesti di scienziati sul punto di condurre un esperimento sociale su delle “cavie” che non hanno mai visto il film in questione, preparandole alla visione del lungometraggio senza svelare nulla di più.  Chiederemmo, gentilmente, di chiudere gli occhi per pochi secondi quando la pellicola mostrerà il titolo, e invitaremo tutti, successivamente, a riaprirli per riprendere la visione del film. Da questo preciso momento gli spettatori vivono il film in completa soggettività: diventano il protagonista. E ciò perché, come lui, non sapranno nulla di quanto sta per accadere, non saranno a conoscenza del pianeta cui il titolo fa riferimento né potranno immaginare quali creature incontrerà Taylor. Come per i personaggi così per gli spettatori sarà un viaggio dedito alla perpetua ricerca. Sono pochi i lungometraggi a poter garantire una simile possibilità, a poter vantare un’esperienza così rara di visione. Si potrebbero contare sulla punta delle dita, perché per permettere questo tipo di “comunicazione visiva” occorre che la pellicola in questione segua il ritmo del viaggio caratterizzato dall’incertezza, dalla mancanza di spiegazioni nel breve periodo e da quel bisogno di scoperta che porterà a chiedersi: “dove siamo? Quando siamo? Cos’è questo posto?”.

Resteremo in soggettività fin quando i confini della quarta parete lo permetteranno, naturalmente. Ma se è possibile vedere un film immedesimandosi nello stupore del protagonista, lo si può anche rinarrare in sua vece? Commentare una pellicola rinarrandola con le parole di chi ha vissuto una realtà capovolta? E’ possibile?! Se l’avventura inizia da qui, ci troviamo all’interno dell’astronave, a riannodare le fila che legano quelle ultime parole di commiato che riserveremo ai posteri prima della partenza. Breve premessa: le riflessioni del protagonista verranno introdotte e terminate dalle parentesi quadre, mentre i commenti personali alle scene verranno scritti liberamente.

Che l’esperimento abbia inizio, dunque…

[Questo completa il mio ultimo rapporto prima di toccare la meta. Ora la navigazione è completamente automatica. Ho sprofondato l’equipaggio in un sonno profondo nel quale li raggiungerò presto. Visto da qui tutto sembra così diverso. Il tempo e lo spazio qui perdono di significato. L’individualità è annientata. Io mi sento solo.]

Un incipit di tale valenza, pronunciato con fermezza autoritaria, farà da solido costrutto ad una intensa presentazione, una breve descrizione che fungerà da panoramica generale sull’angoscia della pochezza dell’essere umano posto al cospetto dell’universo sconfinato. Non ci resta che provare sgomento dinanzi all’oblio dell’infinito.

[Siamo nelle mani dei calcolatori, proseguirei, d’altronde non si può che comunicare con uno schermo lampeggiante, attraverso l’informalità di un comune microfono. L’aspetto sociale è solo un ricordo per me, destinato a poter essere risvegliato solamente al termine di un lungo viaggio, nel quale l’intero equipaggio potrà destarsi duemila anni dopo, nel futuro generazionale di un universo senza fine. I macchinari, gli avanzati strumenti tecnologici, il progresso nella costruzione e nell’artiglieria guerriera sembrano essere gli ultimi strascichi della società che ci siamo lasciati alle spalle. Il residuo di quell’ideologia sfrenata, devota all’accumulo di capitale a discapito della pace, era fin troppo preminente nella mente di quegli uomini ormai vecchi di 700 anni. Chissà se qualcosa sarà cambiato nella quotidianità delle generazioni future, quelle che ad oggi definirei “contemporanee”. Secondo la teoria del professor Hasslein, infatti, viaggiando alla velocità della luce la terra che ho ammirato un’ultima volta sei mesi fa, dall’oblò di questa astronave, dovrebbe essere invecchiata, per l’appunto, di settecento anni, noi, a mala pena, di qualche mese. L’uomo che ho conosciuto, quella peculiare razza di animale dotata di coscienza e intelligenza, di parola e espressione articolata, fa ancora la guerra verso il proprio fratello? Lascia morire di fame i figli del suo vicino? Forse è per questo che ho scelto di partire, per allontanarmi dal marciume di un’esistenza priva del benché minimo ideale. Il futuro, qualunque esso sia e dovunque esso sarà, dovrà recare con sé un significato. Dovremo trovarlo. Ma adesso è giunta l’ora. Abbiamo riposato per duemila anni e siamo nel futuro. La nostra astronave è stata catturata dall'orbita di un pianeta desolato e precipitata in un lago. Perdemmo la Stewart durante il nostro sonno criogenico, la sola donna del nostro equipaggio. Eravamo soli e sperduti, circondati dalla desolazione di un pianeta simile alla terra, ma senza dubbio più aspro e caldo di quello che ricordavo. Quello che rammento con più favore fu quel senso di incredulità, quella fiamma che ardeva il mio animo di studioso, quel totale senso di scoperta che passo dopo passo avviluppava il mio spirito.]

Se la storia di Taylor “fosse un film” e, come scrivevo in principio, gli spettatori non avessero mai letto il titolo dell’opera e si trovassero così, ad accompagnare le sue disavventure con lo sguardo, d’improvviso, proverebbero le sue stesse sensazioni. Si tratta infatti di un lungo cammino, intrapreso tra impervie difficoltà attraverso “lande rocciose”, precipizi pericolanti e scorci che cadono a strapiombo sul mare. “Dove siamo?” – “Quando siamo?” Se lo domanda lui stesso come potrebbero domandarselo gli spettatori insieme a lui. Un regista come Franklin James Schaffner, in questi frangenti, realizza un lavoro di primordine, riprendendo il percorso e mostrando a un pubblico indiscreto i segreti di un pianeta inesplorato dall’uomo da centinaia e centinaia di anni. Lo spettatore, come loro altri, diviene un esploratore in una terra sconosciuta, desideroso di dare risposta alle proprie domande. Il futuro che cercavamo insieme alla flotta cosa ci ha riservato? Vi sono persone come noi ad abitare quella terra? Se fossero primitivi senza alcuna conoscenza, noi scienziati dell’equipaggio potremmo essere al governo in pochi mesi - si ripete ironicamente Taylor tra sé e sé.

[Nel nostro percorso notiamo alcune figure inquietanti dominare le alture delle colline. Noi, dal basso, arrampicandoci sulle rocce, restiamo impietriti davanti a simili silhouette salvo poi accorgerci che si tratta solo di comuni spaventapasseri. Qualcuno li avrà realizzati appositamente per proteggere i raccolti dalla foga degli uccelli. La terra che stiamo calcando è popolata da forme di vita intelligenti, da uomini, naturalmente. Ne scorgiamo un numeroso gruppo in lontananza, appaiono svestiti e primitivi ai nostri occhi, come se il nostro viaggio ci avesse condotto nell’era precedente alla nostra piuttosto che nel futuro dell’uomo. Saremo stati risucchiati in un vortice spazio-temporale, precipitati su un pianeta che assomiglia alla terra ma che non può essere assolutamente la terra. Un grido straziante interruppe improvvisamente la quiete della foresta. Cacciatori a cavallo sbucarono dalla fitta vegetazione armati di fucili puntati su me e sulle altre persone: con mio grande stupore capì in breve tempo che le prede eravamo tutti noi. La cavalcatura era quella di animali antropomorfizzati, erano delle…scimmie. Le scimmie uccisero i membri dell’equipaggio. Li fucilarono barbaramente davanti ai miei occhi come della selvaggina inerme. Ero rimasto solo, quando fui catturato.]

Se uno spettatore poco attento, in una istintiva analisi, impugnasse una penna e cominciasse a scrivere un breve commento sulla folle disavventura di Taylor, scriverebbe che essa rappresenta non altro che la vendetta animale sulla violenza dell’uomo; il trionfo del parente più stretto che, con la barbarie creata dall’essere umano stesso, uccide il predatore divenuto preda. A tal proposito, ricordo una celebre battuta di Groucho Marx: “la caccia sarebbe uno sport più divertente se anche gli animali avessero il fucile.Io, se volessi lasciare un commento da critico cinematografico, scriverei qualcosa di diverso, un’interpretazione diametralmente opposta a quella dell’animale che si impone sull’uomo. Questa, infatti, non è la vittoria dell’animale sull’uomo inteso, gerarchicamente, come l’essere padrone del mondo, il quale peccando di onnipotenza ha calpestato i diritti dell’animale stesso. Questa non è altro che una punizione che la storia ha proclamato sull’uomo inteso come essere meschino verso il prossimo della sua stessa specie, colui che non ha fatto altro che calpestare il proprio fratello, colui che ha distrutto se stesso e il suo simile.

[Durante la cattura rimasi ferito alla gola, e non potei parlare per ore. Tuttavia riuscivo ad ascoltare così da restare basito dinanzi alle scimmie che si esprimevano come uomini. Dovevo essere impazzito e trovarmi in un manicomio apparente, in un goliardico e brutale scherzo del destino, il quale mi aveva trascinato in un mondo capovolto, dove l’uomo è l’animale e l’animale è al potere con la medesima classe e intelligenza del più saggio diplomatico e con la stessa dote fraudolenta del più falso dei mentitori. Mi accorgerò solo alla fine di quanto la società istituita dalle scimmie altro non era che un governo fondato sulla menzogna e sulla falsità di una pergamena religiosa che mistificava la realtà.]

Verrebbe da chiedersi se la presunta pergamena religiosa non rappresenti una critica, neanche troppo velata, alla credenza religiosa e al timore della collera divina che spesso mantiene sotto scacco le grandi popolazioni impedendo loro di destarsi fino a scoprire la verità e rovesciare così un’istituzione corrotta. La pergamena del film vieta infatti categoricamente di accedere alla zona proibita così da impedire agli studiosi di rinvenire dei resti antichi che potrebbero totalmente capovolgere le basi storiche su cui poggia la sacralità dello stato. Personalmente non lo credo, penso invece che sia l’implicita testimonianza che ogni governo nasce per tenere a bada, anche con la paura e con l’inganno di una fede strumentalizzata, il popolo ingenuo, pericoloso e barbarico se lasciato nell’anarchia ma ugualmente terribile e incontrollato se governato con troppa leggerezza.

[La mia sola compagnia era Nova, una bellissima donna catturata insieme a me. Non sapeva parlare, come tutti gli altri del resto, ma i suoi occhi spaventati riuscivano a comunicare molto più di quanto potessero fare le parole. Io riuscii a mostrare a Zira e Cornelius che non ero come tutti gli altri, e questo, nonostante i fervidi contrasti di Zaius, mi permise di venire aiutato da loro per poter essere liberato e per recarmi in quella che fu etichettata come la “zona proibita” luogo in cui l’accesso era vietato da quando ogni avo ha memoria. Mi recai con il gruppo nella grotta, in quel sito di scavo archeologico così da comprendere l'evoluzione del pianeta delle scimmie e poter dimostrare di non provenire dal loro stesso mondo. Cornelius mi mostrò di aver scoperto tecnologia umana industriale che riconobbi come una dentiera, degli occhiali, una protesi cardiaca e, con sorpresa delle scimmie, una bambola con fattezze umane, la quale riusciva anche a parlare. «La zona proibita un tempo era un paradiso... E la tua genia l'ha trasformata in un deserto, millenni fa!» Furono le parole di Zaius. Rabbrividì ma non poteva esserci alcun rapporto tra la mia gente e questo mondo rovesciato, frutto di uno scherzo dell’universo. Montato a cavallo con Nova, proseguii sulle rive del mare nonostante gli inquietanti avvertimenti di Zaius. Avanzai, superando gli scogli sulla sponda del mare, e persi la loro vista allontanandomi sempre più. Il rumore del mare si faceva più frastornante come se le onde sbattessero fortemente su una superficie dura e imponente e non si perdessero più gradualmente sulla riva. I suoni si fecero più intensi finché la vidi: erano i ruderi della statua della libertà, i resti percepibili di una delle più grandi e simboliche realizzazioni artistiche del passaggio dell’uomo sulla terra. Era lì immobile, affossata nella sabbia, cinta da ammassi di pietra erosa dalle maree. Il braccio ancora fieramente alzato in alto reggeva ciò che restava della fiaccola consumata dal tempo. Ero a casa, quel luogo era la terra. Avevo fatto ritorno. Fu il più grande colpo di scena che una narrazione vivibile poteva riservarmi.]

Se Dio, lassù nel cielo, reggesse le fila del destino e componesse i passi di una vita mortale avrebbe abbandonato, in un assordante silenzio, il nostro protagonista nel più drammatico dei destini. Noi tutti, mentre osserviamo la statua della libertà in simili condizioni insieme a Taylor, veniamo colti da un profondo senso di timore. Per alcuni quella fu solo un’immagine riadattata per adempiere a un finale scioccante, per altri, invece, fu una spaventosa profezia messa in scena come avvertimento destinato all’uomo del presente: “che cessi la follia dell’oppressione e il dramma della guerra altrimenti verrà il giorno in cui sarà troppo tardi” - queste parole riecheggiano tutt’oggi nei significati di chi comprese davvero quanto stava guardando. Per un protagonista come Taylor, capace di vivere quell’esperienza in “prima persona”, fu il colpo di grazia. Egli aveva lasciato quel pianeta con la speranza che l’uomo cedesse le armi per lasciare un futuro pacifico ai suoi simili del domani. Il futuro che cercava Taylor all’inizio del suo viaggio un significato lo recò stretto a sé, quello che l’uomo ha finito per distruggere quanto aveva, per sconvolgere la terra con le guerre atomiche. Taylor era rimasto solo, l’ultimo sopravvissuto a poter ricordare il paradiso che fu la terra. Vecchio di duemila anni, era ormai l’ultimo a vederla ancora attraverso gli occhi della Libertà, prima che fosse distrutta. Il governo che abbiamo conosciuto con lui durante lo scorrere della pellicola nascondeva la verità, ciò che era accaduto millenni prima, ma, sebbene regnasse nella bugia, quello stesso governo capì quanto l’uomo aveva peccato nella sua esistenza e fece il necessario per impedire che si ripetesse. I primati, eredi della gloria dell’uomo, raccolsero i resti della vecchia civiltà e si ersero sulle ceneri della statua, quel simbolo di pace ridotto oramai ad un cumulo di resti, posti lì come monito del passaggio distruttivo dell’umanità sulla terra. Il resto della popolazione non poteva conoscere la verità e venne nascosto il tutto per evitare che le scimmie, metafora della rinascita di una razza vicina ma al contempo lontana dalla precedente, commettessero gli stessi errori della specie passata, la quale, con l’ingegno e l’avanzamento tecnologico messo a servizio dell’odio, finì per autodistruggersi. Non è un caso, infatti, che la società futuristica sia rappresentata in un’apparente arretratezza, come se il progresso tecnologico fosse stato bloccato per impedire che la bramosia della scoperta porti a ripetere le scellerate gesta dell’umanità autoestinta. Il prezzo della realtà si conforma con quello della sicurezza.

[Io, George Taylor, potei soltanto dare l’estremo congedo al passato per poter affrontare le difficoltà che ancora mi attendevano, ora che accasciato, davo l’addio a ciò che avevamo. Rimasi al suolo, schiacciato dal peso della responsabilità, quello di essere il solo nell’universo a poterla ancora vedere. L’avete distrutta, maledetti! Per l’eternità! Tutti!]

Noi, gli uomini del presente, non possiamo che restare ancora qualche momento seduti comodamente sulle nostre poltrone, sentendoci visceralmente vicini alla solitudine dell’eroe sconfitto dal fato. Il nostro viaggio è infatti terminato davanti all’urlo funesto del protagonista che abbiamo seguito così assiduamente e con lui, di colpo, restiamo smarriti, questa volta non più davanti alla grandezza dell’universo, ma dinanzi all’atrocità della fine di un’era.
“Planet of the apes” è la discesa crepuscolare nella voragine della solitudine. Al calar del sole, che si spegne all’orizzonte, al di là dell'oceano, restiamo soli con Taylor e Nova, ad ascoltare le onde del mare che inesorabili si infrangono sui resti della statua: la natura e la terra stessa sono andate avanti senza di noi, senza i vecchi signori del mondo. Non sembriamo più poi così importanti. Non è rimasto nulla del nostro passaggio se non dei reperti archeologici sapientemente occultati. Siamo stati superati dall’evoluzione e dalla rivoluzione. Il viaggio fantascientifico dell’astronave cessa nella solitaria resa sulle spiagge della terra in questo capolavoro senza tempo del cinema. Le parole dell’ultimo rimasto risuonano ancora come explicit di un urlo disperato che ha abbattuto davvero i limiti del confine scenico divenendo parte integrante di una cultura cinematografica che fa ancora eco a distanza di quasi cinquant’anni. Lui, intrappolato nel futuro e noi, prigionieri del presente, caricati da una responsabilità, se vogliamo, ancor maggiore: impedire che tutto ciò accada.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Sul capolavoro di William Wyler, nel corso degli anni, sono state scritte tantissime pagine, tutte tese ad abbracciare i molteplici aspetti sollevati dalla storica pellicola ispirata al romanzo di Lew Wallace. Si lessero solamente pareri unanimi, soprattutto alla luce delle reazioni entusiastiche, dopo la “Premiere”, tenutasi nella prestigiosa cornice di Broadway, fino a quando, durante la serata degli Academy Award, l’opera impreziosita da un superlativo Charlton Heston come protagonista, stabiliva il record storico di vittorie, eguagliato, ma mai superato, solo trentotto anni dopo. Con un tale numero di premi, il film non poteva che essere considerato un Kolossal, portatore di una magnificenza ineguagliabile nel tempo. Le varie tematiche sollevate dall’imponente lungometraggio furono abilmente analizzate dai critici più illustri; le penne più rappresentative del New York Times, del United Press International, del Los Angeles Times tessero gran parte degli elogi al film, che scrutava all’interno dell’animo dei protagonisti. Nello stesso tempo, da più parti, veniva  evidenziato come l’opera di Wyler coniugasse splendidamente l’avventura Hollywoodiana al dramma storico, la complessa vicenda politica dell’Impero Romano con l’aspetto più intimo della fede religiosa.

Durante l’intero svolgimento della storia l’alone mistico della presenza del Salvatore permea in ogni dove. Il sottotitolo del film reca proprio la scritta “Un racconto del Cristo”. Questo perché la storia del principe giudeo fatto schiavo e condannato alle galee, prima di trovare la sua personale vendetta nella gloriosa corsa delle quadrighe, si svolge negli anni più intensi della vita di Gesù. L’aspetto più interessante, e per certi versi univoco tra Wyler e l’autore, riguarda proprio il modo in cui Cristo viene rappresentato. Nel film Gesù appare sostanzialmente in tre sequenze, senza mai però mostrare il volto, quasi a volere rimarcare la sua natura divina. Nel titolo, molto personale, che ho dato a questa recensione, ho scritto “Una visione del Cristo”, proprio per porre maggiore rilevanza al “ritratto” del Dio fatto uomo. Non abbiamo una visione totale del Cristo in quest’opera, non c’è dato vederlo. Ma così il cineasta, paradossalmente, ci offre una visione ben più profonda dell’immagine del Divino. Non serve mirarlo in volto, non è necessario che il nostro sguardo incontri il suo se riusciamo a vederlo nel nostro io. Sia che ci si affidi o no a un credo religioso, l’idea artistica perpetrata sullo schermo da Wyler stesso è affascinante per la natura mistica, profonda e inesauribile che reca intorno a sé la figura del Cristo.

Nelle canoniche recensioni dedicate al film spesso ci si concentra sulla lunga disamina dell’animo di Ben-Hur, consumato dall’odio, sporcato dal desiderio di vendetta, corrotto da una rabbia che mai si potrà placare, se non altro fino a quando non si porrà fine all’obbrobrio generato dalla tirannia di un impero. Ma molte delle recensioni trattano brevemente l’interpretazione del divino (dove io cerco di porre maggiore attenzione) dimenticando che è solo la presenza di chi accompagna l’intera narrazione a poter far cadere “la spada di mano” a un uomo che non riesce a ritrovare la pace interiore dopo anni di torture e di sofferenze.

Una delle scene più intense dell’opera di Wyler vede Ben-Hur crollare per gli stenti: un corpo provato dalla sete e spezzato dal tradimento. E’ proprio in quell’istante, quando ogni speranza sembra svanire, che il Divino si pone al di sopra dell’uomo, e accorre a salvarlo. Nell’esatto termine della proliferazione della richiesta “Aiutami!” la mano di Ben-Hur viene sfiorata, richiamando velatamente l’arte del “Giudizio universale”, dove Dio sfiora la mano dell’uomo. In quel preciso istante, e cioè quando Ben-Hur, ormai privo di vigore, si lascia cadere si avvicina a lui il figlio di Dio. La scena mostra soltanto il volto di Heston che fissa quello  del Cristo; le mani di Gesù accarezzano l’uomo e gli porgono da bere. Noi non vediamo il volto del Salvatore, possiamo solo immaginarlo, affidandoci all’espressione dell’interprete principale: percepiamo il Cristo attraverso lo sguardo di Ben-Hur. Agli occhi del giudeo, Gesù non è altro che un uomo qualunque, eppure dopo averlo osservato, sorridendogli, non può che cambiare immediatamente espressione, quasi a percepire l’aura divina che il Salvatore sembra recare in sé. Persino il centurione, che aveva severamente ordinato di non dare da bere a Ben-Hur, avvicinandosi al Cristo, si ferma di colpo, sopraffatto dall’imponenza visiva che Egli emana. Anche in questo caso la camera si sofferma alle spalle di Gesù, e noi percepiamo lo sgomento e il timore solo con lo sguardo del romano. Cristo mosso a compassione si appresta a soccorrere l’uomo, qui mostrato come il protagonista dell’opera, ma in una visione ben più ampia e attenta; tutto ciò in realtà rappresenta un dio che solleva da terra “un uomo qualunque” ormai sopraffatto. Lo stesso uomo che rimesso in piedi otterrà sul finire delle vicende la propria vittoria e la propria salvezza. Messaggio singolo e adatto solo allo scenario fittizio o invito speranzoso rivolto a tutta l’Umanità?

Passano circa cinque anni da quel fatidico incontro, ma il protagonista è ancora lì a rimarcare quell’avvenimento, ricordando di come un falegname gli abbia offerto dell’acqua, rinvigorendo non solo il suo corpo stanco ma anche lo spirito, e infondendo in lui la forza di proseguire e affrontare con fiducia ogni colpo di ogni remo a cui Messala lo avevano incatenato. Ben-Hur ritrova Gesù nel momento finale della sua vita, quando trascina sulla sua schiena la pesante croce nel tragitto verso il Golgota. Durante la scena della condanna, la camera offre un’ampia visione della folla, e Cristo, il cui volto, in questo frangente potrebbe essere ben visibile, viene ancora offuscato da un alone che copre i suoi lineamenti. Prostrato a terra assistiamo al rovesciamento della medaglia: sarà questa volta Ben-Hur a tentare di sollevare il corpo di Gesù offrendogli dell’acqua, ma non andrà nel medesimo modo; il giudeo viene, infatti, scacciato e non può che limitarsi a osservare da lontano la sofferenza di quell’uomo. Il volto di Heston mostra il dolore e la sofferenza, la fine vicina che porta al principio. Inchiodato alla croce ed eretto sul monte, il Cristo dona l’ultima visione del suo corpo terreno al popolo, e anche in questa occasione sarà il volto di Ben-Hur a tentare di comunicare il tutto allo spettatore.

L’ombra cala sul viso dell’eroe al momento della morte di Gesù, ma poco dopo una musica echeggia d’improvviso, ed Heston, avvicinandosi alla camera, viene illuminato da un’intensa luce inattesa. La fine è il principio, la morte genera la vita, l’ombra precedente lascia il posto alla luce imminente. E’ una splendida messa in scena artistica del timore misto alla speranza.

Ben-Hur trova in quell’istante la fine della propria guerra, la conclusione delle proprie sofferenze, riabbraccia la sua amata e la propria famiglia, anch’essa salvata da una pioggia liberatoria. L’opera di Wyler nella sua indagine del Divino tende a unire sotto la propria magnificenza cinematografica, sia il credente che il non credente. Dona un sentimento di speranza, affascinando anche chi non si affida all’idea del Potente, perché la ricerca della “risposta” riguarda l’animo di ogni uomo che anela alla sua scoperta.

La sequenza finale, con le tre croci vuote e il pastore che si incammina verso la parte destra della scena, induce a pensare che la vita è sacra e inalienabile, proprio perché alla base c’è il Massimo dei Sacrifici e la sua natura non può essere diversa dalla sua stessa origine.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Nella storia del cinema statunitense sono stati immortalati su pellicola innumerevoli attori, qualcuno di loro è passato del tutto inosservato, altri hanno raggiunto una buona fama, qualcun altro invece ha conquistato l’indelebile marchio del “Mito”, andando oltre la pur semplice etichetta dell’interprete. Sono quegli artisti che diventano icone, emblemi di un pubblico attento e stendardi di generazioni desiderose di emozionanti avventure. Charlton Heston era uno di questi: un’icona, un eroe. Non amava molto questa definizione ma, suo malgrado, gli calzava a pennello e dava ampia corrispondenza alla verità. Charlton Heston sul grande schermo era proprio l’eroe. L’attore che, probabilmente più di ogni altro, valorizzò la figura dell’uomo virile, instancabile, incorruttibile e coraggioso.

Cominciò a teatro, anzi, ancor prima, da ragazzino, iniziò a recitare da solo, tra i boschi, dove si dilettava nell’esposizione vocale dei monologhi di Shakespeare, sua profonda passione. Approderà su palcoscenico dopo la seconda guerra mondiale, nel 1948, a Broadway. Qui attira su di sé i primi, ampi consensi, divenendo il protagonista di imponenti adattamenti come il “Macbeth”, “Un uomo per tutte le stagioni” e in “Antonio e Cleopatra” e nel “Giulio Cesare” interpreta Marco Antonio, un ruolo che non abbandonerà mai. L’esordio al cinema arriva nel 1950, e nel 1952 conosce Cecil De Mille ne “Il più grande spettacolo del mondo”. Proprio De Mille lo sceglie per il ruolo di Mosè nel Kolossal “I dieci comandamenti”.

Volgendo le braccia verso il Mar Rosso, Charlton Heston diviene un’icona mondiale, fautore di un gesto così imponente da abbattere la “quarta parete” ed entrare prepotentemente a far parte della cultura cinematografica contemporanea. Le porte di Hollywood sono ormai spalancate. Heston diviene il Mosè per antonomasia, la personificazione della statua del Michelangelo in movimento. Il fisico statuario e la preziosità dei suoi gesti gli donano una presenza scenica sontuosa, regale, empatica verso gli spettatori che rimangono catturati dalla forza visiva delle sue interpretazioni. Il suo volto è una maschera in continuo movimento, capace d’assurgere alle più recondite emozioni, ad arte generate per farle giungere a destinazione.

Quell’aspetto regale e traboccante si rivela però difficile da adattare per Orson Welles, che lo deve dirigere nel ruolo di un detective messicano nel capolavoro “L’infernale Quinlan”; ma non importa, la capacità interpretativa di Charlton può soverchiare persino quei lineamenti così particolari tanto da rendere grandiosa la parte dell’investigatore Vargas in quel noir intramontabile, realizzato a soli due anni dal monumentale lavoro di De Mille.

L’anno successivo non si fa scappare l’occasione di approfittare del duplice rifiuto di Paul Newman e Marlon Brando a William Wyler. Viene, infatti, contattato e accetta immediatamente il ruolo del principe giudeo fatto schiavo nell’ultima, disperata produzione della Metro Goldwyn Meyer: “Ben-Hur”. Il successo del capolavoro, altro lungometraggio biblico-storico per Heston, sarà planetario: 11 premi Oscar vinti da una sola pellicola. E’ record assoluto. Ad Heston, per onorare una performance straordinaria, viene conferito l’oscar al miglior attore protagonista. E’ la corona che l’Academy pone sul capo di uno dei più grandi interpreti di sempre, il prestigioso riconoscimento a un’icona che ha raggiunto l’immortalità artistica. Ma Heston non vuole abbandonare la “storia”, vuole proseguire a scriverla e viverla, divenendo il vessillo di un genere dedito al passato: lo vediamo indossare letteralmente i panni di Michelangelo durante la realizzazione della Cappella Sistina per la regia di Carol Reed, va a sedare la rivolta dei Boxer nel 1900 accanto a David Niven, conquista l’amore di Sophia Loren in epoca medievale, tiene testa a Laurence Olivier verso la fine dell’Ottocento, spalleggia Richard Harris durante la guerra di secessione americana per il regista della violenza, Sam Peckinpah, e rindossa la tunica di Marco Antonio in “23 pugnali per Cesare”, prima produzione in Technicolor di un’opera di Shakespeare.

Tuttavia la storia passata sembra, alle volte, stargli un po’ stretta, vuole rivolgere la propria attenzione al futuro. E infatti nel 1968 è il protagonista di un cult eccezionale della fantascienza: “Il pianeta delle scimmie”. Memorabile l’explicit finale, dove Heston si lascerà andare a un grido disperato, maledicendo la razza umana, rea di aver distrutto la propria terra con la barbarie e la scelleratezza della guerra atomica. Scena che, salvo i dovuti accorgimenti, si ripeterà ancora sul finale de “2022, i sopravvissuti”, altro apprezzato film di fantascienza che ha Heston come protagonista, il quale, l’anno precedente, era un alienato eremita, essendo l’ultimo sopravvissuto, nel film culto del 1975 “Occhi bianchi sul pianeta terra”. Indimenticabile, questa volta, la sequenza d’apertura dell’opera, dove il suo sfrecciare a bordo di un’auto d’epoca, avviene in una Los Angeles fantasma. Una serie di inquadrature rimaste nella storia, perché ad Heston non serviva spesso proferire parole, a volte, bastava semplicemente muoversi dinanzi alla camera per abbattere le barriere del tempo e dei ricordi. Queste immagini resteranno, dureranno, saranno ricordate. Per Sempre.

Mantiene il sangue freddo nei drammatici “Terremoto” e “Airport 75”, non riuscendo però a brillare nelle successive tre produzioni dove debutta dietro la macchina da presa, coadiuvato dall’adorato figlio. A partire dalla metà degli anni Settanta, Heston reciterà in ruoli di secondo piano, tornando a teatro e dedicandosi alla televisione e alla narrazione in varie pellicole. Non mancheranno però apparizioni incisive come quella del Cardinale Richelieu ne “I tre moschettieri” o quella dell’attore “Re” nell’Amleto. Sul piccolo schermo ottiene vasti apprezzamenti dalla critica come presentatore della serie “Le storie della Bibbia”, tornando al genere che lo ha consacrato. Antepone, a volte, alla sua verve interpretativa la passione per la politica che sfocia nella lotta per la parità dei diritti, come quando cammina fianco a fianco a Martin Luther King. Nel 1978 riceve un secondo premio Oscar, questa volta però per il suo impegno umanitario.

Negli anni Ottanta diventa presidente del sindacato degli attori e poi dell'American Film Institute, quasi a rimarcare quel ruolo innato di “guida” per tutti gli altri, dedizione che aveva sempre portato con sé, sin dai primi ruoli. Perché Heston era un leader, a volte silenzioso a volte brusco. Negli ultimi anni tuttavia arriveranno non poche polemiche, perché diventerà, dal '98, il presidente della National Rifle Association, lobby americana delle armi, sostenitrice del diritto dei cittadini a difendersi. Nel 2002 proferisce un annuncio shock, dichiara al mondo intero di soffrire d’Alzheimer. Per una sola volta nella sua vita, abbandona i rassicuranti panni del duro, e si mostra fragile come chiunque altro, commuovendo tutti con la famosa frase: “Se in futuro vi racconterò la stessa barzelletta due volte, vi prego, ridete lo stesso. Vi saluto adesso perché non so se sarò in grado di farlo dopo”. Gli resterà sempre accanto la moglie, Lydia Clarke, che aveva sposato nel 1944 e con cui aveva vissuto per tutta la vita. La leggenda tramonterà il 5 aprile del 2008, ma la sua stella resta ancora lì, a brillare nel cielo; possiamo vederlo lassù, mentre corre contro Messala, mentre apre le acque per liberare il popolo ebreo, mentre s’inginocchia dinanzi alla statua della libertà, ancora una volta. La fiamma delle sue avventure continua a divampare, alimentata da tutti coloro che seguitano a mirare le sue gesta su schermo, immedesimandosi, perché con Charlton Heston diventavamo tutti degli eroi. Magari solamente con l’immaginazione, e giusto per la sola durata dell’opera. Di certo lo siamo stati anche noi!

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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