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Il profumo del mare effluiva dalla sua superficie increspata. La spuma bianca veniva percorsa dal navigare compassato di una barca a vela, sospinta da una leggera brezza. Sulla poppa, se ne stava comodo a reggere il timone un uomo dal viso fortemente espressivo. Davanti a sé, costui, improvvisatosi “marinaio” per l’occasione, osservava un’esile figura di donna, indagandola col suo sguardo schivo e riservato. Costei, piuttosto alta e minuta, aveva i capelli corti, due occhi grandi da cerbiatta e un dolce sorriso che, di rado, smetteva di elargire a chi le rivolgeva attenzione. I due, tra una parola e l’altra, si misero a discutere su Parigi. Un argomento inusuale quello relativo alla famosa città europea, cionondimeno estremamente ricco di significati per entrambi.

Sabrina, la ragazza, era già stata nella capitale francese e seguitava a sognarla ardentemente. Linus, l’uomo, confessò d’essersi soffermato a Parigi soltanto una volta e per pochi minuti, in attesa di prendere un aereo verso tutt’altra meta. D’un tratto, il disco scelto da Sabrina cominciò a far risuonare una melodia romantica che Linus disse di rammentare con dolore. Quel motivo, infatti, ricordava a Linus una donna che egli ammise di amare profondamente. Udendo tale sentita confessione, Sabrina dedusse che Linus non era affatto un comune imprenditore solitario, freddo, innamorato soltanto della sua bella scrivania di mogano, ma una persona ricca di sentimento. Sabrina, allora, gli fece una confidenza: disse che anch’ella fu tanto innamorata e che andò a Parigi per dimenticare. Secondo il detto della damigella, Parigi esiste in particolar modo per cambiare vita, per spalancare le finestre di una casa buia e fare entrare “La vie en rose”. Linus obiettò a quanto detto dalla giovane: “Parigi è per gli innamorati, e forse è per questo che io ci sono rimasto per così poco”.

Si conclude con questo scambio di battute la scena più autenticamente vera, pur considerando la sottile bugia proferita da Linus, di “Sabrina”, uno dei grandi capolavori della filmografia di Billy Wilder. Linus mentì in questa sequenza, e, allo stesso tempo, disse il vero. Lui non aveva amato alcuna donna, sino a quel momento. Volle inventare una piccola fanfaluca per attrarre su di sé i pensieri di Sabrina, la ragazza di cui Linus comincerà ad innamorarsi sempre di più. Usò una piccola bubbola per rendere la ragazza consapevole della sensibilità che man mano emergeva in lui.

Quando vidi questo spezzone e ascoltai tale parlato, ripensai a “Casablanca”. Linus, interpretato dal mitico Humphrey Bogart, ammise d’essere stato nella città parigina per un breve arco di tempo. Curioso, pensai. Un altro personaggio legato indissolubilmente alla figura di Bogart visse, proprio a Parigi, l’amore più intenso della sua esistenza.

Nel corso della sua carriera, Humphrey Bogart indossò molte maschere. Talune di esse erano tragiche, eschilee, sofoclee, euripidee, altre, invece, ironiche, sprezzanti, aristofanee. Bogart incarnò personaggi variegati eppur simili nel loro temperamento nobile: fu il buono, l’eroe, il romantico e, di rado, anche il cruento, il reo, il malvagio. Talvolta, le sue maschere assumevano i connotati di una faccia crucciata, malinconica, altre volte i lineamenti marcati di un rude e di un arcigno. La maschera che “Bogie” calzò alla perfezione, come se essa fosse stata modellata direttamente sul suo viso, fu quella di Rick Blaine in “Casablanca”. In questo film, Parigi rappresenta lo scrigno in cui è custodito il sentimento assoluto del protagonista.

Il prologo del lungometraggio sancisce sin da subito l’ambientazione della storia: “All'inizio della Seconda guerra mondiale, molti occhi nell'Europa oppressa si volsero pieni di speranza o di angoscia verso la libera America. Lisbona divenne il grande centro d'imbarco, ma non tutti erano in grado di raggiungere direttamente la capitale portoghese. Molto spesso ai profughi rimaneva la sola alternativa di un lungo, tortuoso giro da Parigi a Marsiglia. E attraverso il Mediterraneo, a Orano. Poi, in treno, o in auto o a piedi dalle coste dell'Africa, a Casablanca, nel Marocco francese. Là i più fortunati, col denaro, le relazioni o la buona sorte, ottenevano il visto di partenza e correvano a Lisbona, e da Lisbona all'America. Ma gli altri aspettano a Casablanca, aspettano, aspettano, aspettano...”

Casablanca costituiva, in quel tempo, un rifugio, la tappa di un arduo pellegrinaggio.  Rick era uno degli “altri”, uno dei “tanti” descritti astrattamente nella “prefazione” della pellicola. Rick attendeva, ma la sua era un’attesa senza esito. Non era un viaggiatore che cercava disperatamente di tornare a casa o di trovare un modo per raggiungere il continente americano, laggiù, oltre l’oceano, dove la guerra era ancora un’eco lontana. Rick viveva a Casablanca, e lì sarebbe rimasto. Tutti a Casablanca lo conoscevano. Egli era il proprietario di un locale alquanto in voga in città, il Rick's Café Américain. Del suo trascorso, Rick non concede alcun accenno. Egli appare cinico, disinteressato, le questioni politiche non gli turbano il cuore, i dissidi bellici tra le fazioni europee non disturbano le sue riflessioni. Rick è un solitario, un anacoreta costretto a restare confinato tra la folla. Nel suo locale, sera dopo sera, dozzine di persone giocano, scommettono, discutono e sorseggiano drink; lui, beh, se ne resta in disparte, osservando tutti come un falco vigile che non scende mai in picchiata. Mentre Rick fuma isolato, una donna gli si avvicina, domandandogli che fine avesse fatto la sera prima. Rick, volutamente, replica di non ricordarsene.

A quel punto, la fanciulla gli domanda: “Ci vedremo questa sera?” – E Rick borbotta: “Non faccio mai piani così in anticipo.”

Ci fu un tempo, però, in cui Rick era solito preparare piani a lungo termine. Spesso, queste sue volontà erano dettate dagli istinti, dall’impeto, dal desiderio ardente di concretizzare un sogno. Di sogni e ambizioni Rick non si sfamava più. Di colpo, una musica echeggiò nell’ampia sala. Il tempo scorreva inesorabile ma parve rallentarsi ad ogni nota emessa dal pianoforte. Rick raggiunse il musicista, il suo caro amico Sam, rimproverandolo aspramente. “Sam, non ti avevo detto di non suonarla più?”. Fu in quell’attimo che Rick tornò a rimirare un volto che mai aveva scordato. Ilsa era lì, nel suo locale, seduta attorno ad un tavolo, in compagnia d’un altro uomo. Fu lei a implorare Sam di suonare quell’armonia, di intonare quel testo. Rick restò basito, tra tutti i ritrovi del mondo Ilsa era giunta proprio nel suo. Casablanca era una terra di arrivi e di partenze, un luogo di incontri, di saluti, un centro urbano di arrivi e di sbarchi, una fermata fondamentale per raggiungere un’America idealizzata, una Terra Promessa immaginata in cui sarebbero dovuti scorrere latte e miele.  Proprio in quell’angolo del mondo, Rick rivide la persona più importante della sua vita.

Rick conobbe Ilsa nella capitale francese. Si innamorò istantaneamente di lei, dei suoi occhi puri, del suo volto delicato. Allora, il canto di Sam cadenzava i passi di un amore sbocciato in tempo di relativa pace, in Francia. Rick era pronto a prendere in moglie Ilsa. Organizzò la partenza in treno, avrebbe così raggiunto la meta finale di una vita appagata. Tutto svanì in una notte. La pace venne rotta, le truppe tedesche invasero la metropoli parigina, Ilsa andò via, si riconciliò col marito che aveva creduto morto. Rick restò solo. Il sole raggiante che illuminava la sua sagoma nei giorni antecedenti si dissolse dietro un nembo grigio. Venne la pioggia, Rick indossò un impermeabile e, alla stazione, scoprì d’essere stato abbandonato. Salì sul treno, lentamente, non curandosi della pioggia che cadeva violenta dal cielo, e andò via. Non raggiunse mai la sua meta ideale, si fermò a Casablanca. Sarebbe rimasto lì, in quel luogo da cui tutti scappano.

Casablanca” è l’evocazione di una reminiscenza mai sopita o dimenticata. Con le sue atmosfere nostalgiche, con le sue colorazioni in bianco e nero, l’opera filmica non fa che celebrare un ricordo remoto che torna ad essere rivissuto nel presente. Tale memoria viene scandita, ritmata, dal canto musicale “Mentre il tempo passa”. La vita di Rick e di Ilsa è una pellicola che scorre via, senza mai arrestarsi nella sua esecuzione, un percorso che oscilla tra l’attimo presente ed il vissuto passato. Il tempo avanza inarrestabile, non può essere fermato, carpito, accomodato. Eppure, durante l’esecuzione di una canzone, mentre il tempo vola via, si possono vivere attimi presenti che diverranno immortali. I ricordi sono finestre aperte sul passato, fili pendenti da annodare. La reminiscenza di un passato diviene contemporanea quando, ripensandola, si avvertono le medesime sensazioni, le stesse emozioni di allora. Quel riecheggiamento che ha genesi nell’avvenuto, torna nell’attuale conferendo ad esso l’egual sentimento. I ricordi sono come una bella canzone, basta solo riviverli, “riascoltarli”, per abbattere le barriere del tempo che fugge via, ed estraniarsi da esso.

Rick fa lo stesso: chiede a Sam di suonare per lui. Reggendo tra le mani un bicchiere, ascoltando quel canto, Rick rivive il suo passato. Egli non ha mai smesso di amare Ilsa, e lei, pur essendo legata al proprio consorte, continua ad essere combattuta dall’amore che nutre nei riguardi del protagonista. L’amore, come una canzone, può essere eterno, non estinguersi mai come una fiamma imperitura che continua ad ardere, rinvigorita anno dopo anno, intonazione dopo intonazione.

Quando Rick rivede Ilsa, il suo cuore sussulta più volte come colpi di cannone. Ilsa ha cambiato irrimediabilmente la sua vita, lo ha avvicinato alla vera felicità, e al contempo alla più inconsolabile delle tristezze: lo ha fatto sentire vivo. Dal suo addio, Rick è cambiato. Ha smesso di curarsi realmente di se stesso così come del prossimo. Eppure, sotto la sua scorza dura, algida, impenetrabile, Rick cela un cuore rotto ma pronto più che mai a tornare a funzionare.  Sarà proprio il ritorno di Ilsa a far affiorare la sua straordinaria umanità e la sua innata lealtà. Rick si prodigherà per aiutare gli indifesi, i bisognosi del suo locale, ideerà anche un escamotage per mettere in salvo la sua amata. L’amore reale e rivissuto, sebbene arrecò sofferenza, trova sempre il modo di far emergere la parte più bella di un vero innamorato. Lo smoking bianco che Rick indossa esterna la purezza e la bontà del suo animo. Rick rinuncerà al suo smoking soltanto alla fine, quando sceglierà di vestire l’impermeabile beige, il medesimo che aveva quando si separò da Ilsa.

All’aeroporto, Rick è in procinto di dirle addio per sempre. Il colore dell’impermeabile emana il grigiore di un cuore bianco incupitosi per la tristezza provata; un cuore ferito ma decisamente audace. Rick ha trovato il modo di far fuggire via Ilsa e suo marito, di metterli in salvo su di un aereo. Avrebbe potuto salirci lui stesso con lei, o far andar via da Casablanca soltanto lo sposo della sua innamorata. Ma Rick era conscio che le promesse fatte la sera precedente, i giuramenti, gli amori dichiarati, un giorno, nel cuore e nello spirito di Ilsa, si sarebbero dileguati, sostituiti da un rimorso, un rammarico. Rick agisce nobilmente, non si cura di ciò che converrebbe fare a lui, bensì di ciò che è giusto fare.

La nobiltà d’animo di Rick e di Bogart, personaggio e persona divenuti un tutt’uno, trova nell’adempimento della scelta finale di “Casablanca” la massima espressione. Rick rinuncia all’amore, alla vicinanza, all’affetto, alla donna. Vivrà in un presente pericoloso, a Casablanca, rischiando la vita, ma avrà ancora i suoi ricordi, gocce di pioggia che mai svaniranno nel vento come lacrime versate. Rick ed Ilsa si desiderano e si amano ma devono dirsi addio, impossibilitati a vivere il loro amore poiché schiacciati da obblighi e da doveri che li costringeranno a restare per sempre separati. Dinanzi all’amarezza della vita e della rinuncia, resta Parigi.

Rick possiederà sempre Parigi. Ilsa stessa avrà sempre Parigi. In “Sabrina”, il personaggio di Audrey Hepburn disse che a Parigi, la città degli innamorati, ci si deve “procurare” un po' di pioggia: una pioggia che non sia troppo forte però. La pioggia è molto importante, secondo Sabrina, poiché essa dà a Parigi un profumo speciale di castagni bagnati. Rick, in “Casablanca”, vide coi suoi occhi la pioggia parigina, la senti lambire violentemente il suo capo e il suo vestiario quando Ilsa lo lasciò solo e sconsolato. Ciononostante, a Parigi, egli custodirà sempre le sue memorie più liete e dolorose: le sue memorie umane. Il ricordo di un amore vero, provato soltanto per pochi giorni, allieta la ferita di un amore reciso sino a renderla dolcemente tollerabile, come una cicatrice a cui ci si è affezionati, che è divenuta parte di sé, nel volgere della maturazione.

E’ meglio aver amato e perso che non aver mai amato” – disse Alfred Tennyson, e Rick lo capì quella notte.

Lasciando andar via la sua adorata, egli incarnò gli animi poetici e sofferenti di tutti gli innamorati che mai riuscirono ad avere la loro diletta. Quando l’aereo decollò, Rick orientò lo sguardo su, verso la volta celeste notturna. Come Dante Alighieri, Rick vide Ilsa, la sua Beatrice, volare via verso un paradiso di pace e serenità. Lui rimase a terra, a rimirare le stelle. Sostò solitario, e, quasi certamente, riprese a rimembrare la sua innamorata, come il Leopardi rimembrava la “sua” Silvia.

Voto: 10/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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  • Donne e madri

Chiome lunghe o corte ammantano i loro volti, occhi dei più variegati colori adornano i loro lineamenti. Esse hanno voci tanto diverse, talvolta fioche, smorzate, talvolta acute e calde.

Cos’è una madre?

Nel linguaggio corrente, non vi è una singola risposta che possa ottemperare, con esaustiva finitezza, ad un tale quesito. Le madri possiedono varie incarnazioni, configurazioni difformi, aspetti disparati e caratteri eterogenei. Stando ad una affermazione semplicistica, si suole definire madre una creatura di genere femminile che, dopo una gestazione, partorisce un figlio. E’ questa l’esplicitazione più disadorna, chiara, comune, della figura materna. Eppure, attorno alla sola parola “madre” vi è custodita una qualità ed una quantità di significati vari e sempre più articolati. Con il termine madre si può intendere “l’origine” e con la sua valenza ideale si è soliti manifestare la concezione, la nascita, la plasmabilità di un’idea, di un fenomeno, di un atto d’amore. Al vocabolo “madre” è, dunque, accomunato il pensiero stesso della vita, della formazione, della crescita. Se lo vuole, ogni donna, sin da ragazza, avrà la possibilità di diventare madre. Attenti però, solo se lo vuole davvero! Tengo a sottolineare quest’ultima esclamazione, poiché diventare madre dev’essere un desiderio, una volontà intrinseca, non deve mai essere un obbligo ma una scelta, un volere, e quindi un desiderio.

Parafrasando ciò che disse frate Guglielmo ne “Il nome della rosa” - Dio non avrebbe introdotto un essere così particolareggiato, splendido, come la donna in questo mondo senza dotarla di numerose virtù. Lo credo fermamente anch’io. La donna sono solito definirla primavera, poiché più di ogni altra creatura in essa è preservato il segreto della vita, del divenire, dell’amore. Portare in grembo una creatura, percepirne il senso, sentirla crescere dentro di sé, nutrirla, vivere in due è un’esperienza che soltanto le donne possono provare. 

Tuttavia, diventare madri non è e non deve mai essere una coercizione. Per molti anni, la società, il costume, il credo popolare hanno fatto sì che donna e madre continuassero ad essere un nesso inscindibile. Niente di più sbagliato! Essere donne e diventare madri sono due categorie separate che possono essere, se lo si vuole davvero, congiunte in un sol spazio. Basti pensare all’epoca dei tanti sovrani e delle loro rispettive consorti, l’era in cui ad una regina spettava l’arduo compito di generare un erede maschio che potesse succedere al trono una volta che il regnante avesse abdicato. Il potere della donna di generare la vita veniva ghermito dall’uomo, fatto proprio, come un artificio da utilizzare per il proprio fine, e la figura della donna veniva ridotta a sola dispensatrice di eredi.

Un tempo, molte fanciulle potevano essere riconosciute come donne solo se diventavano mamme, in caso contrario, di donna, agli occhi di una società arretrata e sciocca, avrebbero avuto soltanto una parvenza. Esse sarebbero rimaste eternamente incomplete e, in cuor loro, schiacciate da questo dogma imposto dalla tradizione, dalla consuetudine, si sarebbero sentite realmente tali. In quegli anni, prender marito e rimanere incinta erano passaggi obbligati della maturazione, impellenze da adempiere più che sogni da realizzare. Le prime manifestazioni del movimento femminista nella prima e, immediata, seconda metà del Novecento assunsero grande rilievo per rivendicare l’indipendenza della donna. Il corpo di una donna è straordinario per la sua possibilità di poter mutare, di adattarsi, per accogliere una nuova vita. Ciononostante, non si può in alcun modo ridurre la femminilità, il valore corporale di una donna, a mero strumento di fecondazione. Una donna può essere madre se lo vuole davvero ma non necessariamente, in quanto la sua femminilità e la sua importanza non possono in alcun modo dipendere da questo fattore.

Diventare madre non deve mai essere un’intimazione, un vincolo, un dovere ma un’aspirazione intimamente sentita. Oggi le donne, mediante i loro sacrifici e le loro lotte continuano a ricercare un’autonomia, rivendicando il loro diritto ad essere madri e la loro libertà nel caso in cui non vogliano esserlo. 

Madre, naturalmente, non è soltanto colei che partorisce ma colei che sceglie volontariamente di esserlo e, quindi, di crescere un figlio. Pertanto, la definizione ordinaria, usuale, con cui ho iniziato questo mio scritto non può essere quella definitiva. A tal proposito, vi è una nitida differenza tra il termine “madre” e “mamma”. “Mamma” è un sostantivo che possiede una valenza più profonda, affettiva. Potrei, or dunque, dire che “madre” è una figura astratta e generica, un’entità fisica che dà alla luce un figlio senza, necessariamente, creare un legame con lui. Mamma, al contrario, è un’essenza definita, che accoglie tra le sue braccia un figlio che può aver dato lei stessa alla luce o, in alternativa, adottato ma come se lo avesse davvero portato in grembo sin dal suo concepimento.

  • Mamme, tra religione e mitologia

Interrogandosi sull’esistenza o meno del Paradiso e di una vita ultraterrena, il grande filosofo partenopeo Luciano De Crescenzo confessò, intimamente, che se davvero dovesse esserci un “dopo”, esso dovrebbe cominciare con l’apparizione di una figura a noi molto cara. Alle porte del Paradiso, fece intendere il De Crescenzo, ognuno di noi dovrebbe vedere l’anima di una persona che abbiamo amato perdutamente nella nostra vita. A tal proposito, Luciano disse teneramente: “Mi piacerebbe rivedere mia madre…”. Le mamme, infatti, sono spesso annoverate tra i più grandi amori dei propri figli.

Quando si ragiona sulla figura della mamma, non si può prescindere dal citare Maria di Nazareth. Maria è madre e mamma al contempo, è il simbolo per antonomasia della sfera materna. Stando al credo cattolico, Ella era una ragazza vergine che, una notte, ricevette la visita dell’Arcangelo Gabriele, il quale le annunciò che sarebbe presto rimasta incinta. Maria esitò per un istante, sapendo che mai nessun uomo l’aveva sfiorata. Maria comprende, in quell’attimo, che il bambino che in Lei potrebbe incarnarsi possiede un’essenza divina. Ella accetta la richiesta del messaggero di Dio, sceglie volutamente di accogliere questa vita, rimarcando con tale accettazione il miracolo della nascita. Maria è una donna che acconsente a custodire nel proprio grembo una vita inattesa. Ella non aveva deciso d’essere madre sino ad allora ma, molto probabilmente, lo aveva sempre desiderato. La parola dell’Arcangelo più che una richiesta può sembrare, ad una lettura superficiale del racconto biblico, un’imposizione. Invero, Maria è stata scelta da Dio come la sola meritevole di dare alla luce il Dio fatto uomo. Maria è posta davanti ad una valutazione difficilissima: se accettare o meno una gravidanza che cambierà per sempre il proprio destino. Maria agisce come donna e anche come madre, decide secondo il suo volere, come una fanciulla libera, e acconsente di diventare madre. Maria accoglie così una vita misteriosa, trascendentale, e lo fa con la consapevolezza di voler essere madre di un Figlio così speciale.

Maria è una mamma che può crescere il proprio figlio ma che non potrà mai proteggerlo. Ella sa che Gesù è destinato a morire, e non può far altro che accettare, questa volta senza possibilità di scelta, il triste destino purificatore a cui andrà incontro il proprio discendente. Tutti noi idealizziamo Gesù come un uomo divino, un mortale che tende all’immortalità, di rado ci soffermiamo a riflettere che quel Dio che ha camminato sul suolo terrestre, secondo il narrato religioso, agli occhi di una madre era un erede fragile, indifeso, sofferente. Maria osservava Gesù come una madre qualunque che mira, felice, il proprio figlio. Ella vedeva in Lui la grandezza, la meraviglia, ma queste sue qualità non sostituivano mai la naturalezza di un figlio a cui Lei non avrebbe mai potuto evitare il dolore che, da adulto, Egli patirà. Quanta forza, quanta resistenza vi era nel cuore di Maria, la mamma che più di tutte dovette sopportare un destino già scritto.

Maria divenne madre tramite un’immacolata concezione. Questo tema mistico fu ripreso da George Lucas nella sua opera cinematografica fondamentale: “Star Wars”. Anakin Skywalker, il protagonista dell’esalogia di Lucas, nacque mediante un’immacolata concezione. La madre di Anakin, Shmi, restò incinta senza aver avuto alcun rapporto carnale. Anakin fu concepito dalla Forza, l’essenza immutabile che circonda e pervade l’intero universo, avvolgendo ogni essere vivente e garantendo la vita. La forza, ideata da Lucas, è paragonabile alla sostanza intangibile del Divino e il ruolo di Shmi Skywalker a quello della Madonna. Shmi ha portato in grembo Anakin, lo ha fatto nascere, senza mai spiegarsi cosa fosse accaduto. Ella fu scelta, senza alcuna annunciazione. Nessuno si recò dinanzi a lei per porla davanti ad una opzione. Shmi divenne madre senza poter vagliare l’opportunità di esserlo. Eppure, ella fu felice, come se la Forza, inconsciamente, sapesse che ella avrebbe voluto diventare madre. Anakin, pertanto, possiede tratti in comune con la figura di Cristo: come Lui, egli è considerato una sorta di Messia, di prescelto, di cui un’antica profezia ha anticipato la venuta molti secoli prima. Differentemente da Gesù, Anakin cederà alle tentazioni di “Satana”, il Signore Oscuro dei Sith Darth Sidious.

Anakin prova per sua madre un amore fortissimo. Per tutta la sua giovinezza, ella fu la sola donna che Anakin ebbe vicino, il suo unico legame d’affetto. Quando dovrà lasciarla, prigioniera della sua schiavitù, Anakin soffrirà tremendamente e non smetterà mai di ricordarla. Il distacco dalla madre e il dolore patito per la sua lontananza cominceranno a far emergere in Anakin sentimenti oscuri di rabbia. Il fato tragico a cui andrà incontro il giovane Skywalker è condizionato proprio dall’addio. La mamma, nella storia, rappresenta la prima ferita incurabile che farà avvicinare il cavaliere Jedi sull’orlo del Lato Oscuro.

Anakin, dopo aver lasciato la madre, si innamora istantaneamente di Padmé. L’amore provato per la genitrice viene adesso superato dall’amore che il protagonista proverà per la ragazza. Un amore, quest’ultimo, che mai svanirà e lo accompagnerà per tutta la crescita. L’affetto per la mamma e l’amore per la moglie sono le due sintesi su cui si fonda il sentimento umano del futuro Darth Vader, un sentimento che alberga nelle sue reminiscenze, occultato sotto la maschera nera e buia. L’amore che Anakin provò un tempo mai lo abbandonerà del tutto e riemergerà in lui nel momento in cui si scoprirà essere padre. Anakin, personaggio estremamente complesso e articolato, nel suo animo tormentato provò amore e affettuosità soltanto per due donne: Shmi e Padmé, la moglie che diverrà madre a sua volta. In punto di morte, Padmé userà le forze residue per mettere al mondo i suoi gemelli e dar loro un nome. Li sfiorerà a malapena, li guarderà con amore, poi si spegnerà tristemente nutrendo, però, la ferma speranza che nel cuore di Anakin vi sia ancora del buono. Saranno proprio quei piccoli, messi al mondo da una madre che mai potrà crescerli sebbene avesse tanto voluto farlo, a redimere il padre e a far riemergere lo spirito di Anakin dalle tenebre. Padmé è una donna che, vinta da un esito infausto, non ha potuto essere mamma per i suoi figli. Cionondimeno, dando loro la gioia della nascita, riuscirà a salvare la vita di Anakin prima che l’ombra cali sul suo volto pallido ed esangue.

La parola “mamma” coincide con “bontà”, con “affetto”, con “amore” e con “educazione”. La mamma protegge ad ogni costo il proprio figlio. La Mitologia Greca offre un’immagine evocativa di una mamma che si adopera per garantire l’incolumità del proprio pargoletto sin da quando questi ha aperto per la prima volta i suoi occhi al mondo. In un passo fondamentale di un racconto mitologico, Teti regge tra le sue braccia un batuffolo bianco appena nato. La dama generò quel bimbo dopo aver giaciuto con un mortale, conosciuto col nome di Peleo. La Nereide non poteva tollerare la natura semidivina del piccino, poiché egli, in virtù della sua mortalità, sarebbe stato vittima di dolore e, un giorno, di morte. Teti era una ninfa e non poteva sopportare l’idea che il proprio figlio potesse perire. Così lo raccolse e lo strinse a sé, conducendolo sino allo Stige, nelle cui acque avrebbe immerso il figlioletto. Reggendolo per un piede, Teti fece sì che la cristallinità del fiume avvolgesse il fragile corpo del piccino, così da renderlo invulnerabile ad eccezione del suo tallone, rimasto emerso dallo specchio d’acqua. Il gesto di Teti è estremamente simbolico per evocare l’amore di una mamma, colei che più di ogni altra creatura desidera la protezione sempiterna del proprio figlio.

Ma la mitologia vuol ricordarci anche che non tutte le madri possono provare affezione e premura nei riguardi della propria prole. Il volto tenebroso, distorto, ed insano di Medea evoca il male che può albergare nel cuore di una madre. Medea considera i propri figli delle creature di cui ella detiene il possesso. Medea valuta il parto come un legame indivisibile. I figli che sono stati messi al mondo hanno, nei confronti della loro madre, secondo il folle pensiero di Medea, un debito che nulla potrà mai ricompensare. Pertanto, la nobile reputa i propri discendenti una merce di sua proprietà, di cui ella potrà servirsi e, disfarsi, quando vorrà. La principessa di Colchide è un’assassina e testimonia l’immoralità ed il peccato di ogni genitrice che arreca dolore e morte alla propria creatura.

  • Le mamme nella Settima Arte

Essere mamme è un lavoro a tempo pieno, una “mansione” impegnativa, un’ambizione impossibile da attenuare.

Nel cinema d’animazione della Walt Disney, una mamma attendeva con impazienza la venuta del proprio piccoletto. Essa era tanto alta, grande e grigia. Giaceva rinchiusa tra gli esigui spazi di una gabbia, coperta soltanto da un drappo azzurro e da una cuffia rosa poggiata sulla sua fronte ampia. Costei non era una mamma come tutte le altre. Ad essere del tutto onesti, non era una mamma di un cucciolo d’uomo, bensì una mamma del regno animale. In “Dumbo”, classico disneyano del 1940, l’elefantessa aspetta l’arrivo del piccolo elefantino in una notte serena. D’improvviso, uno stormo di cicogne scende giù in picchiata. Le loro sagome in volo vengono illuminate dalle stelle che brillano nel cielo. L’elefantessa è una madre che ha scelto di esserlo, si sente pronta a diventarlo con tutte le sue forze eppure, il suo cucciolo tarda ad arrivare. Il dì seguente, una cicogna in colpevole ritardo porta un fagotto dalle larghe orecchie alla signora Jumbo. La nascita in “Dumbo” viene rappresentata come un avvenimento condizionato ad un determinato momento della vita, in cui gli stessi genitori si sentono pronti ad accogliere e allevare un figlio. Gli animali/genitori nella pellicola sono il più delle volte singole madri. La stessa signora Jumbo aspetta il proprio figlioletto, ma esso sembra tardare ad arrivare, rendendo ancor più unica la sua nascita, come un parto speciale e per questo difficilmente prevedibile. Dumbo non possiede un padre, come se si volesse sottintendere che anche le madri rimaste sole possano crescere con affidabili riscontri i propri figli, districandosi comunque tra il lavoro (qui rappresentato dal circo) e il ruolo affettivo ed educativo di “mamme”. La Signora Jumbo simboleggia ogni madre che ha scelto di divenire tale e che attende che il cielo risponda alle sue suppliche donandole quell’esserino.

In “Tarzan”, invece, pellicola del 1999, Kala, una gorilla che ha perduto il proprio cucciolo, rinviene nella giungla un piccolino che dorme in una culla. Essa desidera fortemente crescere un figlio e, trovando Tarzan, decide di allevarlo come sua madre. Kala apre le sue braccia ad un bambino che la stava cercando, invocandola con la dolcezza ed il fragore di un pianto. Tra Kala e Tarzan non vi è alcun legame di parentela, eppure i due sono ugualmente madre e figlio. E’ splendido notare come Kala sia un primate e Tarzan un essere umano. I primati sono proprio i parenti più stretti e somiglianti degli uomini. Sebbene abbiano aspetti diversi, Kala e Tarzan trovano nei loro sentimenti un modo per sentirsi vicini e simili. In particolare, i due si toccano le mani. Nonostante le “zampe” della gorilla siano più grosse di quelle del piccolo Tarzan, esse somigliano agli arti del piccolino. E’ questo il primo segno di come tra loro possa esserci una vicinanza assoluta se entrambi lo desiderano. Il personaggio di Kala personifica tutte le madri che educano e crescono un figlio che non hanno generato. Non è un semplice legame di sangue a garantire un rapporto, non è una parentela a fortificare una relazione, madre è soprattutto chi cresce un figlio. Lo stesso figlio considererà sempre sua madre come colei che lo ha accompagnato nella sua progressiva evoluzione.

La mamma, nella sua definizione più generica, può avere le fattezze di una educatrice, di una confidente, a volte, persino di un’amica. Nella serie televisiva “Gilmore Girls”, Lorelai è una donna libera, loquace, simpatica, schietta, ed una mamma amichevole, gentile e comprensiva. Ella sa essere infantile, persino puerile con la sua parlantina sciolta e ironica, ma autoritaria e giusta quando la situazione è solita richiederlo. Lorelai ha cresciuto Rory, avuta all’età di 16 anni, in maniera diametralmente opposta a come sua madre ha cresciuto lei stessa. Lorelai proveniva da una realtà benestante, fu educata per appartenere obbligatoriamente all’alta società. Da quel mondo che le tarpava le ali, facendola sentire prigioniera di un sentiero già tracciato, ella fuggì e decise di educare Rory con comprensione e dolcezza.

Tra Lorelai e sua figlia Rory esiste un rapporto unico, fatto di sintonie assolute, di passioni condivise, di parole pronunciate rapidissimamente, di umorismi particolari ed incomprensibili ai più. Lorelai è l’incarnazione della madre moderna. Ella ha dato vita ad una parte in cui la mamma non è più vista come un ruolo lontano, distaccato dalla figlia, bensì come una persona vicina, il cui compito non è solamente quello di educare con condiscendenza o con severità. Lorelai è per sua figlia Rory una confidente, una persona su cui poter contare e a cui poter raccontare ogni cosa.

Ma cos’è, allora, realmente una mamma? Mamma è Shmi che accoglie una vita e la genera con le sue sole forze? Mamma è Kala che adotta un cucciolo smarrito come proprio? La Mamma è un’amica? In realtà, mamma è un’idea, un pensiero, un desiderio, un nome pronunciato da labbra che si sfiorano due volte. “Mamma” è tante cose, non può essere compendiata sotto un’unica definizione.

E vi dirò di più, mamma non è neppure necessariamente una donna. Mamma è colei che ama i propri figli, che se ne prende cura giorno dopo giorno. Per tale ragione, il ruolo della madre coincide con quello del padre, e le vesti della mamma possono essere calzate pienamente anche dal papà. Questa verità ce la sussurrò sommessamente Robin Williams, quando, in “Mrs Doubtfire”, cominciò a valutare seriamente la possibilità di “travestirsi” da donna per poter continuare a stare vicino ai suoi figli. Robin continuo a borbottarci tale veridicità, non più cautamente, ma in maniera dirompente quando, nello stesso film, si truccò pesantemente il viso, e divenne un’anziana e permissiva governante. Pur di poter trascorrere le sue giornate con i suoi figli, Robin rinunciò alla sua veste paterna, e assunse i panni del “mammo”.

La seguente è la definizione più calzante: è l’amore che fa una mamma, non l’aspetto!

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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  • Sipario

Quanto è magico entrare in un teatro e vedere spegnersi le luci. Non so perché. C’è un silenzio profondo, ed ecco che il sipario inizia ad aprirsi. Forse è rosso. Ed entri in un altro mondo.(David Lynch)

L’opera “Noises Off” è una commedia di Michael Frayn, composta nel 1977 e portata in scena per la prima volta nel 1982 al Lyric Theatre di Londra. Il testo ebbe uno splendido adattamento cinematografico nel 1992, per la regia di Peter Bogdanovich. La peculiarità di questa commedia, dal titolo “Rumori fuori scena”, è il suo appartenere al genere del “Teatro nel teatro”, ed il suo conseguente immergersi in una realtà narrativa dalla duplice valenza. “Rumori fuori scena” narra le disavventure di una compagnia teatrale, impegnata nell’allestimento della farsa “Niente addosso”. Nella commedia gli attori reali assumono i ruoli di attori fittizi, i quali a loro volta sono portati inevitabilmente a interpretare i personaggi protagonisti delle scene farsesche, appunto di “Niente addosso”. “Rumori fuori scena” è una recita nella recita, un’interpretazione nell’interpretazione, una finzione dalla doppia natura.  La storia ha inizio in piena notte, all’interno di un teatro in cui si stanno svolgendo le prove generali del testo da rappresentare.

Alla vigilia dell’allestimento di un qualsiasi spettacolo, il teatro sembra sempre giacere in una sorta di dormiveglia.  La spoglia platea, i vuoti palchetti che sovrastano il pianterreno, e il golfo mistico, vacuo e libero, paiono tutti immersi in un dolce sonno, in attesa d’essere risvegliati dall’arrivo del pubblico e dell’orchestra che animerà il laconico silenzio della sala. La compagnia teatrale di Lloyd è in fermento, e i preparativi procedono con passo spedito.

“Rumori fuori scena” è l’incontro tra la realtà precostruita di una commedia scritta e dallo svolgimento ben studiato, con la farsa esilarante, che non segue una trama o una spiegazione logica, ma irrompe con fragore inaspettato per generare situazioni cariche di coinvolgente ilarità. E’ proprio un teatro “deserto” quello che, in piena notte, sta ospitando la sgangherata compagnia del regista Lloyd Dallas.

  • Atto Primo

Il teatro è il disperato bisogno dell’uomo di dare un senso alla vita”. (Eduardo De Filippo)

E’ da poco passata la mezzanotte, e la “prima” della commedia “Niente addosso” si avvicina. Lo scenografo Tim Allgood ha impiegato due giorni per montare sul palcoscenico le imponenti scenografie. L’ambientazione della farsa prevede, infatti, che gli eventi si svolgano nel soggiorno di un elegante villino di montagna, costituito da un piano terra e da un piano superiore, a cui si può accedere per mezzo di una scala di legno, a due rampe, posta alla sinistra della scena. Il villino è solo apparentemente disabitato. Esso spesso è oggetto di visita, o per meglio dire d’irruzione, da parte dei personaggi interpretati dagli attori della compagnia. I personaggi di “Rumori fuori scena” sono 9: Dotty Otley, che in “Niente addosso” interpreta la signora Clackett, Garry Lejeune, nello spettacolo è Roger, Brooke Ashton, che nella farsa è Vicky, Frederick Fellowes, nello spettacolo Philip Brent ma anche “Lo sceicco arabo”, Belinda Blair, che in “Niente addosso” interpreta Flavia Brent, e Selsdon Mowbray, nello spettacolo “il ladro. Chiudono il cerchio il già citato regista Lloyd, il suddetto Tim e l’assistente di scena Poppy.

Portare in scena “Niente addosso” risulta un’impresa estremamente complessa. Le entrate e le uscite di alcuni personaggi (i quali non devono mai incrociarsi sulla scena o ne verrebbe meno il proseguo della farsa stessa) sono innumerevoli, si susseguono a ritmi incalzanti e, per dare l’effetto desiderato, devono essere eseguite con tempistiche sincronizzate, senza margine d’errore. Lloyd, per tale ragione, esorta i suoi attori a dare il massimo. Gran parte dell’agire interpretativo dei personaggi riguarda l’uscita e l’entrata in scena con in mano particolari oggetti che devono essere, di volta in volta, prima deposti in una zona specifica della casa e poi ripresi in un secondo momento. In particolare, il piatto di sardine preparato dalla signora Clackett è spesso fonte d’errore, perché viene lasciato sul comodino quando dovrebbe essere portato via o dimenticato nel dietro le quinte quando invece dovrebbe trovarsi in scena. E’ proprio su di un comune “piatto di sardine” che la farsa e la commedia stessa ruotano e si intersecano in un valore prettamente comunicativo. Nella vita anche un banale oggetto può avere un’importanza rituale per l’accadimento di un evento. Portare le sardine fuori o riportarle dentro nella realtà teatrale di “Rumori fuori scena” funge da metafora dell’ignaro agire dell’uomo in un universo deterministico. Tiene ad affermare, filosofeggiando, Lloyd che il fare entrare le sardine e il fare uscire le sardine costituiscono la farsa, e di conseguenza il teatro, e quindi la vita. E’ la meraviglia del teatro, quella di poter conferire simbolismo e spessore a un semplice oggetto scenico, in questo caso, un comune piatto di sardine, destinato a cambiare il corso e il senso della rappresentazione di una parte di vita.

L’intero primo atto di “Rumori fuori scena” mostra le prove della farsa, spesso interrotte da beffardi imprevisti e goffe incertezze degli attori che, senza riconoscere le proprie disattenzioni, procedono imperterriti a far riecheggiare i loro vocalizzi alla stessa maniera di come l’orchestra del Titanic suonava le proprie arie con il piroscafo invaso dalle acque. Tutta la compagnia a poche ore dall’inizio della rappresentazione è già stremata. Poppy e Tim non riposano da quarantotto ore e devono ancora restare all’erta per coordinare gli attori. “Rumori fuori scena” è l’esaltazione del teatro nella sua fase primordiale, il principio di un abbozzo che deve essere ancora plasmato. E’ per tale ragione che le prove mostrate nel primo atto assumono un valore pieno, vivo, affascinante, perché è come se la commedia stessa nascesse sotto i nostri occhi. La soave purezza del teatro si avverte molto prima della rappresentazione, già nell’istante in cui si pensa all’opera da portare in scena. Le prove sono, per l’appunto, l’embrionale concezione dell’opera teatrale, poiché è nella preparazione iniziale che si plasma la rappresentazione finale.

“Rumori fuori scena” sa esaltare ogni aspetto della lavorazione teatrale, partendo dall’autore del testo fino all’assistente di scena. Tutti coloro che lavorano alla realizzazione della commedia rispettano i loro ruoli. Gli attori si concentrano sull’interpretazione, il regista sulla direzione specifica e globale dell’evento teatrale, su cui nessuno osa metter parola, e la scenografia viene issata e resa unica col massimo del lavoro decorativo possibile per far sì che l’impatto visivo della scena risulti sempre sorprendente. Tutti i membri della compagnia lavorano a ritmi frenetici, lasciando trasparire uno stress senza fine. Lo stoico Tim non sa risparmiarsi, e riveste il triplice ruolo di direttore di scena, attrezzista e persino di “jolly” di ogni singolo attore. La presenza dell’autore fittizio di “Niente addosso”, vale a dire il fantomatico Robin Housemonger, aleggia sul gruppo in maniera costante. Lloyd, talvolta, prende in mano il tomo in cui è contenuto il lavoro dell’autore, affermando che quello è il “testo sacro” e che non può essere in alcun modo alterato né dev’essere necessariamente capito dall’attore, più che altro dev’essere solamente eseguito. La volontà dell’autore teatrale fugge dall’approvazione degli attori stessi. Ciò che infatti avviene nella farsa non risponde ad una logica ben precisa, accade perché è così che ha voluto il dio-creatore e autore, e il testo risponde ad una irrazionale leggerezza splendidamente artistica.

Ne deriva una differenza: “Rumori fuori scena” rappresenta la vita fatta di ansie, fatiche, impegni, collaborazioni, amicizie e amori, rimorsi e gelosie, vendette e ritorsioni. La farsa “Niente addosso” rappresenta l’esatto contrario: essa è l’illogicità della vita umana, l’ineluttabilità degli eventi, e come essi possano essere riletti in chiave umoristica. E’ sempre la capacità di ridere della sventura la forma più fine di acume e intelligenza. Quella di “Rumori fuori scena” è la vita portata entro i confini di un palcoscenico e considerata priva di un significato, poiché il senso vero sfugge alla ricerca dell’uomo e va al di là delle sue possibilità d’indagine. La vita è esperienza inattesa, improvvisazione senza regole, è una farsa teatrale che fugge da ogni logica che non sia comprensibile in una smorfia volta al riso.

Humphrey Bogart affermava che la differenza sostanziale tra un copione e la vita è che il copione deve avere un senso. Se non c’è dato comprendere le dinamiche che spingono i personaggi di “Niente addosso”, possiamo invece cercare di capire cosa domina l’agire dei personaggi di “Rumori fuori scena”. Nelle loro entrate e nelle loro uscite è racchiudibile l’alba e il crepuscolo, l’arrivederci e il ritorno. E’ forse per tale ragione che i personaggi sulla scena entrano ed escono con tale frequenza. “Rumori fuori scena” è l’apertura coordinata di una porta che simboleggia un nuovo inizio nel contempo in cui un’altra porta, che simboleggia un addio, si chiude. La farsa e la commedia, qui divenute un tutt’uno, rispondono al bisogno dell’uomo di dare un senso alla vita e alle varie tappe che ne fanno parte.

  • Atto secondo

Tutto il mondo è un teatro e tutti gli uomini e le donne non sono che attori: essi hanno le loro uscite e le loro entrate; e una stessa persona, nella sua vita, rappresenta diverse parti.” (William Shakespeare)

Vi è mai capitato, mentre sedete in platea, di perdere per qualche istante la concentrazione sullo spettacolo in sé e domandarvi cosa, al contempo, sta avvenendo dietro le quinte? Quella che si trova al di là della scenografia è una realtà fatta di silenzi, di comunicazioni gestuali, vocalmente inespresse, di suggerimenti laconici onde evitare che il pubblico in sala si accorga di qualcosa. Nelle compagnie più diligenti, direi professionali, in genere, non accade nulla di particolarmente interessante. Gli attori e le attrici siedono pazientemente e attendono d’essere chiamati dal direttore di scena per la loro entrata. Qualcuno/a più “ansioso/a”, invece, leggerà ancora una volta il copione, lo/a scenografo/a tamburellando il piede sul pavimento come segno d’impazienza, aspetterà la fine del primo atto per potersi mettere subito al lavoro al cambio scena. Un clima così disteso non è respirabile nella compagnia capeggiata da Lloyd Dallas, che dietro le quinte è capace d’inscenare “una commedia”, ancor più divertente di quella che si svolge in palcoscenico.

Durante il secondo atto di “Rumori fuori scena”, la compagnia è ormai in piena attività e si sposta di città in città e di teatro in teatro in una lunga tournée. Dopo i primi grandi successi, la compagnia sta vivendo una fase transitoria che presto li condurrà ad un fiasco dietro l’altro. Questo è dovuto al fatto che Lloyd li ha temporaneamente abbandonati per curare la regia dell’Amleto con un’altra compagnia teatrale, ma soprattutto perché tra gli attori sono emersi molti malumori dovuti per lo più a ripicche di cuore e gelosie. Lloyd sopraggiunge nel dietro le quinte un pomeriggio, per ritrovare un po' d'intimità con Brooke, ma viene subito informato da Tim dei dissapori sorti tra gli attori: Dotty e Garry si sono lasciati, per l'eccessiva gelosia di lui, che vede in Frederick un rivale, visto che una sera a cena ha ascoltato e consolato Dotty in preda a una crisi nervosa; la stessa Dotty è convinta, a causa di alcuni equivoci, che Belinda si stia infatuando di Garry, sostenendo che lei sia innamorata di Frederick; per di più, non si riesce a trovare Selsdon, per l'ennesima volta, addormentatosi chissà dove ubriaco. A complicare la situazione si aggiunge Poppy, che vuole informare Lloyd d’essere incinta. Alla pomeridiana dello spettacolo, i malumori tra la compagnia si susseguono senza sosta. La scena adesso si svolge interamente negli ambienti posti nel retropalco. Nel corso della rappresentazione della farsa si registrano innumerevoli gag esilaranti tra gli attori nel dietro le quinte, i quali tentano di ferirsi e colpirsi tra loro nell’istante in cui sfuggono alla vista del pubblico che numeroso affolla la platea. Da qui in poi si producono i “famosi” rumori fuori dalla scena.

Le entrate e le uscite sincronizzate degli uomini e delle donne, e quindi degli attori e delle attrici, avvengono adesso in una duplice veste che riguarda tanto i personaggi della farsa sul palcoscenico quanto i personaggi della commedia nel dietro le quinte. In contemporanea, la flebile linea di demarcazione meta-teatrale tra farsa e commedia tende ora a essere rispecchiata simbolicamente dalla divisione tra “palco” e “retropalco”, luoghi scenici che separano due differenti modalità d’interpretazione che si susseguono, altalenandosi continuamente. Ciò che accade nel secondo atto è la duplice realtà di “Rumori fuori scena”, quella che avviene sul palcoscenico, sotto gli occhi attenti e vigili degli spettatori che in modo del tutto insolito assistono alla farsa, e quello che si verifica oltre le quinte su cui è posta invece l’attenzione dei veri spettatori, i quali assistono a ciò che normalmente è celato al loro sguardo.

  • Atto Terzo

“Il teatro è così infinitamente affascinante perché è così casuale. E’ come la vita.” (Arthur Miller)

Nella concezione casuale del teatro, l’errore, se lieve, può contribuire ad impreziosire lo spettacolo. A teatro ogni rappresentazione è diversa, basta un cambio d’intonazione, un movimento differente, un cenno improvvisato e il tutto muta. La commedia teatrale non vanta l’immortalità di un’opera filmica, essa è in perpetuo divenire e in questo moto incessante il piccolo errore finisce per evidenziare la naturalezza dell’operato dell’uomo a teatro. Nel terzo atto di “Rumori fuori scena” tutto sembra essere lasciato al caso. La farsa “Niente addosso” è preda dell’incertezza di un destino e dell’indeterminatezza di un esito nebuloso. Si fa ritorno nell’ampio soggiorno del villino, ma ormai i rapporti e gli screzi che serpeggiano tra gli attori provocano incredibili quanto tragicomici danni alla farsa che perde ogni logica di sviluppo. Sulla scena irrompono, sostituti in concomitanza con i protagonisti, i personaggi, che finiscono per incontrarsi tra loro disfacendo la logica dell’esecuzione; persino Lloyd si trova costretto ad entrare in scena, salvo poi rendersi conto di aver aggravato ulteriormente la situazione.

  • Cala il sipario

Un bravo attore non fa mai la sua entrata prima che il teatro sia pieno” (Jorge Luis Borges)

La compagnia giunge infine a Broadway, il più prestigioso teatro della loro tournée. Lloyd è oramai in preda alla paranoia, teme che gli attori combinino un ennesimo strafalcione, ha persino paura che la scenografia cada rovinosamente giù e non ha il coraggio di assistere. Rientrerà solo alla fine per ascoltare gli scroscianti applausi provenire dalla platea, entusiasta. La farsa è stata un successo e gli attori hanno finalmente dimenticato i loro dissapori. Tutti insieme, mano nella mano, compiono un inchino, come grandi attori e uomini di teatro dinanzi ad un teatro strapieno di spettatori elettrizzati. Sono nati sentimenti forti di amore e relazioni destinate a durare tra gli attori e le attrici della compagnia. La nascita perdurata di un sentimento è la vita, ma anche la farsa, e questo è il teatro. Si chiude così “Rumori fuori scena”, nell’assordante ma sempre gradevole rumore di un applauso.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Nathan Drake e Lara Croft, due delle più famose icone dei videogiochi d’avventura, sono qui sopra ritratti insieme. Ma chi sono davvero Nathan e Lara? Potremmo certamente sostenere che il Nathan della serie “Uncharted” sia ispirato a Lara Croft, emblema dell’eroismo femminile sin dal 1996, anno del suo debutto sulla piattaforma Playstation con “Tomb Raider”, saga che non ha certamente bisogno di alcuna presentazione considerando il vasto impatto culturale avuto sin dal suo esordio. Lara è stata e lo è anche adesso un’eroina capace di ritagliarsi un frammento di significativo spessore nel cuore di tutti gli amanti dei videogiochi ambientati tra scenari storici e reperti archeologici. Nathan, invece, ha dovuto attendere fino al 2007 per vedere la luce e debuttare in “Drake’s fortune”, il primo di una tetralogia di enorme successo targata Naugthy Dog. Entrambi sono a loro volta ispirati da un eroe del cinema, questa volta anni '80, ovvero Indiana Jones, l’archeologo dalla vita spericolata per eccellenza. L'outfit nel deserto di Nathan in "Uncharted 3 - L'inganno di Drake" sembra inoltre ispirato all'aspetto di Brendan Fraser nei panni dell'avventuriero Rick O'Connell ne "La mummia" del 1999. Già da questi brevi accenni si comprende quanto il cinema sia stato una fonte d’ispirazione totale per i creatori dei videogiochi che cominciando dal design estetico, passando poi alla caratterizzazione dei personaggi fino ad arrivare ad una narrazione sempre più complessa, hanno tentato con numerosi eccellenti riscontri, di elevare i propri standard qualitativi così da tentare di ricreare un’esperienza cinematografica capace di poter essere vissuta in prima persona con l’ausilio di un Joypad.

Lara Croft (Angelina Jolie) -  Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters

Studiare il cinema moderno non può prescindere dallo studiare anche, e con una certa dovizia di particolari, il mondo dei videogiochi. Dagli anni '90 in poi sono sempre più stati rilasciati sul mercato videogiochi tratti da film di successo, esperienze di gioco capaci di riprendere ambientazioni e scenografie tratte direttamente dai lungometraggi di riferimento, dando così la possibilità ai giocatori di vestire i panni dei propri eroi, emulando le gesta e le avventurose imprese dei protagonisti. I fan con un sentito trasporto potevano rivivere i film che avevano amato, accompagnando i loro personaggi preferiti a riaffrontare le avventure che loro stessi avevano “solamente” osservato in pellicola. Col passare degli anni il progresso tecnologico ha permesso di amplificare i mezzi di realizzazione nell’ambito degli effetti speciali e della computer grafica, e come lo si è notato con un certo timore al cinema così a maggior ragione è accaduto nei videogiochi, però in questo caso si è registrato un maggiore entusiasmo: gli scenari all’interno della realtà giocabile diverranno infatti sempre più realistici, i movimenti dei corpi più naturali (i personaggi giocabili ad esempio si affannano durante la corsa) e l’espressione dei loro volti si baserà direttamente sulla recitazione degli attori che incarnano i personaggi da gioco durante i filmati nello scorrere della storia: il medium dei videogiochi diventa a tutti gli effetti un’arte recitativa. Tale lavorazione richiede agli addetti un impegno maggiormente incentrato su uno sviluppo narrativo di stampo cinematografico e i personaggi indipendenti, cioè coloro creati ad hoc per il videogioco, diventano veri e propri caratteri plasmati dagli autori e dagli interpreti scelti. Con l’inizio del nuovo millennio è accaduto l’esatto contrario di ciò che avveniva in precedenza; i titoli di maggior successo dei videogiochi sono sbarcati al cinema con trasposizioni riuscite del tutto se non in parte o lavori rivedibili se non proprio del tutto suscettibili di oblio.

Il videogioco di "Harry Potter e la camera dei segreti" permetteva di rivivere molti dei momenti più avvincenti del film, aggiungendo nelle medesime parti sequenze innovative che ne amplificavano il momento. Ne è un esempio il livello in cui il giocatore, alla guida della macchina volante di Ron, doveva sfuggire "all'assalto" del treno diretto ad Hogwarts.

Il cinema col passare degli anni ha dimostrato una crescente tendenza incentrata all’abuso della grafica computerizzata, la quale sostituisce persino gli attori in carne ed ossa per lasciar posto ad immagini digitalizzate e ad una creazione in completa CGI. Le imponenti scenografie di un tempo vengono pertanto sostituite da creazioni al computer eseguite attraverso il green-screen e le riprese in esterno vengono limitate per venire, alle volte, totalmente ricreate. Gli attori recitano per minor tempo nei film ad alta tensione diventando strumenti di spettacolarizzazione in mano a registi che, come se avessero in mano un joypad, dirigono i personaggi reali in “doppi salti” e acrobazie estreme, palesemente lontane dall’azione realmente filmabile. Se i videogiochi si avvicinano maggiormente al cinema moderno quest’ultimo continua ad avvicinarsi al mondo dei videogiochi. L’attrazione tra il cinema e il mondo videoludico è talmente alta da portare alla realizzazione di film che omaggiano i videogiochi anni ‘80, e a videogiochi stessi che omaggiano i classici del cinema con l’inserimento di Easter egg sotto forma di citazioni sceneggiate o immagini velatamente riscontrabili sugli sfondi. Due medium che si attraggono reciprocamente senza potersi mai toccare davvero.

"Ralph Spaccatutto" è un lungometraggio d'animazione della Walt Disney che omaggia i videogiochi stile Arcade degli anni '80.

Sembrava un videogioco” è una frase che sentiamo o che pronunciamo spesso ultimamente all’uscita dalla sala dopo aver visto un film d’azione. “Molto cinematografico” è un’altra costante affermazione rilasciata dai fan ad alcuni videogiochi più recenti i quali, seppur curati in maniera maniacale, antepongono alle volte alla giocabilità e alla lunghezza di una storia, una grafica iperealistica ma che non reca stretto a sé nulla del divertimento emotivo provato nell’azione comandata dei primi giochi targati PS1, poiché il tutto è troppo concentrato a destare lo stupore di un volto così ben realizzato. Non sempre è così, i capolavori della serie “Arkham”, ad esempio, ma anche titoli di successo come “The last of Us”, e gli stessi “Uncharted” e “Tomb Raider” (giusto per citarne alcuni) hanno invece invertito il trend, e il passaparola stereotipato che sembrava imporre a tutti i costi il dettame: la grafica migliorata corrisponde necessariamente ad una giocabilità priva di sentimento è ormai svanito in parte. La grafica non è il centro della lavorazione, ma piuttosto serve ad esaltare l’esperienza di gioco immergendo i giocatori all’interno di un mondo ricreato nel minimo dettaglio e al cui interno, immedesimato tra le azioni comandate, il giocatore vive una storia avvincente e articolata da scoprire lentamente. L’attenzione cognitiva del giocatore si sposa così con l’emozione dell’impronta drammatica di una trama da assaporare attraverso l’enigma e la lotta.

"The last of Us" è un videogioco capace di fregiarsi di una narrazione articolata e meticolosa, dallo stile spiccatamente cinematografico.

Il cinema invece continua a sperimentare l’impostazione di gioco usufruendo maggiormente della soggettività durante una scena d’azione o riprendendo una scena con la tecnica di ripresa di 48 fotogrammi al secondo con risultati altalenanti. Basti pensare al film “Hardcore”, girato in completa soggettività, che fa il verso ai più violenti sparatutto lasciando però frastornato e confuso lo spettatore, che pur restando colpito da una tale originalità rimane basito dinanzi ad un film che è un gigantesco videogioco privo di comandi da utilizzare. Prendendo in esempio “Gravity” invece, il capolavoro di Alfonso Cuarón, noto che quest’ultima opera applica molti degli schemi per lo più utilizzati durante l’esperienza di gioco: la camera inserita ad esempio all’interno dell’oblò della tuta ci pone in soggettività con il ruolo di Sandra Bullock mentre ella è intenta a dirigere il proprio sguardo da una parte all’altra dell’astronave muovendo le braccia e pigiando sui pulsanti. Sembrerebbe l’intro di un videogioco o la sequenza d’intermezzo di un filmato da accompagnare premendo i tasti prescelti ma invece è cinema, e qui, Cuarón mostra come il blockbuster d’intrattenimento possa splendidamente divenire anche cinema d’autore. A differenza del videogame lo spettatore può soltanto limitarsi ad ammirare senza poter far compiere l’azione dovuta al personaggio centrale ma il metodo di ripresa e l’impronta assunta da molti film degli ultimi anni non possono che farci riflettere sulla netta vicinanza tra questi due mondi all’apparenza così distanti.

Credo fermamente che il mondo dei videogiochi stia traendo il massimo dal cinema proponendoci titoli capaci di vantare dialoghi arguti e intelligenti, trame dettagliate ed eroi abili a far empatizzare il giocatore, il quale al termine del videogioco non può che rimanere colpito dall’impronta emotiva che una storia ben strutturata, specie se sorretta da un’evocativa colonna sonora, ha lasciato in lui. Il cinema, invece, dovrebbe leggermente allontanarsi dal potere grafico e smettere di riciclare dal passato e da metodologie che, se disseminate con troppa irruenza, mostrano fin troppo di non appartenere alla settima arte. L’equilibrio dovrebbe essere centrale nel metodo di lavorazione poiché il cinema non è e non potrà mai essere un videogioco, anche se entrambi possono procedere su binari paralleli.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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