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"Mulan e il suo riflesso" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

Non si udiva nulla quella sera, nient’altro che il lieve soffio del vento. La brezza era debole e riusciva a malapena a far muovere gli stendardi issati sulle torri. La terra era stata inghiottita da una fitta tenebra e su tutto l’orizzonte era calato un velo d’ombra.

Il soldato poneva attenzione, ma non sentiva né vedeva alcunché. Questi camminava irto sui suoi stivali, reggendo in mano una lancia dalla punta argentea. La volta celeste era sgombra di nubi. La luna piena campeggiava sul tetto del mondo, rischiarando a fatica l’oscurità della notte con il suo tenue bagliore.  D’un tratto, qualcosa ruppe il silenzio.

Un’aquila, sbucata dal nulla, planò in picchiata sulla testa del soldato, ghermendogli l’elmo con i suoi poderosi artigli. Lo stridulo dell’animale echeggiò lungo tutta la Grande Muraglia. L’uomo sollevò il capo, vide il rapace librarsi sulla porzione di cielo sopra di lui, quindi poggiarsi sull’estremità dell’asta di una bandiera. L’aquila emise ancora il suo verso roco e dal buio affiorò un gancio nero che colpì la roccia. Il soldato si avvicinò al limite della costruzione e scorse una miriade di artigli salire dal fondo, laggiù oltre i contorni della fortezza e agganciarsi ad essa. L’invasione era appena cominciata.

L’armata degli Unni scalava rapidamente le maestose mura, guadagnandone la vetta e penetrando oltre i confini. Il soldato fu circondato. Dinanzi a lui si stagliò un’immensa figura incappucciata. Era avvolta in un mantello tra il nero e il grigio antracite, aveva occhi gialli, denti possenti e affilati. Costui non era uno straniero qualunque ma Shan-Yu, il comandante dell’esercito Unno. Il soldato cinese, in un ultimo, disperato tentativo di dare l’allarme, appiccò il fuoco alla torre di guardia. Le altre torri scorsero il segnale e risposero facendo altrettanto. In pochi istanti le fiamme si propagarono di torre in torre e il messaggio fu colto dai più: la Cina era appena stata attaccata.

I fuochi che ardono sulle torri di guardia al principio di "Mulan". Potete leggere di più su "Il signore degli anelli - Il ritorno del re" cliccando qui.

Comincia in tal modo “Mulan”, in una notte serena, tacita, scossa improvvisamente dal volo di un’aquila che piomba dall’alto, all’improvviso, senza alcuna avvisaglia. L’animale sembra presagire l’avvento di una minaccia imprevista, fino ad allora sfuggita allo sguardo attento delle vedette poste a guardia della Grande Muraglia. L’esercito Unno, protetto dalle tenebre, viene avvistato quando è ormai troppo tardi. Ai soldati cinesi lì presenti non resta che dare l’allarme. Il fuoco arde così da una torre all’altra torre e poi all’altra ancora, trasmettendo un messaggio chiaro come il bagliore da esso prodotto.

La scena iniziale di “Mulan”, in cui i soldati usano il fuoco per segnalare l’inizio dell’invasione, ricorda una sequenza de “Il signore degli anelli – Il ritorno del re”. In quest’ultima opera, la città di Minas Tirith - cuore pulsante del regno di Gondor - è prossima ad essere assediata dall’esercito di Sauron. I fuochi della città vengono pertanto accesi, non senza qualche piccola difficoltà.

Le fiamme si sprigionano da una pira sita in un’alta torre contornata da pietre candide come il marmo. Il fuoco viene immediatamente notato in lontananza. Sulle montagne, una seconda pira viene quindi data alle fiamme per segnalare la richiesta di soccorso della città bianca. Di colle in colle, i roghi che ardono parlano da soli e recano in sé un’accorata richiesta d’aiuto. I fuochi di Minas Tirith giungono sino ai confini del reame di Rohan, alleato del regno di Gondor. Scorgendo quella macchia rossa che brilla intensamente fra le costole dei colli, la gente di Rohan, senza indugio, decide di rispondere alla chiamata di Minas Tirith.

Ne “Il Signore degli anelli – Il ritorno del re” il fuoco assume i contorni di una metafora: la metafora di una speranza che divampa, che si propaga di terra in terra, portando con sé l’auspicio di unità fra i popoli. I fuochi di Minas Tirith bruciano per segnalare il sopraggiungere di un nemico comune, l’avanzata di un avversario inarrestabile ma altresì ardono per infondere coraggio negli animi dei timorosi, per rammentare un’antica alleanza e per ribadire che solo attraverso la vicinanza e la fratellanza tra la gente libera della Terra di Mezzo il male - che è divisivo per sua natura - può essere sconfitto.

Così come mostrato ne “Il ritorno del re”, anche in “Mulan” le fiamme che iniziano ad ardere su di una torre si diffondono da un punto all’altro per raggiungere sempre più persone con il loro messaggio. Il fuoco è un elemento primordiale, dalla forza spesso distruttiva, che si nutre di ciò che consuma, tuttavia in “Mulan” esso diventa un veicolo di speranza. Le fiamme delle torri della muraglia sfavillano per avvertire e per offrire una possibilità di salvezza. Il fuoco in “Mulan” non consuma ma sprigiona una voglia di “vita”, di “libertà”, di “resistenza”, spronando il popolo cinese a unirsi e a prepararsi alla battaglia.

La notizia dell’invasione giunge fino al palazzo dell’Imperatore. Questi sottoscrive avvisi di arruolamento per tutte le province dell’Impero. Ogni famiglia dovrà offrire un rappresentante maschile che dovrà unirsi all’esercito regolare e alle sue riserve. L’Imperatore è fermamente convinto che un solo chicco di riso può squilibrare la bilancia, e che un solo uomo può segnare la differenza tra la vittoria e la sconfitta. Un solo uomo, già!

Un solo uomo può capovolgere le sorti di un confitto. E se fosse una donna a cambiare il destino di un popolo? Nessuno si era mai posto una domanda simile fino ad allora.

Eppure, quando l’Imperatore ha finito di pronunciare il suo discorso, di affermare che un singolo uomo può segnare la differenza tra il trionfo e la dipartita, l’immagine sulla pellicola inizia a sbiadire sino a scomparire del tutto, per far posto ad una nuova “icona” rappresentata da dei chicchi di riso all’interno di una ciotola, dove le due canoniche bacchette, guidate da una mano femminile rimestano i granelli, per poi isolarne uno soltanto. Già, una mano femminile! Proprio così, una donna.

È lei che “pizzica” quel chicco, che lo separa dagli altri e lo allontana. Ed è sempre lei che raccoglie una porzione adeguata di riso e se la porta alla bocca. Le parole dell’Imperatore sembrano riecheggiare ancora in questa sequenza, con un'unica differenza: il chicco di riso in grado di squilibrare la bilancia non ha “l’aspetto” di un uomo, ma di una ragazza assorta nei suoi pensieri e nel suo parlato.

Silenziosa… E schiva” – ella dice. “Aggraziata, cortese…” – continua a sostenere, mentre gusta il suo riso. “Delicata…” – borbotta con la bocca piena. “Raffinata, ponderata, puntuale!” – finalmente conclude.

Mulan, è questo il nome della ragazza che assaggia il riso, vive in un piccolo villaggio della Cina. Ella è l'unica figlia della famiglia Fa. In quelle prime ore del mattino Mulan è intenta a studiare, se così si può dire. Alcuni concetti che continua a ripetere a voce alta le sfuggono dalla mente e non riesce a farli suoi.

Silenziosa, schiva, aggraziata… Cosa veniva dopo aggraziata?” - Mulan sembra domandarselo tra sé. Quelle virtù che le donne devono conoscere e possedere Mulan fatica a memorizzarle, forse perché non fanno parte del suo “mondo”. Mulan è, infatti, diversa da tutte le altre ragazze del villaggio. È speciale, sebbene nessuno se ne sia mai accorto. Neppure lei stessa.

Mulan è terribilmente in ritardo. Quando se ne accorge sfreccia per le vie cittadine, correndo all’impazzata verso la mamma e la nonna che la stanno aspettando impazientemente. Le due si danno da fare per rendere Mulan ancora più bella di come appare quotidianamente. Le danno una bella strigliata, le sistemano l’acconciatura, la truccano con del cerone bianco a valanga sul viso e del rosso a rimpolpare le labbra.

Quel mattino, Mulan ha una prova molto importante da superare. Deve portare onore alla sua famiglia nell’unico modo in cui una fanciulla può farlo nella società patriarcale cinese di quegli anni: ovvero diventando la sposa di un uomo di buona famiglia. Per fare ciò, Mulan deve essere messa sotto esame da una corpulenta “paraninfa”, che dovrà giudicare le qualità da futura moglie della ragazza. Inutile dire che la giovane, durante la seduta d’esame, provocherà un disastro dietro l’altro e farà rientro a casa con una cocente delusione. 

Mulan si sente inadatta, diversa, come se ancora non avesse trovato il proprio posto nell’ordine delle cose, come se ancora non sapesse chi è in realtà e a cosa aspiri. La fanciulla avanza lungo il giardino della sua dimora, e osserva il proprio volto riflesso in uno specchio d’acqua. Ella non riconosce sé stessa. È ancora truccata in viso, ma non è certamente per quello che non riesce a identificarsi. È qualcosa di più recondito, intimo, ancestrale che si cela oltre lo strato di epidermide. Mulan guarda il suo riflesso, confuso e incerto, e non riesce a renderlo nitido. Comincia così ad intonare un canto. Attraverso quella melodia, Mulan si chiede chi è l’ombra che riflette la sua figura, un’ombra che non corrisponde ai suoi desideri.

Già, un’ombra. Mulan osserva quella proiezione di sé e non riesce a schiarirla, a farla sua. Ma cos’è in realtà un’ombra?

L’ombra è parte di noi, è un prolungamento della nostra fisicità, della nostra corporalità. Essa non ha colore, ha soltanto la nostra forma. Non ha occhi, non possiede dettagli, non mostra lineamenti o segni sul proprio viso. L’ombra è una macchia nera, attaccata a noi, che ci segue di pari passo. È un “riflesso” che ci scruta e ci accompagna, ma è altresì un’immagine di noi oscura, priva di particolari, di caratteri che rendono il nostro aspetto dissimile ed unico. Talvolta, l’ombra può essere così diversa dal noi da staccarsi, da allontanarsi. Lo scrittore Hans Christian Andersen immaginò un qualcosa di eguale.

L'uomo colto e l'ombra, Illustrazione di Vilhelm Pedersen. Potete leggere di più su Hans Christian Andersen e le sue opere cliccando qui e poi qui. Ora che ci penso potete cliccare anche qui, poi qui ed infine qui.

Nella sua fiaba “L’ombra” - uno dei suoi scritti più oscuri e inquietanti - Andersen raccontò la storia di un uomo colto, proveniente da luoghi molto freddi, che giunse, un bel giorno, in un paese caldo, dove il sole picchiava con prepotenza e la gente, sotto i suoi raggi, diventava bruna come il mogano o nera quasi come la pece.

Quest’uomo era costantemente “braccato” da un’ombra smilza come lui, che diventava sempre più allungata, ferma, immobile contro una parete ogni qual volta una fonte luminosa illuminava la figura di quest’individuo profondamente erudito.

Una sera, questo straniero si sedette su di una piccola seggiola nella veranda; alle sue spalle brillava la tenue luce di una candela. Essa lo illuminò, proiettando la sua ombra innanzi a lui. All’inizio, egli non ci fece caso, la ignorò, assorto com’era nelle sue letture. L’ombra dell’uomo si era posata sulla parete della casa di fronte, e imitava le azioni del suo “padrone”. L’uomo sfogliava le pagine del libro che aveva in mano e l’ombra faceva lo stesso. Essa giaceva lì davanti, tra i fiori del terrazzo. Dopo un po’, l’uomo alzò lo sguardo e vide la sua ombra. Quest’ultima gli ricambiò attenzione, mimando lo stesso gesto.  Per un po’ si guardarono. Poi, l’uomo rivolse la vista al grazioso palazzo che aveva dinanzi: sembrava una casa accogliente, piena di belle cose.

Credo che la mia ombra sia l'unica persona vivente che si vede laggiù!” - disse l'uomo colto. “Guarda come sta seduta con garbo tra i fiori, la porta è socchiusa; adesso l'ombra dovrebbe essere tanto accorta da entrare, guardarsi intorno, e poi tornare a raccontarmi quello che ha visto. Eh già, dovresti farmi questo piacere!” – proseguì a borbottare con ingenua speranza. Attese, come se davvero si aspettasse che la sua ombra potesse muoversi da sola e addentrarsi in quella bella dimora. L’ombra restò ferma a guardarlo e a fargli il verso. I minuti passarono e l’uomo decise di rientrare nel suo alloggio. Così, volse le spalle al terrazzo. Proprio in quell’attimo l’ombra si mosse, come animata da un afflato tutto suo.

L’ombra entrò di sua iniziativa in quella casa, e lì stette. L’uomo non lo sapeva ancora, ma la sua ombra era diventata viva, cosciente. Laggiù, lontana dallo sguardo dell’uomo, iniziò il suo viaggio in solitaria, la sua lenta peregrinazione verso la propria affermazione, il proprio riconoscimento.

Quell’ombra era tetra, furba e malvagia. Se l’uomo l’avesse osservata attentamente si sarebbe accorto che quell’ombra non era una proiezione di sé, bensì la proiezione di una parte di sé: la più ambiziosa, diabolica, superba del suo animo.

Venne il giorno successivo. L’uomo colto non badò a null’altro che ai suoi studi, durante le ore diurne.  La sera, egli uscì sul terrazzo e si accorse di non vedere più la sua ombra. Capì che era fuggita, e ne restò colpito. Dov’era andata? Che fine aveva fatto? Sarebbe mai tornata? Tante domande affollarono la mente dell’uomo ma nessuna ottenne risposta.

Passarono molti anni e un bel giorno bussò alla porta dell’uomo dotto una persona tanto magra da far spavento, alta quanto lui.

Non mi riconosci?” – domandò il misterioso visitatore.

Riconoscervi? Oh cielo, ci siamo già incontrati?” – rispose, sconvolto, lo studioso.

Sono la tua ombra” – sibilò la silhouette.

Il colto interlocutore spalancò la bocca. Ciò che aveva innanzi a sé non somigliava minimamente ad un’ombra. Si trattava invece di una sorta di essere vivente dotato di voce, volto, e tanto d’incarnato; un esile corpo maschile, direi striminzito ma in salute. L’ombra aveva un’andatura elegante, era ben vestita e portava attorno al collo una vistosa collana d’oro e anelli alle dita.

Dove sei stato in tutti questi anni?” – chiese l’erudito.

L’ombra prese posto in salotto e si compiacque nel narrare le sue traversie. Aveva girato il mondo, conosciuto le sue meraviglie, i suoi segreti. Aveva osservato il bello ed il brutto del creato, e aveva appreso il male. Lo aveva fatto suo, e lo aveva seminato in ogni luogo in cui si era recata. Quando finì di parlare, l’ombra imboccò la porta e sparì nuovamente.

Passarono degli anni. L’ombra si ripresentò e chiese all’uomo colto, divenuto nel frattempo stanco e malaticcio, di accompagnarla in uno dei suoi lunghi viaggi. Questi non poté rifiutare, mosso com’era da un’insana curiosità di trascorre del tempo con quella che fu la sua “metà”.

Nei loro lunghi spostamenti l’uomo era solito camminare alle spalle dell’ombra, talvolta gli veniva concesso di restarle accanto ma raramente. Ovunque andassero, l’ombra parlava per prima, zittiva il suo compagno di viaggio, si presentava agli altri col piglio di chi comanda. Nessuno poneva gli occhi sull’uomo, come se questi stazionasse nell’oscurità e si limitasse a seguire il suo padrone, senza possedere il benché minimo spirito di iniziativa.

L’uomo diveniva sempre più stanco, provato da un’esistenza lunga e spossante. Passarono gli anni. Lentamente, l’uomo colto e buono si trasformò nell’ombra e l’ombra superba e cattiva divenne a tutti gli effetti il padrone. Quando fu troppo tardi per capire ciò che era avvenuto, l’uomo fu raggiunto dal tradimento e dalla morte e l’ombra si prese tutta la sua vita.

Potrebbe succedere davvero che un’ombra sostituisca il suo padrone? Potrebbe accadere che un essere umano lasci che il suo riflesso prenda il sopravvento sulla sua volontà o divenga indipendente?  

In un altro racconto fantastico, un’ombra tentò di recidere il legame col suo padrone. Quanto affermo capitò a un ragazzo che sapeva volare e non voleva saperne in alcun modo di crescere. Come si chiamava? Vediamo… Ah, sì, un certo Peter Pan.

Potete leggere di più su Peter Pan cliccando qui. E perchè no, fate un salto anche qui.

La sua ombra era solita allontanarsi da lui, volare via perché non intendeva restargli accanto. Peter la inseguiva costantemente, per riunirsi a lei, per diventare un tutt’uno con il suo riflesso. Un giorno, Peter, per recuperare la sua ombra, lasciò il suo territorio, l’Isola che non c’è, e volò fino al nostro mondo. L’ombra si era annidata nella camera di una giovane fanciulla, Wendy. Peter inseguì la sua metà fin laggiù e vide la sua ombra che ondeggiava sulla parete, a pochi passi dal letto di Wendy. Il ragazzo che sapeva volare si lanciò contro il muro, afferrò la sua metà e tentò di legarla a sé con ago e filo. Spaventata dal frastuono, Wendy si svegliò e domandò chi fosse quell’intruso. Peter si presentò e spiegò con garbo la sua strana disavventura. L’ombra gli era sfuggita dalle mani nuovamente, quel “riflesso” proprio non ne voleva sapere di unirsi a lui. A volte capita. L’ombra di una persona può non corrispondere affatto al suo padrone: essa può assumere una forma singolare, tanto diversa da non essere riconosciuta dal legittimo proprietario.

L’ombra di Mulan aveva un qualcosa di simile all’ombra descritta da Andersen e a quella inseguita e bramata da Peter Pan. Vedete, l’ombra della ragazza non era un’ombra “viva”, senziente e quindi in grado di scappare via, di sfuggire allo sguardo di Mulan come accadde all’uomo dotto o al giovane capo dei bimbi sperduti.

L’ombra di Mulan non osava incamminarsi per la sua strada, staccarsi da lei. Eppure, anche quell’ombra non apparteneva del tutto alla donna che la proiettava. Pareva un’entità a sé stante, lontana, irriconoscibile. Mulan osservava la sua ombra e non la discerneva, come se la figura che il suo corpo proiettasse non corrispondesse ai suoi voleri, alle sue aspettative.

L’ombra di Mulan, come tutte le ombre, la segue e la osserva. Lei ricambia il suo sguardo spento e cerca di indagarla. Quell’ombra che Mulan vede e che non riesce ad afferrare, a far sua all’inizio del film, è l’ombra di una sposa ubbidiente, di una figlia devota, che deve essere accondiscendente, taciturna, ponderata, raffinata, puntuale, tutte quelle cose che Mulan cerca di approfondire al principio della sua storia e che proprio non coincidono con la sua vera personalità.

Mulan non vuole essere una semplice sposa, una donna senza sogni o speranze. Una creatura femminile che vive con il solo scopo di servire il marito, badare alla casa o alla crescita dei figli. Mulan vuole di più, e cerca ancora di capire qual è la strada che vorrà intraprendere. L’ombra che Mulan mira quando fa ritorno a casa è un prolungamento che non riconosce, perché è il riflesso dei desideri di chi le sta accanto, la sua famiglia, i suoi conoscenti; auspici che lei stessa non può e non potrà mai soddisfare perché non corrispondono ai suoi autentici sogni. Mulan non lascerà mai che la sua ombra – l’insieme delle richieste della società patriarcale che la circonda – fagociti sé stessa, che si sostituisca a lei come accaduto all’uomo erudito della fiaba di Andersen. Allo stesso tempo, come Peter Pan che insegue la sua ombra per divenire un tutt’uno con lei, anche Mulan vuole che la sua ombra assuma i contorni del suo vero “Io”, si unisca a ciò che sente nel suo ego, nella sua intimità.

Tutto questo, oltre che per l’ombra, vale anche per il riflesso chiaro ed evidente che la fanciulla vede allo specchio. Mulan contempla più volte sé stessa sulla fredda superficie riflettente. La sua faccia, nella sequenza del film in cui canta il brano “Riflesso”, è ancora impreziosita da un trucco candido. Così, Mulan cerca di toglierlo e il suo volto rimane per un istante diviso a metà: da un lato la sua pelle nuda, ciò che lei è, dall’altro la cute dipinta di bianco, il trucco da sposa, ciò che lei dovrebbe essere.

Così Mulan seguita a cantare cercando di interrogare sé stessa, di scoprire chi è davvero. Dopo aver rimosso completamente il trucco dal volto, Mulan scioglie i suoi capelli. La chioma bruna le scende lungo la schiena. Quei folti capelli che Mulan libera non appena rimuove il trucco saranno i caratteri del suo aspetto che per primi cambieranno non appena avrà compiuto la sua scelta finale. Infatti, quando Mulan deciderà di indossare l’armatura del padre e di partire per il campo di battaglia, la giovane taglierà i capelli con la sua spada, rimuovendo quella parte di sé che accarezzava con la mano quando intonava il suo canto, cercando di capire chi fosse e cosa volesse.

Triste e sconfortata, Mulan siede vicino al padre. Entrambi si trovano immersi nel verde del loro giardino. Accanto ai due, un albero meraviglioso mostra dei rosei fiori appena sbocciati. Il padre se ne compiace. Egli cerca di distrarre la figlia da tutte le preoccupazioni che l’attanagliano. Quindi, attira la sua attenzione. “Che bellissima fioritura che abbiamo quest’anno” -  egli dice. E poi nota che c’è un fiore non ancora fiorito. “Ma guarda… quello è in ritardo. Scommetto che quando sboccerà diventerà il fiore più bello di tutti”. Dicendo ciò, il papà raccoglie un pettine a fermaglio e lo avvicina ai capelli della figlia. Mulan sorride rincuorata. Non sa ancora che è proprio lei quel fiore di cui il papà parla, colei che ancora non è sbocciata, ma quando lo farà i suoi petali saranno i più floridi e i più soavi.

Dopo qualche minuto, al villaggio arrivano i messaggeri dell’Imperatore che ordinano ad ogni famiglia di inviare un rappresentate maschile in veste di combattente. La famiglia Fa non ha eredi maschi, dunque il padre di Mulan, un uomo valoroso ma vecchio e per giunta ferito, accetta di partire di nuovo per la guerra. Mulan è disperata: sa benissimo che il suo anziano padre non potrà sostenere il peso di una battaglia. Pertanto, la giovane tenta di convincerlo a rifiutare la chiamata ma il padre non può farlo, ne va di mezzo l’onore della famiglia. Durante la cena a casa Fa, Mulan implora il genitore di disertare ma questi si infuria: “Io so qual è il mio posto” – egli sbotta – “È ora che impari qual è il tuo”.

Già, ma qual era il posto che Mulan avrebbe dovuto conoscere e rispettare? Quello della donna tacita e accondiscendente? Fortunatamente, Mulan avrà la forza di fare ciò che reputerà giusto e troverà da sola, attraverso le sue gesta, la propria dimensione.

Di donne che non hanno rispettato il proprio “posto” o, perlomeno, “il posto” che la società del tempo impartiva loro, ce ne sono state tante. Alcune di esse sono passate alla storia e sono divenute fulgidi esempi di coraggio e abnegazione, donne pronte a dare la propria vita per ribellarsi a qualcosa che ritenevano ingiusto. Pensate ad Antigone, la donna protagonista della tragedia greca di Sofocle che non accettò di starsene al suo posto, e che fronteggiò i suoi oppositori con il valore delle sue parole e con il peso delle sue azioni.

Parte del vissuto di Antigone e della sua lotta vengono già accennati negli ultimi passi dell’opera di Eschilo “I sette contro Tebe”.  La tragedia di Sofocle – che pone per l’appunto Antigone come assoluta catalizzatrice delle vicende – narra ciò che avvenne dopo la conclusione del dramma eschileo. Il mito di Antigone, che desidera seppellire il fratello Polinice sebbene quest’ultimo sia perito combattendo fra i ranghi dei nemici di Tebe non meritando, quindi, gli onori funebri, affonda le radici nelle leggende della stirpe di Edipo.

Antigone segue la voce del suo cuore, i sussurri della sua coscienza. Ella conosce la legge della sua città e il volere del suo nuovo Re, Creonte, ciò nonostante ad essi si ribella. Antigone non può accettare che il corpo senza vita del fratello Polinice venga abbandonato, pertanto si erge contro un dettame che reputa disonorevole ed errato.

Per Sofocle, Antigone è una creatura femminile segnata dal dolore; una donna che ha veduto la sua giovinezza sfiorire in un attimo, divenendo vecchia alle soglie della fanciullezza, quando l’evento tragico si abbatté sulla sua famiglia e in particolare sul padre Edipo. Dalla sofferenza, Antigone trae la forza necessaria per compiere la sua battaglia personale. Lo spirito di Antigone è dominato da una nobile passione che trascende il comune sentimento umano. Antigone agisce di sua volontà, viola le leggi della sua città e copre di terra il corpo privo di sepoltura del fratello, e lo fa con un coraggio senza eguali, conscia che così facendo andrà incontro alla sua stessa morte. Ciò che Antigone vuole far rispettare è una legge non scritta, secondo la quale i defunti, tutti, devono essere seppelliti con rispetto, comprensione e umanità. Creonte, al contrario, intende far rispettare la legge dello Stato, ignorando con superbia la legge morale. Antigone non intende piegarsi, restare al posto che il sovrano le ordina; ella lotta per quello che reputa corretto, rifiuta ogni compromesso, si isola e si irrigidisce in un radicale scontro col mondo e l’intera società che la circonda. Antigone sfida l’ordine costituito, il costume della sua epoca e lo fa per proteggere l’onore del fratello caduto e da lei ancora amato.

Come Antigone, Mulan, la protagonista dell’opera disneyana, sfida la legge del suo tempo per proteggere il proprio padre, costretto a prendere parte a una guerra da cui non sarebbe mai più tornato. Mulan, con la medesima sfrontatezza e audacia del personaggio cardine della tragedia sofoclea, ragiona con la sua testa, ignora una legge sbagliata, capovolgendola, mettendola in discussione, e lo fa mutando il suo aspetto, mascherando sé stessa, senza però perdere la femminilità di cui è portatrice. Al pari di Antigone, Mulan è una donna che riscrive il proprio posto con fermezza e animosità, mettendo in pericolo la propria vita per un fine superiore.     

Dopo la cena con i suoi genitori, bruscamente interrotta dalla rabbia momentanea del padre, Mulan va via e si lascia andare ai pensieri. Durante la notte viene giù una pioggia intensa; la fanciulla, osservando ancora il proprio riflesso nell’acqua cristallina, prende la sua decisione. Chiedendo perdono ai suoi antenati, Mulan ruba l’armatura del padre e raccoglie fra le sue mani la spada. La lama estratta dal fodero brilla sul viso della protagonista, mostrando l’immagine del suo volto deciso. Con quella spada, Mulan taglia parte dei suoi capelli, segno della sua femminilità, del suo sacrificio, della rinuncia che sta compiendo per proteggere i suoi cari. Prima di rinfoderarla, Mulan mantiene per qualche istante la spada al centro del suo viso: l’argento della lama lo divide a metà, esattamente come era accaduto quando Mulan aveva ripulito il suo ovale dal trucco. Ancora una volta nel lungometraggio si presenta il tema della dualità, la divisione tra i doveri che Mulan dovrebbe compiere e le azioni che in realtà vuole attuare. Inguainando la spada, Mulan completa la sua scelta. Ella trasforma sé stessa, mascherandosi da soldato e quindi da uomo per intraprendere un viaggio alla scoperta del proprio “Io”.

La nonna si sveglia di soprassalto, come se avesse avvertito la fuga della nipote. L’anziana prega gli antenati di vegliare su Mulan. Essi rispondono all’appello e si manifestano, in gran segreto, come spiriti evanescenti. Da una nube grigia e fumosa emerge Mushu, un draghetto dalla pelle rossastra. Egli affiora con le braccia tese verso l’orizzonte, al grido di “Sono vivo”. Beh, in effetti, in quella posa Mushu ricorda il personaggio del mostro di Frankenstein, appena ridestatosi da un sonno eterno.

Al draghetto viene chiesto di risvegliare il più potente dei draghi protettori della famiglia Fa, così che questi possa accorrere in aiuto di Mulan. Purtroppo (o per fortuna) Mushu combina un disastro e non riesce a richiamare alla vita il dragone. “Che fare adesso?” - pensa il draghetto. Idea! Sarà lui ad accompagnare Mulan, a sostenerla nel suo inganno, così da poter riscattare sé stesso agli occhi degli altri antenati, che lo considerano nulla più che un suonatore di gong.

Mushu raggiunge Mulan, arrivata nei pressi dell’accampamento militare. La fanciulla e il draghetto fanno subito amicizia. Entrambi hanno molto in comune: sono ambedue avventurieri impreparati, incerti, impacciati e, perché no, anche inattesi. Ma perché inattesi?

Beh, perché entrambi non sono ciò che tutti si aspettano. Mulan non è un grande guerriero né un valoroso combattente maschile. Ella è infatti una donna, che sa ben poco di battaglie e duelli. Mushu è un drago, ma non di quel tipo che potremmo attenderci di vedere. Egli non è imponente, maestoso, non ha una grossa apertura alare, non vola su nel cielo, al contrario è piccino e, di primo acchito, potrebbe facilmente essere scambiato per una banale lucertola. Mushu e Mulan devono dimostrare di che pasta sono fatti: la donna dovrà dare a vedere d’essere un guerriero capace, forte e coraggioso, Mushu dovrà invece dimostrare d’essere un guardiano affidabile.

Appena giunta al campo d’addestramento, Mulan conosce il capitano Li Shang, che la colpisce al primo sguardo. Mulan, naturalmente, non può darlo a vedere. Ella d’ora in avanti dovrà far finta d’essere un uomo e comportarsi come tale. Quello stesso giorno, la giovane fa la conoscenza di Yao, Chien-Po e Ling, i quali, dopo qualche incomprensione iniziale, diverranno suoi amici.

I giorni scorrono via e l’addestramento si fa sempre più duro e impegnativo. Tutti i combattenti devono imparare la dura arte della guerra, migliorarsi quotidianamente. Il capitano Shang farà di loro dei veri uomini, col sudore, l’impegno, e la sofferenza. Mulan sarà la recluta più abile e tenace, prevalendo in tutte le prove. Al ritmo di “Farò di te un uomo”, l’unica donna della guarnigione trionferà su tutti gli altri.

L’avventura di Mulan sarà lunga ed estenuante. Ella combatterà in battaglia, alle pendici di un monte ricoperto di neve. In quel luogo, si troverà faccia a faccia con Shan Yu. La giovane riuscirà a respingere con un astuto stratagemma la carica dell’armata Unna, ma le ferite che riporterà la obbligheranno ad ammettere la verità: ella è una donna, non un uomo. Una volta che la menzogna è stata svelata, Mulan viene abbandonata a sé stessa, ma non si darà per vinta. Giungerà sino alla città Imperiale, per salvare il suo sovrano. Gli Unni si sono infatti nascosti all’interno di un dragone di scena, che sfilava nel centro cittadino. Il dragone, come il cavallo di Troia ideato da Ulisse, era penetrato nella città per distruggerla dall’interno, per sorprendere i suoi abitanti intenti a festeggiare, noncuranti del pericolo nascosto proprio sotto il loro naso.

Mulan riuscirà a fermare Shan Yu e a salvare l’Imperatore. Quando quest’ultimo vedrà Mulan partire via, sussurrerà a Li Shang che “Il fiore che sboccia nelle avversità è il più raro e il più bello di tutti”. L’immagine sbiadirà nuovamente, e la scena si sposterà su un luogo diverso: la dimora di Mulan. Il padre della ragazza attende, seduto in giardino, speranzoso, il ritorno della figlia. Quel fiore che non era ancora sbocciato e che egli aveva visto insieme a Mulan poco tempo prima è finalmente fiorito. Esso cade giù dal ramo, poggiandosi sulla gamba dell’anziano genitore. Il padre lo ammira, lo sfiora con le dita. In quell’istante, Mulan riappare sulla soglia di casa. È lei, è Mulan il fiore sbocciato nell’avversità. Ella è divenuta, come il padre aveva immaginato, il fiore più bello e più prezioso.

"L'ombra di Mulan e la sua fioritura" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

Quando Mulan e il papà si congiungono in un abbraccio, i loro corpi vengono riflessi nello stagno d’acqua che si trova nella casa della famiglia Fa. Se Mulan avesse voltato lo sguardo avrebbe visto il suo riflesso e avrebbe finalmente riconosciuto la sua immagine, perfino la sua ombra. Mulan è divenuta tutt’uno con sé stessa, la donna che ha sempre voluto essere agli occhi dei suoi genitori e di sé stessa. Una donna intrepida, risoluta, che sa cosa è giusto fare.

Mulan ancora non ne è a conoscenza, ma di lì a poco Li Shang varcherà la soglia della sua casa e i due potranno vedersi di nuovo, questa volta senza trucchi o inganni. Nel frattempo, Mushu ha fatto ritorno fra gli antenati: anche lui, d’ora in avanti, potrà rimirare il suo riflesso e vedersi per come ha sempre desiderato: un guardiano riconosciuto e amato da tutti.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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"Pinocchio" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Era un piccolo insetto della famiglia dei Lampiridi, un po’ in là con gli anni, ed emanava tanta lucentezza. Ray, questo era il suo nome, si era mostrato per la prima ed unica volta in un’opera della Disney di stampo recente, “La principessa e il ranocchio”. Si trattava di un animaletto curioso e dalla verve sognante, non amava affatto il giorno, e attendeva impaziente il calar della sera. Spesso, volgeva gli occhi verso la volta celeste a rimirare una stella in particolare, e non, come fanno tutti, l’insieme dei corpi celesti che ammantano il cielo. Ray si era innamorato di quella stella, tanto da considerarla una lucciola remota, volata troppo in alto, smarritasi nell’infinità dell’universo e rimasta lì, a rinfrancare la vista di chi indirizza il proprio sguardo alla volta della sua essenza lucente. Ray chiamava quella stella Evangeline, ed essa emanava una luce ancor più raggiante di quella che veniva emessa dal corpo da coleottero di questo bizzarro innamorato. Quando Ray lascerà questa Terra, il suo spirito raggiungerà il cielo e diverrà un astro, posto a pochi “attimi” dalla sua stella più amata. Come accadeva a molti degli eroi della mitologia greca, tramutati in costellazioni eternate da Zeus, Ray riuscirà a realizzare il suo desiderio più grande, vivere una vita immortale fianco a fianco a quell’amore che aveva animato il suo cuore, facendolo risplendere di un’aurora sfavillante. Lassù nell’infinito, dove Perseo e Andromeda continuano ad amarsi sotto forma di costellazioni, qualcosa di misterioso e imperscrutabile aveva concesso ad una morente lucciola la realizzazione di un desiderio. Ma chi era stato magnanimo fino a tal punto?

E’ sempre nel cielo che noi uomini releghiamo i nostri sogni inconfessati. Talvolta, aspettiamo d’intravedere la caduta vertiginosa e rapida di una stella, così da esprimere fugacemente un desiderio appena sussurrato ma ardentemente voluto. Crediamo, forse ingenuamente, che quella stella che precipita giù, porti con sé un pensiero pronunciato a bassa voce, e che prima di disperdersi, con l’ultimo dei suoi sforzi, essa scelga di esaudirlo. Su, nel firmamento custodiamo astrattamente le nostre speranze, come se le stelle non fossero altro che banali corpi celesti, pur sempre vivi e palpitanti. Ma anche qualcosa di più, entità divine e magiche che guardano dall’alto e aiutano chi si nutre di speranze, giù in basso.

Un giorno lontano lontano, un anziano falegname, tanto buono, implorò una stella di fargli dono di un figlio. No, tale stella non era Evangeline. Eppure, anch’essa era impregnata di una scintillante magia, pronta ad accontentare il volere di un uomo umile e generoso. Nelle prime sequenze di “Pinocchio”, uno dei grandi capolavori dell’animazione firmato Walt Disney, lungometraggio ispirato all’altrettanto capolavoro di Carlo Collodi, il Grillo Parlante tiene immediatamente a precisare come le stelle possano render possibile qualunque desiderio. Inizialmente, noi spettatori potremmo dubitare di tale affermazione, del resto lo stesso Grillo ammette, senza remore, d’aver peccato di fiducia anch’esso, in principio. Diffidare del fantastico è insito nell’indole umana. Ma la storia che il medesimo, coscienzioso animaletto andrà a rinarrare ci permetterà di credere.

 

Tanto tempo fa, una sera in cui le stelle brillavano come diamanti incastonati in un “soffitto” privo di nuvole, un intagliatore di legno se ne stava nella sua casetta a lavorare. Ancora due tocchi e l’ultima delle sue creazioni si poteva finalmente dir finita. Geppetto era sul punto d’ultimare un grazioso burattino, ricavato da un ciocco di legno pregiato. Con la punta del pennello, l’artista si accingeva a dipingere i restanti tratti del viso del burattino: dapprima le sopracciglia brune, le guance purpuree ed infine la bocca, tratteggiata ad arte per far risaltare l’espressione di un dolce sorriso. Geppetto era un artigiano d’impareggiabile bravura, un “Efesto” povero che svolge la sua attività in casa, adibita anche a bottega, piuttosto che nelle viscere di un vulcano attivo destinato a fucina e a dimora. Tutto intorno alla casa di Geppetto era “vivo”, anche ciò che apparentemente non lo era affatto. L’interno di quell’abitazione trasudava di meraviglie. Vi erano sulle mensole fantastici giocattoli, su altri scaffali, invece, carillon e scatole musicali, tanto piccole da poter essere tenute nel palmo di una mano. Dozzine di orologi arricchivano, infine, un’intera parete, ed ognuno di essi era diverso, singolare, lavorato a mano. Ad ogni scoccare dell’ora gli ingranaggi, così accuratamente progettati, facevano scattare i meccanismi, per cui le statuine poste in sommità cominciavano a simulare ritmicamente un movimento, un fischiettio, un cenno. Erano tutti oggetti costruiti dalla sapiente abilità dell’artigiano, “inanimati” seppure in movimento, nel loro progredire meccanico, senza vita ciononostante erano stati generati da un atto creativo, da un gesto d’amore per il proprio lavoro e la propria arte. Geppetto, nei suoi orologi, animava il tempo, infondeva in esso la vita e l’arte. Erano quelle le realizzazioni di una vita, mai vendute né forse mai apprezzate da alcuno. Il Geppetto della Disney non sembra soltanto isolato, come quello venuto fuori dalla penna del Collodi, pare altresì un lavoratore la cui arte risulta essere incompresa. I giocattoli che riposano inermi, aspettano, come se fossero stati “partoriti” e destinati ad un bambino mai giunto, un erede che Geppetto non ha mai avuto ma che ha tanto agognato. Nel film di Walt Disney, Geppetto è già padre nell’animo, deve solo diventarlo realmente.

Il falegname era tanto solo, forse aveva perduto sua moglie molto tempo prima e, conseguentemente, non aveva avuto figli. Le sue uniche compagnie senzienti e vive erano una “pesciolina” rossa, Cleo, e un gattino dal manto scuro, Figaro. Non potendo più generare una vita con la sua sposa, e non avendo neppure la possibilità di adottare un infante, Geppetto trascorreva i suoi anni a creare, come poteva, la vita, usufruendo dei materiali più disparati. Attorniato da tanti oggetti nati dalla sua mente e plasmati dalle sue mani, Geppetto viveva immerso in un mondo in cui vita vera e vita fittizia coesistevano, dando l’illusione d’essere simili. Tutto pareva esser vivo nella sua casetta, poiché tutto si muoveva ed aveva una forza espressiva ammirabile, iniettata dalla sua bontà creativa.

Il burattino, chiamato dall’artigiano Pinocchio, era divenuto per Geppetto il preferito. Come se lui fosse un puparo e quella la sua adorata marionetta, egli la muoveva con i fili, così da farla danzare allegramente per tutto l’ampio stanzone. Il vecchio falegname era arrivato a considerare quell’ometto di legno come un figlio. Purtroppo, però, quel bimbo intagliato e scolpito non era reale, e poteva muoversi solamente per volontà altrui. Così, quella notte, Geppetto pregò una stella radiosa di tramutare il suo Pinocchio in un bambino vero.

Fu in quel momento che la stella si “staccò” dalla cupola celeste e discese giù, tramutandosi in una splendida fata dai capelli d’oro. La Fata Turchina aveva avuto pietà, oppure aveva scorto qualcosa nell’ultima fatica dello squattrinato falegname. Quel legno da cui era sorto Pinocchio aveva un che di fatato. Geppetto era riuscito a catturare col desiderio la linfa vitale della natura. Bastava soltanto il tocco di bacchetta di una “maga” per alitare quel soffio di vita di cui Pinocchio aveva bisogno. Dalle nuvole venne giù una “madre” bellissima, dipinta con tale magnificenza dagli artisti della Walt Disney da non averne eguali.

La fata azzurra è avvolta da una fulgida luce, ha le labbra rosse come mele appena raccolte, gli occhi cerulei come il cielo terso dal quale proviene, le ali argentee e cristalline come drappo di velluto trasparente e indossa un vestito azzurro, ricco di merletti pregiati e tempestato di pietre preziose. Nelle pellicole d’animazione, poche sono le donne, come tale figura di fata, concepite e ritratte con tale vivezza e splendore da poter essere considerate “vere”, reali, tangibili, concrete allo sguardo, tanto autentiche da confondere il già citato senso della vista e dare l’impressione di poter essere addirittura sfiorate dal tocco di una mano, protesa verso lo schermo nel vano tentativo di lambire un tratto della pelle.

La fata dona la vita al burattino e gli promette che se si dimostrerà obbediente, coraggioso e disinteressato, la magia si compirà del tutto, fino a farlo diventare un bambino vero per sempre. Inizia così l’avventura di Pinocchio, il quale, spalleggiato dal fedele Grillo Parlante, andrà ad esplorare il mondo esterno e conoscerà i pericoli della società e le tentazioni del male.

Pinocchio scopre il mondo un po’ alla volta, con ingenuità, con una certa innocenza ma soprattutto attraverso la menzogna, arma furbescamente usata dall’uomo sin dalla più tenera età per ottenere ciò che vuole. Ma Pinocchio scoprirà a sue spese che le bugie, se non accorciano le gambe, riescono comunque a mostrarsi con la crescita spropositata del naso. Giungerà poi sino al paese dei balocchi, e lì rischierà di trasformarsi in un asinello, metafora estetica dell’ignoranza, come accadrà al suo amico Lucignolo, in una delle scene più marcatamente inquietanti mai girate dagli studi Disney.

Nella suddetta scena, Lucignolo regge con bramosia un calice traboccante di birra, fuma con impazienza un sigaro, denigra superficialmente il sapere scolastico, ed è platealmente incline al gioco d’azzardo. Walt Disney, mutando il corpo dell’ingenuo amico di Pinocchio, ammonisce i suoi piccoli spettatori sui vizi che creano dipendenza, anche a costo di spaventarli. Lucignolo, quando nota il suo progressivo cambiamento, disperato, chiede aiuto a Pinocchio, lo prega di far arrivare in fretta e furia il suo Grillo, e, come ultima delle sue parole pronunciate da umano, invoca la sua mamma, prima di trasformarsi in un ciuchino impazzito e senza più salvezza. Pinocchio comincia così a trasformarsi, ma sarà l’arrivo provvidenziale della sua stella amica, il Grillo, a salvarlo.

Pinocchio si pente e intraprende un viaggio a ritroso di espiazione, alla ricerca del padre. Grazie alla figura del Grillo Parlante, non soltanto coscienza ma anche spalla del protagonista, Pinocchio si ravvedrà giusto in tempo, prima di soffrire e di dannarsi, in una rilettura didascalica operata dall’opera filmica che suggerisce come il percorso di crescita adempiuto da Pinocchio sia stato necessario per permettergli di ben distinguere il bene dal male.

Come i marinai, orientati dal sestante durante la navigazione, Pinocchio sarà guidato dalla sua stella più cara, la sua diretta consigliera, incarnatasi nuovamente nel suo amico, il quale lo accompagnerà sino in mare aperto, dove il burattino verrà inghiottito dalla balena e si ricongiungerà al padre. La balena raffigurata dagli artisti Disney è gigantesca, buia come il nero di seppia, non bianca come il capodoglio bramato da un tale capitano, uno dei tanti protagonisti della letteratura americana, con denti aguzzi e sguardo predatorio. Pinocchio, rimasto ancora con le orecchie e la coda da somaro, segno di come il suo peccato continui a perseguitarlo, escogiterà un modo per salvare se stesso e la sua famiglia.

Il suo gesto eroico e coraggioso gli farà ottenere la salvezza: la Fatina, infatti, avrà misericordia del piccolo burattino, oramai moribondo e stremato dalla fatica, e soffierà in lui nuova vita, questa volta rendendolo un bambino in carne ed ossa. Il Grillo, come premio per il suo operato, riceverà dalla fata un distintivo d’oro, che avrà proprio la forma di una stella.

Sul finale, il “Pinocchio” della Disney celebra l’importanza del nucleo famigliare e la gioia del ritrovamento tra padre e figlio. Mentre scende nuovamente l’oscurità, ed una stella torna a irradiare con la sua luce il buio della notte, Pinocchio, il Grillo, Geppetto, Figaro e Cleo ballano felici e contenti. Questa volta, Pinocchio, nel compiere i suoi passi di danza, non è più mosso da alcun filo ma unicamente dal suo volere e dalla sua pura coscienza. Tutto merito di quella meravigliosa stella!

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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"Lilo e Stitch" - Disegno di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

  • Un anatroccolo “sospettoso”

Suspicious Minds

“We can't go on together
With suspicious minds (Suspicious minds)
And we can't build our dreams
On suspicious minds”

Il lungometraggio della Walt Disney “Lilo e Stitch” è cadenzato da una colonna sonora costruita proprio su alcune delle più famose canzoni di Elvis Presley. Nella canzone “Suspicious minds”, letteralmente “pensieri sospettosi”, i presunti e paranoici sospetti tra una coppia d’innamorati frenano il naturale evolversi di un amore appena sbocciato. In “Lilo e Stitch”, tali incerti pensieri potrebbero tramutarsi in interrogativi nati per dare una risposta esaustiva a dubbi circa l’origine di Stitch. Stitch viene visto dai più come un cane dall’eccentrico aspetto; ma perché i suoi atteggiamenti sono così intimidatori? Chi è questa insolita creatura che ha catturato, con grande attenzione, lo sguardo della piccola Lilo? Da dove proviene? E dunque sull’incredibile origine di Stitch che ha inizio il nostro viaggio immaginario, il cui itinerario prevede la traversata di bacini d’acqua pura e cristallina popolati da splendici cigni, oltre che l’esplorazione di nuovi pianeti mai raggiunti dall’uomo su cui vivono bizzarre forme di vita aliene.

In un terreno acquitrinoso, ricco di graminacee a culmo legnoso, giacciono i gusci bianchi di uova appena dischiusi. In questo soffice canneto, una mamma anatra sta osservando per la prima volta i suoi piccoli venuti alla luce. Si accorge, subito dopo, che un uovo, quello di colore azzurrognolo, è anch’esso pronto a schiudersi. Ne viene fuori un esserino piuttosto particolare, dal piumaggio grigiastro. Il piccolo “anatroccolo” è più conformato dei suoi fratelli e anche molto più goffo nei movimenti mentre annaspa sul terreno.  La madre, seppur confusa dalla strana nascita, lo sospinge con il becco, per cercare d’affiancarlo ai suoi fratelli, i quali, però, sorpresi dal particolare piumaggio vorrebbero tenerlo lontano, quasi a emarginarlo. “L’anatroccolo” viene quindi messo in disparte senza rendersi conto del perché, e rimanendo triste e solo, decide di fuggire via.

I passi di questa meravigliosa fiaba vengono letti con grande coinvolgimento da Stitch, una creatura errante proveniente da un mondo al di là della Terra. Fu la piccola Lilo, una bambina hawaiana che prese Stitch con sé, a fargli conoscere la storia del brutto anatroccolo, scritta dall’autore danese Hans Christian Andersen.  Stitch empatizza con l’impacciato cucciolo e sente di somigliargli molto. Ma lui non è nato da nessun uovo. A dire il vero, non ha né una madre né un padre. Egli è stato plasmato dal pensiero e forgiato dalla volontà, dalla mente creativa e dall’ingegno di un inventore extraterrestre. Non vide la luce in un recinto sbagliato, bensì attraverso un evento innaturale. Stitch è un essere vivente nato su di un pianeta remoto per seminare incertezza e sgomento, violenza e terrore. Nonostante le sue minute dimensioni, Stitch, battezzato alla nascita col numero di laboratorio 626, è un esperimento scientifico sfuggito al controllo del proprio padrone e condannato all’esilio su un pianeta desertico. Come accaduto al brutto anatroccolo, anche Stitch viene rifiutato da tutti e costretto ad allontanarsi dall’habitat in cui spalancò i suoi occhi al mondo. A differenza dell’anatroccolo, tuttavia, Stitch non fu scacciato per il suo aspetto bizzarro, quanto per la sua pericolosità. Il suo essere stato concepito per “distruggere” lo condanna, irrimediabilmente, ad essere ritenuto una costante minaccia. Durante il trasporto sulla nave, Stitch riesce a venir fuori dalla sua cella e a dirottare l’astronave verso la Terra, precipitando nelle isole Hawaiane. Stitch non si perderà in un recinto di anatre ma finirà per “mimetizzarsi” in un canile, venendo incautamente scambiato per un canide dall’aspetto bislacco. Di lì a poco, verrà adottato da una famiglia, no, non certo una famiglia di cigni, ma di umani.

Lilo, l’adorabile bambina giunta al canile con la sorella Nani, lo sceglie tra tanti e se lo porta a casa, imponendogli affettuosamente il nome di Stitch. “L’animale”, in virtù della sua natura, ha un carattere indomito e pestifero e per questo motivo causerà non pochi problemi alla sua nuova famiglia. Nani fatica, anche a causa di Stitch, a trovare lavoro e sa che se non riuscirà a migliorare la sua precaria situazione, perderà la sua sorellina, la quale dovrà essere trasferita in un orfanotrofio, in attesa di essere adottata da una nuova famiglia.

Stitch, in un momento particolare della sua storia, tiene in mano il libro delle fiabe di Andersen, scorrendo con gli occhi le pagine scritte. Chi lo sa se già in quel momento egli riusciva a comprendere perfettamente ciò che stava tentando di leggere nella lingua degli umani. Magari, in quei frangenti faticava ancora a capire completamente il senso delle frasi, ma l’illustrazione di quel “brutto” anatroccolo che procedeva solitario, lasciandosi alle spalle quella nidiata, che per lui non fu mai la sua famiglia, lo colpisce profondamente. “Sono come lui” avrà detto tra sé. Stitch si identifica così con la figura del brutto anatroccolo, per un destino analogo ma al contempo diverso. La favola del brutto anatroccolo viene spesso raccontata ai bambini per rincuorarli e non farli sentire soli, vittime del timore di non essere accettati dagli altri. In te si nasconde più di quanto l’apparenza dà a vedere. Un giorno diventerai un bellissimo cigno, e troverai il tuo posto in questo mondo. E’ ciò che suggerisce in parte lo splendido racconto di Andersen.

E’ per tale ragione che Lilo ama anche lei così tanto quella storia, perché aspetta in cuor suo il momento in cui verrà accettata da un amico. Lilo è infatti triste e sola, e viene ignorata dalle sue amichette per i suoi modi di fare. Se Stitch non ha né un padre né una madre, Lilo ha perduto i suoi genitori in un tragico incidente e il suo unico affetto rimastole è la sorella maggiore. La sua è “una famiglia disastrata”, così la definisce Lilo, ma pur sempre una famiglia. E proprio in questo ironico e disastrato nucleo famigliare, Stitch irrompe non certo in punta di piedi, ma con la vivacità di un incontenibile “figlio adottivo”.

  • Un re del rock

 “Can’t help falling in love

“Wise men say only fools rush in

But I can’t help falling in love with you

Shall I say Would it be a sin?

If I can’t help falling in love with you”   

La musica e le parole di “Can't help falling in love” descrivono in maniera melodiosa l’impossibilità di non innamorarsi. “Non riesco a non innamorarmi di te”, ripete melanconicamente il ritornello della canzone. L’amore ha svariate forme, e può dare vita a legami indissolubili. Una famiglia unita è l’esempio di come l’amore viene veicolato negli affetti famigliari. Si tratta di un tipo di amore che riserviamo ai genitori, ai fratelli e alle sorelle, ai nostri figli, i quali rappresentano forse la forma più pura d’amore che si possa provare, quello riservato ad una creatura che abbiamo generato noi stessi o che abbiamo imparato ad amare come nostra, ed è quell’amore imperituro.

Lilo and Stitch disegnati da Erminia A. Giordano per CineHunters

 

E’ impossibile, di fatto, evitare di innamorarsi della propria famiglia se con essa esiste un legame inscindibile. Famiglia è ciò che include la vicinanza, la cooperazione, il poter contare gli uni sugli altri. “Ohana” significa famiglia, ed è il termine del linguaggio hawaiano maggiormente usato nel film. E in una famiglia nessuno viene abbandonato o dimenticato.

E’ questo l’insegnamento che Stitch carpisce nella sua permanenza sulla Terra. Egli, nato in un ambiente ostile, in cui avrebbe dovuto generare morte e distruzione, muta il proprio essere, venendo influenzato positivamente dalle carezze di una famiglia non proprio priva di tragicomici problemi. La natura violenta di Stitch cambia per far posto ad un temperamento mite, quieto, riflessivo e dolce. Stitch, spronato da Lilo, si “traveste” da Elvis, il re del rock, così da concretizzare il primo vero cambiamento “estetico” riscontrabile in lui nel corso del film. Il personaggio convoglia la sua grintosa energia nella musica, suonando una graziosissima chitarra.

  • Un lago e una fotografia

Always on my mind

Maybe I didn't hold you
All those lonely, lonely times
And I guess I never told you
I'm so happy that you're mine...”

“Always on my mind” non fa parte dei brani della colonna sonora di “Lilo e Stitch”, il che potrà indurvi a pensare che la scelta d’includerlo in questa selezione da me utilizzata per “raccontare” e analizzare i messaggi dell’opera sia ingiusta. Ma non lo credo! “Always on my mind” è una delle canzoni più belle a cui la voce di Elvis abbia mai dato vita e regalato memoria. “Sempre nella mia mente” recita il titolo del brano in questione. Il ricordo di una persona amata, di una parte della nostra famiglia vive nei nostri cuori, e si fa spazio nei nostri pensieri come un’immagine richiamata dal sentimento. I ricordi possono essere immortalati dall’artificio meccanico e chimico di una fotografia.

Solitamente gli scatti fotografici, custoditi all’interno di una cornice, li poggiamo, magari, sulla scrivania, così da poterli rimirare ogni qualvolta sentiamo la mancanza di un momento trascorso o di una persona in particolare. La foto della famiglia di Lilo viene contornata da una simpatica aggiunta: il frammento di una fotografia di Stitch, rintagliato opportunamente, viene inserito insieme a quella di famiglia. Un messaggio meraviglioso per la semplicità, il garbo e l’ironia con cui riesce a comunicare il valore di un ricordo da custodire sempre nella mente e da poter essere, ugualmente, osservato. La famiglia è adesso al completo, tra vecchi ricordi e i prossimi da aggiungere.

«Non importa che sia nato in un recinto d'anatre: l'importante è essere uscito da un uovo di cigno.» (Hans Christian Andersen)

La frase di Hans Christian Andersen tocca il tema dell’importanza delle nostre origini. Non importa dove e come nasciamo, conta se abbiamo nel nostro “io” l’eleganza d’animo di un maestoso cigno. Nelle sue origini, Stitch non può ricercare lo spirito nobile e altero di un bianco cigno. Stitich è, infatti, una creazione, non ha né avrà mai le sembianze di un nobile cigno, regale e leggiadro quando solca le acque limpide di uno specchio lacustre. Per Stitch, la nobiltà armoniosa del cigno ha sede nel suo cuore, nella sua scelta di vita e nella sua evoluzione emotiva. E’ nelle profondità del suo carattere che è contemplabile la bellezza di un cigno.

Stitch è andato contro la sua stessa natura che lo voleva una fiera efferata e indomabile, divenendo un essere buono e pacifico. Nella fiaba, il brutto anatroccolo, alla fine del suo percorso, raggiungerà le sponde di un lago e ammirerà un nugolo di cigni che beatamente sostano sulla superficie dell’acqua. Nuoterà per raggiungerli, attratto dalla loro regale bellezza, e si accorgerà, con grande stupore, che i cigni lo accoglieranno con garbo e cortesia. Quando l’anatroccolo chinerà il capo per scorgere il proprio riflesso, si accorgerà d’essere diventato anch’esso un cigno. Come il brutto anatroccolo, anche Stitch ha trovato il proprio posto e la propria famiglia per conto suo, tuttavia non coi suoi simili. Ed è questa la meraviglia del suo viaggio.

"Stitch con la sua famiglia" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Come il cigno bianco ha mirato il proprio riflesso, così Stitch potrà soffermarsi a guardare la fotografia che lo vede a fianco della sua famiglia e comprendere nuovamente l’importanza dell’Ohana. La casa e la famiglia sono le cose più importanti della nostra vita. Se più persone considerassero la casa e la Ohana prima dell'oro il mondo sarebbe un posto di sicuro più felice. Ma questa è un’altra citazione, magari per un’altra storia…

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Quando ero un bambino e tenevo in mano la VHS de “Le avventure di Peter Pan”, il classico della Walt Disney, sovente, ne scuotevo l’involucro. Speravo, lavorando abilmente di fantasia, che da quella confezione in plastica fuoriuscissero effluvi fatati e polverine magiche. Polveri di fata, per la precisione, granuli di dorata luminescenza, lievi fiocchi di neve di un alone giallastro.  Si trattava, come la fantasia mi suggeriva, di quella stessa polvere di fata che Peter Pan donava ai suoi amici e alla sua Wendy per permettere loro di fluttuare al di fuori della loro cameretta, per volare su nel cielo, verso la seconda stella a destra, per poi proseguire, fino al mattino, alla volta dell’Isola che non c’è. “Chissà se in questa cassetta si nasconde una residua polvere di fata in grado di aiutarmi a volare come un piccolo Peter Pan” - mi domandavo. In vero, quella videocassetta permetteva di volare, seppur non serbava una rimanenza vera e propria di quella polvere fatata. Era la potenza immaginaria della fantasia, quella che il film suscitava con i propri disegni, a permettere al bambino che ero di spiccare il volo. Era inutile continuare a scuotere la VHS con decisione, quando sarebbe bastato inserire la videocassetta nell’apposito videoregistratore e lasciar scorrere il nastro, per far ritorno a Neverland, e volare con la gioia nel cuore…

Il quattordicesimo classico della Walt Disney inizia con una frase recitata da una voce narrante, che spiega come questa storia sia un racconto di ieri come di domani. Un messaggio di natura esistenziale e dalla valenza temporale. “Peter Pan e Wendy” è una narrazione di radice fiabesca, dall’ambientazione favolistica ma dalla morale concreta. Balzare da quell’imprecisato “ieri” e approdare in un misterioso “domani”, e percorrere, se ce ne fosse bisogno, il percorso inverso, già, a ritroso, è possibile e sta alla scelta opzionale di ogni singolo spettatore. L’opera di Barrie, e in egual valore, il lungometraggio della Walt Disney, riguardano tanto il passato quanto il futuro nella vita di ognuno di noi. Da adulti torniamo ad approcciarci a “Peter Pan” con la maturità dell’essere uomini o donne che anelano alla possibilità di rivivere le avventure di un tempo, quando non eravamo altro che bimbi sperduti che a notte fonda si raggomitolano sotto le coperte di un accogliente rifugio celato nelle radici di un grosso albero.

Ripensare ai momenti che precedevano la visione de “Le avventure di Peter Pan”, oggi, quando si è diventati grandi, può generare un solo rammarico, dovuto, per lo più, alla consapevolezza di non essere riusciti a rispettare il volere di un’anziana Wendy, quando in “Hook – Capitan Uncino”, sussurrava ai giovani figli di Peter di smetterla di crescere. Quelle parole che l’anziana nonna pronunciava con gentilezza nei confronti dei bambini dovevano essere carpite come un’esortazione personale. Perdona, cara Wendy, colui che sta fissando su carta queste parole, e perdona anche coloro che le stanno leggendo negli attimi che seguono, perché tutti noi non siamo riusciti a rispettare le tue richieste, ma forse, in cuor tuo, sapevi che non avremmo potuto farlo. Così come lo stesso J. M. Barrie, l’autore di “Peter Pan”, era cosciente della forza immutabile, inestinguibile e universale del tempo. Da bambini diventeremo poi adulti, è la normale progressione della vita.

“Le avventure di Peter Pan” traspone lo spirito avventuroso e visivamente onirico dell’opera originaria, nella quale il sogno di un mondo d’incomparabile bellezza come l’Isola che non c’è avvolge le vicende dei protagonisti come un solo e incommensurabile sfondo che domina la totalità scenografica di un palcoscenico. Eppure, il tutto è trattato con maggiore spigliatezza, con un senso di frivola giocosità, ben lontano dalla cupezza nascosta dell’opera teatrale e letteraria. Una drammaticità occultata sotto le vesti colorate di Giglio Tigrato e degli indiani a cui appartiene, eclissata sotto la maschera arrabbiata e malinconica di Capitan Uncino, e dissimulata nel volo senza fine di quel ragazzo che non vuole in alcun modo accettare di crescere. Nel racconto di J. M. Barrie le inquietudini degli adulti e le paure della fine dell’esistenza impossibile da evitare, vengono incarnate nella crudeltà di Capitan Uncino e miscelate alle avventure dei piccoli protagonisti. Riprendere visione de “Le avventure di Peter Pan” da grandi, evoca la reminiscenza delle aspettative sognanti della fanciullezza, quando la nostra immaginazione indugiava sul nostro futuro e sulle speranze ad esso accomunate.

Quando si è piccoli, si spera di crescere in fretta, quando si è già grandicelli, invece, si vorrebbe, a volte, tornare piccini a riprovare la letizia di un mondo ovattato quale poteva essere quello della fantasia distensiva e senza freno di un bambino. Lo scritto di Barrie è incastonato nell’ineluttabilità del tempo, nella sua scorrevolezza impossibile da arrestare. La sua storia non è soltanto un sogno, è la trascrizione di una fantastica avventura che svanisce come la fiammella di una candela che sta per consumarsi, dinanzi all’inclemenza del tempo, che porta a crescere e, un giorno, a cessare d’esistere. L’infanzia e l’età adulta vengono da Barrie poste a distanza come due piani esistenziali di difficile interazione comunicativa. Ciò non sembra accadere nell’opera della Walt Disney, nella quale il brio sognante è tanto forte da coinvolgere sia il bambino che l’adulto.

“Le avventure di Peter Pan” più di offrire una visione della vita in senso introspettivo, vuol rivolgersi ai fanciulli e in egual misura agli adulti, non facendo però ripensare loro al periodo dell’infanzia come a un momento lontano e di difficile ritorno. Come avviene in “Bambi”, film che fa da raccordo tra l’innocenza dell’infanzia e la futura consapevolezza dell’età adulta, la pellicola disneyana di Peter Pan fa da ponte tra la giovinezza e la maturità, in un tratto percorribile da ambo le parti. Il film vuol far riemergere il bambino che è in noi, quel Peter Pan che sonnecchia nel nostro intimo, pronto a risvegliarsi non appena mira il librare dei protagonisti sopra il Big Ben di Londra. Non vi sono però tracce critiche riservate al freddo e distaccato mondo degli adulti come avviene nell’adattamento originario, questo perché entrambe le fasi della vita vengono quasi accomunate dalla grazia del sogno. Se Barrie, nelle sue intenzioni autoriali, desiderava tracciare una linea di demarcazione spessa e conseguenzialmente ardua da superare tra la gioventù e la maturità, il film della Disney si differenzia dal volere dello scrittore per un uso tradizionale dello stile comunicativo, rivolto in maniera innocente a tutta la famiglia; in special modo a quei genitori che possono tornare a sentirsi bambini, magari, stretti in un abbraccio coi loro figli.

“Le avventure di Peter Pan” è una fiaba Disneyana scandita da musiche di rara soavità, scritta e sussurrata per far risuonare melodie brezzate, inafferrabili ma udibili come vento incanalato tra le fessure di uno spazio ristretto. Musiche leggiadre come l’aria che soffia verso nord, eteree come un bel sogno che scivola via tra nuvole bianche che sopiscono in cielo. Walt Disney affermava: “Se puoi sognarlo, puoi farlo”. Tale motto viene conformato alla figura di Peter Pan e alla magnificenza del suo lungometraggio d’animazione. “Peter Pan” è di fatto la personificazione del sogno, colui che riesce a volare senza l’ausilio della polvere di fata proprio perché fa dei suoi sogni felici la cadenza ritmata di un battito d’ali.

I fondali del film sono dipinti con una resa scenografica meravigliosa, i cui scorci vengono popolati da pirati inferociti. Nei mari bluastri albergano sirene di infinita bellezza e nelle fitte boscaglie, il terreno viene calcato da indiani estremizzati e bimbi sperduti.

Tutti i personaggi sono disegnati secondo una vasta gamma di capacità espressive: a cominciare da Peter, dalla mimica furbesca e dal diabolico sguardo, per passare a Wendy, dal volto dolce e affettuoso, fino ad arrivare al personaggio più emotivo e intenso di tutti: Trilli.

La scia dorata che lascia sul tragitto velato del suo volo, il suo aspetto da giovane e splendida donna contenuto in un fisico da Mignolina, il suo viso ornato da bionde ciocche di capelli e da gote purpuree, il suo battere di piccole ali fatate e quei suoi occhi sprizzanti gelosia, per via di un amore non corrisposto, fanno di Trilli un personaggio semplicemente fantastico, delineato con tratti cromatici di puro incantesimo.

Merita, in questi passi riservati ai personaggi, una menzione speciale l’antagonista del film, Capitan Uncino. Di temperamento afflitto ma dalle volontà esasperate, Capitan Uncino conserva quasi del tutto il fascino malvagio della sua controparte. La sua sconsiderata paura del coccodrillo marino, e quel suo urlo disperato, quando invoca il provvidenziale arrivo del fidato Spugna, sono fonti di alcune sequenze esilaranti entrate di diritto tra le scene più famose della Disney. Al tempo, era per certi versi una novità quella di poter rallegrare e far sorridere i bambini anche con le tragicomiche vicissitudini del personaggio negativo.

Capitan Uncino fu uno dei primi cattivi della Disney ad avere una rilettura brillante e a farsi carico della malvagità intrinseca del suo animo esternandola mediante una maschera triste e insoddisfatta.  Più che un vero malvagio, Uncino sembra un deprimente ritratto di infelicità, di vittimismo. Il Capitan Uncino della Disney è forse il personaggio che più risente del suo essere investito dal peso di ciò che Barrie voleva suscitare col suddetto antagonista: l’incompiutezza di una vita, che trova motivazione nella deprecabile ossessione di uccidere Peter Pan.

Uncino è la paurosa ansietà dell’autore in merito allo scorrere inesorabile del tempo, che ticchetta come un terrore remoto e snervante in quella sveglia inghiottita dal Coccodrillo e il cui suono viene ritmato e mimato dall’espressività famelica del rettile. Come non mai in questo film, grazie a un’animazione laboriosa, la mimica ingorda dell’anfibio viene scandita dal suono della grossa sveglia, come se fosse proprio il tempo, rappresentato con tanto di artigli affilati e sfilze di denti aguzzi, a voler divorare l’anima e il corpo del capitano.

Con “Le avventure di Peter Pan”, la Disney ci ricorda l’importanza di tornare a sognare, di credere in quelle fate che albergano tra i nastri di pellicola di ogni singola videocassetta che custodivamo un tempo nella videoteca della nostra casa.

Forse, oggi, le fatine vivono tra le memorie nascoste di un moderno DVD, il quale, se scosso, continuerà a non rivelare alcuna traccia di polvere fatata; questo perché se vorrete tornare a volare, vi basterà aprire la confezione, attendere che il sipario si alzi, e far ritorno a Neverland. E se malauguratamente non doveste ricordare la strada, potreste sempre seguire una luce dorata che proviene in lontananza: è un vascello pirata rivestito apparentemente “d’oro” che naviga tra un mare di stelle.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Aurora e Filippo disegnati da Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Soffermatevi per qualche istante a immaginare di camminare tra i cunicoli di una grande biblioteca, con centinaia di ripiani su cui riposano migliaia di tomi l’uno affianco all’altro. Negli angoli rimasti vuoti, alcuni volumi sono stati come introdotti per questioni di spazio in maniera caotica, e accatastati l’uno sopra l’altro. E’ la bellezza di questa immaginifica biblioteca, in cui sono custoditi tanti di quei libri riguardanti i racconti popolari, le fiabe più amate, da sembrare quasi infiniti. L’ampiezza delle librerie suddivise in più scaffali, ognuno di essi leggermente piegato dal “peso” della conoscenza, potrà causarvi un effetto claustrofobico. Potrebbe sembrarvi di essere in un labirinto, e per farvi strada dovrete attraversare stretti corridoi. Seguitando ad andare avanti arriverete alla sala grande, rotonda, nel cui centro staglia un leggio che emana una luce intensa, visibilmente dorata, come una bionda ciocca di capelli appartenuta a una principessa delle fiabe. A quel punto dovrete avvicinarvi, e toccare con mano quel libro incantato. La sua copertina è rigida, massiccia come se fosse fatta di un materiale resistente allo scorrere dei secoli, atto a preservare le pagine custodite al suo interno; il tutto appare dorato, con delle pietre simili ad ambre incastonate negli angoli smussati. La scritta centrale recita “Sleeping Beauty”, ed è il libro della bella addormentata nel bosco.

La bellezza del libro con cui il 16esimo classico Disney inizia il suo corso è tanto adamantina da esser meritevole d’attirare le attenzioni di ogni lettore in una fantasiosa biblioteca delle meraviglie. Aperto quel libro, una voce narrante comincerà a colmare le vostre lacune circa il fato della principessa Aurora, figlia del Re Stefano e della Regina Leah…

Per festeggiare la nascita della loro primogenita, Stefano e la sua consorte organizzano una festa dove i loro sudditi potranno portare omaggi alla principessa. All’importante evento giungono anche tre fatine, desiderose di far dono alla piccola di tre magici regali. La fatina Flora, vestita con un abito rosso, benedice la piccola donandole la bellezza, Fauna, che indossa un vestito verde, offre alla bambina il dono del canto. Prima che Serenella, la fatina colorata di blu, possa concederle il proprio dono, arriva a palazzo Malefica, una strega che maledice la piccola con la formulazione di un invalicabile incantesimo: Aurora, il giorno del suo sedicesimo compleanno, si pungerà il dito con il fuso di un arcolaio e morrà. Poco dopo questo terribile presagio, Serenella declama l’ultimo dono per la povera Aurora. La fatina non può impedire che la maledizione si compia ma può sventare, in qualche modo, ciò che la dannazione prevede. Aurora se porrà il suo dito sul fuso dell’arcolaio cadrà in un sonno profondo ed eterno che potrà essere spezzato soltanto se le labbra della fanciulla riceveranno il bacio del vero amore.

Stefano, adirato e impaurito, ordina la distruzione di ogni arcolaio presente nel regno e per impedire che Malefica trovi la figlia, comanda alle tre fatine di portare via Aurora e vegliare su di lei nella casetta di un boscaiolo fino al compimento del suo sedicesimo compleanno. Aurora cresce così tra le amorevoli cure delle tre fatine madrine.

La bella addormentata nel bosco” fu la terza trasposizione della Walt Disney tratta da una fiaba popolare dopo “Biancaneve” e “Cenerentola”. “La bella addormentata nel bosco” è un’opera maestosa, il culmine dell’imponenza artistica votata alla costante ricerca della perfezione tecnica anelata da Walt Disney per tutta la prima parte delle sue produzioni.

L’arte de “La bella addormentata nel bosco” è quella che glorifica i colori. Gli artisti della Disney affondano i loro pennelli su una tavolozza di legno, catturando con ogni atto il colore a tempera prescelto e poi fissato con gesti estremi e precisi sulla tela. Gli sfondi delle ambientazioni prendono forma con tocchi magici e fiabeschi, e persino gotici nella ricostruzione architettonica delle ambientazioni pertinenti a Malefica. Ma come dicevo è l’evocativa potenza di ogni singolo colore a esternarsi e a divenire parte integrante dell’arte filmica. Malefica è vestita di un nero inquietante, proprio come le tenebre, ma la sua aura emana una luminescenza di un verde acceso, dalla parvenza anche sommessamente intermittente, quando si materializza come una sfera avvolta da una fioca luce che attira un’Aurora quasi ipnotizzata. Anche il color viola tende ad essere emanato dal manto iconograficamente demoniaco della strega. Malefica è una delle cattive Disney maggiormente sceniche e angoscianti. Una strega formatasi come spirito maligno tra i meandri agorafobi della fitta foresta, in cui i raggi solari non riescono a trovare neppure un singolo spiraglio tra i fitti sbarramenti creati dai rami acuminati e raccolti a spine. Malefica si manifesta e scompare lasciando sul proprio passaggio un alone tra il verde e il fiammeggiante. Un colore, il suo, che si mostra concretamente per la prima volta quando lei maledice Aurora, avviluppando la futura figura della principessa addormentata con quel medesimo verde che andrà a circondare la sagoma dormiente della bella. Quando Serenella, però, pronunzia il proprio beneficio, Aurora viene circondata da una luce bluastra, o per meglio dire, azzurra come il cielo e la sua figura dormiente appare distesa su un pascolo di nuvole. Vi è quindi una contrapposizione forte tra i colori prediletti, il “verde della dannazione” e il “blu dell’insperata salvezza”.

Malefica è sinistramente teatrale nei suoi movimenti, e volge spesso le braccia verso l’alto per conferire maggiore imponenza al proprio portamento. Ella è un’antagonista che pone valore e significato ad ogni suo gesto. Impostazione vocale e gestuale sono combinate in un medesimo stile espressivo e interpretativo nell’animazione della strega che lascia profondere ad ogni suo passo un carisma che fatica a restare contenuto nella sua intimità segreta.

Se consideriamo in un’accezione analitica la protagonista della fiaba, Aurora, ribattezzata dalle sue fatine come Rosaspina, non possiamo che porre a vaglio il suo essere vittima degli eventi. Aurora viene maledetta per un capriccio della strega, e riceve l’odio della fattucchiera quando ancora non è che una bambina, incapace di comprendere cosa sta accadendo intorno a lei. La sua vita appare così indirizzata da un fato avverso a cui non può sottrarsi. Una volta cresciuta, Aurora è sbocciata come una ragazza di una bellezza celestiale, dai lineamenti delicati e dal portamento aggraziato. I due doni delle fatine si concretizzano così nell’aspetto e nel temperamento elegante della giovane, che diviene la testimonianza vivente della magia. Aurora ama passeggiare nel bosco e la sua voce possiede il potere di incantare gli animali che abitano la foresta, i quali la seguono come stregati dalla nenia melodica dei suoi canti. Un giorno, il principe Filippo, promesso sposo di Aurora, che egli ancora non conosce, si avventura nel bosco in sella al suo cavallo. Come Orfeo, così Filippo mira la giovane fanciulla che non può immaginare d’essere in verità proprio Aurora, tanto armoniosa nei movimenti e leggiadra nei passi di danza che abbina alle tonalità del suo canto, da ricordare la ninfa Euridice.  “La bella addormentata nel bosco” fa della sua protagonista una creatura di garbo angelico, una naiade protettrice della natura, tanto da attrarre gli animali e indurli a divenire “attori” e “personaggi” della scena, i quali interagiscono con lei. Aurora sa rendere le piccole bestiole della boscaglia vive, senzienti e dotate di un canto armonioso per il solo volere della protagonista che con essi si rapporta. Filippo, rimasto folgorato dalla visione della dama, la sorprende romanticamente alla spalle, mentre ella protende le sue braccia orizzontalmente. Aurora ricambia lo sguardo dello sconosciuto e i due si innamorano istantaneamente come in un colpo di fulmine.

“La bella addormentata nel bosco” riflette la semplicistica ma sognante visione del periodo e delle fiabe popolari. I suoi personaggi non hanno personalità complesse, anelano solamente all’amore e allo sposalizio. Apparentemente una pecca nella caratterizzazione dei personaggi, ma se considerati come specchio dei racconti fiabeschi del tempo, è facilmente comprensibile come essi si conformino in maniera eccelsa a ciò che devono rappresentare: l’amore cieco.

Cieco nel senso di incondizionato. Come cieco è stato l’odio perpetrato da Malefica nel suo maleficio, nel medesimo modo è “cieco” l’incontro avvenuto tra Aurora e Filippo. Entrambi non conoscono le rispettive identità, eppure, si innamorano l’uno dell’altra. L’amore travalica l’odio di Malefica ancor prima del fatidico bacio. Al principe non importa conoscere l’identità della giovane che crede sia una semplice contadina e nel medesimo modo Aurora non si interroga circa la regale discendenza dell’uomo. Ancora una volta il destino sembra anticipare le mosse di Aurora, questa volta vittima fortunata degli eventi, i quali la portano ad innamorarsi dello stresso uomo a cui, inconsapevolmente, è già promessa ma che conosce in tutt’altre vesti che la spingono a sviluppare un sentimento sorto in una pura naturalezza. La cecità dell’odio di Malefica, quando ella compì il maleficio sulla piccola innocente, si oppone alla cecità con cui l’amore trova il modo di accrescersi. Sembra aleggiare su Aurora una sorta di provvidenza manzoniana, che porterà il fato della giovane alla salvezza a seguito dell’incontro con il principe. Aurora e Filippo cominciano a ballare, in un’immagine splendida i cui i corpi, in un perpetuo movimento danzante, vengono riflessi nello specchio d’acqua di un lago.

Il giorno del suo sedicesimo compleanno, quando Aurora scoprirà la sua vera origine, cadrà in un sonno eterno, perché punta dal fuso di un arcolaio creato dalle arti demoniache di Malefica. Il corpo della principessa giace addormentato e deposto su di un letto nella stanza del castello. A seguito della tragicità del momento, l’intero reame cade in uno sconfortante sonno. Filippo, per salvare Aurora, dovrà affrontare Malefica, nel frattempo tramutatasi in un drago. Le fiamme esacerbate dal drago serpentiforme conservano ancora quel verde fiammeggiante tipico della strega, che infesta i pressi del castello sbarrando la strada al principe con rami fitti e appuntiti. Sono ritratti maestosi quelli riguardanti lo scontro tra il principe e Malefica, che catturano l’epicità cavalleresca del combattimento che terminerà con la morte della strega.

Una volta arginato il passaggio, il principe raggiunge la principessa. Ne deriva una delle immagini più evocative e meravigliose dell’intero film. Aurora ha un volto delicato come fosse fatto di porcellana, le sue mani poggiate senza vitalità alcuna vicino al cuore reggono una rosa rossa e il biondo dei suoi capelli illumina, come una luce ancora pulsante di speranza, il viso della fanciulla cinto della splendida “corona regale” donatale dalla natura. Filippo bacia Aurora che dischiude poco dopo i suoi occhi.

Aurora e Filippo convolano a nozze e riprendono a ballare nella sala grande del castello, dinanzi a tutti gli invitati, in un clima festante. Le fatine, però, scontente in merito al vestito indossato dalla giovane, cominciano con le loro bacchette a mutare il colore dell’abito della principessa, che passa, in un’alternanza sgargiante, più e più volte, dal rosa al blu. Ancora una volta i colori vividi catturano gli sguardi di noi spettatori, rubando le nostre attenzioni visive che si perdono su quei movimenti ballerini nel mentre il libro gira la sua ultima pagina.

“La bella addormentata nel bosco” è un classico la cui bellezza è perdurata nel tempo, dal ritmo compassato ma dal valore universale. Tecnicamente ineccepibile, splendente e prezioso come un libro dorato rimasto d’immutata bellezza come il primo giorno in cui venne sfogliato e letto. Ecco perché credo sia meritevole di restare al centro di una sala grande nella biblioteca di fantasia più importante del regno magico.

Voto: 8/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Le follie dell’Imperatore” fu una sorta di paradosso progettistico. Vide la luce dopo anni e anni di lavorazione, e soltanto quando il progetto venne totalmente stravolto. “Le follie dell’Imperatore” doveva essere inizialmente un film serio e d’impronta prettamente drammatica, forse un musical a carattere epico. A seguito dell’ennesima riunione in cui il progetto stentava a prender forma concreta e a decollare, probabilmente, si scelse di raccogliere tutte le carte ammassate su una scrivania, in cui vi erano annotate le idee sulla specifica impostazione da dare al film, e gettarle tra le fiamme di un camino e lasciarle bruciare. Si ricominciò da zero, con l’idea precisa di un imperatore e di un lama. Il film venne totalmente riscritto, riadattato, plasmato secondo una nuova elaborazione linguistica. Così, il regista Mark Dindal dipinse sulla sua “tela immacolata”, con colori originali, ma soprattutto impresse pennellate del tutto innovative. Dall’opera seriosa ed eccessivamente riflessiva iniziale si scelse di passare a un’esilarante commedia. Un paradosso progettistico, come dicevo, perché “Le follie dell’Imperatore”, concepito come opera drammatica, nacque, per l’appunto, come commedia.

Quando si decide di virare verso un nuovo orizzonte, di mutare, per così dire, il viaggio e di conseguenza anche la meta, lo si deve fare con assoluta fermezza e decisione. Lo pensarono quasi certamente anche gli autori. Se da principio il musical de “Le follie dell’imperatore” (chiamato Kingdom of the Sun) doveva conservare un carattere storico imponente, ciò mutò, per far posto a un satirico surrealismo, e anche nel disegno questa decisione venne espressamente mantenuta. I personaggi ne “Le follie dell’imperatore” vennero realizzati con forme estremizzate, dall’aspetto goliardico, volutamente fatto per esasperare l’indole comica delle numerosissime gag disseminate a più non posso all’interno della pellicola. Ci imbattiamo così in personaggi slanciati, dalle spalle larghe e dalle articolazioni spigolose. Osserviamo tipi dalle braccia nerborute, e dalle gambe esili, e scrutiamo perplessi volti spiccatamente rotondeggianti contrapposti ad altrettanti allungati a sproposito. Sono personaggi caricaturati al massimo che generano risate ancor prima di compiere un gesto comico sapientemente preparato. Non sono altro che esseri nati dalla matita che dà corpo e forma a idee umoristiche, se non comiche, scaturite probabilmente da un copione scritto per il teatro dell’assurdo. 

Protagonista della storia è l’Imperatore Kuzco, un sovrano Inca, viziato, egoista, egocentrico e insensibile, che viene trasformato erroneamente (perché doveva essere ucciso) in un Lama dalla malvagia consigliera di corte Yzma (doppiata da una splendida Anna Marchesini) che si sostituisce a lui come imperatrice. Kronk, il fido aiutante di Yzma, energumeno, forzuto, di poco cervello, ma di buon cuore dopo una serie di bizzarre peripezie, perde il lama fuori dalla città. Kuzco, trasformato in animale, si imbatterà in Pacha, il capo del villaggio con cui aveva avuto un precedente contrasto in merito alla costruzione di Kuzcotopia, un parco acquatico che sarebbe dovuto sorgere sulla cima di una collina. Pacha accetta di aiutare l’imperatore soltanto se questi scenderà a compromessi e deciderà di costruire Kuzcotopia in un altro luogo. Tra innumerevoli e divertentissime disavventure, Kuzco e Pacha raggiungeranno il palazzo e spodesteranno Yzma dal trono, sventando così i suoi diabolici piani di conquista.

La sceneggiatura del film garantì situazioni di studiata pregevolezza comica, dalla vorticosa discesa ai laboratori di Yzma, passando per le consuete cadute nel vuoto causate da una “seconda leva”, fino ai continui siparietti di Kronk, combattuto tra le direttive crudeli di Yzma e la sua buona coscienza (che materializza sulle sue spalle un consigliere angioletto e un tentatore diavoletto). Scene divertentissime, non soltanto perché basate su un’ottima scrittura, ma anche perché rese naturali da un eccellente impatto scenico dei personaggi. In particolar modo in italiano Yzma poté contare, come già accennato, sul talento straordinario di Anna Marchesini che ne conferì un’aura di sana e contagiante esuberanza.

Tra i personaggi, però, è Kuzco l’assoluto dominatore della scena. La sua prorompente personalità lo rende un protagonista disneyano del tutto particolare: Kuzco è il motore delle vicende, colui che, con le proprie vicissitudini, trascina gli spettatori nella proprie folli avventure. Riesce così ad essere un protagonista ben più che particolare. Arrogante, altezzoso, nonché menefreghista: non è, di fatto, il principe buono e generoso o l’eroe coraggioso e incorruttibile. Questo suo carattere contrassegnato da sfumature negative viene però sfruttato per accentuarne il lato comico del personaggio. Le sue esternazioni dettate da un egocentrismo smisurato diverranno celebri: dal “Hai rotto il ritmo” all’irresistibile “non scendo a patti coi contadini”. In Kuzco procede di pari passo una doppia personalità del protagonista buono, ma anche dell’antagonista indifferente. Nella prima metà, il film gioca proprio su questi aspetti oppositori che vedono contrapposte le figure di Kuzco e Kronc. Quest’ultimo che dovrebbe essere il cattivo aiutante dell’antagonista finisce per essere, in verità, un personaggio teneramente positivo, capace di smorzare ancor di più una tensione narrativa che non prende mai il sopravvento, a discapito di una esposizione sequenziale colma di ilarità. Kuzco, invece, si presenta come un personaggio caratterizzato da una personalità egoistica che via via muterà, permettendogli di scoprire la magnanimità del suo animo.

"Vuoi broccoli?"

Ne “Le follie dell’imperatore” l’importanza del viaggio è il fulcro per comprendere l’evoluzione caratteriale del protagonista che lentamente cambierà in positivo, riscoprendo i valori dell’amicizia e della generosità. Kuzco, condannato a muoversi e a parlare come un Lama, elemento dai toni favolisti, trova nella sua trasformazione un’esperienza catartica e purificatrice, che non poteva sortire il medesimo effetto se non ci fosse stato l’incontro col panciuto contadino. Il ricco e il povero, l’animale e l’uomo, il superbo e l’umile, in questo peculiare duo comico, si delinea la morale più importante del film, incarnata naturalmente, nel cambiamento caratteriale di Kuzco la cui trasformazione fisica anticiperà la più significativa trasformazione caratteriale.

“Le follie dell’imperatore” è una commedia a tutto tondo, spassosa, dai tempi comici impeccabili, fondati su di uno stile umoristico surreale che diverte dal primo all’ultimo istante. Un film sottovalutato, che spesso non viene annoverato nella ristretta cerchia dei classici Disney più importanti. E’ la difficile ricezione con cui devono convivere le commedie più raffinate, spesso ritenute prive di un qualsivoglia insegnamento eloquente. In vero, una certa maestria è sita proprio nel saper trattare con elegante sarcasmo un tema profondo e riuscire a renderlo squisitamente allegro. “Le follie dell’Imperatore” non sarà sul podio dei film Disney di maggior impatto narrativo, ma è da considerarsi una delle più riuscite commedie del cinema d’animazione.

Con “Le follie dell’imperatore” si ride con spontanea genuinità, come spesso i film comici non sanno più fare.

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Voto: 7,5/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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"Bambi con suo padre" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

In una verde radura cinta da fiori appena sbocciati, una cerva ha da poco messo al mondo il suo piccolo. Il cucciolo dorme tra le “braccia” della madre quando gli animali della foresta giungono in quel luogo per ammirarlo. Verrà da questi soprannominato “principino”, in quanto figlio del cervo reale della foresta. Il piccolo apre per la prima volta i suoi occhi al mondo e tenta di alzarsi facendo forza sulle esili zampette posteriori. Poggiandosi poi su tutte e quattro le zampe, il cerbiatto alza la bianca coda, prima di fissare con curiosità Tamburino, un coniglietto dal pelo tra il bianco e il grigio e dal musetto di un rosa acceso, chiamato a quel modo proprio per l’abitudine, piuttosto rimbombante, di tamburellare la zampa sul terreno. E’ lo stesso Tamburino a domandare alla madre del cerbiatto che nome ha scelto per il proprio nascituro.  Mamma cerva, dal canto suo, risponde prontamente: Bambi!

“Bambi” era il film preferito da Walt Disney in persona, la “creazione” a cui era idilliacamente legato e che amò come fosse un figlio. Per Disney i più grandi ma anche i più piccini potevano osservare la crescita di Bambi e rivedere in essa quel cammino, costellato da innumerevoli tappe, che chiamiamo “vita”. La storia dell’amorevole cerbiatto è un intenso viaggio nell’istinto vitale in cui si intersecano il rispetto per la natura e l’ammirazione per il mondo animale con il ciclo dell’esistenza: il venire alla luce, il proseguire nella maturazione, l’amore e il raggiungimento della propria autonomia comportamentale.

Il piccolo cervo dalla coda bianca, sotto lo sguardo vigile della madre, impara ben presto a camminare e anche a parlare esattamente come un comune bambino. Scopre il valore dell’amicizia con Tamburino e la puzzola Fiore, e le meraviglie del mondo circostante, ma anche i pericoli di quel bosco che lo avviluppa sin da quando è nato. Crescendo, Bambi si innamora perdutamente di Faline, poco prima di divenire il signore della foresta. “Bambi” è un film profondamente sentimentale, che tenta di rapportare e inevitabilmente confrontare uomo e animale come figli della stessa terra, tendendo a unificare questi due esseri viventi, ma differenziandoli al tempo stesso. “Bambiè un lungometraggio che tratta il tema delcerchio della vitacinquant’anni prima deIl re leone”; e lo fa in modo estremamente malinconico e serioso, essendo esso un “ponte” forte e saldo, che permette di superare le burrascose acque del fiume della maturazione, ma soprattutto, rimanendo tutt’oggi una chiave didascalica dell’elaborazione del lutto. Se, infatti, la prima parte dell’opera pone lo sguardo accorto della camera su quella spensieratezza del piccolo cervo, tipica della giovinezza, e proprio per questo paragonabile a quella di un qualsivoglia bambino, la seconda parte, invece, si concentra sulla repentina crescita del protagonista, rimasto solo e affacciatosi senza alcuna avvisaglia sull’asprezza dell’arco vitale.

La sequenza in cui Bambi, confuso e spaventato, si muove tra i boschi mentre con voce accorata chiama la madre, mi riporta alla mente una celebre frase proferita da Christopher Lee: “E’ ciò che non si vede, non quello che si vede, che fa paura!”. La morte della madre di Bambi avviene fuori campo, lasciando lo spettatore, come lo stesso Bambi, nel vortice di un’atroce incertezza.

Il tenero cucciolo resta vicino alla cerva anche quando quest’ultima si pone in allerta, spronando il figlio a fuggire e a trovare riparo all’interno della fitta boscaglia. Lo sparo del cacciatore rompe l’apparente tranquillità di una fredda giornata invernale, il tempo si ferma d’improvviso e gli istanti sembrano tramutarsi in secoli. La neve comincia a fioccare copiosamente e Bambi riemerge dalla sua tana in cerca della madre. Le impronte dei piccoli zoccoli del cerbiatto restano impresse sul manto nevoso, indicando un percorso disordinato compiuto da Bambi nel tentativo di ritrovare la sua mamma. Il cammino a ritroso lo porta a imbattersi nel padre, l’imponente principe della foresta. L’imbarazzo e il disagio provati da Bambi sono resi in maniera del tutto naturale, con il piccolo cerbiatto che, di sobbalzo, abbassa lo sguardo, perché intimidito dalla maestosità del genitore.  Nel doppiaggio d’epoca datato 1948 Mario Besesti donò la sua voce corposa al padre di Bambi quando questi dovette dare al figlio il triste annuncio dell’avvenuta morte della madre. Le parole del padre nel riadattamento italiano assunsero le connotazioni di un funereo monologo.

“La tua mamma non tornerà mai più!  L’uomo l’ha portata via. Devi essere coraggioso, devi imparare a vivere da solo. Vieni, figlio mio!”.

Queste furono le frasi recitate con straziante commozione da un magistrale Besesti. Il secondo doppiaggio venne registrato nel 1968 e fu più attinente alla versione americana. Il padre ebbe la voce, perfettamente modulata, di Giuseppe Rinaldi, quando registrò le fatidiche parole: “La tua mamma non tornerà mai più!”. Seguono degli attimi in cui assistiamo, taciturni, alla reazione sconsolata di Bambi, quand’ecco che il padre prosegue: “Vieni, figlio mio!”.

Il Grande Principe della foresta nel suo eloquente silenzio spezza l’innocenza del figlioletto, che d’ora in poi dovrà riuscire a vivere senza più le attenzioni e l’affetto della madre. Quel “vieni con me”, proferito con tenera fermezza, induce Bambi a seguirlo e a comprendere che dovrà crescere in fretta per poter seguire le orme del padre e vegliare con lui nella selva.

Un’interpretazione vocale che sancisce un intonante sposalizio tra la dignità regale cui è rivestito il principe e la sensibilità paterna cui deve assurgere in quei tristi frangenti nei confronti del proprio figlio. Bambi si incammina fianco a fianco al padre, poco più che uno sconosciuto per lui, che ha trascorso ogni istante della sua giovane esistenza tra le calde cure della madre. Essa rappresentava ciò che Bambi era, la sua purezza; il padre, invece, ciò che Bambi sarà, la sua futura solennità.

L’impatto emotivo della scena travalica i confini del grande schermo, emozionando l’immaginazione dello spettatore e la sua sfera coscienziale. La scelta di non mostrare né il corpo inerme della madre né una traccia del suo vissuto si rivelò una rappresentazione ancor più drammatica della separazione tra madre e figlio. In un batter di ciglia Bambi perde la sua mamma per sempre, e non può neppure dirle addio. Non posso che fermarmi un attimino a riflettere su quanto scriveva il Foscolo nel suo carme “Dei sepolcri”. Per l’uomo, poter piangere i propri cari, facendo loro visita nei cimiteri, è l'unico conforto in grado di sostenere la tragedia di un addio. Ciò che reputo ancor più drammatico nel linguaggio cinematografico espresso dal lungometraggio “Bambi” è proprio la rappresentazione di una morte sopraggiunta in un momento di serena quiete. Un dramma inopinato che bruscamente strappò Bambi dalla sua innocenza, negandogli persino l’opportunità di poter accarezzare la madre un’ultima volta. Bambi non potrà seppellirla, piangerla in una fossa. Non ci sarà alcun sepolcro per la madre del cerbiatto. Ella svanirà nel nulla. L’immedesimazione nel protagonista sta proprio nel suo essere vittima degli eventi stessi, impotente dinanzi ad una minaccia del tutto nuova, e impossibilitato a piangere la madre, umanizzata nell’ideologia di genitrice. Bambi viene così ancor più reso umano, perché nel dolore diventa un possibile punto di contatto con i bambini che si rapportano all’identità animale, cercando in essa quei tratti comuni della propria familiarità.

La scena fin qui analizzata fa sì che la mente degli spettatori venga lasciata libera di viaggiare negli imperscrutabili meandri dei propri timori. L’apparato “scenografico” è però necessario per amplificare ancor di più quel senso di vuoto incolmabile lasciato nell’animo di chi guarda il film, e a tal proposito, la neve che fiocca sembra un lungo pianto generato dalla natura che avvolge l’intera vegetazione, il tutto in uno scenario triste e malinconico. Le musiche, l’animazione e le brevi riflessioni del padre assumono un valore poetico senza eguali, in cui ciò che temiamo diviene più incisivo di ciò che stiamo effettivamente guardando.

Il tempo lenisce ogni ferita, e così il lutto viene tenuamente superato con il trascorre delle stagioni. Il bosco subisce l’alternarsi della colorata e odorosa primavera, e dell’estate calda e luminosa, con l’arrivo malinconico dell’autunno in cui le foglie cadono e ricoprono le radici degli alberi. E’ su quel soffice sottobosco che Bambi, divenuto ormai un cervo adulto, ostenta la sua imponenza. Attraverso il suo passaggio alla maturità possiamo osservare quanto l’impronta umana degli autori combaci con il rispetto dell’istinto animale. Così, se Bambi si innamora come una qualsiasi persona, allo stesso modo agisce come un animale qual è, scontrandosi con un cervo rivale per la conquista della sua amata Faline. Opera esistenzialista e studio documentaristico vengono assorbiti dalla stessa abilità narrativa, permettendo a “Bambi” di poter essere un film in cui viene amalgamata la sfera emotiva e raziocinante dell’uomo con l’agire e il comportamento degli animali. Lo studio dell’andatura “altezzosa” e nobile del cervo, una caratteristica vagliata minuziosamente sul campo, si unisce così al suo parlare spiccatamente umano, e l’accoppiamento tra gli animali, chiamato ironicamente nel film “rincitrullimento”, viene mostrato come un autentico atto d’amore monogamo, oltre a riprendere molte delle azioni tipiche degli animali nelle stagioni degli amori.  “Bambi” è a tutti gli effetti un film che elogia lo studio etologico e celebra l’esaltazione dell’animo umano. In particolare gli occhi furono lo specchio con cui gli autori scelsero di creare un legame fatto di sguardi e introspezioni con i propri spettatori. Mirando gli occhi degli animali, noi spettatori creiamo inconsapevolmente un rapporto di coinvolgimento con loro, dialogando non con le parole bensì con gli sguardi e le tante “sbirciatine” all’interno del nostro “io”.  I grandi occhi azzurri e le ciglia lunghe ed emotivamente comunicative della splendida madre confortano il piccolo Bambi quando non è che un cucciolo, e quei medesimi occhi “incastonati” nel volto di Faline inducono lo stesso Bambi a invaghirsi di lei. Gli occhi divengono così lo specchio dell’anima dell’uomo ma anche dell’animale, talmente umanizzato da poter essere considerato un custode d’anima lui stesso.

L'ultimo passo di Bambi è quello di poter prendere il proprio posto nel cerchio della vita e dunque ereditare il “trono” quando il suo papà “abdicherà”. Bambi vide suo padre, per la prima volta, quand’era un cucciolo, senza sapere neppure chi fosse davvero. Al suo passaggio, tutti gli animali si fermarono per contemplare la sua avanzata ed il Grande Principe si arrestò di conseguenza per guardare soltanto uno tra gli animali lì presenti: Bambi. Esso gli sorrise ed il Grande Principe, silente, mosse le orecchie. Bambi si intimidì, ed il padre si allontanò. Il Grande Principe non sprecò alcuna parola, neppure la più dolce nel salutare il proprio figlio, cionondimeno quando le sue orecchie si mossero, esternò l’unica sensazione intima del suo volto indecifrabile. Per un solo istante, il “re” scelse di non controllare la sua espressività rigida, ma cedette ad un gesto, un cenno, una mossa. In quel movimento potentissimo ed eloquente delle orecchie il Principe salutò Bambi, suo figlio, l’unica “persona” per cui avrebbe rinunciato alla sua nobile postura. Poco dopo, quando l’imponente ungulato intuì l’avvicinamento dell’uomo, batté gli zoccoli al suolo per avvertire tutti i suoi simili dell’imminente pericolo. Bambi si perdette nella “selva” e la madre, disperata, lo chiamò a sé. Fu proprio il Grande Principe a trovarlo. In quell’attimo, il padre osservò Bambi dritto negli occhi, e ancora una volta non parlò. Con le zampe lo invitò a correre e, finché non furono tutti e tre in salvo, non distolse mai lo sguardo da suo figlio. Azioni sottili che evocano l’amore che il Grande Principe nutre nei confronti del figlio. Un tipo di amore che non può essere comunicato vocalmente.

Nel cuore della boscaglia, sui verdi sentieri, tra i polmoni delle querce nei cui rami scorre, come sangue, la linfa, viene scorto, da tempo immemore, l’incedere regale del grande quadrupede. Il Grande Principe è taciturno, ed incarna la natura viva e laconica della foresta, che comunica non con il parlato ma con il suono del vento che soffia, col fruscio, col verso di ogni forma faunistica e col colore della flora. Nessuno sa quanti anni esso abbia, ma la grandezza dei suoi palchi suggerisce che sia stato tra i primissimi figli di quel bosco. Il Grande Principe della foresta è un guardiano, un’entità remota, misteriosa, antica, un padre ineffabile, mitizzato da Bambi nella sua gloriosa maestosità.

Bambi, sovente, tiene il capo chino quando giace al cospetto del genitore. Il cerbiatto, mantenendo il volto curvato, pare quasi inginocchiarsi dinanzi alla nobiltà del papà, il sovrano e custode del vasto reame degli animali. Ma l’apparente genuflessione di Bambi non è dovuta semplicemente all’intrinseca regalità del monarca, bensì al rispetto e ad un flebile timore avvertito nei riguardi di un genitore aulico, imperscrutabile nella propria rigidità principesca, severo, di certo, tuttavia profondamente buono. Nello sguardo così schivo, intimidito, ritroso di Bambi, Walt Disney trasfigurò se stesso. Il cucciolo di cervo è, a mio giudizio, proprio l’espressione più intima dell’animo di Walt Disney, il quale fece del Grande Principe della foresta la traduzione artistica del proprio padre. Disney paventava e, al contempo, ammirava l’inflessibilità del suo genitore, un uomo arcigno e dal temperamento forte. Così, Walt mischiò l’austerità promanata, nei ricordi, dal proprio padre con il carattere morigerato di un re, e rese il Grande Principe della foresta un monarca saggio, vigoroso, un padre elusivo eppur presente, lontano tuttavia amorevole.

Il sire salverà Bambi anche quando le fiamme appiccate dall’uomo arderanno il verde. Esso, con la sua voce alta e profonda, esorterà il suo erede a rimettersi in piedi con tutte le sue forze, a non cedere mai alla paura.

Nonostante il padre rivesta un ruolo simile a quello che avrà Mufasa ne “Il re leone” qui si differenzia per il modo di porsi e di educare il figlio. Il Grande Principe della foresta è un re altero, che si muove con solennità, trasudando saggezza sin dal proprio portamento. Il suo procedere con tale grazia e magnificenza coincide col suo essere di poche parole. Esso dimostra l’affetto nei confronti di Bambi in modo implicito, relazionandosi con lui solo apparentemente in maniera distaccata. Il Grande principe dà valore ad ogni singola parola detta, istruendo il proprio figlio più con i gesti che con le espressioni verbali, cosciente che Bambi dovrà divenire forte e prendere il suo posto per proteggere la foresta dalla minaccia invisibile dell’uomo. Il male in “Bambi” è rappresentato proprio dall’uomo, mai però delineato fisicamente sullo schermo, poiché volutamente idealizzato come una negatività astratta, che può distruggere la natura e la vita animale esattamente come il suo stesso prossimo. In tal modo “Bambi” vuol comunicare un messaggio pressoché universale, mettendoci in guardia sui pericoli della malvagità di certuni pronti ad annientare con tanta efferatezza ciò che li circonda. “Bambi” è altresì un ammonimento evocativo per l’uomo “incendiario” e per il bracconiere e cacciatore senza scrupoli, un monito onnipresente per il rispetto della natura e il riguardo, laddove è possibile, verso gli animali liberi e selvaggi.

Bambi avrà da Faline due cuccioli gemelli. Li scruterà da lontano, restando fiero e regale su di un’altura, vegliando sulla compagna, sui figli e su tutta la foresta, con la vigoria di un vero sovrano. La possanza delle sue ampie protuberanze ossee evidenzia il raggiungimento di un completamento esistenziale: Bambi è ciò che per lui è stato suo padre, ed è pronto ad essere tale per i suoi discendenti.

I suoi palchi spioventi divengono una corona regale posta sul suo capo.

“Bambi” è un capolavoro assoluto, che tende la mano al pubblico più giovane e lo accompagna, attraverso una crescita artistica, a una comprensione reale del mondo ma non solo; la stessa mano continua a tenderla agli adulti, compiendo un viaggio a ritroso, rievocando in essi il passato, il legame con la persona più cara perduta, guidandoli verso un futuro che continua a essere imminente. “Bambi” è, a mio giudizio, una sorta di traghettatore di due ben distinti spiriti: l’innocenza e la consapevolezza.

Voto: 8,5/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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La Bella e La Bestia disegnati da Erminia A. Giordano per CineHunters

 

“Beauty and the beast” viene spesso definito banalmente come “lungometraggio d’animazione”. Quanto può farmi infuriare un tale appellativo! Non che non lo usi io stesso nel menzionare quest’opera, in quanto, è inutile negarlo, rende chiaro e immediato ciò a cui si fa riferimento.  Eppure seguito a non gradire tale denominazione. Per essere totalmente sinceri, non apprezzo nemmeno l’efficace, seppur ancor più semplice, definizione di “film”. Né “film” in senso stretto né “lungometraggio d’animazione”, né tantomeno “pellicola” sembra calzare a pennello, nella mia concezione, per descrivere ciò che propriamente è “La bella e la bestia”. Le precedenti sono descrizioni fin troppo limitanti, quantunque cerchino di assurgere al loro volere esplicativo. “La bella e la bestia” è un’opera d’arte indescrivibile, e come tale non può essere né collocata sotto una data categoria descrittiva né omologata come un ornamento decorativo. “La bella e la bestia” è, per il sottoscritto, magia inviolata, puro lirismo cristallizzato. Una lavorazione impregnata d’irripetibile magnificenza, tersa e intellegibile, in una mistificazione dell’arte animata e in una esaltazione della poetica umana. “La bella e la bestia” convoglia in sé poesia d’amore decantata dai propri dialoghi, arte pittorica palesata nei suoi fondali, arte teatrale trasfusa nei suoi personaggi, composizione musicale esaltata nelle proprie melodie. “La bella e la bestia” è l’incanto dell’arte intrisa nei petali di una rosa. Ogni petalo che da essa cade giù sembra recare in sé la sola, l’unica forma d’arte autonoma e incomparabile, la più candida: quella generata dal cuore e modellata dalla mente. E mantiene tale potenza dal primo fino all’ultimo istante, senza lasciare nel vuoto incolmabile un solo frammento del proprio essere. Sin dall’inizio, sin dal suo prologo…

  • Analisi del prologo

Dal dissolversi di uno sfondo nebuloso emergono i primi dettagli di un bosco verdeggiante. Si staglia centralmente un’altura rocciosa da cui viene giù una piccola cascata. Ecco che la camera sembra risalire il corso del ruscello, fino a raggiungere il cuore della foresta, dove il sole irradia, coi suoi raggi, un bianco e imponente castello regale. La melodia di Alan Menken risuona dolcemente sin dall’inizio. E’ un’aria di magia, un suono d’incantevole pregevolezza. Con poche, fievoli note veniamo trasposti in un modo fiabesco, all’apparenza ovattato. Giungiamo al palazzo ma non varchiamo i suoi confini. Notiamo invece i ritratti impressi sulle vetrate del castello in cui viene raccontata la storia di un principe…

La splendida voce narrante di Nando Gazzolo, nella versione italiana, ci regala una prima analisi del testo. Comprendiamo così ciò che andremo a conoscere successivamente: un principe che vive tra gli agi delle proprie ricchezze, nella bellezza adamantina della sua dimora. Era un nobile viziato, probabilmente attaccato morbosamente ai propri beni materiali, tanto da non voler che nessuno osasse varcare la soglia del suo castello, onde evitare che potessero godere con lui di tali ricchezze. E infatti neppure noi spettatori riusciamo ad entrare nel castello. Benché il racconto rimandi a un periodo consumatosi anni or sono è come se nel dipanarsi della narrazione noi ci trovassimo in qualche modo a vivere il passato come nel presente. Una notte d’inverno, il principe riceve la visita di una vecchia mendicante che gli offre una rosa in cambio di un riparo dal freddo pungente. Il disegno sulle vetrate mostra appunto una figura di vecchina minuta, ingobbita dalla fatica e da una vita di stenti. Il suo volto è infossato, l’immagine della sofferenza, tanto da ricordarmi i lineamenti scavati del viso dei “Mangiatori di patate” di Vincent Van Gogh. La donna suscita una certa repulsione agli occhi del principe e quindi la respinge.

Vetrata dipinta da Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Quella vecchia mendicante, così deforme e sgradevole agli occhi, in realtà è una fata bellissima. Ella sapeva che il principe non avrebbe guardato all’animo ma all’aspetto esteriore, e così fu. Ebbe dunque la conferma di ciò che sul suo conto già conosceva: nel cuore del principe non vi era spazio per l’amore. Decise così di castigarlo con un terribile maleficio, trasformandolo in una bestia. Notiamo che tale maledizione non si limita soltanto al principe, ma investe l’intero castello e tutti coloro che lo abitavano. Perché? Il maniero doveva riflettere la personalità oscura e ottenebrata del principe. Come era truce il suo animo così orribile doveva diventare la sua dimora, tanto da esternare la malignità che albergava nel suo cuore. La servitù, estranea all’agire del principe, venne comunque maledetta, in quanto loro stessi non riuscirono mai a sciogliere quel cuore di pietra, ma soprattutto perché il principe, egoista nel suo modo d’agire, avrebbe dovuto provare un senso di colpa per il destino che gravava sulla fedele servitù, la sola sua famiglia.

Il prologo de “La bella e la bestia” è un’opera d’arte sequenziale. Basterebbe solo tale introduzione a suggellare il lungometraggio come assoluto capolavoro. Perché vennero scelte delle vetrate che rimandano a quelle delle antiche cattedrali per rinarrare il passato? Perché il disegno doveva essere diversificato rispetto alle restanti immagini dell’intero film. In quelle vetrate noi vediamo ciò che è stato, ciò che ci viene raccontato in maniera imparziale, in un modo quasi giuridico. E’ la fantasia a venir stimolata, non la realtà. Questo perché le intenzioni dei registi Gary Trousdale e Kirk Wise erano quelle che noi tutti avremmo dovuto imparare a conoscere la Bestia esattamente nel momento in cui Belle la incontra. Comprendiamo infatti il passato del principe ma in modo non evidente, perché dobbiamo conoscerlo insieme a Belle. Non è un caso infatti che la camera ci permetta d’entrare nel castello soltanto quando il maleficio si è ormai compiuto: anche noi spettatori dobbiamo interagire per la prima volta con la Bestia, non con il principe.

In un ritratto, il principe si inginocchia dinanzi alla fata, volgendo verso di lei le sue mani, in lacrime, disperato, poiché terrorizzato da ciò che sta per subire. La fata ha un volto triste quando proferisce la maledizione, come se in quanto essere punitivo e neutrale sia stata costretta dal suo ardire a condannarlo. La fata, mai mostrata realmente né tantomeno personificata, lascia una lieve speranza di salvezza al principe: se avesse imparato ad amare e fosse riuscito a farsi amare a sua volta l’incantesimo si sarebbe spezzato. In caso contrario, al compimento dei suoi 21 anni sarebbe rimasto una bestia per sempre. La rosa che gli aveva donato e che egli aveva immediatamente rifiutato perché un qualcosa di naturale e non particolare, assume di colpo un valore trascendentale. Ci tengo a far notare infine la minuziosità con cui venne rappresentata per la prima volta la rosa: non sbocciata rispetto al resto del film, quando apparirà più morente e prossima ad appassire, segno che il lavoro che c’è stato nella realizzazione del minimo dettaglio de “La bella e la bestia” fu assolutamente impeccabile.

 

  • Trama

Alcuni anni dopo, in un villaggio situato alle porte della foresta in cui si cela il castello stregato, vive Belle, la ragazza più carina di tutto il villaggio, caduta preda delle attenzioni per nulla garbate del cacciatore Gaston. Belle è figlia di Maurice, un uomo pingue e pacioccone, stralunato all’apparenza ma di buon cuore. Un giorno, Maurice parte per presentare alla fiera una macchina di sua invenzione capace di tagliare la legna, ma finirà per perdersi nel bosco. Gira che ti rigira raggiunge ignaro il castello maledetto, dove verrà catturato dalla Bestia. Belle, preoccupata per il padre, parte alla ricerca e lo ritrova poco prima d’imbattersi nella mostruosa creatura. Belle decide di sacrificare se stessa pur di lasciare andare l’anziano genitore: stringe difatti un accordo col signore del castello che, palesandosi sotto la luce, si lascia guardare dalla ragazza nella propria mostruosità. L’iniziale rapporto tra Belle e la bestia non è certo idilliaco; lei lo vede come un mostruoso carceriere e la Bestia non fa nulla per domare la sua indole iraconda. L’evento che spezza l’astio tra Belle e la Bestia, paradossalmente, è da riscontrarsi in un momento di puro terrore. Quando Belle intravede la rosa incantata e muove la sua mano per toccarla, la Bestia le appare in tutta la sua espressione furiosa, e la scaccia via dal castello, salvo poi venire a pentimento. Così, la creatura esce dal castello e raggiunge la giovane salvandola dall’assalto dei lupi. La bestia, ferita gravemente a seguito della furibonda lotta, si accascia sulla neve e nonostante Belle avesse la possibilità di andar via, decide di tornare indietro al castello per permettere alla bestia di ricevere i dovuti soccorsi.

Principe dipinto da Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Da questo momento tra Belle e la Bestia si sviluppa un tenue rapporto di complicità che nei giorni successivi si rafforza sempre più. La bestia dal suo rapportarsi con Belle comincia a riscoprire i sapori della quotidianità, le bellezze della natura e la serenità che una dolce compagnia può trasmettere. La bestia riprende a camminare in posizione eretta, a pranzare con l’ausilio delle posate, dettagli apparentemente futili, ma che certificano il suo lento progredire nel riscoprire un’umanità che credeva essere stata annientata dal suo aspetto. Belle, dal canto suo, scopre la timidezza, l’imbarazzo e la generosità celata nell’animo della creatura non più brutale come appariva un tempo.

La Bestia porta Belle ad ammirar lo splendore di un’enorme sala adibita a biblioteca, in sui sono custoditi migliaia di libri. La bestia dona a Belle quell’intero salone, mentre si sta già innamorando perdutamente di lei, tant’è che organizza una serata romantica. Ma sarà proprio Belle ad avvicinare la Bestia e a condurla nella sala grande, a stringersi a lui in un abbraccio condiviso, seguito a breve da qualche passo di danza. La bestia riesce a stento a deglutire per l’emozione; una linea di demarcazione ben evidente tra i due: da una parte Belle dimostra ancora una volta di essere una donna dolce e sognante ma anche forte e decisa, dall’altro la Bestia certifica che il suo animo è totalmente cambiato, divenuto timido e gentile, garbato ed elegante. Adesso la Bestia lascia andare via Belle in modo che possa far ritorno a casa, dove il padre l’attende, rinunciando così, per sua stessa volontà, alla possibilità di poter porre fino al maleficio. Una volta che Belle abbandona il castello, la Bestia si lascia andare a un lamento inconsolabile. Belle riabbraccia il padre e lo conduce al villaggio proprio quando il perfido Gaston ha già attuato un piano per ottenere la mano di Belle: ha, infatti, stretto un accordo con il responsabile del manicomio per far internare Maurice, colpevole d’asserire dell’esistenza di una bestia mostruosa che vive in un castello. Belle dovrà acconsentire a sposare Gaston se vorrà salvare il padre. Ma per dimostrare che Maurice dice il vero, Belle mostra la bestia attraverso lo specchio magico che la stessa creatura le aveva permesso di portare via. Gli abitanti del villaggio, terrorizzati alla vista della bestia e spronati da Gaston, decidono di raggiungere il misterioso castello per uccidere l’animale.

Gaston trova la bestia in uno stato di totale rassegnazione, come se la creatura, privata della presenza di Belle, avesse perso la voglia di vivere. Gaston non esita a trafiggerlo con una freccia scoccata da breve distanza, ma quando la Bestia scorgerà in lontananza Belle, accorsa al castello per salvarlo, riprenderà a lottare, riuscendo ad avere la meglio su Gaston. L’umanità riscoperta dalla Bestia però gli impedisce di uccidere il rivale, così lo depone al suolo, ordinandogli di lasciare il castello. La bestia oltrepassa così le mura del castello per raggiungere Belle, ma Gaston lo pugnala alle spalle, poco prima di precipitare giù nel vuoto, trovando la morte. La bestia spira tra le braccia di Belle, rimirandola per l’ultima volta. La donna, commossa, declama il suo amore sul corpo esanime della Bestia poco prima che anche l’ultimo petalo abbandoni lo stelo…

 

  • Analisi della caratterizzazione dei personaggi

Prima di trattare l’epilogo dell’opera, facciamo una digressione per analizzare i molteplici fattori estetici e tematici presenti nel film, partendo appunto dai personaggi. Una cura meticolosa è stata usata nella stesura delle parti dei protagonisti. Ognuno di loro ha infatti una caratterizzazione propria, basata su una sceneggiatura più che consolidata. Belle è una splendida e giovane donna, dall’aria perennemente sognante e amante della lettura. Ella tiene i suoi bei capelli castani legati con un fiocco azzurro ed è ritratta con un viso tondeggiante in cui sono incastonati due occhi profondi come la sua stessa immaginazione. Il padre di Belle, Maurice, è di acume sottile ed è più che evidente che Belle abbia preso da lui gran parte del suo spirito d’inventiva. Non ci è dato sapere nulla circa la madre della giovane, ma è facilmente intuibile che sia scomparsa già da parecchi anni e che Belle sia stata allevata con amore incondizionato dal bizzarro padre. Maurice è un inventore, un mestiere piuttosto peculiare nel villaggio in cui i due sono giunti e dove si sono stabiliti. Un luogo in cui “l’invenzione” e la “novità” non sono certo fattori contemplati. I villeggianti, infatti, sono persone molto ingenue, abitudinarie, bigotte e poco istruite ma non per questo cattive. Belle, donna alquanto informata e d’intelletto, sa che i suoi compaesani sono dei sempliciotti, ma non per questo evita di dialogare con loro, cercando anche di farli appassionare ai racconti che tanto la coinvolgono, ma sempre con pessimi risultati. Belle si reca quotidianamente nella biblioteca di città per prendere in prestito libri da leggere. Questi tomi diventano per Belle gli unici strumenti con cui estraniarsi dall’apatia del villaggio in cui vive, per viaggiare lontano, verso luoghi remoti e vivere, con la sua verve sognante, mirabolanti avventure. Se per il principe lo specchio è la sola finestra sul mondo esterno, per Belle i suoi libri diventano l’unico portale su cui porre il suo sguardo bisognoso di “magia”. Il villaggio in cui vive la ragazza sembra non garantire alcun futuro per una giovane donna come lei, se non quello di prender marito. Belle si ritrova così più volte costretta a respingere, elegantemente, le avance del superficiale Gaston, che pur di averla come sposa è disposto a tutto. Gaston è uomo nerboruto e gretto, villico e rozzo, violento e maschilista, sadico e narcisista. Non a caso è rappresentato come un cacciatore nel lungometraggio d’animazione, poiché vede Belle non come una donna d’amare ma una preda da conquistare e sfoggiare in casa propria. E’ questa la prima vera linea di demarcazione che il film vuol tracciare tra la figura della Bestia e quella dell’antagonista Gaston: quest’ultimo, pur venendo rappresentato come un uomo violento e crudele è altresì un meschino vigliaccio, a differenza della Bestia che si batterà con ardore pur di salvare Belle. Le Tont, il fido amico di Gaston, è un uomo succube del cacciatore, probabilmente anche invidioso di lui ed è proprio qui che va ricercata la sua sudditanza: poiché non può essere come lui, Le Tont sceglie di diventarne il fedele servitore. Le Tont è stupido e di bassa statura e con la sua inettitudine stempera, come può, l’alone di malvagità che aleggia attorno alla figura di Gaston.

Dipinto del Principe di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Il principe ha una personalità intrigante e dualistica, oscillante tra una cattiveria passata e una bontà ritrovata nell’esperienza catartica della trasformazione e della conoscenza di Belle. Sin dalle prime sequenze in cui la Bestia si presenta finalmente dinanzi agli spettatori, “egli” cammina su quattro zampe, come fosse a tutti gli effetti un’animale indomito e selvaggio. Eppure, emergono, sin da subito, particolarità umane, dapprima nell’aspetto, in seguito anche nel modo di porsi. La bestia lascia intravedere nel suo viso, così aggressivo, dalle cui fauci fuoriescono denti aguzzi, due occhi azzurri come il cielo. Essi sono l’unica reminiscenza del suo aspetto umano. Nell’atteggiamento, invece, la Bestia permette agli spettatori di comprendere un’ira spiccatamente umana nella scena in cui Belle, tenendogli testa, rifiuta di raggiungerlo a cena. La bestia, furiosa, dibatte i suoi pugni sulla porta e il suo pelo si irrigidisce.  Le sue espressioni variano da una rabbia mal celata per non essere stato accontentato nella sua richiesta fino a una furia esternata nel non essere stato ricevuto dalla ragazza, in un gioco ironico ma al contempo serioso circa il suo essere rifiutato. Sentimenti umani espressi per l’appunto da gestualità indicanti insoddisfazione; indimenticabile per l’appunto il modo in cui la Bestia allunga la mano rigida sibilando: “quella fa così la DIFFICILE!” I lineamenti del principe Adam sembrano ispirati alla conformazione del volto della Bestia, come se non fosse la creatura ad essere stata adattata all’uomo, ma invece l’uomo alla Bestia nelle realizzazioni estetiche.

  • Dalle ambientazioni dark, agli oggetti animati e alle umanità nascoste

La bestia ha vissuto per anni nell’isolamento, e l’arrivo di Belle viene interpretato come se la donna fosse giunta lì perché il fato gli permettesse di scoprire l’amore e porre fine all’incantesimo. La figura di Belle viene così trasfigurata agli occhi della Bestia in quella di una dama giunta al castello per salvarlo. Eppure, egli cerca di non lasciarsi illudere da quella che potrebbe rivelarsi soltanto un’illusione e anche il suo carattere irascibile non gli permette di rapportarsi alla giovane con le dovute maniere. Ci penseranno i suoi servi a trattarla con rispetto ed eleganza, tra tutti Lumière e Tockins, rispettivamente un candelabro e un orologio: due oggetti animati, un tempo uomini, che assurgono ai canoni di una vera e propria coppia comica. La comicità distillata sapientemente nel film del 1991 è di una raffinatezza sublime. Si ride e si riflette costantemente, ma la risata che ne deriva dai siparietti comici di Lumière e Tockins non è mai banale o puerile, ma sempre elegante e ben studiata e nasce dalle loro aperte contrapposizioni. Lumière è svagato, ironico, trascinante, Tockins, invece, è preciso come “un orologio”, timoroso, e non prende mai l’iniziativa, perché troppo fedele al volere del padrone. Se Tockins è la quiete, Lumière è l’estro, se il primo è il realismo, Lumière è la fantasia. Ma nel castello è tutto vivo e senziente, dalle posate argentee ai servizi di porcellana, dalle tazzine parlanti, come il piccolo Chicco, alla grande teiera chiamata Miss Bric. Personaggi secondari, oserei dire di supporto, ma dalla personalità talmente debordante da divenire comprimari di Belle e della Bestia.

In una lunga camminata introduttiva tra gli ampi corridoi del castello la Bestia guida Belle fino a quella che dovrà essere, d’ora in poi, la sua stanza. Proprio in tali frangenti la ragazza scruta con occhio vigile il castello, intravedendo inquietanti sculture demoniache che dominano la sommità del palazzo. “La bella e la bestia” contiene nelle sue tetre tavole artistiche e nelle sue atmosfere cupe e stregate lievi accenni all’horror, in cui il terrore è rappresentato nella concretezza artistica delle statue in pietra poste in cima al castello o nei quadri spettrali che “ornano” le pareti, oltre che, naturalmente, dal fare sinistro della Bestia. L’ambientazione barocca diviene di un gotico spiccatamente dark e trasmette un senso di perenne inquietudine.

La scenografia ben definita e la ricostruzione degli ambienti ne “La bella e la bestia” non solo è straordinaria ma unica: il castello e i suoi abitanti mutati in oggetti animati donano linfa vitale agli sfondi del film che diventano protagonisti della scena come fossero attori in carne ed ossa, travalicando i confini scenici e formando un trittico perfettamente amalgamato in una medesima fonte di suoni, movimenti e immagini. Gli sfondi tinteggiati non diventano più soltanto i luoghi in cui i protagonisti muovono i loro passi, bensì sono parte integrante dell’azione e dell’agire dei personaggi. Ne “La bella e la bestia” tutto sembra vivo e ogni cosa è caricata di un alone di mistica vivezza. Gli oggetti animati permettono a Belle d’instaurare un primo, vero legame con il maniero della Bestia, quel luogo che lentamente si scoprirà essere non più una prigione per la fanciulla ma una casa. Quel canto di Lumière che seguita a intonare i versi di “Stia con noi…” non fa che reclamare la permanenza della donna lì al castello, perché Belle è la loro unica speranza, la luce che torna a rischiarare le tenebre del castello non più rilucente come veniva descritto in passato.  La sala grande in cui Belle e la Bestia si perdono nei rispettivi sguardi, tra i passi di un suggestivo Valzer, fu la prima sequenza creata con l’ausilio di sfondi 3D per un film d’animazione.

La Bella e La Bestia disegnati da Erminia A. Giordano per CineHunters

Le canzoni composte per “La belle e la bestia” sono alcuni dei brani più belli e intensi della storia del cinema, capaci d’arricchire un apparto melodico della colonna sonora già, di per sé meravigliosa. Le canzoni inserite nei punti chiave del film non riflettono soltanto lo stato d’animo dei personaggi ma ricalcano soprattutto la personalità dei protagonisti. Ascoltiamo quindi i sogni di Belle circa un futuro avventuroso che sembra non snocciolarsi mai dinanzi a sé, udiamo gli elogi sprezzanti intonati dai paesani a Gaston, fino a volgere l’attenzione delle nostre orecchie ai canti in cui Belle e la Bestia iniziano ad innamorarsi l’uno dell’altra. Ai suoni e alle parole intonate si abbina una magnificenza nel disegno, impossibile da non apprezzare, specialmente per l’espressività che i due registi sono riusciti a dare ai personaggi.  I volti, gli occhi, le labbra sembrano sempre voler comunicare qualcosa di più delle singole parole, scena dopo scena, toccando vene iperrealistiche e melodrammatiche, specialmente nella scena finale, in cui Belle, disperata, sussurra sommessamente quel “io ti amo…”.

  • Trasformazione finale: la pietà della fata.

…quando Belle ammette d’amare la Bestia, il maleficio della fata viene meno. Eppure, in pochi si soffermano a riflettere sul fatto che la Bestia sia morta. Il maleficio prevedeva che l’amore provato e ricambiato a sua volta avrebbe annullato il sortilegio, ma non vi è alcuna spiegazione su ciò che poteva avvenire nel caso in cui la Bestia fosse mortaUna minuzia che mi ha sempre lasciato esterrefatto sin da bambino: perché la bestia torna in vita? Ecco che la pietà della fata, mistificata nella sua idealizzazione, silenziosa e invisibile nella propria trasfigurazione, sembra perdonare il principe e fargli un dono dal valore inestimabile: restituirgli la vita. Nessuno sembra soffermarsi su questo meraviglioso particolare; la fata, in quanto spirito punitivo, diviene infine uno spirito benevolo. La bestia comincia a trasformarsi: i suoi arti lentamente riprendono l’aspetto umano, le sue zampe progressivamente riacquistano le sembianze di piedi, in un lavoro artistico minuzioso, quasi maniacale. Persino il volto della bestia perde sempre più quella folta peluria e le sue fauci diminuiscono fino a tramutarsi in semplici labbra. Una delle scene più intense della storia del cinema. Il mantello che avvolgeva il corpo della Bestia viene deposto delicatamente al suolo, come se la fata, vivesse in una forma astratta, impossibile anche solo da vedere, e lo reggesse a sé, accompagnandolo fino a toccar terra, come a farlo rinascere. In tale scena avviene la “morte” della Bestia e la “rinascita” dell’uomo. Una trasformazione avvenuta ben prima, nelle settimane precedenti in cui la Bestia aveva conosciuto Belle e imparato ad amarla e che adesso trova la propria sublimazione.  Belle riconosce il principe da quell’unica particolarità umana che gli era rimasta nell’aspetto: i suoi occhi cerulei. Ella rammenta ciò che era e comprende ciò che è diventato attraverso i suoi occhi, lo specchio dell’anima del principe, del suo cuore, tutto ciò che lei ha amato di lui. Il principe e la giovane si baciano e in un tripudio di colori, l’incantesimo perde i suoi funesti effetti. Il castello torna bianco e splendente come era un tempo e le figure demoniache vengono tramutate in sculture angeliche. I servitori riacquistano le loro fattezze umane e la bella riprende a danzare col suo principe nella sala grande del castello. La camera ci accompagna fuori dal palazzo, a rimirare un’ultima volta le vetrate che avevamo visto all’alba di tutto. Ce ne è una nuova, quella ritraente il principe Adam e Belle che ballano sotto la raffigurazione di una rosa che sovrasta le sagome dei due innamorati. Il film termina nell’esatto modo in cui era cominciato, sfruttando appieno l’egual sequenza narrativa. Questa volta, però, la vetrata testimonia ciò che abbiamo realmente vissuto nei meandri di quel castello ed è come se quella stessa raffigurazione l’avessimo in un qual modo dipinta noi stessi.

Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

  • Un successo planetario

“La bella e la bestia” terminò la propria corsa al botteghino conquistando un posto nel podio dei tre film di maggior successo dell’anno. Al trionfo in termini di guadagno si unì una ricezione critica entusiastica. “La bella e la bestia” vinse 3 Golden Globe, per il miglior film, la miglior colonna sonora e la migliore canzone, un risultato che per l’animazione verrà eguagliato da “Il re leone” nel 1994. “La bella e la bestia” ricevette inoltre 6 candidature all’Oscar, 3 per le migliori canzoni, altre due per la miglior colonna sonora e il miglior sonoro e infine una per il miglior film. Si, avete letto benissimo, “La bella e la bestia” riuscì nella grande impresa, quella di conquistare una nomination all’Oscar come miglior film dell’anno, e fu il primo lungometraggio d’animazione a riuscire a raggiungere tale traguardo. Deterrà questo primato in solitaria per quasi un ventennio, quando verrà raggiunto da “Up”, ma quest’ultimo eguagliò il record quando le categorie di nomination vennero portate da 5 a 10. Il record de “La bella e la bestia” è quindi, tutt’oggi, da ritenere assolutamente straordinario. Soltanto “Il silenzio degli innocenti” riuscirà a strappargli la statuetta per il miglior film, ma “La bella e la bestia” sfiorò oggettivamente un’impresa ritenuta impossibile. “La bella e la bestia” vinse comunque due premi Oscar, venne infatti premiata la meravigliosa colonna sonora e la canzone “Beauty and the Beast” cantata da Célin Dion e Peabo Bryson, e nel film da Angela Lansbury, che prestava la voca a Miss Bric.

  • Conclusioni

Ciò che in verità siamo supera ciò che l’apparenza può facilmente ingannare, è questo il messaggio principale veicolato all’interno del film. Ma non è altro che una delle innumerevoli tematiche trattate da quest’opera unica e intramontabile. “La bella e la bestia” è un monumento, alto e possente, come il castello della fiaba stessa, che merita d’esser perscrutato, come se volessimo viaggiare nel cuore e nella mente di questi due protagonisti, il principe Adam e la principessa Belle. “La bella e la bestia” reca in sé un’avvenenza incontaminata, un’eleganza mai soggetta alle mode o al volere del tempo. Un capolavoro senza eguali incastonato nella regalità di una grazia tipica delle opere tanto belle da toccare le nascoste corde dello spirito. “La bella e la bestia” è un incanto visivo, intellettivo ed emotivo e la sua magia sta nella meraviglia con cui continua a invitare il proprio pubblico a tornare al castello, e a restare lì con loro…Io, per primo, vorrei così spesso tornare laggiù, ad ammirare il volto di Belle, dalla mia personalissima ala ovest…perché “La bella e la bestia” possiede il dono dell’eterna giovinezza, la cortesia di non voler sprecare mai un solo fotogramma che non sia destinato a dilettare; “La bella e la bestia” è una bellezza che appassisce e al contempo si rigenera, come il distacco dell’ultimo petalo di quella rosa incantata.

Voto 10/10

Autore: Emilio Giordano

Web Designer e Amministrazione: Alberto Scaramozzino

Disegnatrice e Illustratrice: Erminia A. Giordano

Comunicazione e Social: Maria Chiara Scaramozzino

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Redazione CineHunters

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Come già accaduto per “Maleficent”, “Cenerentola” e “Il libro della giungla”, trasposizioni con attori in carne ed ossa dei rispettivi classici d’animazione di cui ricalcano titolo, ambientazioni e storia (pur discostandosi, a volte, come accaduto per “Maleficent”), anche “La bella e la bestia” sbarca al cinema come nuovo live action prodotto dalla Walt Disney Pictures, remake ufficiale del capolavoro del 1991. Il film si presenta come una rivisitazione, con tematiche moderne e contestualizzate in un dato periodo storico della meravigliosa storia d’amore tra Belle, una giovane ragazza tenuta prigioniera in un castello incantato, e, appunto, una bestia. In quanto live action del lungometraggio d’animazione, “La bella e la bestia” non differisce dalla sua prima stesura originaria, anzi, tutt’altro! Rivolge la sua mano all’antica versione e insieme decidono di procedere a braccetto. Il remake mima i gesti, emulando i movimenti dell'originale, divenendo una sorta di “ombra” che attraverso un riflesso di luci, suoni e immagini, duplica le azioni della sua controparte, trascrivendone lo stile e riadattandolo secondo i propri tempi, ritmi, bisogni. “La bella e la bestia” pertanto trasfigura molte delle sequenze più celebri del film d’animazione, simulandone persino le inquadrature principali. Per gli amanti del classico non potrà che essere un piacere rammentare le colorate sagome in movimento prendere nuovamente vita su sfondi luminosi, le verdi praterie e i tetri scenari del castello stregato. Eppure, l’opera diretta da Bill Condon, pur elogiando con occhio attento il lungometraggio da cui trae origine il lavoro, cerca d’allontanarsi da esso in alcuni punti chiave, fornendo, alle volte, una rilettura interessante, specialmente per quel che riguarda le nuove caratterizzazioni dei protagonisti, altre volte perdendo la bussola e uscendo pericolosamente dal sentiero: ne è un esempio il prologo iniziale.

Attenzione pericolo spoiler!!!!

  • UN PROLOGO DISASTROSO

Gran parte del fascino immutato del classico era dovuto alla straordinaria sequenza introduttiva. Dal dissolversi di uno sfondo ottenebrato emergevano i primi dettagli a colori di una piccola cascata che scendeva lungo un’altura rocciosa, proseguendo il proprio “tragitto” lungo il fiume. Il tutto veniva presentato da una celebre melodia che amalgamava completamente le immagini alle parole proferite dalla composta eleganza di Nando Gazzolo. La camera mostrava il principe ritratto su delle ampie vetrate del palazzo nobiliare. Con il progredire della narrazione, gli stessi ritratti mutavano via via per adattarsi a quanto la voce narrante stava raccontando, fino a rappresentare la terribile trasformazione. Il prologo volutamente lascia il tutto avvolto nel mistero più recondito e fascinoso, lasciandoci solamente immaginare come fosse il principe prima della maledizione e cosa facesse nel suo castello. Un grande ritratto, posto al centro di una parete della stanza del principe, viene danneggiato dagli artigli della stessa bestia che, distrutta dal dolore, non riesce più a rimirare il quadro che lo ritraeva quand’era soltanto un ragazzo. L’intero film del 1991 ruota proprio intorno alla scoperta di tale castello che sembra essere sconosciuto dagli abitanti del villaggio e celato nelle profondità di una foresta infestata dai lupi. Ciò che accadeva in quel castello e ciò che furono i suoi abitanti è lasciato volutamente nel mistero. Nel live action del 2017, invece, il principe fa la sua apparizione umana sin dall’inizio, sovvertendo così le intenzioni poste alla base dell’opera originaria. Se da una parte è interessante soffermarsi nella primissima inquadratura sugli occhi cerulei dell’uomo - unica caratteristica umana ancora ben visibile quando diverrà bestia - e se sempre dalla suddetta parte è apprezzabile notare un cambio di stile e un tentativo di fornire un’impronta autoriale diversificata al prologo del film, esso finisce per annientare, ancor prima di cominciare, l’alone di mistero e misticismo che aleggia attorno alla bestia, mostrandoci immediatamente com’era e rendendo la sua trasformazione, dinanzi a centinaia di ospiti nella sala grande, meno tragica di come veniva raccontata un tempo, in cui il principe pareva esser descritto come egoista e cattivo tanto da evitare volutamente la presenza di altre persone al solo scopo di non dividere con esse la bellezza della sua dimora, trasmettendo così l’idea di non voler ospitare la mendicante per restare sempre solo con le proprie ricchezze. Da ciò arrivò la condanna della fattucchiera. Un maleficio che per come viene realizzato nel lungometraggio del 2017 perde totalmente il fascino del racconto, finendo per divenire una semplice sequenza che si può ammirare chiaramente senza così venir stimolata la fantasia, come avveniva in quelle meravigliose rappresentazioni impresse sui vetri del castello. La voce narrante italiana della Puccini non ha certamente migliorato questo prologo straniante, in cui non vi è neppure l’accenno finale allo specchio come unica finestra sul mondo esterno per il triste protagonista.

  • CORALITA’ DEL CAST

Se il prologo, secondo il modesto parere del sottoscritto, è stata una rivisitazione infelice, il cast che ci viene presentato subito dopo costituisce il punto di forza del film. Emma Watson è Belle, la protagonista della storia. La scelta della Watson, piccola strega di Harry Potter, oramai giovane donna del grande schermo, non sembra casuale; ella, così impegnata sul fronte politico e sociale verso la parità dei diritti, sembra incarnare, per lo meno sul fronte caratteriale, ciò che è la Belle del film classico. Per la delicatezza dei tratti del suo viso e per la forza perentoria con cui fa agire i suoi personaggi, specie nelle parti che richiedono maggior devozione ai ruoli d’azione, Emma Watson sembrerebbe perfetta per interpretare un ruolo da “principessa Disney”, uno di quelli in cui la principessa non è una donzella in difficoltà ma una fanciulla in grado di badare a se stessa; eppure la sua Belle conserva poco della dolcezza e della verve sognante dell’originale. Somiglia più a un’eroina, che si batte senza timori, restando il più delle volte fredda e distaccata. La Belle di Emma Watson non si scioglie mai, indugiando rarissimamente su note emotive di tenerezza, restando quasi sempre altera e autoritaria. Durante la scena del ballo porta nel mignolo destro un anello, che sta a indicare una personalità coraggiosa che non si ferma davanti a nulla, generosa e appassionata in amore e poco incline alle mezze misure. Scelta casuale? Non credo! Probabilmente la stessa attrice ha optato per questa particolarità, non certo ben evidente di primo acchito. Le sue doti d’interprete si affidano ad una naturalezza semplice dell’espressione minima di stupore, e limitano diverse scene, una fra tutte, quelle della cena in cui resta spettatrice disincantata, riuscendo ad accennare solo un flebile sorriso. Troppo poco se pensiamo alle meraviglie coreografiche che stanno avvenendo intorno a lei, dai canti di Lumière ai piatti che roteano su se stessi e circondano la sala da pranzo in un movimento ritmato, armonico e studiato, egregiamente ripresi dalla camera che rende il giusto merito a una delle sequenze più famose del film animato.

Luke Evans è il mattatore per eccellenza del film. Ruba letteralmente la scena, interpretando alla perfezione il ruolo del superficiale e crudele Gaston. Non avrebbero potuto fare scelta migliore: Evans è a tutti gli effetti la perfetta trasposizione di un personaggio animato. Molte delle espressioni dell’attore sono del tutto somiglianti a quelle della sua controparte cartoonesca, ciò dimostra che Evans ha studiato doviziosamente la parte per regalare ai fans un Gaston impeccabile per connotazioni fisiche e caratteriali. Accanto a lui spicca un Josh Gad divertentissimo, che addirittura migliora il Le Tont visto nel lontano 1991. Il Le Tont di Gad si differenzia dall’originale per non essere più soltanto un uomo inetto, incapace di reagire ai soprusi; egli è, infatti, innamorato di Gaston e ne diviene il suo servo fedele, non più impossibilitato ad essere come lui, e di conseguenza volerlo seguire solo come aspirazione, bensì per una questione attrattiva. Le Tont del film in live action è il primo personaggio gay della storia della Disney. Il che ha innescato polemiche del tutto ingiustificate, poiché i riferimenti a questa natura del personaggio sono alquanto velati, trattati con ironia e persino conditi a volte con qualche battuta.

Nota dolente per quel che riguarda il cast è riservata alla realizzazione in CGI della Bestia. Dan Stevens, prigioniero di una massa di pelo, può far intravedere soltanto le sua labbra, fin troppo pronunciate sotto quella maschera in computer grafica da cui fuoriescono corna rivolte all’indietro, artigli ridotti e fauci poco vistose. Deludente la sua resa sul grande schermo, poiché visivamente d’impatto il suo poco omologarsi ai restanti scenari.

Chiudono il cerchio i personaggi che doppiano gli oggetti incantati del castello: Ewan McGregor è Lumière, e nella sua trasformazione finale, col suo sorrisetto furbesco e amicale, lascia intendere che sia stata una scelta ottimale per il ruolo dello svagato “candelabro francese”. Ian Mckellen è il maggiordomo preciso come, per l’appunto, un “orologio” Tockins, Emma Thompson è Mrs Bric e Gugu Mbatha-Raw Spolverina. Il talento del cast andrebbe apprezzato nella versione originale dell’opera, poiché il doppiaggio italiano, peraltro in diversi casi pessimamente adattato, non lascia intravedere la bravura degli interpreti.

  • SCENOGRAFIA, MUSICHE E COSTUMI

Un lavoro meraviglioso è stato eseguito dalla scenografa Sarah Greenwood. Per ricreare le ambientazioni fiabesche del film d’animazione hanno collaborato tra loro numerosi artisti: il direttore della fotografia Tobias Schliessler, la costumista Jacqueline Durran, la truccatrice Jenny Shircore e la direttrice del casting Lucy Bevan. Il paesino immaginario di Villeneuve, in cui vivono Belle e suo padre, è ispirato al villaggio di Conque, nel sud della Francia. Curioso che in questa rivisitazione non vi sia una biblioteca in cui Belle va quotidianamente per prendere in prestito un libro, bensì soltanto una Chiesa con una decina di tomi. Gli abitanti del villaggio, ignoranti e dalla mentalità ristretta anche nel lungometraggio degli anni ’90, qui vengono caricaturati all’inverosimile nelle loro accezioni negative. Si infuriano addirittura con Belle quando tenta d’insegnare a leggere a una bambina. Scelta da copione atta ad evidenziare la superiorità intellettiva ed educativa della giovane rispetto al resto dei compaesani. Curioso che le canzoni cantate dai popolani inneggino ad una Belle che “guarda tutti dall’alto in basso” e che durante le sequenze iniziali cammina con indifferenza su di un muretto in cui alcune bambine lavano i panni, sembrando irrispettosa verso il lavoro di quelle massaie in erba. Belle nel lungometraggio originale vuol soffermarsi a parlare con gli abitanti del villaggio, ma sono essi stessi ad ignorarla dopo un po’, poiché troppo presa dai racconti che poco entusiasmano l’animo dei villeggianti. Qui viene trasmesso l’esatto contrario.

Gli scenografi hanno creato il castello della bestia ispirandosi al Rococò francese. Nel film, il maniero subisce anch’esso le nefaste sorti della caduta dei petali della rosa incantata, distruggendosi man mano. Inoltre gli interni del palazzo regale sembrano esser più oscuri e demoniaci in prossimità dell’ala ovest, ricreata secondo gli stili del Barocco italiano, e meno ottenebrati dal maleficio nell’ala est dove si trova la stanza di Belle. L’enorme sala da ballo in cui si consuma la celebre sequenza dove la bestia e Belle danzano insieme è stata realizzata ispirandosi a un motivo presente sul soffitto dell’abbazia benedettina di Braunau, in Germania.

Il costume color oro di Belle, come riporta la documentazione di lavoro del film, è stato realizzato con una filigrana di foglie d’oro e poi arricchito con cristalli Swarovski.

Le musiche nella colonna sonora originale mantengono lo splendore della versione primaria, ma in italiano perdono totalmente l’incanto poiché l’adattamento è stato modificato per garantire una sincronizzazione con il labiale (mal riuscita) più veritiera possibile. Non si potranno di conseguenza intonare con gli attori i motivi più famosi del musical.

  • TRA RISPETTI E INNOVAZIONI

“La bella e la bestia” rispetta con assoluta devozione il classico d’appartenenza, rifacendosi ad esso nei punti centrali del proprio svolgimento. Ma il cineasta Bill Condon ha disseminato nel corso del film diverse sotto-trame che avrebbero dovuto approfondire le caratterizzazioni dei personaggi principali. Voler dare un passato ai due innamorati è stata senza dubbio una scelta lusinghiera. Da una parte vediamo come il giovane principe abbia perso la madre in tenera età venendo educato crudelmente dal padre, dall’altra parte notiamo come Belle abbia perduto la madre quand’era ancora in fasce, venendo poi allevata con amore incondizionato dal padre (un buon Kevin Kline). Rimandi narrativi interessanti se non fossero stati limitati a brevi deviazioni. Sembrerebbe infatti che Condon volesse in qualche modo abbandonare la rotta cardine e intraprendere un secondo viaggio per un sentiero diverso, in cui poter trattare con parsimonia questi nuovi accenni di trama, ma la paura di sostare troppo su queste digressioni lo ha portato più volte a riprendere in fretta il sentiero principale, ovvero quello maggiormente conosciuto della storia originale. Il ritmo alterna così stacchi più rapidi ad altri più lenti e introspettivi non garantendo un equilibrio perfetto. La sceneggiatura risente di tali frammentazioni, le quali non permettono alle tempistiche di cadenzarsi brillantemente per quel che riguarda la nascita dell’amore tra Belle e la Bestia, dove il tutto sembra avvenire perché deve essere così e non per tutti i piccoli dettagli che nel cartone animato facevano lentamente scoprire alla donna la gentilezza dell’animo del principe. Splendide, invece, le aggiunte per quel che riguarda le nuove canzoni, specialmente quella della Bestia, cantata poco dopo l'addio di Belle al castello. In quei tristi frangenti, la Bestia si lascia andare ad un lamento, intonando versi che richiamano Belle a far ritorno. Il libro con cui poter scegliere dove spostarsi semplicemente immaginando il luogo prediletto l’ho trovata una scelta gradevole ma poco incisiva. Un’innovazione che mi ha particolarmente colpito in positivo è stata la condanna finale, in cui se l’incantesimo non si fosse spezzato tutti i servitori incantati sarebbero rimasti tramutati in oggetti inanimati per sempre. Una scelta peculiare ma che riesce a commuovere, rendendo più tragico l’atto finale e ancor più eroico l’amore di Belle. Scelta casuale? No, non credo proprio! Belle, come scrivevo, si comporta più da eroina che da fanciulla decisa e sognante.

Ma l’innovazione peggiore apportata dal film alla storia è da ritrovarsi nella figura della Maga Agata, interpretata da Hattie Morahan. La sua presenza, sullo sfondo delle vicende, come fosse una sorta di “corvo” che veglia sull’andamento della sua maledizione, mi è sembrata un’aggiunta fuori luogo e inutile, personificando la fata che nel classico era avvolta nell’ascetismo. La fata l’ho sempre considerata come uno spirito punitivo che avesse colpito il principe per poi sancire una maledizione che si sarebbe compiuta o sciolta senza che ella vegliasse su ciò che stava avvenendo. La presenza della maga, anche nella scena finale in cui Belle declama il suo amore verso la Bestia, caduta sotto i colpi di Gaston, ha intralciato un momento di pura estasi amorosa, in cui la sola esternazione dell’amore di Belle spezzava l’incantesimo. La magia, nel silenzio, nel misticismo idealizzato e non personificato, donava nuova linfa vitale alla bestia trasformando tale creatura in un principe. La maga trovandosi lì e udendo le parole di Belle ha reso meno intensa e suggestiva la scena. La trasformazione è frettolosa, lontanissima dalla cura minuziosa, quasi maniacale con cui veniva mostrata la metamorfosi degli arti nel capolavoro di Gary Trousdale e Kirk Wise. Belle resta poco stupita da ciò che intorno a lei sta avvenendo, riconoscendo il principe in pochi istanti e suggellando il loro amore con un intenso bacio. L’eleganza e la raffinatezza del ballo finale viene infine deturpata da un’orripilante battuta proferita dai due innamorati: il principe risponde con un feroce ruggito alla domanda di Belle sulla sua volontà di farsi o meno crescere la barba. Una scena dal no-sense più che evidente. Le innovazioni apportate al film risultano accettabili in alcuni casi e completamente estranianti in altri, testimonianza del fatto che tentare di modificare o cambiare qualcosa da un soggetto originale già di per sé perfetto diventa difficile senonché impossibile.

  • CONCLUSIONI

“La bella e la bestia”, pur sforzandosi di riproporre la purezza cristallina del lungometraggio d’animazione, mantiene un’anima propria e un’identità, alla fin fine, del tutto sua. E’ innegabile possa risentire del paragone con la sua opera d’origine, a cui fa naturalmente da raccordo. “La bella e la bestia” del 1991 è un film praticamente perfetto, a mio giudizio il più grande capolavoro della Walt Disney e tentare di riproporlo sotto un altro aspetto poteva rivelarsi una mossa suicida. Si rivelerà, invece, l’ennesima mossa di successo che porterà nelle casse della Disney introiti straordinari. Gli amanti del cinema potrebbero domandarsi infine l’utilità di queste trasposizioni, che vanno a fare il verso ai lungometraggi animati già ampiamente entrati nell’immaginario collettivo così come sono. Questo ambizioso progetto della Walt Disney di rifare i propri classici in live action sembra che di ambizioso non abbia nulla, se non la volontà di far divertire. In conclusione, la chiave di lettura è proprio questa: “La bella e la bestia” del 1991 era un’opera concepita per meravigliare, stupire, incantare e far commuovere, “La bella e la bestia” del 2017 vuole, invece, soddisfare con la reminiscenza del suo primo capolavoro. E’ questa la linea di demarcazione tra i classici di un tempo e le riproposizioni: i primi meravigliavano di per sé, poiché nascevano dall’incertezza, i secondi no, in quanto nati dalla sicurezza di riproporre quanto già conosciamo.

Voto 7,5/10

Autore: Emilio Giordano

Web Designer: Alberto Scaramozzino

Disegnatrice e Illustratrice: Erminia Giordano

Comunicazione e Social: Maria Chiara Scaramozzino

Redazione: CineHunters

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"Dumbo" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

Anni addietro lessi una meravigliosa poesia di Charles Baudelaire intitolata “L’albatros”. L’albatros è un candido uccello marino dalla grande apertura alare, maestoso e ed elegante quando solca in volo la superficie del mare. Il componimento di Baudelaire tratta di marinai che catturano uno splendido esemplare di albatros, e quando viene deposto sulle tavole dell’imbarcazione improvvisamente perde tutta la sua maestosità divenendo addirittura impacciato e goffo. Le agili ali che gli permettevano di volare divengono sulla terra dei pesi insopportabili da poter reggere. L’albatros, precedentemente ammirato nel suo volo, viene adesso deriso dai marinai per la sua difficoltà a muoversi a bordo del bastimento. Il poeta paragona la figura dell’Albatros a se stesso, vittima di ingiurie da parte dei popolani. Baudelaire nutriva in cuor suo il sogno, l'immaginazione, la fantasia che gli permetteva di librarsi alto, oltre gli scherni dei villici. La prima volta che lessi i versi di quella lirica mi venne naturale accostare l’albatros di Baudelaire, come in una specie d’assonanza, alla figura cinematografica di Dumbo. Come l’albatros, signore del cielo, appare frastornato così anche il minuto elefantino sulla terraferma si muove con difficoltà. Le grandi ali dell’albatros come le grosse orecchie di Dumbo impediscono un movimento coordinato, perché entrambi questi due esseri sono destinati a librarsi alti nel cielo. Per Dumbo, però, la vera particolarità è da riscontrarsi nel fatto che esso, pur essendo un animale terrestre, riesca a trovare il suo “mondo prediletto” su nella volta celeste.

A notte inoltrata, in un cielo stellato, uno stormo di cicogne volteggia su di un grosso tendone da circo. Planando in prossimità delle gabbie in cui riposano gli animali, le cicogne lasciano cadere dolcemente dei cuccioli tra le braccia accoglienti dei neogenitori. Un’elefantessa dall’ampia cuffia rosa e con un drappo azzurrastro che le copre la schiena, da tutti chiamata “signora Jumbo”, attende con impazienza che una cicogna giunga proprio sulla sua caustica dimora; ma sarà questa un’attesa destinata a non trovare il compimento desiderato. L’indomani il circo chiuderà i battenti in quella località e si sta già provvedendo a caricare gli animali sui vagoni del treno alla volta della nuova destinazione. Ed ecco una cicogna in evidente ritardo fermarsi qualche istante su di una nuvola e poggiare su di essa un cucciolotto avvolto in una calda coperta. La cicogna legge con attenzione la mappa che ha con sé per capire dove si trovi con precisione la signora Jumbo, a cui deve recapitare una “consegna” alquanto importante. Nel frattempo il peso del nuovo nato crea non pochi problemi alla cicogna la quale deve più volte riacciuffarlo in extremis prima che esso precipiti definitivamente giù dalla nuvola. Ogniqualvolta rivedo questa scena, e mi succede ancora oggi, mi sembra di vedere con una certa qualità d’immagini, suoni, gesti e schiamazzi di un qualsivoglia pubblico intento a urlare alla cicogna di voltarsi il più in fretta possibile per afferrare il “pargoletto” prima che vada giù. La cicogna si fa nuovamente carico di questo dono speciale e si getta all’inseguimento del treno oramai in movimento. Raggiunto il vagone in cui si trova la signora Jumbo, la cicogna le offre il panno in cui è ancora avvolto l’elefantino che la mamma chiamerà Dumbo. Il piccolo ha due bellissimi occhioni azzurri e con essi comincia a scrutare il mondo circostante, a osservare ciò che gli sta accanto. Dapprima sorride a sua madre, poi alle altre elefantesse lì presenti a cui accenna una seconda espressione gioviale. Uno starnuto improvviso di Dumbo fa sì che le sue orecchie si liberino e si mostrino in tutta la loro effettiva e ingombrante rarità. Questa stravagante peculiarità del suo aspetto non viene affatto gradita dalle altre elefantesse che iniziano a deriderlo per la bislaccheria di tali orecchie a sventola. La madre, infastidita dal borbottare sommesso delle altre elefantesse, raccoglie con la sua proboscide Dumbo e lo allontana così dagli sguardi indiscreti e maliziosi delle presenti. Dopodiché comincia a cullarlo con quell’amore sincero e incondizionato che solo una madre sa dare.

“Dumbo” venne proiettato nei cinema di tutto il mondo nell’ultimo trimestre del 1941. Durava poco più di un’ora. Il che fece esitare inizialmente molti distributori che manifestarono a Disney l’intenzione di distribuirlo come un “B-movie” o, in alternativa, come un cortometraggio. Disney rifiutò categoricamente di denigrare in qualche modo la sua opera, privandola dell’etichetta di vero e proprio “film”, pretendendo che “Dumbo” venisse universalmente riconosciuto come un’opera di breve durata ma dall’egual valenza di un film di canonica durata. “Dumbo” rappresentava il quarto classico della Disney, successivo a “Bianca neve e i sette nani”, “Pinocchio” e “Fantasia”.

Dumbo” inizia con un’attenzione accorta e sensibile riservata al concetto classicista di “famiglia”. Facendo leva sulla favola popolare degli infanti portati dalla cicogna, il film rilascia il primo messaggio: il dono della nascita. Un dono inestimabile sia per il nascituro che viene al mondo sia per i genitori che ricevono tale “pegno d’amore” in una notte senza alcun preavviso ma che magari attendevano da tempo. La nascita viene quindi rappresentata come un avvenimento condizionato ad un determinato momento della vita, in cui gli stessi genitori si sentono pronti ad accogliere e allevare un figlio. La nascita compiuta attraverso il gesto simbolico di una cicogna che porta i cuccioli è un atto necessario per tracciare un legame sottinteso ma intrinseco tra figli e genitori, volto a rivelare un affetto che sboccia in maniera istantanea. Gli animali disegnati dalle magiche matite degli artisti della Disney divengono genitori nel momento in cui scelgono di crescere la prole che il cielo gli ha donato, rimarcando come tale rapporto sia ugualmente paragonabile al legame di sangue: genitore è chi mette al mondo un figlio ma lo è di più chi, di quel figlio, se ne prende cura. Gli animali divenuti genitori nel film sono il più delle volte singole madri.  La stessa signora Jumbo aspetta il proprio cucciolo, ma esso sembra tardare ad arrivare, rendendo ancor più unica la sua nascita, come un parto speciale e per questo difficilmente prevedibile. Dumbo non possiede un padre, come se si volesse sottintendere che anche le madri rimaste sole possano crescere con affidabili riscontri i propri figli, districandosi comunque tra il lavoro (qui rappresentato dal circo) e il ruolo affettivo ed educativo di “mamme”. Come accadrà pochi anni dopo al piccolo Bambi, anche Dumbo verrà sottratto all’affetto della madre. Ma se il piccolo cerbiatto dovette sostenere il fardello di un trauma improvviso che portò con sé l’efferatezza di un’innocenza spezzata da un evento tragico, e difficile da comprendere in tenera età come la morte della madre, Dumbo viene soltanto costretto a rimanere lontano dalla genitrice, assumendo un’aria triste e sconsolata ma non per questo perdendo la sua vena sognante e speranzosa che lo porterà a non smettere mai di cercarla fin quando non la ritroverà. Una volta che il circo viene aperto al pubblico, Dumbo viene schernito da un nugolo di ragazzini. Uno in particolare, somigliante in maniera piuttosto evidente al noto Lucignolo di “Pinocchio”, si dimostra aggressivo nei confronti del piccolo elefante, strattonandolo con forza. Furibonda la madre di Dumbo si scaglia prima sul manipolo di vessatori e poi sul personale del circo, che la rinchiude in una gabbia come “elefante impazzito”. Dumbo resta così triste e solitario. Nascostosi sotto un cumulo di paglia, viene avvicinato da Timoteo, un topo con cui stringerà la prima amicizia della sua vita.  Timoteo ricorda, negli atteggiamenti e nel suo ruolo di mentore nei confronti del protagonista, il grillo parlante di “Pinocchio”. Proprio Timoteo infatti concede velati rimandi a questa sua natura di “voce interiore” quando di notte sussurra all’orecchio del direttore circense le esibizioni future da dover portare in scena. Il direttore crede infatti che le idee nascano dai propri sogni, come se la notte gli portasse consiglio, quando in verità sono soltanto le parole del topolino apprese inconsciamente.

Timoteo, il solo ad avere compassione del piccolo, sprona più volte Dumbo ad assumere maggior fiducia in se stesso.  L’amicizia tra i due animali è strutturata in modo da insegnare cosa sia realmente l’accettarsi a vicenda. Timoteo è un topo, l’animale di cui gli elefanti hanno timore, secondo le credenze popolari. In realtà, il topo, essendo piccolo e veloce, destabilizza gli elefanti che lo vedono aggirarsi di soppiatto nelle loro vicinanze; nient’altro. Lo stesso Timoteo terrorizza le elefantesse che mostravano totale indifferenza nei confronti del piccolo Dumbo. Eppure, il piccino non ha alcuna paura del topo. Come se da bambini, restando al di fuori dei pregiudizi, in quell’innocenza infantile, non si comprendesse davvero ciò che in età adulta potrà diventare odio e timore razziale. Il topolino rappresenta la specie “avversa” a quella degli elefanti, ma l’amicizia con il piccolo Dumbo certifica come spesso l’incomunicabilità e la diversità possano essere superate dalla semplice conoscenza.

Dumbo è timido e innocente, ancora incapace di reagire ai soprusi. Egli viene emarginato dai suoi simili prima ancora che sbeffeggiato dagli uomini poiché diverso nell’aspetto, e per questo non accettato. Le sue grandi orecchie sono la metafora visiva della sua diversità. Dumbo sembra non curarsene, o per meglio dire, sembra non accorgersi minimamente della sua particolarità esteriore, non riuscendo così a comprendere propriamente perché venga isolato da tutti. Le sue grandi orecchie minano persino la sua andatura e lo fanno spesso inciampare, questo perché Dumbo non è nato per restare con le zampe sempre ben piantate al suolo.

Timoteo conduce il piccolino a trovare la mamma, rinchiusa in una cella cupa e soffocante. Dumbo è talmente piccolo da non saper parlare, per questo il legame con la madre viene solamente espresso con gli occhi colmi di lacrime e le carezze delle loro proboscidi. Se da una parte Dumbo non può parlare alla madre, essa dall’altra non può neppure vederlo, poiché la gabbia è chiusa quasi fino al tetto, lasciando soltanto una piccola finestrella, dove potersi affacciare. Dumbo non può raggiungere tale altura così la madre protende la sua proboscide, iniziando a cullarlo dolcemente da destra a sinistra e viceversa. Ciò che non viene espresso a parole o con gli sguardi viene semplicemente mostrato dal tatto affettivo. Una scena dal pathos viscerale, che genera una commozione istantanea. I nostri occhi vengono inumiditi come in un riflesso condizionato, tanto profondo è il linguaggio emotivo della scena da arrivare dritto al cuore, scandendo ogni singolo battito.

Le influenze di “Fantasia” sono riscontrabili anche in “Dumbo” e spesso la musica accompagna i movimenti del cucciolo, cadenzando il ritmo musicale con il semplice gesto o lo spostamento dell’elefantino. La musica e l’immagine divengono una cosa sola nella celebre sequenza degli elefanti rosa. Dumbo si abbevera da una tinozza insieme a Timoteo senza rendersi conto che in quel barilotto è stata accidentalmente versata un’intera bottiglia di champagne. I due, ubriachi e confusi, iniziano a vedere dappertutto elefanti rosa che ballano, suonano e intonano versi inquietanti. Una scena lunga e intensa in cui i colori luminosi del sogno vengono “divorati” dalle musiche angoscianti dell’incubo, come se Ipno, il dio greco del sonno, subisse i canti nefasti del fratello Thanatos. Il coro accompagna la danza in un incubo ad occhi aperti che induce Dumbo a non curarsi di ciò che sta avvenendo realmente intorno a lui. La mattina seguente Dumbo e Timoteo si svegliano sulla cima di un albero. Timoteo deduce che sono arrivati fin lì grazie a Dumbo e che l’elefante ha imparato a volare. Dumbo non ci crede e così Timoteo, supportato da un gruppo di corvi canterini, dona all’amico una magica piuma che permette a chi la possiede di poter realmente volare. Tenendola stretta sulla sua proboscide e guardandola intensamente, Dumbo comincia a librarsi in aria, sospinto dalle sue grandi orecchie. Tornato in scena al circo, Dumbo si esibisce nuovamente nel suo numero da “pagliaccio”, ma questa volta, lanciatosi dal limite massimo di un palazzo in fiamme, non precipiterà giù, ma volerà, gettando nello stupore un’intera platea gremita di spettatori. Timoteo, rimasto nascosto nel cappello indossato da Dumbo, gli toglie via la piuma magica, in verità soltanto uno strumento per far prendere a Dumbo la giusta fiducia in se stesso, e, infatti, egli prosegue comunque a volare. Dumbo diviene una star di prima grandezza, trionfando su chi si prendeva gioco di lui. Timoteo diviene il suo impresario, mentre Dumbo si ricongiunge alla madre in un vagone privato del treno a lui completamente dedicato.

Dumbo trasforma quello che per molti era un difetto in un pregio. Le orecchie scomode che spesso lo facevano cadere maldestramente divengono le sue ali, permettendogli di volare in alto con sicurezza e abilità. Come l’albatros della poesia così Dumbo dimostra di non appartenere propriamente alla terraferma, ma di poter raggiungere le vette più alte dei sogni e delle speranze. “Dumbo” insegna la condivisione della diversità estetica, dell’unicità di ogni singolo talento custodito e coltivato in noi. “Dumbo” è un film carico di sentimento e traboccante di coinvolgente pathos, un film che commuove dal primo all’ultimo istante. Nessun altro personaggio della Disney riesce a conservare in sé una dolcezza e una tenerezza paragonabile a quella dell’elefantino. Dumbo è emotività viva e senziente, comunicativa e profonda. Esso si rivolge al pubblico senza proferire parola alcuna, bensì comunica con gli sguardi e con il singolo gesto della sua proboscide, con i movimenti talvolta roteanti delle sue orecchie e con l’immensità animosa dei suoi occhi. Dumbo si rivolge al cuore di chi segue il suo cammino, non temendo di piangere dinanzi a chi impara lentamente a conoscerlo. Un elefantino talmente amabile che ogniqualvolta piange, soffrendo l’allontanamento dall’amore materno, non fa che indurre i propri spettatori a sussurrare: “non pianger così, non pianger più”. Se poi a queste parole si abbina il valore della melodia e della colonna sonora premiata con l’oscar, “Dumbo” travalica i confini della pellicola, riuscendo a creare un legame con i suoi spettatori fatto di canti e lacrime vere. Esso resta in silenzio, lasciando noi tutti a meditare magari alla nostra di madre o alla figura che maggiormente ricordiamo come la più importante della nostra infanzia, intonando le parole del testo: “Bimbo mio, non temer, la tua mamma è con te; fa' brillar gli occhioni blu, non pianger più, non pianger più, bimbo mio”.

“Dumbo" indugia sulla commozione ma non desidera soffermarsi completamente su essa, vuole invece allontanar tale pianto, poiché solo dopo averlo provato possiamo comprendere come farlo andar via. Il turbamento e la commozione generano infine la spensieratezza e l’ilarità in un viaggio contradditorio del sentimento umano. E nel finale, infatti, quando lo ritroviamo con la sua mamma, possiamo finalmente spogliarci di quella sorta di catarsi che il film ci ha indotto a sperimentare, rimanendo qualche istante fermi con il sorriso stampato in volto, a intonar un’ultima volta “non pianger più”. Perché davvero non vogliamo che Dumbo pianga più. Mai più!

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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