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"Batman, 1966" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

Tutto ebbe inizio nel soggiorno di una grande e lussuosa villa. Il miliardario Bruce Wayne, vestito di tutto punto, se ne sta ritto in piedi, sfogliando un grosso libro. Egli sta intrattenendo i suoi ospiti, disquisendo con essi sul suo desiderio di aiutare le persone più bisognose.

“La fondazione Wayne vi appoggerà, completamente!” – Afferma, con cordialità, il noto magnate. Bruce si mostra più deciso che mai a sostenere la costruzione di alcuni centri per combattere la delinquenza giovanile. Proprio in tale occasione, egli rammenta ai presenti il giuramento che fece quando era solamente un bambino, e assistette all’omicidio dei suoi amati genitori: proteggere e aiutare gli indifesi.

Nel frattempo, in una stanza sita a pochi passi dall’ampio salone, un telefono squilla insistentemente, accendendosi di un rosso infuocato. Il maggiordomo Alfred Pennyworth irrompe nello studio, alza la cornetta e ascolta le parole di chi, dall’altro capo del filo, si rivolge a lui.

Attenda in linea!” – Sussurra il solerte maggiordomo, prima di deporre il “ricevitore” sulla scrivania. Alfred attirerà, così, l’attenzione di Bruce e del giovane Dick Grayson, pupillo del miliardario. Ambedue varcano lo studio, apprendendo che la città di Gotham è in pericolo. Decidono, subito, di entrare in azione: attivato un circuito nascosto, entrambi discendono lungo una pertica, raggiungendo un’accogliente caverna, nascosta dietro un passaggio segreto.

È il 1966: sugli schermi televisivi americani fanno incursione due bislacchi eroi dai costumi improbabili: Batman e Robin. Il primo è un uomo alto, distinto e dai modi garbati, il secondo è invece un ragazzo, ingenuo come ogni adolescente che si rispetti ma pure armato di un certo ardimento. Batman e Robin si palesano dinanzi al loro pubblico, alla loro platea di spettatori, una sera come tante, gettandosi a capofitto in un’avventura destinata ad essere la prima di una lunga serie.

L’episodio pilota della serie televisiva di Batman comincia in tal modo. Il personaggio si manifesta, dapprima, nella sua dimensione “umana”, apparendo nelle vesti di un uomo qualunque che, in gran segreto, conduce una doppia vita. Infatti, ogniqualvolta quel telefono rosso comincia a brillare Bruce, di soppiatto, sgattaiola via dalla sua abitazione, sfrecciando per le strade della metropoli con l’aspetto di un vigilante mascherato.

La serie televisiva di “Batman” fu il primo, ambizioso tentativo di trasporre in carne ed ossa le avventure del celebre supereroe targato DC Comics. I creatori del format scelsero di abbandonare le atmosfere tenebrose del fumetto degli anni ’40 e ‘50, preferendo ricreare un clima scanzonato e prettamente umoristico. Tuttavia, ciò che è importante tenere bene a mente è che questa ironia è velata, resta sottaciuta e mai resa del tutto evidente.

Batman si comporta con dedizione, con assoluta compostezza, e non lascia mai trasparire dal suo volto alcun imbarazzo, alcun sorriso di scherno, alcuna espressione di stupore, neppure davanti alla più inverosimile delle proprie peripezie. La serie di Batman è a tutti gli effetti una “parodia”, ma una parodia unica nel suo genere. Essa, infatti, pur parodiando, all’apparenza, l’universo della sua controparte a fumetti, non lo deride, non lo ridicolizza, tutt’altro, lo trasforma, lo estremizza, lo muta infondendo in esso una verve sarcastica ed una vena surreale.

L’oscurità tipica del personaggio di Batman viene cambiata in una gioviale positività, il suo tormento interiore viene trasfigurato e alterato, divenendo una meccanismo di propulsione che sprona l’eroe a lottare per il bene senza, però, arrecargli quell’angoscia mentale che egli patisce abitualmente nelle storie su carta stampata. Il Batman della serie televisiva degli anni ’60 è, dunque, un eroe ottimista, giocoso che sa perfettamente di rivolgersi ai bambini: egli è, a tutti gli effetti, un educatore, un esempio da seguire, l’aio per eccellenza, in altre parole, un gentiluomo in costume.

La comicità della serie è da ricercarsi nel suo stile spensierato che, però, non viene mai reso plateale. Il produttore esecutivo William Dozier definì il prodotto come una sitcom in cui le sequenze ironiche non sono scandite da alcuna risata di sottofondo. In effetti il riso finto, che echeggia dal fuori campo, avrebbe reso chiara l’assurdità della scena in sé, togliendo uno dei segni più rappresentativi della serie stessa, uno dei suoi paradossi: trattare seriamente un qualcosa che, invero, è palesemente ironico. Pertanto, guardando “Batman” non si ha mai completamente l’impressione di star guardando un programma comico, eppure così è, ed è questa la sua più grande unicità. Talvolta, si ha la sensazione che ciò che si sta osservando sia talmente irragionevole, sconnesso, infantile ed eccentrico da credere che si tratti di un orripilante adattamento, di una versione “demenziale”, di pessimo gusto, tremendamente sbagliata, senza capire che, in realtà, è proprio dietro quei sotterfugi, quelle stravaganze trattate in maniera tanto dignitosa che va ricercata la genialità nonché la peculiarità di questo telefilm. Altri elementi iconici del serial sono i costumi sgargianti e quasi carnevaleschi, i dialoghi sconclusionati, le ingenuità puerili, le gag inverosimili, le trovate ai limiti del no-sense, le mischie e le lotte scandite da diciture onomatopeiche.

"Adam West e la maschera del pipistrello" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

A prestare il proprio volto all’eroe mascherato fu Adam West, primo e storico interprete del Cavaliere Oscuro. Beh, utilizzare questo appellativo per definire il Batman impersonato da Adam West fa un po’ sorridere: di oscuro c’è ben poco nel suo Batman, tuttavia di “cavaliere” c’è molto. Adam West fu, di fatto, un Batman cavalleresco, altruista, generoso e raffinato nelle sue movenze semiserie. Egli conferì a Bruce Wayne un'eleganza inglese, quasi da agente segreto, e a Batman una comicità singolare, kafkiana e volutamente sottintesa.

Sebbene mantenga un carattere vivace e leggero, il Bruce Wayne interpretato da Adam West non è esente da riletture più profonde e articolate che non devono limitarsi a vederlo puramente come un guardiano dal temperamento nobile, dal cuore puro e incorruttibile e, proprio per questo, scontato e stereotipato. Il Bruce Wayne di West incarna, per certi versi, lo spettatore medio americano di quel periodo che agognava, in cuor suo, di vivere i sogni più impavidi e di affrontare le incognite di una vita spericolata. Scivolando lungo quella pertica, occultata nel suo studio e scendendo sempre più giù, fino alla caverna, quel luogo segreto, Bruce rende tangibili le aspirazioni di gloria, vive sulla sua pelle i desideri e le voglie da brivido dell’uomo comune a cui queste possibilità sono precluse dalle limitazioni di una vita normale e priva di accadimenti che richiedono audacia e sprezzo del pericolo. La maschera del pipistrello, in particolare, sdoppia la personalità di Bruce, creando il suo alter-ego e permettendogli di assaporare gli azzardi di un’esistenza temeraria senza il rischio d’essere riconosciuto, senza l’incertezza che la sua sfera privata venga intaccata dall’indiscrezione degli estranei.

"Robin" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

La serie televisiva andò in onda per tre stagioni, vantando un totale di 120 episodi. A spalleggiare Batman nelle sue intrepide missioni c’è sempre il fido Robin, il solo, ad eccezione del maggiordomo Alfred, a conoscere la vera identità del supereroe. Il giovane aiutante dell’Uomo Pipistrello, con le sue esternazioni sui generis, funge da divertente spalla del protagonista. A partire dall’ultima stagione, il dinamico duo riceverà l’aiuto dell’avvenente Batgirl.

"Batgirl" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

Per il ruolo di Barbara Gordon, figlia del Commissario James Gordon, fu scelta l’attrice Yvonne Craig. Nei panni della timida e astuta bibliotecaria Barbara, Yvonne sfoggiava capelli corti e bruni ed un look fatto di abiti coprenti e colorati. Quando vestiva il costume di Batgirl, Barbara era solita indossare un cappuccio viola e una maschera scura, da cui fuoriusciva una fluente chioma rossastra. Differentemente dal fumetto, Batman e Robin non conoscono l’identità di Batgirl. Barbara ha infatti progettato, tutta da sola, un nascondiglio nel proprio appartamento che le consente di celare i suoi indumenti da supereroina, ed il più delle volte giunge sul luogo del misfatto con la sua scintillante motocicletta, unendosi al dinamico duo d’un tratto e scomparendo dalla loro vista una volta portato a termine il proprio dovere.

Sia Robin che Batgirl costituiscono un punto di raccordo con i telespettatori più piccoli, una sorta di “proiezione”, dei personaggi con cui i bambini e le bambine possono facilmente identificarsi così da poter immaginare di lottare fianco a fianco con il cavaliere senza macchia, calzando il costume del ragazzo meraviglia o della donna pipistrello.

Durante lo scorrere degli episodi, Batman si troverà ad affrontare una galleria di nemici pittoreschi, alcuni come il Maniaco degli Orologi, Mr. Freeze, il Cappellaio Matto sono tratti dai fumetti, altri come Re Tut e Testa d’Uovo (interpretato da un incontenibile Vincent Price) verranno ideati appositamente per il serial, riuscendo a riscuotere un ragguardevole successo tra gli appassionati. I delinquenti più presenti nell’arco delle tre stagioni sono il Joker ed il Pinguino, interpretati rispettivamente da Cesar Romero - il quale non rinunciò a tagliare i suoi inconfondibili baffi, facilmente identificabili sotto il candido trucco - e Burgess Meredith, già famoso sul piccolo schermo per le sue quattro, indimenticabili apparizioni in “The Twilight Zone”. Romero caratterizzò il pagliaccio principe del crimine come un lunatico burlone, donando alla nemesi del personaggio cardine una connotazione capricciosa ed una personalità travolgente e suonata, come se fosse un cattivo balzato fuori da un cartone animato.  

Tutti i villan agiscono con le medesime intenzioni: vogliono a tutti i costi sconfiggere Batman, seminare il disordine nella tranquilla metropoli di Gotham, e portare a termine qualche furtarello. Nessuno dei vari antagonisti del paladino di Gotham si dimostrerà mai realmente “malvagio”. In linea con lo spirito della serie, gli avversari del Crociato Incappucciato assumono il ruolo di criminali scaltri ma al contempo inetti, cartooneschi, intrinsecamente sciocchi. Fra i più, soltanto la Catwoman di Julie Newmar saprà distinguersi e ritagliarsi un’identità particolareggiata, abbattendo i caratteri fanciulleschi della sitcom con la sua prorompente sensualità.

"Catwoman" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

Nella serie televisiva Catwoman incarna, infatti, l’inatteso, l’elemento imprevedibile che fa vacillare le ferree certezze dell’eroe mascherato, costantemente ligio al dovere e mai propenso a godere di alcun piacere, sia pure momentaneo. Catwoman non è, infatti, un tradizionale antagonista, un cattivo da strapazzo, facile da decifrare nelle proprie subdole intenzioni e altrettanto semplice da acciuffare, da affrontare in duello o in qualche scazzottata a ritmo da ballo. Tutt’altro!

La donna gatto di Julie Newmar è l’estro, il brio, l’imprevisto. In un fare semiserio come quello tipico del telefilm, in un contesto fanciullesco, ingenuo, volutamente ironico, in un’ambientazione “kitsch”, Catwoman costituisce la sfumatura indistinguibile, il grigio che si insinua tra il bianco del bene e il nero del male, la venatura adulta, la tentazione più pericolosa per il cavaliere di Gotham impersonato dal signorile Adam West. Catwoman è la donna che fa tremare Batman, la “nemica” che è anche sua “amica”, l’avversaria che è altresì la creatura femminile che più lo attrae. Un bel problema per un miliardario tutto d’un pezzo come Bruce Wayne, un bell’impiccio per un vigilante esemplare che tiene sempre a ricordare, a tutti coloro che osservano le sue avventure attraverso l’occhio meccanico di una telecamera, i giusti comportamenti da seguire.

Catwoman è, dunque, la lusinga, il desiderio per un uomo casto e integerrimo come il Batman di Adam West. Pur agendo con la semplicità e la sventatezza che contraddistingue ogni personaggio del programma, ella sa essere maliziosa, provocante nei movimenti, melliflua nel parlato. Julie Newmar, con i suoi folti capelli, il suo vitino di vespa, stretto da una cintura color dell’oro, con i suoi fianchi ben sagomati, le sue gote tonde e rosee, e il colore bruno del suo costume che esalta ogni sua forma, era troppo bella, se non addirittura irresistibile per non elevarsi al di sopra di ogni altro supercriminale della città di Gotham. Catwoman ruberà, in parte, il cuore di Batman che, però, costretto a rispettare i suoi obblighi civili, saprà rinunciare a qualsiasi tentativo di corteggiamento. Entrambi, ad ogni nuovo scontro, reclameranno un bacio che sembrerà non arrivare mai. Tuttavia, in un episodio, i due gusteranno un gelato insieme, molto vicini, a un passo l’uno dall’altra. Ciò che più si avvicinerà ad un appuntamento.

Batman – La serie” è nota per il suo tocco “Camp”. Con questo termine, si vuole intendere l’uso intenzionale e sapiente del Kitsch. Al contempo, con il termine Kitsch si definisce uno stile artistico che finisce per scadere nel “cattivo gusto”. Già cinquant’anni fa, il filosofo italiano Umberto Eco aveva posto l’attenzione sul concetto di “Kitsch” e sulla sua introduzione, sempre più insistente, nella cultura di massa. Il cattivo gusto, per Eco, soffre della medesima sorte che Benedetto Croce riconosceva come tipica dell’arte: tutti sanno benissimo cosa sia e non temono di individuarlo, salvo trovarsi imbarazzati nel definirlo. Il Kitsch, in particolare, potrebbe essere illustrato come una forma di menzogna artistica che cerca di generare nello spettatore un particolare effetto. Hermann Broch, citato dallo stesso Eco nella sua opera seminale “Apocalittici e integrati”, avanza l’idea che senza una piccola dose di Kitsch nessun tipo di arte possa esistere.

I creatori della serie televisiva di Batman sembrano aver ghermito questo pensiero, facendo loro il carattere più evidente del “Kitsch” e piegandolo ai propri voleri, tramutandolo in “Camp”. I costumi poveri, sciatti dei due protagonisti, le trame sempliciotte, le battute scontate fanno parte di un uso deliberato e attentamente inscenato, di una forma d’arte satirica volta a generare il riso mediante l’ostentazione taciuta del grottesco.  

Nel 1966, tra la messa in onda della prima e della seconda serie, venne prodotto un lungometraggio: la prima, vera trasposizione di Batman per il grande schermo. Nell’opera filmica, Batman e Robin si trovano ad affrontare una pericolosissima alleanza di super-cattivoni: il Joker (in tal caso ribattezzato “Jolly”), l’Enigmista, il Pinguino e Catwoman hanno stretto un patto per mettere alle corde il vigilante e non lasciargli alcuno scampo.

Tra combattimenti con squali affamati, bombe da disinnescare, fughe rocambolesche e zuffe estremamente coreografiche, Batman dovrà guardarsi bene dal più insidioso dei fatali pericoli: l’amore. Difatti, la donna-gatto (interpretata dall’attrice Lee Meriwether, data la temporanea assenza di Julie Newmar), nelle sue sembianze da donna comune, intreccia con Bruce Wayne un romantico corteggiamento mentre, allo stesso tempo, nei panni di Batman e Catwoman i due continueranno ad essere schierati su fronti opposti. Un elemento che, con le dovute differenze, verrà rimesso in scena da Tim Burton in “Batman - Il ritorno”.

Batman – Il film” raccoglie tutti gli elementi estrosi della serie televisiva, miscelandoli alle caratteristiche stravaganti della stessa, elevando tali prerogative all’ennesima potenza. Il risultato è un susseguirsi di bizzarrie, di sequenze ai limiti del farsesco.

Si resta perplessi, piacevolmente “sconvolti”, si ride di gusto, talvolta a crepapelle, nel mentre si gustano i trucchi clowneschi, le trovare inverosimili, i buffi espedienti narrativi adoperati nell’opera cinematografica. “Batman – Il film” fa del Camp una forma d’espressione sofisticata, genuina, paradossale e divertentissima. 

Anche un sociologo come Arthur Asa Berger rivolse il suo sguardo, attento e scrupoloso, verso la popolare serie televisiva e sul fenomeno che essa generò, la cosiddetta “Batmania”. Il Berger notò come l’impostazione del format fosse decisamente “enfatica”. Tenne a ricordare ciò lo stesso Adam West, in un’intervista concessa a John Stanley. L’attore statunitense confidò che il progetto della serie era quello di rappresentare Batman da un punto di vista satirico. Tuttavia, tale “satira” non era del tipo più comune ma di un tipo del tutto speciale. L’elemento satirico consiste proprio nell’atteggiamento stilistico con cui il tutto si svolge e si sviluppa. Le caricature, le esagerazioni, le ridondanze sono accuratamente preparate e volute, ma non sortirebbero lo stesso effetto se non venissero recitate con totale sincerità.

Il compito di Adam West era quello di restare “serio” davanti al più comico degli equivoci, di rendere “credibile” il più illogico dei colpi di scena, di attenuare l’esagerazione fintanto da renderla sottilissima, fine, arguta.

Arthur Asa Berger bolla il film del 1966 con un giudizio inequivocabile: “orrendo”. Al di là del suo parere piuttosto inclemente, ciò che è più interessante scorgere nelle parole dello studioso americano è lo strano “destino” a cui andò incontro il Batman di Adam West. Come sostenuto dallo stesso Berger, nella mitologia del fumetto, Bruce Wayne, indossando il costume dell’Uomo Pipistrello, diviene una figura spaventosa, mostruosa che deve osteggiare figure altrettanto mostruose e grottesche, molte delle quali possiedono connotazioni animalesche. Il Cavaliere Oscuro è sempre stato un eroe torbido, implacabile, la cui ambientazione tetra e violenta ben si prestava ad una fascia di lettori prettamente maturi. Batman, nella sua prima incarnazione dal “vivo”, finì per essere deriso proprio dagli adulti che avevano letto i suoi racconti, venendo, al contrario, amato incondizionatamente dai bambini, i quali presero per schiette, per giuste, per appassionanti ed eroiche le audaci azioni che il Crociato Incappucciato compiva settimanalmente sui teleschermi delle loro case. Secondo il pensiero del Berger, gli adulti dell’epoca vedevano Batman come l’emblema della cultura Camp: un esempio “vivente” della crisi dell’eroe, il quale, nell’America degli anni ’60, non esisteva più, decaduto completamente come modello simbolico, come mito oramai desueto. Al contempo, per una nuova generazione di bambini quell’eroe spontaneo, premuroso e buono era ancora saldo, robusto, integro e non si era affatto consumato.

Il più grande merito del Batman degli anni ’60 fu quello di formare ed educare milioni di giovanotti sparsi per tutto il mondo, cresciuti con i sani valori dell’onestà e della rettitudine, principi cari allo stesso Adam, che volle, più volte, rapportarsi con l’idea romantica di un gentleman in calzamaglia.

Continua con la seconda parte...

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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"Lois e Clark" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

Qualche anno addietro, lessi un’intervista di un grande attore e cantante di teatro, di cui preferisco non rivelare il nome, che mi colpì in modo particolare. Una serie di confidenze, talvolta derivate dall’ambiente lavorativo, talvolta dall’intimità dell’interprete, fuoriuscirono liberamente dal suo parlato e vennero minuziosamente riportate dal giornalista in un testo scritto. Ad un certo punto, l’intervistato rilasciò una dichiarazione che mi rimase perfettamente impressa. Dopo aver affrontato le più disparate questioni, i due interlocutori arrivarono a disquisire sulla morte. Non rammento il perché quella piacevole conversazione si spinse fin lì, ma, d’un tratto, si fece molto più seria e personale. 

L’attore scelse di “sbottonarsi” dinanzi al suo indiscreto confidente e ammise quella che era la sua paura più grande. Egli non temeva la morte. Ammise, invero, di paventare la malattia, l’arrivo improvviso di un corpo estraneo e maligno, di un ospite indesiderato che potesse condurlo alla sofferenza, alla perdita progressiva e consapevole delle proprie forze, del proprio futuro. Il solo pensiero di ammalarsi e di dover lottare contro un grave “male” gli arrecava un incontrollabile spavento. L’idea della morte veniva accettata serenamente dall’artista ma la malattia, la sofferenza, l’indebolimento no, non potevano essere in alcun modo tollerati.

Quando terminai la lettura, questa sua affermazione mi indusse a riflettere fugacemente. E’ tipico dell’essere umano temere la malattia, sia essa un cancro, il “male” per antonomasia che cerca di divorare la sua “vittima” dall’interno, debilitandone il vigore, la gioia di vivere, sia essa un morbo che affligge progressivamente chi ne soffre, sia essa un nuovo attacco virale che si palesa d’improvviso, sconvolgendo la tranquilla routine.

La morte è parte naturale della vita” - scrisse un saggio regista e sceneggiatore americano. Temerla fa parte dell’istinto vitale di ogni essere vivente. Tuttavia, essa è inevitabile. Tutti noi sappiamo di essere mortali. Or dunque, ciò di cui abbiamo realmente paura non è la morte, che immaginiamo come un evento lontano, ma la malattia nella sua astrattezza, nella sua immagine figurata, ovvero un qualcosa che possa arrecarci dolore, che possa distruggere il nostro presente, azzerare il nostro futuro, che possa cambiare ineluttabilmente la nostra quotidianità ed indurci ad una fine prematura. L’uomo ha terrore della malattia ancor più che della morte poiché la malattia può rappresentare l’anticamera della morte stessa.

Storicamente, la propagazione di un germe sconosciuto, di una nuova epidemia, getta scompiglio nell’animo umano. Il virus ricorda con sibillina ferocia, con quiete latente, con la sua invisibilità, col suo manifestarsi imprevisto e subitaneo la fragilità della vita umana, la cagionevolezza della nostra scorza vulnerabile.

Ma aver paura della caducità della vita non è una peculiarità di noi terrestri. Anche gli alieni possono paventare la possibilità di ammalarsi.

Anzi, ad essere del tutto onesti, noi uomini siamo alquanto fortunati. Sin da piccoli, sappiamo quanto delicato sia il nostro corpo. Alcuni alieni, invece, neppure riescono ad immaginarlo. Prendendo i nostri primi raffreddori, sopportando la prima di tante altre febbri, tollerando tutti quei virus seccanti che, da bambini, ci obbligano a restare a letto, cresciamo coscienti e consapevoli, rammentando sempre la nostra debolezza, la soggezione insita in noi nei confronti della malattia, sia essa lieve o fastidiosa. Questa consapevolezza che ci portiamo dietro sin dall’infanzia ci permette di apprezzare ancor di più la vita di tutti i giorni. Se non rammentassimo il dolore e se non sapessimo quanto può essere effimera la nostra esistenza non riusciremmo a goderne appieno.

Gli alieni, torno a ripeterlo, non possiedono, necessariamente, questa bizzarra “fortuna”.

"Superman, Christopher Reeve" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters. Potete leggere di più sul film cliccando qui.

Superman, ad esempio, non si è mai ammalato. Non lo sapevate? Ebbene, il più grande supereroe della storia del fumetto, fino ad un imprecisato momento della sua maturità, neppure sapeva cosa si provasse a tossire o ad avere mal di gola. Beato lui, direte voi. Beh, sì e no!

Clark Kent crebbe a Smallville, nel Kansas. Nutrito dai caldi raggi del sole giallo della Terra, l’ultimo figlio di Krypton divenne forte, veloce, praticamente invulnerabile. La sua conformazione robusta e impenetrabile lo protesse fin dal momento in cui atterrò, di buon mattino, in un campo isolato, alle propaggini della fattoria dei Kent. Clark intuì fin da ragazzo che la salute dei terrestri è notevolmente diversa dalla sua, quanto mai precaria e facilmente attaccabile. Un giorno, rientrato da scuola, Clark si mise a chiacchierare con suo padre, il suo migliore amico, il suo mentore, il suo unico confidente.

Jonathan, alzando il capo verso la tersa volta celeste, pensò a voce alta: “Sei stato mandato qui per una ragione, figliolo. Lo capirai, quando sarai pronto!”. Non aveva dubitato neppure per un solo istante. Jonathan sapeva che suo figlio, quel piccino che piangeva, tutto solo, rannicchiato in un’astronave argentea, avvolto in una larga “coperta” azzurra, sarebbe diventato un simbolo di speranza. L’anziano fattore confidò in quell’immagine custodita nel suo cuore, ma non poté vederla compiersi. Il padre del futuro supereroe se ne andò proprio in quel pomeriggio tranquillo, poco dopo aver terminato quel significativo scambio di parole.

Un infarto piegò il pover’uomo sotto gli occhi attoniti di suo figlio. Clark, nonostante potesse contare su tutti i suoi innumerevoli poteri, non poté far niente per salvarlo. Lo capì quel giorno: dinanzi al dolore umano, all’imprevedibilità del fato, neppure Superman potrà mai nulla.

Nel celebre lungometraggio del 1978, Clark, per tutta la sua adolescenza, è rimasto insensibile al dolore fisico. Né il fuoco, né il gelo, nessun’arma poteva scalfire la sua epidermide dura come l’acciaio. In un’intervista concessa alla reporter Lois Lane, Superman lo riconobbe candidamente: “Fino ad oggi, non ho mai avvertito alcun dolore fisico”.

Provate a supporre di crescere senza accorgervi mai del benché minimo dolore. La nostra visione dell’esistenza, della realtà, cambierebbe completamente. Saremmo più audaci, più pronti, di certo più spavaldi. Se nulla può ferirci, nulla deve essere temuto. Chissà come si comporterebbero gli uomini se anche loro possedessero le facoltà dei kryptoniani. Eppure, sebbene questa abilità d’essere pressoché immortale sia invidiabile, essa nasconde anche una condizione limitante che porta Superman a non comprendere totalmente i pericoli legati alla sua sopravvivenza.

Nella pellicola del 1978, il Superman interpretato dal leggendario Christopher Reeve è convinto che nulla potrà mai annientarlo. Un giorno, però, scoprirà la triste realtà. Quando Lex Luthor lo metterà astutamente a contatto con la kryptonite, ultimo residuato del pianeta d’origine del supereroe, Superman sentirà sulla propria pelle una forma acuta e lancinante di dolore. E lo sentirà per la prima volta. La kryptonite, che riluce di verdi radiazioni, induce Clark a contrarsi, a genuflettersi al suolo. I suoi poteri non avranno più alcun valore, e la sua possanza verrà piegata.

L’invincibile Uomo d’Acciaio retrocederà, in un lampo, ad uno stadio inferiore. Egli avvertirà la paura di un bambino rimasto senza difese, di un infante che evince, di colpo, la debolezza di se stesso. La particolarità di tutto questo è che Superman scopre d’essere mortale da adulto, apprendendo un qualcosa che noi esseri umani diamo per scontato sin da fanciulli. Questo è un trauma psichico che turba l’Uomo del Domani, mutando inesorabilmente la sua percezione della vita stessa.

Reagire ad un dolore mai conosciuto, prendere consapevolezza della propria fragilità è estremamente più traumatico quando tutto ciò si manifesta d’improvviso, senza alcuna avvisaglia, distruggendo ogni certezza. Superman, in questa famosissima scena del film originale, incarna l’uomo comune, il mortale, colui che apprende, tristemente, che la morte può ghermirlo da un momento all’altro.

"Superman, Christopher Reeve" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters. Potete leggere di più su Christopher Reeve cliccando qui.

Anche in “Batman V Superman”, l’eroe a cui Henry Cavill ha prestato il proprio volto crede fermamente d’essere inscalfibile. Nel feroce scontro con Batman, Superman inspirerà nei suoi polmoni un tipo di kryptonite, rielaborata da Bruce Wayne sotto forma di polvere invasiva per attenuare la potenza del guardiano di Metropolis. Notando di non essere più in grado di utilizzare i propri poteri e vedendo il sangue grondargli dalle ferite, Superman perderà ogni sicurezza. Il Crociato Incappucciato, in quanto essere umano, ha imparato ad accettare la propria mortalità, Superman, d’altro canto, non può farlo, poiché assuefatto, da sempre, alla propria invulnerabilità. Spiazzato dalla propria, improvvisa, gracilità, l’Uomo d’Acciaio cederà e verrà brutalmente sconfitto dal Cavaliere Oscuro. Osservando questa sequenza d’azione, è possibile dedurre quanto l’onnipotenza di Superman rappresenti, per lui, un dono ma anche un limite.

"Superman, Henry Cavill" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters. Potete leggere di più su "Batman V Superman" cliccando qui.

Come ho già avuto modo di scrivere, Superman non si è mai ammalato. La sua densa struttura molecolare lo rende immune ad ogni forma virale presente sulla Terra. Superman è un rifugiato, un figlio adottato e allevato dal nostro pianeta. Conseguentemente, la sua immunità è soltanto circoscritta all’atmosfera e all’ambiente terrestre. Superman può, quindi, ammalarsi se viene a contatto con un virus proveniente da Krypton.

Ruota attorno a questa idea l’episodio che più preferisco della serie televisiva “Lois e Clark”.

In questa avvincente puntata, l’artigiano, una sorta di brillante scienziato votato al crimine, rinviene la navicella con cui il piccolo Superman è approdato sulla Terra, a seguito della distruzione del suo pianeta natale. Analizzando la struttura esterna dell’astronave, l’artigiano si accorge che una moltitudine di germi e batteri di Krypton permangono depositati e cristallizzati su di essa. L’uomo si adopera, allora, ad estrarre i germi, riuscendo a sintetizzare in laboratorio un virus letale.

In una specifica scena, l’artigiano rivela la composizione di questo agente patogeno. Esso possiede una colorazione verde, che richiama il colore della Kryptonite, ha l’aspetto di una ragnatela spessa e fittissima, con filamenti lunghi, sudici e attaccaticci che aderiscono alle superfici che aggrediscono per infettarle. Per gli uomini, tale virus risulta essere del tutto innocuo ma per un kryptoniano può rivelarsi mortale.

L’artigiano attira Superman in una trappola e, con una mossa astuta, fa in modo che il supereroe respiri il bacillo senza rendersene conto. Nei giorni seguenti, l’eroe dalla grande S, interpretato da Dean Cain, accusa i sintomi di una brutta influenza. Al Planet, mentre sta dialogando con Lois, Clark starnutisce. La donna, che è a conoscenza della vera identità dell’uomo, ne resta sorpresa, facendogli presente come lui non possa ammalarsi. Clark, preoccupato, non capisce cosa stia accadendo.

Tornando a casa, il giornalista seguita a sentirsi male. La sua fronte perlata di sudore e il calore promanato dal suo corpo preoccupano i genitori adottivi. Come comportarsi dinanzi ad una creatura extraterrestre entrata in contatto con una forma virale misteriosa, ignota, per cui non esiste alcun rimedio?

Qualche ora dopo, Clark, con indosso il suo costume, inizia a sentirsi debole, a tossire vistosamente sino a crollare al suolo, svenendo tra le braccia della sua Lois. Quell’essere onnipotente, quell’uomo così indistruttibile da essere riuscito a volare su, tra gli astri, sino a toccare il sole con il palmo della mano, giace adesso disteso su di un letto, immobile, sofferente.

Clark, stremato, borbotta qualcosa: “Dunque, è così che ci si sente quando si sta male?!”. Una domanda sommessa, ingenua, che gli esseri umani non possono affatto comprendere tanto facilmente. Noi terrestri, abituati da sempre a star male, propensi a conoscere la paura, a contrastare i batteri, a fare i conti con i virus, non possiamo che faticare nel comprendere cosa stia provando un uomo venuto da un altro mondo che, da adulto, scopre d’un tratto cos’è una malattia che si propaga su di sé.

La kryptonite, con cui Superman ha fatto i conti più volte in passato, genera un dolore profondamente diverso. Il minerale verde del pianeta Krypton emana irradiazioni esterne, che possono essere in qualche modo fronteggiate, evitate da Superman allontanandosi dal luogo in cui risiede questa pietra. Dal virus, invece, Superman non ha scampo. Esso si insinua in lui come un male interno, da cui non ci si può sottrarre.

Il virus comincia, allora, a consumare l’eroe e nessuna cura elaborata dalla medicina può sortire alcun effetto. Se fosse cresciuto sul suo pianeta d’origine, Kal-El si sarebbe ammalato sin da piccino, avrebbe sviluppato le proprie difese immunitarie, sarebbe venuto a contatto col dolore, con la malattia tipica di ogni essere appartenente a quel mondo. A Superman è stato negato questo consueto percorso di crescita. Egli si è trovato, suo malgrado, a vivere in un’altra realtà, ad assumere i panni di un “dio”, a ricevere il dono di un’immortalità illusoria che può essere annientata dall’arrivo di una malattia sconosciuta.

Ammalandosi, anche Superman, il dio sceso tra gli uomini, sperimenta la paura più grande: quella di morire lentamente, la paura di spegnersi gradualmente venendo martoriato da un germe nascosto, invisibile.

In un ultimo, disperato tentativo di salvare la vita all’uomo che ama, Lois chiede aiuto a suo padre, un medico rinomato. Il dottor Lane sottopone Clark ad un trattamento sperimentale rischiosissimo: lo espone per un periodo prolungato alle radiazioni della kryptonite. Il paladino di Metropolis viene volutamente condotto sino allo stremo, sino al punto di morte, con la speranza che il virus possa perdere resistenza e muoia a sua volta. La sola possibilità di vita viene riposta proprio nell’arrivare il più vicino possibile alla morte. In quella atroce agonia, Superman, stroncato dal patimento, entra in coma. Prima di addormentarsi, Clark implora Lois di vegliare sui suoi genitori, i quali, a suo dire, non avranno la forza di reagire al peggio. Dopo di che, l’uomo dà un bacio alla sua amata e in quell’attimo esala l’ultimo respiro da cosciente.

Il dottor Lane porta via la kryptonite dalla camera. Adesso, spetta soltanto a Superman riemergere dalle tenebre. Il giorno successivo, Clark riapre gli occhi e ode il grido di Lois. Recuperati i poteri, in un battito di ciglia, l’Uomo del Domani vola via e salva la sua futura sposa. 

"Lois e Clark" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters

Non era mai stato così vicino alla propria dipartita. Superman, un essere maturato con la certezza d’essere immortale, ha sfiorato, con la propria mano, la gelida presa della morte. Il dio si è, così, accomunato ad ogni altro uomo. Temendo la morte, l’eroe giunto dallo spazio ha ricordato quanto importante sia la vita.

Essa è sacra proprio perché non è eterna. Per certi versi, è proprio la morte a dare valore alla vita. “Morire non è nulla, non vivere è spaventoso” - scrisse un grande poeta e scrittore francese. Superman sarebbe stato d’accordo.

Volando nello spazio siderale, al sorgere di ogni alba, l’ultimo figlio di Krypton indugia costantemente sulle ultime parole pronunciate dal papà. E’ diventato ciò che Jonathan voleva che fosse? Che valore ha dato alla sua vita, Superman?

Ha scelto di dedicare la sua esistenza al bene comune, divenendo il simbolo di quella speranza radiosa che incita la razza umana a contrastare il male in ogni sua parvenza. 

Il figlio è divenuto ciò che il padre avrebbe voluto. E’ questa l’unica forma di immortalità a cui l’uomo terrestre può aspirare: vivere nei ricordi, nelle azioni, nei gesti dei suoi figli. Non esiste malattia, non esiste virus, che possa contrastare l’eredità trasmessa di padre in figlio.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters  

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"Joker" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
  • Arthur, l’uomo nello specchio

Cosa mostra uno specchio? Ciò che ha dinanzi a sé, risponderebbe qualcuno.

In effetti, esso riflette ciò che vede, l’apparenza, la pura esteriorità. Ciascun specchio possiede l’abilità di replicare un gesto, di ricambiare uno sguardo, di duplicare semplicemente una sagoma. E lo fa con distacco, con gelida austerità. Lo specchio copia un’immagine, riproduce un corpo, ma non coglie l’intimità, il carattere, la personalità di chi si pone al suo cospetto. Esso si limita a “bissare”, a sdoppiare le epidermiche sembianze. Talvolta, chi osserva attentamente la propria figura davanti ad un vetro fatica a riconoscerla come vorrebbe. Una ruga di troppo o un affanno marcato sulla pelle possono mutare il riflesso, sino a renderlo diverso, inaspettato.

Scrutando uno specchio, una persona nota se stessa, prigioniera di quei contorni. In alcuni romanzi di fantasia, gli specchi sono soliti riflettere soltanto gli esseri umani che sono ancora in vita, o per meglio dire, i corpi che custodiscono, come scrigni, un’anima. In tali racconti, i vampiri non possono essere rispecchiati da una qualunque superficie riflettente. Essi, infatti, sono deceduti, non possiedono più alcun barlume di umanità e, per tale ragione, lo specchio decide di non rimandare i loro aspetti, di non riprodurre i loro profili. I vampiri non esistono davvero, hanno perduto il dono della vita e permangono sulla Terra malgrado la loro natura. Di conseguenza, lo specchio, come se fosse un oggetto investito dal peso della ragione, sceglie volutamente di non ricreare la loro parvenza.

La pellicola “Joker” comincia proprio con un uomo che contempla se stesso dinanzi ad una levigata superficie riflettente. Arthur Fleck siede a un tavolo da trucco e guarda dritto davanti a sé. Mira la propria faccia, pallida e triste. Prova, allora, a mutare l’espressione del suo volto accorato, spingendo le proprie labbra verso l’alto, sino alle gote, ma è tutto vano. Non appena cede allo sforzo, la bocca ritorna alla posizione naturale, e dagli occhi scendono giù gocce di liquido trasparente. Per tutta la vita, Arthur non ha vissuto un solo momento di appagamento. Costui arrivò, persino, a interrogarsi circa la propria reale esistenza. Questo dubbio non poteva avere un fondato riscontro, poiché lo specchio seguitava a mostrare la sua forma. Arthur non era un defunto che errava senza scopo, lo specchio, in tal caso, non lo avrebbe riflesso. L’immagine che vedeva nello specchio doveva garantirgli la sua tangibile esistenza ma non gli bastava.

Quella stessa superficie palesava i suoi dolori, li rendeva nitidi, esteriorizzava in modo cristallino i supplizi che egli tollerava giorno dopo giorno e che gli scavavano sempre di più il viso. Arthur cercò, allora, di coprirli con il trucco. Intrise la pelle nel candido cerone, attorno agli occhi disegnò delle lacrime azzurre e cosparse, infine, le labbra di rosso. Arthur si truccò da clown per celare lo strazio, per indossare una maschera comica che potesse occultare la mestizia dell’animo. Lo specchio continuò a rifletterlo, ma della sua fisionomia avvilita non era rimasto che un impercettibile accenno, sepolto sotto l’abbondante uso del cosmetico. Adesso, la faccia gioiosa di un pagliaccio e non più di un uomo disperato veniva plagiata dal freddo materiale sorretto da quel tavolino. A quel punto, Arthur smise d’osservarsi, si rimise in piedi ed entrò in scena.

Arthur è un cittadino qualunque di Gotham City. Giorno dopo giorno, egli si trascina via, lungo strade affollate, schiavo delle proprie turbolenti angosce. Alienato, fortemente disturbato, questi percorre giornalmente una lunga scalinata per tornare nella propria dimora, una sudicia casa situata nei bassifondi della città. Per una sorta di bizzarra e cruda ironia, Arthur soffre di un particolare disturbo mentale che lo porta a scoppiare a ridere in maniera fragorosa ogni qual volta avverte uno stato emotivo di forte tensione. Le sue risate appaiono come una sorta d’incontrollabile riflesso condizionato. Arthur ride freneticamente, senza mai volerlo, tenta di soffocare il proprio insano riso senza poterci mai riuscire. Le risate lo torturano, si stampano sulla sua faccia nei momenti meno opportuni e scompaiono solamente dopo un tempo lungo ed un’attesa estenuante.

  • La salita scenica dalla morte alla vita

Sin dalla più tenera età, Arthur sogna di diventare un comico e di spargere gioia e felicità in tutto il mondo. I suoi sogni, però, sono destinati a scontrarsi con una dura e repressiva realtà. Da che ha memoria, Arthur ha vissuto nella povertà, vittima di una società opprimente che schiaccia i deboli sino a ridurli allo stremo. Arthur, abitualmente, si reca ad incontrare una psichiatra, presso i servizi sociali. La dottoressa, di per sé, non lo ascolta minimamente, sembrando del tutto incapace di comprendere i tormenti che affliggono questo delicato paziente. Arthur ne è consapevole ma riesce comunque a trarre conforto da questi incontri grazie alla possibilità di poter avere accesso a delle medicine, che tengono a bada i suoi disturbi. Tuttavia, quando il governo di Gotham deciderà di tagliare i fondi ai servizi sociali, Arthur si ritroverà completamente solo, privo dell’accesso ai medicinali che frenavano i suoi primordiali impulsi. Il disagio mentale, dunque, si acuirà in lui.

Per settimane, Arthur subisce le aggressioni dei teppisti per strada, patisce le angherie dei colleghi. La rabbia dell’uomo, il livore verso una società assenteista che volta le spalle al cittadino più bisognoso, che calpesta il povero divorandolo mentre giace, inerme, a terra, fagocitandolo in una morsa, si esacerbano nel suo cuore, che continua a battere sebbene non produca più alcun sentimento. A lungo andare, Arthur diviene un essere freddo, distaccato, pericoloso. Egli abbraccia pienamente la “morte” per intraprendere una nuova vita, la sua prima vita. Arthur, che non si era mai sentito vivo, accetta definitivamente l’inesistenza della sua parte umana e rinasce con una nuova veste. Joker vede la luce dal buio di una società sordida. L’omicidio, la perpetuazione della morte, divengono le fonti con cui Arthur attua la propria rivalsa. Da vittima, egli sceglie di assurgere ai ranghi del truce, dell’assassino che perpetra un delitto per un intangibile senso di vendetta.

Ed è proprio un agire vendicativo quello di cui Arthur si farà dispensatore. Una vendetta che troverà sfogo nei riguardi dei ricchi, dei potenti, di coloro che hanno genuflesso gli altri, i più deboli. Joker diventa, così, un simbolo della lotta di classe, un emblema per il ceto meno agiato. Sul finire delle tragiche vicende, il personaggio cardine dell’opera conquista la fama, l’attenzione che tanto aveva agognato, ma in un modo del tutto differente da come, in principio, si era auspicato. Non sarà con il riso, sarà con l’attuazione dell’orrore che egli diverrà popolare. Arthur, infine, non porterà gioia nel mondo ma anarchia, terrore. Dinanzi ad una città in fiamme, preda di un gregge famelico, di una mandria imbizzarrita, Arthur non proverà disgusto, bensì riderà. Per la prima volta davvero. Egli non avrà più bisogno di sospingere le proprie labbra con le dita, sino alla parte più alta delle guance. Gli basterà sporcarsi la bocca di sangue e ghignare sadicamente. Il riso, per lui, sarà, finalmente, una reazione naturale.

Nel crescendo del film, la lenta ed estenuante trasformazione di Arthur in Joker viene inscenata come se fosse una prolungata ascensione piuttosto che una caduta nel vortice della follia. La metamorfosi del protagonista viene celebrata come un trionfo. Quella di Arthur è stata, infatti, una lunga salita verso una vetta su cui nessun altro avrebbe potuto mai spingersi. Con fatica, rantolando, subendo le offese, le denigrazioni, gli insulti, le prepotenze del prossimo, Arthur salirà sempre più in alto. Una volta raggiunta la cima di questa piramide eretta dall’insoddisfazione, Arthur vedrà finalmente se stesso, il proprio vero riflesso nello specchio, ed otterrà la sua ambita libertà. Trasformandosi in Joker, Arthur guadagnerà il culmine della “scalinata”, una scalinata del tutto simile a quella che egli percorreva quotidianamente, la stessa scalinata su cui danzerà, una volta indossate le vesti e assunti i colori del clown, principe del crimine, sulla propria pelle.

In quanto reietto, abbandonato, maltrattato, Arthur inizia la sua storia dal basso, dai ghetti, dalle periferie desuete e dismesse. Lasciandosi andare alla propria follia, accogliendola come l’unica possibilità di esistenza per poter affrontare un mondo oscuro e minaccioso, Arthur giungerà alla sommità del picco, e da lassù vedrà tutta la realtà da una nuova prospettiva; un punto di vista aberrante, in cui la mostruosità combacia con l’ordinaria normalità. Il vortice che trascina Arthur verso la pazzia, invece che farlo precipitare, lo conduce sino all’acme. Pertanto, egli diviene “speciale” una volta mutato in un pazzo omicida, un animatore di folle che fa della violenza la propria arma di seduzione. E’ questa la schiacciante parabola di “Joker”. L’inquietante messaggio che il film rilascia in merito al personaggio ispirato ai fumetti DC Comics viene incarnato dalla metamorfosi di quest’uomo indigente, di questo disagiato trascinato sino allo sfinimento, che rinnova se stesso in qualcosa d’inaspettato, d’orrido, di abominevole.  

  • Gotham City, una metropoli finta

Joker” è un film confezionato a regola d’arte, un grandissimo esempio di cinema. Una produzione coraggiosa, provocatoria, che fa breccia in maniera dirompente, fragorosa, roboante. “Joker” è il frutto di una lavorazione ardita, temeraria, da cui si origina una ventata d’aria fresca in un genere cinematografico divenuto saturo e consueto. Vanta un’interpretazione straordinaria, impressionante, decisamente coinvolgente, una regia notevole, una fotografia estremamente suggestiva: tanti elementi che elevano il lungometraggio su molte altre produzioni contemporanee. Senza alcun dubbio, Joaquin Phoenix convoglia in sé l’essenza dell’intero film. La sua stupefacente, sbalorditiva, dolorosa, conturbante e commuovente resa scenica di Arthur costituisce il nucleo dell’intero lavoro. “Joker” è un film che colpisce, che si appiccica addosso e non si stacca più.

"Joker" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters

L’ultima fatica del regista Todd Phillips e della Warner Bros è da considerarsi un risultato notevole, eccellente, un prodotto che si regge totalmente sulle spalle infossate, gracili, del suo attore principale. Un’interpretazione magistrale, una regia che omaggia i cult del passato, una colonna sonora da brivido, una scenografia bellissima, una fotografia favolosa, più fredda nella prima parte, quella introduttiva e analitica, più calda nella parte restante, in cui il Joker calcherà il suolo di Gotham col suo incedere rovinoso e letale, sono tutti questi che ho appena elencato i punti di forza di quest’opera, imponente nella sua realizzazione.

"Joker, ritratto in bianco e nero" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters

Joker” è una pellicola imperdibile, ciononostante non è esente da qualche carenza, da qualche limite, da qualche difetto sparso. Il film si concentra quasi esclusivamente sull’approccio introspettivo. Tale approfondimento psicologico, pur essendo lungo, attento, minuzioso, valevole cede, in alcune scelte, alla banalità, cominciando dal modo in cui i personaggi secondari, coloro che spingeranno Arthur verso l’orlo della pazzia, vengono delineati sullo schermo.

Tutti i personaggi di contorno con cui Arthur interagisce sono monodimensionali, e hanno un solo e comun denominatore: sono tutti cattivi. Quasi tutti i caratteri che Arthur incontra sul proprio cammino lo trattano male, lo aggrediscono. Costoro gli negano aiuto, gli evitano garbo e gentilezza. Ognuno di essi mostra il carattere di un egoista, di un insensibile, di un crudele e di un irrispettoso. Che siano avventori incontrati tra le vie di Gotham, partner di lavoro, oppure presunti amici, essi sono vere e proprie figure malvagie, che non esitano a picchiare, ad insultare, a svilire. Ognuno, a modo suo, finisce per arrecare dolore al protagonista, alimentando in lui la diffidenza e l’avversione verso il prossimo. Non c’è bontà, non c’è affetto, non c’è neppure amore nei cuori dei cittadini di Gotham. Quasi nessuna delle personalità mostrate nel film risulta essere diversificata.

Il cineasta Todd Phillips presenta al suo pubblico un mondo ben preciso, tremendo, caliginoso, cupo, fosco, in cui non vi è alcuna speranza. Un mondo sciatto, una metropoli sozza, colma di reietti, di criminali, di parvenu corrotti, di persone comuni prive di alcuna sensibilità, di politici che perseguono soltanto i propri interessi, di ricchi egoisti, in altre parole: un mondo ricreato ad hoc, finto, estremamente stereotipato.

  • Un padre “mortificato”

In questo scenario così uniformato, così appianato, in cui vengono soltanto rimarcate le differenze tra i poveri ed i ricchi, viene banalizzata la figura di Thomas Wayne, ridotta anch’essa ad un mero stereotipo. Il padre di Bruce è una figura, sovente, citata nella prima parte del lungometraggio, una sagoma incerta che verrà via via presentata e rivelata. Anch’egli viene mostrato come un uomo freddo, egocentrico, aspramente indifferente verso i problemi dei più deboli, praticamente l’esatto opposto di come il personaggio è stato storicamente tratteggiato tra le pagine dei fumetti. Thomas Wayne, il papà del futuro paladino di Gotham, è sempre stato descritto come un uomo di buon cuore. La virtù identificativa dei genitori di Bruce, Thomas e Martha Wayne, è sempre corrisposta all’incondizionata bontà. Ambedue sono sempre stati rappresentati come persone visceralmente buone, attente, prodighe, gentili, perennemente disposte a sfruttare il loro potere, la loro ricchezza, le proprie influenze per supportare i più sfortunati, i bisognosi d’aiuto. Nei fumetti, Thomas e Martha non vengono mai disegnati e caratterizzati come i tradizionali “ricchi” che pensano solo ai propri interessi, i miliardari che covano menefreghismo e senso di superiorità nei riguardi dei meno abbienti.

In “Joker”, Thomas Wayne subisce un netto appiattimento, perdendo tutte le caratteristiche che lo rendevano tanto speciale nella mitologia di Batman e, in particolar modo, nel cuore e nei ricordi di Bruce Wayne. Thomas viene, conseguentemente, livellato, adattato al luogo comune del magnate indifferente, superficiale, dell’uomo disinteressato alle difficoltà della povera gente. Sebbene voglia candidarsi a sindaco per risolvere i gravi problemi che affliggono Gotham, Thomas, nel film, non viene mai inquadrato sotto una luce positiva, al contrario la sua persona giace in bilico tra la superbia e l’arroganza. Ma egli, come già detto, non è il solo ad andare incontro a questo simile fato. Sono tutti i comprimari del personaggio principale a subire tale processo di abbattimento. Per giustificare i cambiamenti di Arthur, per generare il processo di “empatizzazione” tra lo spettatore ed il Joker, il regista ha scelto di rendere gli altri simili ad esseri imperturbabili, spietati, cinici, isolati, creature fatte di pietra, sacrificando l’oggettività, il realismo, e minando, così, il taglio veritiero di una storia che mira proprio ad essere più attinente al “vero” possibile. Del resto, il regista sceglie di raccontare la storia con gli occhi di Arthur, limitando intenzionalmente la parzialità del tutto. Gotham non è quindi facilmente capibile se non per impressioni indeterminate.

  • Le follia di Arthur, da “Taxi Driver” a “Joker

Todd Phillips confeziona un’opera citazionista, un lungometraggio intenso, potente, maestoso, valevole, tremendamente emozionante. Un’opera destinata a divenire una pietra miliare del genere. “Joker” nasce con l’intento di narrare le origini di un antagonista, mostrando, da un punto d’osservazione piuttosto ravvicinato, l’animo, lo spirito, l’interiorità di un uomo malato e tutto il susseguirsi degli eventi che lo hanno portato sul baratro della pazzia. Questa analisi viene condotta con grandi intenti ma, talvolta, finisce per arenarsi nella prevedibilità. La pellicola è permeata da alcuni cliché, è strutturata con schemi già visti ed utilizzati (“Taxi Driver” e “Re per una notte”), da motivi ripetuti, e apporta poco di straordinariamente originale al contenuto se non alla forma.

L’approfondimento psicologico che l’opera esegue sul personaggio di Joker evoca il dramma, lo spasimo, il martirio di una creatura angustiata. Emotivamente, il film genera un senso di commozione, di pietà, d’intenerimento nei confronti del povero Arthur fino a quando, naturalmente, egli non eccede, “tradendo” le proprie vestigia umane per evolversi in un mostro. Le cause che spingono Arthur a cedere alla liberatoria follia omicida vengono scandagliate meticolosamente. I traumi infantili, il senso di abbandono, la solitudine, le speranze disilluse, i tradimenti e gli scherni perpetrati dalle figure di riferimento, la madre e il comico Murray, idolo di Arthur, sono questi appena riportati i fattori scatenanti che piegano le resistenze del povero derelitto. Queste sorgenti che provocano un acuto dolore al protagonista permettono allo spettatore di ben comprendere la desolazione che dilania la mente ed il cuore di Arthur, risultando efficaci ma anche leggermente scontate. Non vi sono risvolti inattesi, eventi inaspettati o circostanze sorprendenti a generare Joker. Sono tutti tormenti prevedibili, traumi pronosticabili, violenze intuibili semplicemente immaginando a priori cosa potesse aver condotto Joker a diventare ciò che tutti conosciamo. Tutto viene trattato con profondità, con attenzione, con rispetto, ma, ad un’occhiata più arguta, si nota come questo tutto sia un qualcosa di sensibilmente significativo ma ugualmente risaputo. Nella sua origine, esposta in una maniera così plateale, il Joker di Phillips perde l’alone del mistero. Pur ricercando un’accurata originalità, il copione plasma un malvagio non prettamente diversificato dagli altri, un ennesimo pazzo divenuto tale perché ingannato dalla madre, abusato nell’infanzia, respinto sul lavoro, obliato dagli altri. In Arthur non si percepisce l’unicità, l’esclusività che ha il Joker fumettistico. 

 “Joker” vuol narrare la gestazione e il parto di un essere perfido, della nemesi di un grande eroe. Ma riesce a mostrare realmente il Joker?

Cos’è che rende Arthur il Joker? Cos’è che differenza questo protagonista da, ad esempio, Travis Bickle, il personaggio principale di “Taxi Driver”, opera basilare a cui “Joker” si ispira nettamente nello stile e nell’esecuzione?

L’evoluzione che investe i due personaggi, Arthur e Travis, è molto simile, tanto da essere sovrapponibile. Entrambi, emarginati, si trascinano, notte dopo notte, fra le periferie cittadine. Via via che osservano la realtà sotto una nuova lente, comprendono gli orrori, le depravazioni di una metropoli malata, repleta di cittadini perversi ed incurabili. Entrambi vengono lasciati soli, condannati ad avere come unica compagnia la loro voce interiore che li tormenta, li agita, li esaspera. L’uno e l’altro hanno facilmente accesso ad un’arma che diverrà il mezzo con cui veicolare il loro odio, il modo con cui incanalare la propria ira. Dunque, facendo le dovute proporzioni, cosa differenzia davvero Arthur da Travis? Perché chiamiamo Arthur “Joker”? Perché ce lo suggerisce semplicemente il titolo? Perché Arthur decide d’appellarsi in tal modo o perché s’impasticcia il viso come un burlone?

Qual è il confine che separa Arthur da Travis? Dov’è la differenza tra i due se non in un semplice espediente simbolico dato dal trucco scenico?

  • Arthur Fleck è il Joker! E perché lo sarebbe?

Cosa possiede Arthur del Joker? Poco, in realtà. Egli è una versione alternativa, realistica, il prodotto di una società deforme, la personificazione di un dramma intimo, di una sofferenza immane che sfocia nell’apatia. Il Joker di Phoenix è un’incarnazione diversificata, adattata alla realtà ordinaria, ma proprio per tale ragione dobbiamo domandarci: cosa rende Arthur il Joker?

Arthur non è il Joker, è un uomo qualunque. Ed è questa la “morale” più spaventosa del film in sé. Tutti noi potremmo essere Joker! Joker è una ferita lacerante che non può essere rimarginata, un trauma insuperabile che libera i mostri interiori. Anche l’uomo comune, il meno adatto, può diventare Joker se va incontro ad una serie di eventi devastanti. Il tutto può consumarsi in una sola, nefasta giornata. E’ una grigia giornata a rompere ogni freno inibitore e a scatenare gli anarchici desideri di libertà.

Persino il Joker dei fumetti viene presentato come un uomo qualunque. Ma, se vi soffermate un attimino a pensare, anche gli stessi supereroi, in genere, sono uomini qualunque: persone ordinarie a cui accade qualcosa di straordinario. Un incidente in laboratorio, un imprevisto, un evento inconsueto trasformano una esistenza normale in un qualcosa di profondamente nuovo. Anche il Joker era un essere come tanti altri. Ma il film “Joker” dimentica una parte fondamentale dell’evoluzione di questo villan: l’incidente. Il tuffo nel vascone contenente le sostanze chimiche è l’elemento di svolta, l’accadimento che segna la vera nascita del Joker. La storia del famoso antagonista non deve essere vincolata a questo episodio, naturalmente. Tuttavia, il Joker non sceglie di truccarsi, il trucco gli viene imposto. Ed è proprio nella deturpazione estetica che il Joker vede la propria nascita. Il suo viso imbrattato, alterato, insudiciato in maniera irreversibile rappresenta la fine, un qualcosa da cui non si può più tornare indietro.

Joker, una volta emerso dalla pozza chimica, scruta il suo riflesso ed impazzisce. In quell’attimo, la vita gli appare come un gigantesco ed assurdo scherzo. L’uomo, disperato, si ritrova con il viso avvolto da una miscela di colori: la pelle è chiazzata di bianco, le labbra di rosso, i capelli di verde. E’ tutto così assurdo e grottesco che il Joker comincia a ridere. Nel proprio riflesso, Joker vede il macabro riso maligno di un destino crudele e beffardo. Per lui, non resta che ridere, che accettare l’ironia della situazione.

Il trucco da clown non è un’opzione vagliata e decisa, non è una pittura da battaglia né un simbolo da competizione, ma è una tragedia che ha mandato in cocci la sua ragionevolezza. Joker avverte la follia dentro di sé, ma è la bruttezza estetica a farlo inorridire, poiché da quella non vi è più scampo. Lo stesso Joker di Heath Ledger, sebbene non avesse davvero il volto tempestato di colori, nutriva un’ossessione per le proprie cicatrici. Esse gli avevano eternato la faccia, l’avevano fermata in un sorriso agghiacciante. Egli pativa una fissazione per le sue cicatrici e, di volta in volta, inventava una storia diversa su come aveva subito tali ferite. Il Joker nasce Joker dal dolore interno, dalla pazzia intima, ma anche e soprattutto dall’orrore esterno mirato sul proprio corpo. Nella sua estetica deturpata, il Joker vede il proprio squilibrio interiore, per molto tempo domato, represso, sopito, fuoriuscire improvvisamente in tutta la sua irruenza. Nel suo volto, bloccato in un ghigno innaturale e costante, Joker ammira l’insania che aveva all’interno e che adesso è trasbordata fuori, attaccandosi con quei colori sgargianti alla sua epidermide.

Al Joker di Phoenix manca questo evento, ciò che rende Joker pienamente Joker: l’aver subito una bizzarra disgrazia fisica. Il Joker di Phoenix non ha il volto stretto in una risata perpetua, sceglie volontariamente di mascherare il proprio viso. Egli non è costretto a diventare Joker, sceglie di esserlo. Ma è la semplice la scelta a renderlo tale?

Il Joker del fumetto subisce questa bislacca sciagura proprio perché la storia di questo criminale vuol suggerirci che non è soltanto un uomo normale a poter diventare Joker. Invero, è un uomo normale a cui succede qualcosa di tremendamente anormale a poter diventare Joker. Un episodio che trasforma un volto comune in una maschera comica partorisce Joker.

Il “giullare” interpretato da Phoenix salta totalmente questo processo di iniziazione. Egli sceglie di diventare Joker truccandosi semplicemente, ma è come se non lo diventasse mai realmente. Questo perché l’ironia sadica del Joker, la sua verve originale, il suo senso dell’umorismo crudele, cruento ma pur sempre artistico, non emergono in lui. Tutte queste distintive caratteristiche che differenziano tale villan dal comune sociopatico, dal semplice “matto”, dal consueto criminale efferato, in quest’ultimo adattamento non vengono affatto evidenziate se non per impercettibili richiami. Il Joker di Phoenix è uno squilibrato, un maniaco, uno psicopatico con una maschera di trucco, così come possono esserlo tanti altri disseminati per il mondo. Mirando l’azione finale del Joker di questo lungometraggio si vede soltanto violenza, torbida, oscura, vendicativa, ma pura e semplice violenza, nient’altro. Ed il Joker è anche di più!

  • L’ironia del clown: “Niente battute?! Sharpy, ma ha letto la mia cartella clinica?

Il Joker di Phoenix è diverso, in svariati aspetti. Questo lo dimostra anche la scelta che il personaggio compie nel selezionare le proprie vittime, i propri omicidi calcolati. Egli uccide chi gli ha mosso ingiuria, chi lo ha offeso, chi è stato scortese con lui. Fredda il proprio idolo, reo di volerlo prendere per i fondelli e risparmia il suo vecchio collega affetto da nanismo, poiché l’unico a non averlo mai deriso. Scelte che poco hanno a che vedere con la glaciale indifferenza del Joker.

Con quanto sto scrivendo non sto, di certo, affermando che il Joker del film del 2019 non sia un vero Joker. Nei fumetti, il personaggio possiede notevoli incarnazioni e non esiste una versione univoca e totale, or dunque l’interpretazione di Phoenix va intesa come un qualcosa di nuovo, d’apprezzare in qualunque caso. Detto questo, la vena scherzosa, beffarda, tagliente resta un elemento che è faticoso non riuscire a trovare in Joker. Quella di Phoenix è certamente una versione degna, riuscitissima, potente, che verrà amata, venerata dai fan e dai cinefili sparsi per tutto il globo terrestre. E’, a mio dire, semplicemente una versione troppo generica, troppo poco fumettistica, talmente realistica da far svanire i caratteri del fumetto da cui il Joker è tratto per divenire un personaggio non più da carta stampata ma solo e soltanto da cinema. Pertanto, un cattivo adattabile a tanti altri film, a tante altre trame, un personaggio che non vanta l’unicità del Joker cartaceo. L’opera finisce, di conseguenza, per creare un cattivo sinistro, lunatico, complesso ed articolato, ma non il Joker nella sua veste classica, conosciuta, iconica.

Il riso misto al terrore, l’ironia miscelata alla paura, la lucidità alla follia, il macabro all’idilliaco: è questo che rende Joker se stesso. Senza la sua inimitabile ironia, il Joker perde la sua caratteristica di base. Sacrificando la burla, l’insana comicità, si perde il Joker. Vi è tanto dolore, tanta rabbia, tanta ira nelle parole proferite dal Joker di Phoenix, ma non vi è nessuna vena macabra nella sua parola, soltanto bile, sdegno, furore. Questo è, in parte, giustificabile tenendo presente che questo film si limita solamente a narrare un inizio, ma non basta. Guardando questo film si vede l’agire di un disagiato, un reietto, di un abbandonato, un disilluso con problemi psichici che trova nella brutalità un modo per potersi sentire vivo. Se questo Arthur non avesse il volto truccato da Joker, perché dovremmo riconoscerlo, indicarlo come tale?

Nella pellicola di Todd Phillips si avverte la paura di far ridere, di usufruire della goliardia del Joker, come se essa fosse una caratteristica che ne mina la serietà, il terrore che il Joker dovrebbe alimentare. “Joker”, fotogramma dopo fotogramma, crea e modella con grande perizia la genesi di un qualunque disagiato, di un qualunque sofferente, sacrificando le restanti caratteristiche di una personalità che è estremamente precisa, iconica ed unica sin dall’esordio. Non vi è ironia, giocosità, spirito nel Joker di Phoenix proprio perché il suo personaggio si attiene con tutte le sue forze ad un taglio realistico. Ma così facendo, la fantasia, l’inventiva, l’originalità del fumetto vengono neutralizzati.

Todd Phillips, pur con tutti gli innegabili meriti della sua eccellente opera, non ha avuto l’audacia che ebbe Tim Burton quando, con il supporto di Jack Nicholson, portò in scena la follia artistica, senza freni, ironica, raccapricciante, funebre eppure ugualmente in grado di strappare un sorriso, del Joker. E’ molto più facile portare in scena la violenza, la perfidia di un personaggio che ricerca solo la vendetta, piuttosto che mostrare un antagonista che, nell’ironia, nel surrealismo ha la propria caratteristica imprescindibile. Anche in un contesto concreto, veritiero, pragmatico, realistico come quello della recente opera filmica sarebbe stato certamente possibile mostrare, sul finale, un Joker sarcastico, irridente, sardonico, caustico nel consumare le proprie atrocità sempre col sorriso sulle labbra. Un Joker che, dal dolore sopportato, avrebbe fatto fuoriuscire il proprio dirompente, insano e fatale buonumore.

Il Joker di Todd Phillips rinuncia alla comicità perché è cosciente di una grande verità: con l’ironia non si anima realmente la folla, la si ravviva, maggiormente, con la cruda violenza.

"Arthur Fleck, il Joker umano" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
  • Considerazioni finali

 “Joker” non è la storia del Joker. E’ la storia di un uomo abbandonato, di un qualunque di noi esseri umani. La sostanza del Joker, la parola del Joker, la sua immagine, non sono che una metafora, un pretesto per immortalare, su di un nastro di celluloide, la tragedia di un ragazzo che voleva diffondere gioia e serenità ma finirà per elargire morte, nichilismo, sovversivismo.

L’opera filmica partorisce un Joker umano, un’allegoria più che un vero carattere. “Joker”, più che un film sul personaggio in sé, è, infatti, da considerarsi un thriller psicologico che usufruisce dell’appellativo “Joker” per estendere la propria analisi all’uomo normale, al negletto, al cane di paglia stanco d’essere vessato. Una volta intuita questa verità, si può affermare, in conclusione, che “Joker” sia un film non rivoluzionario ma ottimamente realizzato, compassato, greve, angoscioso, un tripudio di buonissimo cinema e meriterà gli Oscar che, con ogni probabilità, porterà a casa. Da fan sfegatato della DC Comics ne sarò felicissimo.

Voto: 8/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

Vi potrebbe interessare il nostro articolo sul Joker di Jack Nicholson. Potete leggerlo cliccando qui.

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"Aquaman e Mera" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

Un saggio, una volta, disse che in mare non vi è taverna. Se scoppia un temporale e gli oceani ribollono di collera, i marinai non possono recarsi in un luogo vicino in cui trovare riparo. Il mare aperto può spesso tramutarsi in un deserto sconfinato, senza sabbia ma denso d’acqua. Gli antichi credevano che l’arrivo di un fortunale fosse la manifestazione dell’ira e dello sdegno esacerbati sino allo stremo in Poseidone. A tale divinità, i greci attribuivano le calamità naturali dei terremoti e dei maremoti. Sin dai tempi più arcaici, il mare custodisce, nella sua illimitata consistenza liquida, la gloria della natura, e quando esso è tumultuoso genera terrore ed impotenza nel cuore timorato di ogni navigante. Le acque adombrano tuttora un regno misterioso, che andrebbe esplorato con un sano desiderio di conoscenza.

E’ proprio una notte burrascosa quella in cui la storia di un “ramingo”, originario del mare, comincia. Mentre le onde si infrangevano sugli scogli con inquieta reiterazione e il cupo mormorio della risacca si disperdeva lungo le rive, il cielo fece sì che le nuvole piangessero lacrime di accoramento. L’oceano era irrequieto per la sorte che stava patendo la regina di Altantide, costretta a convolare a nozze con un marito che non avrebbe potuto amare. Per sottrarsi a un destino infelice, ella fuggì ma rimase presto vittima di un ferimento. Il corpo debilitato, inerme di Atlanna, trasportato dai fluttui, venne rinvenuto dal guardiano di un faro, un mortale che si adoperò a trarla in salvo.

Nel frastuono provocato dai marosi e dalla pioggia battente, si ode, forte e chiara, la voce di Aquaman, sebbene essa sia velata da una nota di rammarico che infonde, alle sue parole, una flebile mestizia. Il protagonista evoca il primo incontro tra Thomas, suo padre, e Atlanna, sua madre. La gioia intrisa in questa memoria si mescola, per lui, al rincrescimento di non aver mai conosciuto sua madre, obbligata a lasciarlo quando egli non era che un bambino. Aquaman inizia a narrare il passato citando Jules Verne, che ha scritto: “Mettete due navi in mare aperto senza vento né marea e si incontreranno". Come già precisato, è alquanto risaputo che in mare non vi siano “taverne”, ma in pochi comprendono quanto le correnti siano in grado, se lo vogliono, di far incontrare due persone, se esse somigliano a due navi che veleggiano dal remoto e sono destinate a scorgersi.Atlanna, che mai tra i fluttui avrebbe avuto scampo dal dolore, poté trovare protezione sulla terraferma, mediante l’imperscrutabile volere del mare.Thomas (Temuera Morrison) e Atlanna (Nicole Kidman) erano di due mondi diversi ma la vita, come le acque, trova il modo di unire le persone. I due si innamoreranno e, nella libertà vissuta in quei pochi ma intensi anni, conosceranno la vera felicità. Dal loro amore nascerà un figlio, a cui daranno un nome da re: Arthur. Quando Atlanna dovrà far ritorno al suo settore, il piccolo Arthur resterà col padre, che lo alleverà rammentandogli la straordinaria unicità delle sue origini, e mantenendo in lui vivo il ricordo della madre perduta.

Non a caso Arthur cita Verne, lo scrittore francese padre della moderna letteratura di fantascienza. Dietro la scorza aspra e disadorna di virilità, il primogenito della regina di Atlantide nasconde la sapienza di un dotto. Tom fece studiare ad Arthur la storia e, presumibilmente, la grande letteratura. D’altronde, come può un uomo che riesce ad avventurarsi nelle buie profondità degli abissi non conoscere e menzionare l’autore di “Ventimila leghe sotto i mari”? Arthur ha appreso la storia, e, in una sequenza del lungometraggio, dimostra di riconoscere le personalità raffigurate da alcune statue antiche che si stagliano sulla cima di un colle che sorge presso un’isola decisamente nota.

Sin dalla sua nascita, Arthur è reputato la testimonianza vivente di un miracolo. Egli è la prova di come le creature del mare e della superficie possano coesistere con reciproco beneficio. Arthur, divenuto un uomo adulto, avverte sulle sue possenti spalle il fardello d’essere ritenuto il ponte tra la terra e il mare. Oltre ciò, egli risente di venire considerato da certuni “speciale”, in quanto erede al trono di Atlantide, da altri, contrariamente, poco più che un mezzosangue.

Aquaman dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunter

Arthur è fin da subito tratteggiato come un personaggio dilaniato da due mondi, non soltanto per quanto concerne la sua discendenza, ma soprattutto per la percezione che gli altri hanno di lui. In tanti sono soliti tacciare il protagonista con titoli e requisiti che lui non sente affatto di possedere, siano essi pregi o difetti. Aquaman, appellativo con cui nel mondo è noto, rappresenta per molti un valoroso membro della Justice League, per altri un combattente epidermico e buzzurro.  Pochi confidano che egli potrà essere un degno sovrano, se solo riconoscesse le proprie qualità, altri a malapena gli riconoscono la levatura del supereroe.

Aquaman illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunter

Arthur vive alla giornata, alternandosi tra consumazioni al pub della zona e imprese compiute con grande audacia. Egli non sa cosa in effetti è né quello che vorrà essere, perché avverte solamente le aspettative, le percezioni e le titubanze che tutti hanno verso di lui. Per capire cosa vorrà diventare e superare così la propria avventatezza, Aquaman necessita della vicinanza di una persona che possa mostrargli ciò che ancora non sa di se stesso.

Sarà Mera (interpretata da una bellissima Amber Heard), la sua futura sposa, a indicare al sovrano il percorso da intraprendere, per far sì che sul trono di Atlantide torni a sedere il vero regnante. Attraverso un lungo viaggio in cui i due si conosceranno fino a legarsi sempre più, Mera esorterà Arthur ad abbracciare il proprio destino.

Arthur vive oppresso dai rimorsi. Crede, infatti, che la scomparsa di Atlanna, accusata di tradimento e condannata a morte per essersi “contaminata” con un mortale, sia tutta colpa sua. I tormenti del figlio si intrecciano alle speranze del padre. Tom, giorno dopo giorno, si reca sul pontile, nella speranza d’intravedere Atlanna affiorare dal fondale. Tom non si rassegna, vuol credere che Atlanna sia ancora viva. L’influenza positiva del padre non riesce, tuttavia, a scacciare i fantasmi che torturano lo spirito di Arthur, il quale teme il suo fato da monarca. Le giornate, per entrambi, si consumano in maniera diametralmente opposta: Tom vive sperando, Arthur temendo, e nascondendo queste insicurezze dietro una patina da uomo approssimativo e rozzo. Jason Momoa fa del suo Aquaman un eroe in divenire, schietto, grossolano, sgarbato, altresì intimorito, insicuro, bisognoso di aiuto eppur valoroso, audace e votato al sacrificio; un ritratto grondante di colore e ricco di sfumature.

La regia ispiratissima ed efficace di James Wan delinea due realtà ben differenti: quella degli abissi e quella della superficie. Il regno del mare è popolato da creature straordinarie, visivamente stupefacenti. Atlantide è un reame sontuoso, posto sotto il giogo crudele di un tiranno. Il fratellastro di Arthur, Orm, aspira a diventare Ocean Master, e a scatenare una guerra contro il mondo degli uomini, colpevoli di aver rovesciato nelle acque gli orrori del loro operato. Orm è nato da una successiva relazione combinata tra Atlanna e il re di Atlantide. Differentemente da Arthur, Orm nacque da un matrimonio celebrato, riconosciuto, ma privo d’amore.

Il mare, per volere di Orm, rigetta sulle rive terrestri le immondizie degli uomini, scaglia i relitti che riposano sul suolo marino, le navi da guerra, emblemi della follia battagliera perpetrata dall’uomo. Il mare è vivo ed è testimone delle azioni meschine e crudeli dell’essere umano che ha rigurgitato, su di esso, il petrolio che avvelena le acque salate, o le sporcizie che annientano la flora e la fauna marina. Per volere del folle re atlantideo, l’oceano è pronto a vendicarsi dell’uomo.

Due elementi, come la terra e il mare, che dovrebbero vivere in simbiosi patiscono un distacco incolmabile e non riescono a comprendersi vicendevolmente. In questo scenario vi è, però, l’errore della diffidenza, del dubbio, del sospetto. Vige un odio razziale nel cuore di Orm. Egli detesta la gente della superficie poiché la considera inferiore. Anche Arthur è schivo e diffidente verso gli atlantidei perché essi non lo hanno mai fatto sentire parte di loro, giudicandolo alla stregua di un essere intrappolato in un’esistenza a metà. Persino Mera nutre sfiducia nei riguardi degli uomini, ciononostante, permanendo sulla terraferma, imparerà a ammirare le bellezze pure ed incontaminate come il verde degli alberi, il profumo dei fiori (non commestibili!), la fresca e delicata carezza del vento e il giulivo volto di una bimba che esprime un desiderio, mentre getta una monetina in un pozzo repleto di acqua tersa e magica.

Il messaggio veicolato dal film vuole ricordare quanto sia sciocco provare livore per un qualcosa che andrebbe semplicemente conosciuto a fondo. La superficie e il mare sono due domini che devono essere avvicinati. Orm è un antagonista spietato che anela alla sola distruzione, invece Aquaman ha il dono di congiungere entrambi i reami col potere di un unico tridente. Se Orm è divisione, Arthur è coesistenza ed unione, potendo egli vegliare, con egual fermezza, su tutti e due gli ambiti del pianeta.  

Come verrà evidenziato nel film, Orm non ha l’assennatezza di un nobile sire, bensì “l’insana ragionevolezza” di un despota. Lui non è incline alla dialettica, non contempla nei suoi disegni alcun suggerimento scaturito dal dialogo, ma agisce mosso unicamente dalla rabbia, uccidendo chiunque si opponga al suo volere. Arthur, seppur impavido ed impulsivo, mostra, con lo scorrere dell’avventura, di possedere una certa diplomazia. Egli fa della parola, del dialogo, un’arma infallibile al pari del suo tridente. Arthur sa dialogare con le creature del mare, comprende i pensieri, capisce i sentimenti e sa come relazionarsi con esse. Sfruttando la calma, una qualità che non credeva di avere, Arthur parla con il Karathen, un essere mitologico guardiano del sacro tridente del primo re di Atlantide. Esternando la sua bontà, Aquaman otterrà l’arma suprema con cui riuscirà a sconfiggere Orm e a ristabilire la pace.

Tale tridente conserva in sé l’essenza imperitura della spada nella roccia. Il nome di Arthur rimanda a quello di re Artù, colui che, estraendo Excalibur, salirà al potere, rivelandosi il più venerabile dei sovrani buoni e coraggiosi d’Inghilterra. Arthur si dimostrerà l’unico degno di poter brandire il potere del tridente d’oro. Atlantide assisterà al ritorno del re.

Aquaman” è un film travolgente, esteticamente ammaliante. Conta su un ritmo coinvolgente e una storia dallo sviluppo semplice ma appassionante. L’opera di Wan è un viaggio introspettivo ed identificativo, che vede un uomo dai poteri straordinari ascendere a ruolo di supereroe e regnante.

Sul suolo terrestre, dove il cielo è limpido e lo specchio d’acqua quieto e cristallino, Tom attende ancora la sua eterna compagna, Atlanna, scampata alla morte e rientrata ad Atlantide con Arthur. Ella, un mattino, emerge dalle profondità e riabbraccia il suo amato. I due, raggianti, si baciano in riva al mare. Tom è un guardiano del faro e suo figlio sarà come lui: dispenserà una luce radiosa che possa sempre schiarire le tenebre se esse caleranno, fredde e oscure, sugli oceani e sulle terre emerse.

Voto: 8/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Qualche giorno fa, sui social network, campeggiava uno scatto fotografico raffigurante un supereroe giunto dal passato. La sua immagine era concreta al senso della vista eppure, in primo acchito, inspiegabile razionalmente. Come poteva essere riapparso così improvvisamente, con l’istantaneità di un lampo, quell’eroe del vecchio millennio?

Flash, e con tale appellativo faccio riferimento all’originale, è tornato! John Wesley Shipp è stato “catturato” in un fotogramma digitale con indosso il suo “autentico” costume d’epoca. La tuta rossa è nuova di zecca, rammendata come quella di un tempo, pronta per essere riutilizzata. Su quel set televisivo in cui prende forma l’episodio crossover che coinvolge i tre show principali del canale “The CW”, ovvero “The Flash", “Arrow” e “Supergirl”, sta avvenendo un viaggio nel tempo, fluttuante tra passato e presente. Lo storico interprete del personaggio DC Comics è riapparso per prestare i propri servigi al ruolo che lo ha reso celebre, e per salvare il mondo con l’indimenticato stile degli anni ’90 al suo seguito.

John Wesley Shipp è un “eroe” di stampo classico. Sì, ne sono ampiamente consapevole. Anzitutto egli è un attore e come tale riveste un ruolo, ma i suddetti panni, quelli del supereroe, gli calzano a pennello, come un abito di taglio sartoriale cucito su misura. Ciononostante, la sua carriera cominciò con parti del tutto diverse, per le quali dovette vestire variegati costumi di scena. Dal 1980 al 1984 fa sue le vesti del dottor Kelly Nelson in “Sentieri”, e tra il 1986 e il 1987 porta a casa due Emmy Award consecutivi per “Così gira il mondo” e “Santa Barbara”.

Per tutti gli anni ’90 e il primo decennio degli anni Duemila, Shipp “adatta” a sé le “divise” più disparate: è un pugile in “Sisters”, un sergente maggiore di artiglieria in “Jag”, e ancora un Colonnello, persino un allenatore di football. Shipp è un attore che si alterna costantemente tra piccolo schermo e teatro. Proprio per quest’ultimo, calca il palcoscenico numerose volte, in particolare per le opere “The Killing of Michael” di Erik Jendresen, “Malloy”, sino ad approdare a Broadway, nel pluripremiato “Dancing at Lughnasa” del drammaturgo irlandese Brian Friel.

Il 1990 è l’anno del suo debutto cinematografico, nel seguito del cult “La storia infinita”, dove interpreta il papà del protagonista Bastian (Jonathan Brandis). Tale ruolo, quello del padre inteso come guida, visto come figura protettrice, dagli occhi di un figlio, e reinterpretato metaforicamente come porto sicuro in cui poter attraccare, dopo essere scampato alle acque tempestose del mare aperto, e sentirsi stretti in un abbraccio, sarà una “tenuta” che l’attore statunitense non si toglierà mai di dosso. Di fatto, dal 1998 al 2002, si “agghinda” ancora per essere il padre del personaggio principale nel teen-drama di culto “Dawson’s creek”.

Potete leggere il nostro articolo "Dal passato piovono folgori e saette - Flash, la serie classica" cliccando qui.

 

I registi e i produttori ne sono consapevoli, Shipp ha la caratura del mentore, del maestro, ma, ancor di più, possiede la levatura dell’eroe. Tante sono state le maschere portate da questo interprete, ma una su tutte, quella rossa come il sangue, resta la più amata.

Sul set de “La storia infinita 2”, egli divide la scena con il compianto interprete Jonathan Brandis. I due attori lavorarono insieme anche in “Flash”, nella puntata “Child's Play”. Proprio per l’omonima serie televisiva della CBS, John fu Barry Allen, un poliziotto della scientifica che, dopo essere stato colpito da un fulmine, diventa il supereroe mascherato Flash, alla sua prima incarnazione televisiva.

Influenzato dal Batman di Tim Burton e Michael Keaton, Shipp interpreta un Flash grintoso, maturo, tenebroso, alimentato inizialmente da un desiderio di vendetta ma anche animato da un senso assoluto di giustizia. E’ un eroe rabbioso, il suo, nei riguardi dei biechi delinquenti della città di Central City, scattante, a tratti furioso, ma incredibilmente umano e prodigo. Quello di John resta un “corridore” solitario, che compie le sue sgroppate di notte, in una metropoli buia, che pullula di delinquenza, in cui il tempo oscilla tra il presente ed il trascorso. Poche sono le luci che illuminano il cammino e la corsa di questo vigilante, se non i murales variopinti che sovrastano le alte mura cittadine. Egli è un personaggio per lo più solo, coadiuvato solamente da una compagna, la dottoressa Christina Mcgee (Amanda Pays), un’amica destinata ad essere la sua futura sposa.

John Wesley Shipp e Amanda Pays sul set di "Flash"

 

Il Flash di Shipp, pur differenziandosi per diversi aspetti dalla controparte cartacea, è una trasposizione reale, oscura, forte e giustiziera. Shipp calzò, con egual abilità, il camice bianco del più sciolto Barry e il costume scarlatto della sua collerica seconda identità, offrendoci un’interpretazione apprezzabile, sincera, ed ispiratrice. John Wesley Shipp divenne un eroe tradizionale, dallo stile “antico”. Il suo fu un Flash adulto, un combattente audace, un velocista inarrestabile, imponente, massiccio, dal mento spiovente, ironico ma arrabbiato, emotivo, generoso e dal sangue freddo quando la situazione era solita richiederlo.

"Flash" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Il Flash di una volta, per scelta stilistica degli sceneggiatori, era avvolto da un’immateriale aura di misticismo. Nel corso della serie, il suo “apparire” e “svanire” con rapidità fece alimentare le voci circa la sua reale esistenza. L’eroe di Shipp agiva nell’ombra, in bilico tra visibilità e invisibilità. Per gli onesti era un semidio protettore, un “Ermes” disceso dall’Olimpo; invece, taluni banditi erano soliti descriverlo come un demone appena percettibile, altri come un fantasma rosso, alcuni addirittura come un diavolo vendicatore. La patina di mistero che ammantava il supereroe gli permetteva di terrorizzare anzitempo i suoi avversari, sin dal momento in cui intravedevano quella scia rossa portatrice di giustizia. Il “Santero”, lo “stregone” di un quartiere dei profughi latino-americani di Central City presente in un episodio, descrisse il vigilatore come l’umanizzazione di Shango, la divinità del culto yoruba associata al tuono, che castiga i mentitori ed i malfattori. Invero, come terrà a precisare lo stesso Barry, Flash è un uomo mortale, con dei poteri speciali messi al servizio del bene comune. Nel ritratto del valoroso combattente compiuto da John Wesley Shipp, verità e suggestione combaciano perfettamente.

La sua “calzamaglia”, fatta di un rosso acceso tendente al bordeaux, quasi amaranto, il suo fulmine dorato, che scorreva su una luna piena, targato sul petto come simbolo del suo potere, la saetta che gli ornava le braccia e proseguiva sulla cintura, dando l’impressione della scarica di una folgore in perpetuo divenire, è un qualcosa di iconico, evocativo, onnipresente. John, per impatto visivo, fu, ai suoi tempi, ma anche in questa modernità, un Flash perfetto.

John Wesley Shipp riprese ad approcciarsi all’universo del prode corridore nel 2010, prestando la voce al professor Zoom in “Batman: the Brave and the Bold”. Nel 2014, venne chiamato dai produttori della nuova serie dedicata al “piè veloce” degli albi a fumetto e dei romanzi grafici, per interpretare Henry Allen, il padre di Flash. Shipp tornò così ad abbigliarsi come un padre amorevole, affettuoso, innocente. Due anni dopo, lo stesso interprete fu scelto per essere la vera incarnazione di Jay Garrick, il primo Flash della storia dei fumetti. Da pochi giorni, John ricopre, di nuovo, il ruolo del suo Barry Allen.

In successione, nella mitologia di Flash, John Wesley Shipp è stato per la CBS il primo velocista apparso sul piccolo schermo, nonché Polluce, un clone del protagonista con i suoi stessi poteri, per la Warner Bros Animation la voce sinistra e malvagia della nemesi del supereroe, e per la CW il padre di Barry. In seguito, ha interpretato Jay Garrick, il primo “scattista” dotato di una velocità sovrumana, nato dalla fantasia di Gardner Fox ed Harry Lampert, e adesso, nuovamente, Barry Allen, rimanifestatosi quasi trent’anni dopo la sua ultima apparizione. Pochi sono stati gli attori che, come lui, hanno legato il loro nome ad un brand, un modello, un emblema di abnegazione, bontà e coraggio.

In quelle fotografie, con addosso una nuova versione del suo splendido costume, Shipp ha dato l’impressione d’aver arrestato il fluire del tempo, dimostrando ancora una volta di essere la più espressiva personificazione di Flash.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

Potete leggere il nostro articolo "Mitologia greca e supereroi - Flash, l'Ermes scarlatto" cliccando qui.

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"Batman, Catwoman e il Pinguino" - China di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

  • Nascita

Tutti i rampolli dell’alta società di Gotham vestivano con frac neri, papillon e camicie bianche, camminavano in gruppi numerosi con andature preimpostate, talvolta goffe, somigliando a pinguini imperatori su scivolosi ghiacciai. Il ricco Tucker Cobblepot non era diverso da questi! Una sera, se ne stava immobile davanti alla grande finestra del salone. Il suo sguardo verso l’esterno sembrava volesse ricercare, tra i candidi fiocchi di neve, una tanto agognata serenità. Sebbene apparisse distinto, la sua faccia non riusciva a nascondere l’inquietudine che lo attanagliava. Se il portamento del nobiluomo non suggeriva più del dovuto, i suoi occhi smarriti continuavano a tradirlo. Per stemperare l’intollerabile tensione, il magnate fumava una sigaretta infilata nel suo bocchino, mentre con l’arcata superiore dell’occhio sinistro stringeva il solito monocolo. D’un tratto, egli avvertì l’urlo straziante della moglie. Ester si trovava nella stanza adiacente il soggiorno, e stava dando alla luce il loro erede, Oswald. La prima a sgattaiolare via da quella camera fu una sconvolta infermiera. La seguì il medico, coprendosi il volto con un fazzoletto di stoffa. Tucker corse dalla moglie, e quando la raggiunse si lasciò andare ad un grido di disgusto. Ester stava bene, ma il nascituro era spaventosamente deforme. Nel periodo natalizio, il bambino giaceva rinchiuso all’interno di una gabbia nera, per via dei suoi atteggiamenti aggressivi. Orripilati dal concepimento del loro primogenito, e addirittura spaventati dalla sua violenza, i genitori meditarono un piano per sbarazzarsi della creatura. Si incamminarono in una fredda serata invernale alla volta di un parco in cui, un tempo, sorgeva uno zoo. Tutt’e due mandavano avanti la carrozzina dentro la quale riposava, come in una oscura prigione, l’ignaro neonato. Quando furono in prossimità di un ponte, gli sposi incrociarono un’altra coppia, intenta anch’essa a passeggiare per strada sospingendo una carrozzina bianca.

Il regista inserisce questa famigliola per un breve passaggio e, altrettanto fugacemente, la fa sparire. Ma chi erano costoro? E se fossero i Wayne con il loro neonato Bruce? Non c’è dato sapere con certezza, e se, per questioni d’età, Oswald e Bruce si sarebbero potuti incontrare appena nati. Resta ancora oggi suggestivo il mistero circa questo strano incontro. Bruce e Oswald, i futuri Batman e Pinguino, nella visione del cineasta hanno in comune più di quanto credano. Se la storia non fosse andata così come stabilito dall’opera filmica, Bruce e Oswald, rampolli della nobiltà Gothamita, avrebbero frequentato i medesimi ambienti e, pertanto, si sarebbero conosciuti in tutt’altre vesti. Un fato imprevedibile, sin dalle origini, ha voluto, tuttavia, snocciolare un futuro diverso per i due, destinati a scontrarsi come acerrimi nemici. Oswald era una prole ripudiata, dominata da un destino terribile che lo ha voluto orripilante nell’aspetto e nel carattere, Bruce, invece, era un figlio adorato, la cui sorte avversa lo ha scelto come testimone inerme di un omicidio in una drammatica notte, quella in cui persero la vita i suoi cari.

Tucker e Ester sganciano il vano culla dalla carrozzina e, senza apparenti remore, gettano l’infante nel fiume così che possa morire per il gelo. Sconvolti, i due si soffermano ad osservare il particolare involucro che, trascinato dai fluttui, scompare nei bui cunicoli delle fogne. Come accadde a Quasimodo, il protagonista del capolavoro letterario di Victor Hugo, “Notre-Dame de Paris”, Oswald venne abbandonato per la sua bruttezza e per la sua inaccettabile diversità. La ricca e blasonata famiglia dell’antagonista del lungometraggio, così come è stata ideata da Tim Burton, si contrappone all’umile famiglia di gitani a cui apparteneva Quasimodo, l’uomo formato a metà, così come crudelmente era stato soprannominato da Claude Frollo, arcidiacono della Cattedrale parigina.

Il destino di Oswald è dunque offerto al volere delle acque, un accadimento che rievoca il racconto biblico di Mosè, anch’egli affidato alle correnti del Nilo dalla madre Jocabel. Parallelismi simili che però dipanano un’intenzionalità contraria: se Mosè era stato lasciato per essere salvato, Oswald viene abbandonato per essere obliato.

Invero, la culla del piccino viene dondolata dalle putride acque fognarie fino ad una grande caverna sotterranea del “Mondo Artico”, luogo in cui ha trovato asilo una colonia di pinguini, ultimi superstiti della sezione antartica del dismesso zoo cittadino. I pinguini rinvengono la “cesta” con il nascituro, adottandolo come fosse un cucciolo della loro specie.

"Batman" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

  • Solitudine

33 anni dopo gli eventi fin qui narrati, Gotham City è sotto la protezione di Batman (Michael Keaton), vigilante mascherato e paladino della metropoli. A turbare la ritrovata quiete della città sono le voci riguardanti gli avvistamenti del “Pinguino”, un misterioso essere mezzo uomo e mezzo uccello che si cela nelle fogne.

Molteplici sono i riferimenti religiosi che possono essere colti nel film di Burton. Oswald nasce nella stagione natalizia, un periodo in cui la religione cristiana celebra la venuta al mondo di Gesù.  Oswald (Danny DeVito), conosciuto con lo pseudonimo di “Pinguino”, torna nella sua città natale quando ha compiuto il trentatreesimo anno di vita. Un’età straordinariamente simbolica per la fede cattolica, poiché richiama l’ultimo anno d’esistenza terrena del Messia. Questi interessanti elementi fanno sì che la figura del Pinguino si presti, con le dovute proporzioni, ad una rilettura “mistica”, tanto da poter essere considerato il “profeta” di una nuova razza, in cui l’umanità e la bestialità animale si mescolano in un agglomerato raccapricciante.

In un imprecisato momento della sua vita, Oswald venne assoldato come fenomeno da baraccone. Raggiunta l’età adulta, il “freak” aveva il seguente aspetto: era un uomo tarchiato e informe, per di più calvo, anche se dalla sua nuca scendevano lunghe ciocche di capelli neri, unti e sudici. Un vistoso naso aquilino, appuntito e spiovente come il rostro di un grosso rapace, era la prima cosa del suo volto a balzare all’attenzione. I denti erano neri come la pece, e le sue mani avevano soltanto due dita, poiché le restanti tre si erano fuse insieme, formando una sorta di pinna.  Il suo incedere era dinoccolato e dava la sensazione d’essere affaticato: in tutto e per tutto egli assomigliava ad un Pinguino. L’aspetto designato per l’antagonista del film fu accuratamente ideato e realizzato sui connotati fisici dell’attore Danny DeVito attraverso un impegnativo lavoro di trucco. Burton voleva creare un cattivo grottesco e agghiacciante, sociopatico e terrificante, un personaggio che venisse odiato ma che, inaspettatamente, potesse anche essere compatito. La deformità del Pinguino non riguarda solo l’aspetto fisico ma anche la mente e parte del suo cuore. Oswald è tanto mostro esteriormente quanto interiormente, peculiarità che più lo differenzia dal Quasimodo di Hugo. Nel corso della sua esistenza, il Pinguino sviluppò una bizzarra ossessione per i “para-pioggia”. La sua nutrita collezione di ombrelli può essere considerata alla stregua di un arsenale, poiché il Pinguino nel tempo li ha modificati, trasformandoli in micidiali armi.

La prima apparizione di Bruce Wayne nella pellicola lo mostra trattenersi, insonne, nel suo studio. Il volto è sperduto, l’espressione corrucciata e la mano è posizionata all’altezza del mento, come se volesse rimarcare la riflessività del momento. Bruce è un pensatore e, in quegli attimi, egli sta scorrendo il suo passato. In fuggevoli attimi di ripresa, Keaton ha la capacità di esternare il tormento interiore del suo Batman, conturbato nel rimuginare. Il Bruce Wayne di Michael Keaton dorme di rado: di questo ne avevamo avuto un assaggio già nel precedente capitolo “Batman” del 1989. Dopo la notte trascorsa con la fotoreporter Vickie Vale, il protagonista faticava a prender sonno, e preferiva scacciare gli incubi vissuti ad occhi aperti temprando il proprio fisico con gli allenamenti. Anche in “Batman Returns”, cogliamo questa tensione silente, un’angoscia che tiene l’eroe in uno stato di allerta e di isolamento.

Selina Kyle (Michelle Pfeiffer) è un’impacciata e sciatta segretaria alle dipendenze di Shreck. Vive sola nel suo appartamento e possiede un gatto come animale da compagnia. Selina è gentile e premurosa in una realtà urbana infingarda e cattiva. La tragica morte per omicidio a cui andrà incontro, e il soprannaturale evento di resurrezione che la riporterà in vita, muteranno il carattere della donna la quale, una volta rientrata in casa, perderà il controllo di se stessa e distruggerà ogni elemento della propria casa che le ricordi la parte più pura, infantile e sognante della sua vita.  Selina strapazza e annienta i suoi peluches, imbratta col colore le magliette più “giovanili” del suo guardaroba, distrugge la casetta delle bambole che aveva sin da bambina per poi cucirsi un aderente vestito nero. Nasce da un parto violento e liberatorio Catwoman, l’essenza più incontrollata, tumultuosa, vendicativa e sensuale di Selina Kyle.

Batman, il Pinguino e Catwoman, sono, a loro modo, soli, incompresi, tormentati e nevrotici. Se Bruce ed Oswald personificano il bene e il male, Catwoman oscilla pericolosamente in ambedue i lati, incarnando un equilibrio instabile di luce e oscurità.  E’ interessante notare come i tre protagonisti corrispondano, nei loro alter-ego, ad animali: il pipistrello, il gatto e, per l’appunto, il pinguino.

  • Sospetto

Oswald, dopo aver scoperto la propria identità, ha l’intenzione di scalare le vette del potere municipale sino a ridurre la città di Gotham in cenere. Shreck prepara un accurato piano per riabilitare agli occhi dei cittadini-votanti la figura del Pinguino, aspirante sindaco di Gotham. “Batman Returns” mostra con quanta facilità possa essere manipolata l’opinione pubblica mediante un’orchestrata comunicazione politica basata sulla propaganda con l’ausilio dei media televisivi, i quali possono modellare ad arte, come argilla fresca, un’immagine distorta della realtà. Il Pinguino si presenta come il candidato perfetto, e attorno alla sua persona fa sì che si palesi l’alone astratto ma percettibile di un uomo umile, privato dei diritti che gli spettavano dalla nascita, orrido ma dal cuore d’oro. Sfoggiando un look in stile vittoriano, con frac, cappello a cilindro e monocolo, il mostruoso “uomo-anfibio” si trasforma in un “gentiluomo” raffinato, una mutazione che i giornali paragonano all’evoluzione del brutto anatroccolo in cigno.

Batman segue preoccupato l’ascesa al potere del Pinguino e nutre dei grossi sospetti. Già prima di quei giorni, una notte, l’eroe si era recato ad osservare l’agire del losco figuro, occupato a raccogliere informazioni sui primogeniti di Gotham con il “pretesto” di ricercare le proprie origini. La scena che vede Batman procedere con la batmobile durante una copiosa nevicata non è soltanto fascinosa ma didascalica circa le abilità intuitive del supereroe. In questa sequenza emerge infatti l’acume fine e il prodigioso intelletto di Bruce, il quale sospetta correttamente di un reo. La sfida a distanza tra il cavaliere oscuro e il Pinguino è appena cominciata.

"Batman e Catwoman" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

 

  • Passione

Tra il crociato incappucciato e la donna dai poteri felini si consuma, nelle lunghe notti di Gotham, una tormentata relazione passionale che vede l’amore e l’odio fondersi in un connubio torbido e divorante. Parallelamente alla relazione intrecciata nelle loro vesti mascherate, i due, senza conoscere le rispettive identità segrete, iniziano a frequentarsi anche come Bruce e Selina in pieno giorno. Passando dalla mattina alla sera, oscillando dalla luce all’oscurità, dal viso scoperto a quello nascosto da una maschera, in “Batman Returns” verità e inganni, segreti e bugie perpetrati dai due amanti s’intrecciano in una mescolanza separatoria eppure indistinguibile. Sia nelle loro vesti comuni di uomo e donna, sia nei loro panni di vigilatori in costume, la fatale attrazione che lega i due innamorati non fa che attanagliarli in un gioco distruttivo, dominato da un impeto carnale che sfocia in un erotismo selvaggio. Basti notare il costume della stessa eroina che evoca l’immagine di uno stringente e provocante abito sadomasochistico. Persino la frusta, l’arma utilizzata dalla donna per colpire e ferire Batman in uno dei loro interminabili duelli, richiama un tipo di arnese prestato a fini sessuali.

Il cavaliere oscuro e la “gatta ladra” si odiano e si amano, si perdono e si cercano, combattono senza esitazione nelle sommità dei grattacieli e poi cedono tanto da scambiarsi un intenso bacio sotto il vischio, dando consistenza e vigoria ad un rapporto in cui la violenza non è altro che un riflesso del desiderio, ed un colpo sferrato in combattimento risulta essere la richiesta disperata di una tenera carezza.  Contrariamente a ciò, tra Bruce e Selina, (attenzione non tra Batman e Catwoman), il rapporto appare più cristallino, poiché si instaura un amore che rappresenta quanto di più umano e speranzoso essi possano esprimere, quando non sono più schiacciati dagli obblighi imposti dai mantelli e dalle maschere. Durante un ballo in maschera, i tormentati amanti si incontrano per concedersi un lento. Proprio in tale contesto, essi rivelano la loro reciproca identità. Nella circostanza in cui tutti indossano un costume mascherato, Bruce e Selina colgono l’occasione per sdrucirselo di dosso vicendevolmente.

Se Batman e Catwoman sono obbligati a scontrarsi pur bramandosi, Bruce e Selina potrebbero riuscire a conquistare un futuro insieme. A tal proposito, togliendosi la maschera, sarà proprio Bruce ad implorare Selina, anch’ella strappatasi di dosso il suo “cappuccio”, di seguirlo nella sua casa, dimenticando il peso dato dalle rispettive controparti. Nei loro aspetti “umani”, entrambi ricercano un futuro insieme salvo poi dover rinunciare ad esso con totale frustrazione.

  • Abbandono

Varie e ambiziose erano le aspirazioni del Pinguino, ma, come un uccello che non può volare, egli non poté levarsi da Terra e raggiungere ciò che più agognava. Oswald dovette desistere dai suoi propositi quando Batman riuscì a smascherare le sue malefatte pubblicamente. Respinto dai cittadini di Gotham, isolato da Shreck, Cobblepot tornò al suo covo, meditando vendetta. Il suo efferato piano è pronto ad essere attuato: la cattura e l’assassinio di tutti i primogeniti della città, così da far pagare loro la “fortuna” d’essere figli di una famiglia che non li aveva dimenticati. Sarà nuovamente Batman a sventare i suoi intenti e a fermarlo poco prima che lo stesso Pinguino trovi la propria fine.

La scelta dell’antagonista di voler uccidere i primogeniti costituisce un ennesimo metro di paragone con il racconto biblico dell’esodo. La decima piaga d’Egitto scatenata da Mosè prevedeva, infatti, la discesa sulla Terra dell’Angelo della Morte, che avrebbe sottratto la vita dal corpo dei primogeniti dell’Egitto.

Il Pinguino era un essere cattivo, brutale e insensibile, ma allora perché negli istanti in cui procede lento, e seguita a trascinarsi nel suo stesso sangue, la musica malinconica e lo scorrere delle immagini riescono a far commuovere con una simile efficacia? Forse perché il Pinguino era un mostro di origine controllata, solo e malato, che fu abbandonato in egual maniera quando nacque così come quando morì. Lo avevano lasciato i genitori, lo aveva lasciato il morente Shreck, anche i membri del triangolo rosso scelsero, alla fine, di voltargli le spalle e scappare dalla sua crudeltà. Soltanto i pinguini rimasero con lui fino a che non esalò l’ultimo respiro. Gli stessi, procedendo insieme, spinsero il corpo di Oswald verso l’acqua, laggiù dove sarebbe dovuto morire quando non era che un bimbo in fasce. Come un corteo funebre, sotto gli occhi di Batman, i pinguini, anch’essi dimenticati dagli uomini quando lo zoo venne abbandonato, danno al loro simile l’addio in quel sepolcro acquatico. Forse Oswald aveva ragione quando disse che non era un uomo, ma un animale a sangue freddo visto che solo il regno animale lo aveva accettato.

La morte del Pinguino è una scena triste, che suscita nel cuore degli spettatori una silenziosa, commuovente e mostruosa compassione.

  • Fine

“Batman Returns” è il film più cupo, triste e drammatico mai girato sul cavaliere oscuro. La regia ispiratissima di Burton e la maestria interpretativa degli attori, tutti in stato di grazia, hanno permesso alla pellicola di fregiarsi dello status di cult.

Il secondo ed ultimo Batman Burtoniano mostra, negli ultimi scampoli del proprio corso, Bruce, separatosi da Selina, nel mentre ammira dal finestrino della sua auto il freddo ma sereno paesaggio di una Gotham innevata. E’ Natale, e ancora una volta l’unico “mostro” che ha scelto di non farsi corrompere e avvelenare dalla mostruosità della crudeltà umana continua a vegliare sulla città. Si tratta proprio di Batman, l’unico e solo eroe in grado di ergersi con razionalità sull’aberrazione. Tutto d’un tratto il batsegnale brilla nel cielo, richiamando l’arrivo del Supereroe, sotto lo sguardo vigile di Catwoman.

Voto: 8/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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  • Dei ed Eroi: tra mito e Justice League

Nell’antica Grecia esistevano gli eroi. Forse non recavano il prefisso “super” ma erano davvero degli eroi, capaci di vivere avventure e di compiere imprese del tutto simili a quelle che oggi indicheremmo come fuoriuscite da una qualunque narrazione a fumetti. Nelle regioni elleniche, già dal VI secolo a.C. esistevano quelli che noi, oggi, definiamo comunemente come “crossover”, ovvero i "racconti" dove gli eroi o gli dei si incontravano o scontravano tra loro. Eracle spalleggiava Teseo nell’Ade, ad esempio, Orfeo prendeva parte alla spedizione di Giasone e le divinità si schieravano in “leghe” contrapposte nel conflitto che vedeva rivaleggiare i troiani e gli achei, palesandosi d’improvviso e cambiando così il corso della "trama", come nei migliori e più avvincenti serial fantasy contemporanei. I supereroi, specie quelli appartenenti alla scuderia DC Comics, i primi a comparire sulle tavole dei fumetti nonché i primi a parlare per via cartacea, sorretti da una sceneggiatura che, sin dal principio, si materializza sotto forma di una nuvola pregna di parole e significati, non sono altro che le rivisitazioni dei vecchi eroi della mitologia, e ricalcano persino il modo in cui, migliaia e migliaia di anni fa, quelle storie, quei miti propriamente detti, venivano raccontati. Sembrava, infatti, che la mitologia greca si svolgesse interamente in un unico universo narrativo, coeso e preciso, pur con qualche leggera incongruenza. La DC stessa ha, da sempre, scelto di ambientare le proprie storie in un universo ben noto, fino alla fine degli anni Sessanta, quando gli universi conosciuti dai lettori di tutto il globo diverranno molteplici. Insomma, senza dilungarsi oltre, i supereroi sono non altro che le esaltazioni degli antichi eroi, da cui attingono valori e poteri, avventure singole e condivise.

  • Flash: “Non puoi fermarmi!
  • Superman: “Non esserne così sicuro. Ho già corso con te in passato, Barry. Ho anche vinto qualche gara.”
  • Flash: “Quelle erano per beneficenza, Clark!”

(Flash Rebirth – Barry sfugge, correndo via, a Superman)

Superman è, probabilmente, l’emblema degli eroi DC. Forte come Eracle, invulnerabile come un dio immortale, Clark Kent possiede la capacità di volare sino al sole da cui attinge la propria possanza. Più che dell’Olimpo, Kal-El è figlio del cielo. Egli incarna l'ultima testimonianza di mondo scomparso, ed è un essere quasi onnipotente che concretizza, in una serie infinita di poteri, i più grandi sogni di gloria della fantasia di ogni autore. Wonder Woman è, forse, il personaggio più attinente di tutti alla mitologia arcaica, sia a livello estetico che a livello concettuale. Ella è un’amazzone, creata da Zeus e da Afrodite, cresciuta sull’isola della regina Ippolita. Wonder Woman è il simbolo della donna forte, autoritaria, splendente e valorosa, l’icona dell’eroismo femminile moderno. Aquaman potrebbe essere descritto come l'eroe più antico della storia dei fumetti. Egli, re di tutti i mari, viveva al di sotto dei fluttui già migliaia e migliaia di anni or sono e portava, sempre con fierezza, un tridente stretto tra le mani con il quale troneggiava sul regno degli abissi fin dal giorno in cui i suoi fratelli, Zeus e Ade, decisero di spartirsi i tre regni del mondo e a lui toccò quello dei vasti oceani. Aquaman è il Poseidone dei nostri giorni, l'eroe che personifica la figura del dio greco e del sovrano di Atlantide, la città perduta, quest'ultimo un altro mito da cui il fumetto ha tratto le proprie ispirazioni per ripercorrere l'ennesimo racconto che affonda le proprie radici nei secoli trascorsi. Lanterna Verde è un eroe posto a guardia del Pianeta. Egli, astuto come Odisseo e spavaldo come Aiace, proteggerebbe la Terra con l’egual fermezza di come Ettore avrebbe difeso fino alla morte la sua amata patria.

Batman e Cyborg sono due personaggi tanto diversi, ma che in un’analisi dedicata ad alcuni passi della mitologia antica non rappresentano altro che il limite dell’essere umano, quello stesso limite che può essere superato dall'abnegazione, dalla dedizione, dall'impegno, dal sudore, dall’allenamento massacrante e, soprattutto, dal genio dell’uomo. Batman ha dedicato la sua intera vita a spingersi “oltre”, a impersonare un simbolo di paura e speranza sebbene non possedesse alcuna dote straordinaria, ma per il solo desiderio di giustizia. Batman è il vero eroe, colui il quale non necessita della forza valorosa di Enea per poter abbattere l’ostacolo della malvagità. A Bruce Wayne basta se stesso, perché egli è il solo che è riuscito a superare ogni limite a cui l’uomo, data la propria mortalità e la propria fragilità fisica, è purtroppo soggetto. Batman è arrivato vicino al sole e, nonostante avesse le ali di cera, è riuscito a non cadere, a perdurare in alto, sino a lambire la volta celeste. Cyborg, dal canto suo, è il prodotto dell'ingegno, della progressione, dell'avanzamento tecnologico, della sapienza. Prometeo, il gigante innamorato della razza umana, rubò il fuoco agli dei per donarlo agli uomini, perché, ai suoi occhi, noi tutti eravamo meritevoli, unici. L’uomo, partendo dal fuoco, si è evoluto sempre di più. Tutto cominciò da quella fiamma accesa e divampante, da quella vampa imperitura che rappresentava, allora come oggi, l'ardore della scoperta. Col fuoco, l'uomo ha progredito, è diventato genio della scienza da lui stesso studiata costantemente. Restituire la vita ad un uomo deceduto, sotto forma di un Cyborg, è un sogno di natura fantascientifica che trova riscontro nella continua, sinistra ricerca dell’uomo, il quale, fin dall’alba dei tempi, non fa che tentare d'ingannare la morte, di allungare la vita, di salvare i propri simili. Il personaggio di Cyborg è la rappresentazione fantastica del sapere umano. Ed il suddetto sapere non sarebbe divenuto così grande se un titano, molti secoli prima, non avesse offerto alla razza umana un pegno così profondo e valevole.

Prendendo in esame il primo, storico costume di Flash, datato 1940, non possiamo fare a meno di notare che il velocista scarlatto sia una rivisitazione, in chiave moderna e supereroica naturalmente, del Mercurio alato. Flash trae le proprie origini dalla velocità di Ermes, il messaggero degli dei. Ritagliandosi un ruolo di primo piano nell’avventura fumettistica contemporanea, Flash, in virtù dei suoi poteri, reca in sé un tributo al passato, un omaggio continuo all'era dei grandi miti greci e, al contempo, il personaggio volge anche un’attenzione costante al futuro, per il quale il fulmine rosso non fa altro che rappresentare il continuo viaggio, la corsa, l'interminabile percorso che ognuno di noi, i suoi lettori, deve compiere durante la propria vita.

Flash, John Wesley Shipp, 1990 – Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters. Potete leggere il nostro articolo sulla serie classica “Flash” cliccando qui.

 

  • Flash – Il mercurio alato

“Più veloce di un fulmine nel cielo, della luce stessa, più rapido del pensiero, Flash è la reincarnazione di Mercurio alato... La sua velocità è lo sgomento degli scienziati, la gioia degli oppressi e l'incanto delle folle!” (Flash Comics 1- 1940)

Flash palesa, ad ogni sua corsa, il trascorso, l'avvenuto di Ermes, nonché il futuro, l'avvenire inesplorato verso cui egli giunge col suo rapido incedere. Flash corre giorno dopo giorno, come tutti noi. Nella società in cui viviamo, ognuno di noi corre, si arrovella, inseguendo sogni e speranze per raggiungere un futuro che sembra snocciolarsi sotto i nostri piedi con immantinente rapidità. A volte, in questa corsa estenuante, noi, corridori inesperti, perdiamo di vista il senso del nostro viaggio, e finiamo per non comprendere davvero il perché corriamo. Lo spostarsi da un luogo ad un altro, il raggiungimento di una meta piuttosto che un’altra, il viaggio inteso in senso lato è soltanto un superficiale pretesto. Al vero corridore non importa raggiungere il traguardo, a lui interessa solamente correre, osservare, conoscere, vivere. La corsa cela il senso della scoperta di luoghi sconosciuti, di realtà ignote, di esperienze straordinarie vivibili nella tortuosa peregrinazione compiuta come esperienza di vita. La corsa di Flash si configura come un’investigazione analitica e introspettiva di se stessi. E così Flash corre per scoprire tutte le volte se stesso, per superare i propri limiti. Gli autori che diedero contorno e vivezza al velocista scarlatto vollero far incarnare a questo instancabile maratoneta il desiderio inestinguibile dell'uomo di volgere sino all’infinito sconfinato, verso la padronanza del mistero nascostosi lontano, verso la conquista.

In una puntata della serie televisiva degli anni ’90, Barry Allen (John Wesley Shipp) osserva una statua bronzea che ha le sembianze di Mercurio.

 

Flash ha il mondo ai suoi piedi ed è animato da una brama di libertà senza limiti. Dalla matita di Gardner Fox e Harry Lampert, nel gennaio del 1940, nasce Jay Garrick, Flash, nelle pagine di “Flash Comics n°1”, albo della DC Comics che prese il nome direttamente dal suo personaggio principale. Nello stesso numero anche altri celebri eroi della DC videro la luce, eroi come Hawkman, Hawkgirl (Shiera Sanders), Black Canary e Johnny Thunder. La prima raffigurazione cartacea di Flash vede l’eroe sfrecciare verso l’orizzonte, lasciandosi alle spalle una lunga scia. Una donna dai capelli biondi osserva stupefatta l’uomo passarle dinanzi con passo spedito, così come il piè veloce Achille caricava verso l’esercito nemico. In tempi recenti quel primo numero, conservato gelosamente da un collezionista per quasi settant'anni, è stato valutato per una cifra che si aggira intorno ai 450mila dollari, a testimonianza dell’indiscusso valore e del futuro glorioso che avrà il personaggio che, in quelle pagine, vedeva per la prima volta la luce.

Jay Garrick indossa sul capo un elmo grigio, ornato ai lati da due alette color oro, è abbigliato con un costume rosso che lascia intravedere una grossa sagoma gialla atta a simulare il dardo di un fulmine, veste un paio di jeans e calza due stivali rossi, anch’essi contornati da alette dorate. Le ali richiamano il simbolismo del dio greco Ermes. Flash corre su nastri d’asfalto con passo rapido e impalpabile, il che dà la sensazione che l’eroe non tocchi propriamente il terreno ma si sollevi da esso, proprio come faceva Mercurio quando muoveva i suoi passi sulle nuvole bianche che sovrastavano i sentieri dell’Olimpo.

“Lo faremo e lo faremo velocemente. Dopotutto, è come sono abituato a fare cose.” (Jay Garrick – Flash)

La prima apparizione di Barry Allen

 

L’incarnazione più famosa e amata di Flash, Barry Allen, arrivò nel 1956 dopo il disastro della seconda guerra mondiale che fece tra l’altro anche cadere i fumetti in rovina e nel dimenticatoio generale. Jay Garrick fu così sacrificato, cedette all’oblio e scomparve dalle edicole lasciando al suo passaggio un malinconico ricordo. Barry Allen è un poliziotto della scientifica di Central City. Una notte, durante un temporale, Barry viene colpito da un fulmine mentre, a tarda sera, stava lavorando nel suo laboratorio. Il fulmine lo investì improvvisamente, irrompendo da una grossa vetrata adiacente il tavolo di lavoro del ricercatore, che venne investito da una serie di prodotti chimici caricati elettricamente. Quando si risvegliò, uscì in strada e, notando un taxi in lontananza, cominciò a correre per raggiungerlo. Si accorse, poco dopo e con sorpresa, di aver superato l’autovettura di diversi metri. Realizzò in quel momento di aver ereditato un potere straordinario che decise di mettere al servizio dell’umanità. Assunse così l’identità di Flash, indossando una maschera e un costume scarlatti, decorati con saette color oro. Sul petto, impresse un fulmine giallo su di in un cerchio bianco, rappresentando l’emblema della saetta che attraversa una luna piena alta nel firmamento.

  • Il successo

“Sei rapido, Quicksilver, te lo concedo! Forse nel tuo universo sei l'uomo più veloce che ci sia! Ma anche l'auto più veloce del mondo sembra una lumaca nei confronti di un jet!” (Flash - Marvel contro DC)

Quando Barry Allen irruppe nel mondo dei fumetti su “Showcase 4” riuscì immediatamente a magnetizzare l’attenzione di migliaia di lettori, da quel momento irrimediabilmente rapiti dalle gesta del “Velocista Scarlatto”. Il personaggio incarnava alla perfezione lo spirito del suo tempo. Per l’America, infatti, quello fu un periodo di grande prosperità e di innovazioni radicali su tutti i fronti. La DC Comics e un gruppo di disegnatori e scrittori, tali Robert Kanigher, Julius Schwartz, John Broome e Carmine Infantino, realizzarono un’impresa editoriale titanica, puntando tutto quello che avevano sulla creazione di un domani travolgente. Barry Allen, inteso quasi all’unanimità come il primo eroe della Silver Age, risollevò la DC Comics, le sorti dei fumetti interi e di tutto ciò ad essi affiliato. Sulla benevola scia scarlatta di Flash tutta una serie di altri brand fumettistici trovarono, infatti, nuovo vigore e ripresero ad essere pubblicati con successo. Flash prese per mano i suoi “fratelli” e li trascinò verso un avvenire luminoso. Anche la Marvel Comics sorse su fondamenta salde e durature erette da Flash.

Per molti anni, la leggenda a fumetti di Flash crebbe senza limiti, divenendo la testata più venduta d’America, registrando vendite record capaci di aggirarsi intorno alle 900.000 copie. In aggiunta a tutto ciò, per aumentare ancor di più il valore del personaggio, la DC affidò proprio a Flash il compito di introdurre il “multiverso” in “Flash dei due mondi”, uno degli albi a fumetto di maggior prestigio della storia. In tale fumetto, Barry Allen scoprì, attraverso un viaggio in una dimensione parallela, l’esistenza di una seconda Terra, su cui muoveva i suoi eroici passi un ormai anziano Jay Garrick. Fu la nascita e la canonizzazione di due Flash, il vecchio e il nuovo, il maestro e il grande apprendista. Sempre Flash continuò ad essere centrale nell’universo narrativo della casa editoriale statunitense, compiendo l’eroico sacrifico nelle pagine finali del leggendario crossover “Crisi sulle terre infinite” o stravolgendo, ancora, nel 2011 l’arco narrativo con la miniserie Flashpoint, che darà vita ai New 52.

In oltre 75 anni di storia editoriale, Flash ha avuto altre due incarnazioni: Wally West, nipote dai capelli rosso fuoco di Iris, e Bart Allen.

Flash è caratterizzato da una personalità ottimista, solare, a volte ironica e profondamente emotiva. Egli si trova, per certi versi, in contrasto con il tenebroso Batman, assomigliando, invece, a Superman, ovvero un supereroe portatore di speranza. Barry è una figura benevola e ispiratrice non solo per la gente comune ma anche per gli altri supereroi, tant’è che una volta Bruce Wayne disse di lui: “Barry è il tipo di uomo che avrei sperato di diventare se i miei genitori non fossero stati assassinati”.

Sebbene negli ultimi anni Barry Allen sia stato rappresentato in televisione e al cinema come un ragazzo giovane, nei fumetti è in verità un uomo adulto. Egli è, inoltre, molto acuto, non è un supereroe inesperto che abbisogna di un team a spalleggiarlo, come mostrato nella serie televisiva, e non è neppure un eccentrico burlone, come invece mostrato nella trasposizione cinematografica della Justice League o nel cartone animato. Flash è un supereroe sognante, allegro ma anche serioso, ed affronta i drammi della vita con un inguaribile ottimismo, caratteristica che, una volta colta, è in grado d’infondere speranza al lettore.

  • Poteri: un dono o una maledizione?

"Mi chiamo Barry Allen, sono l'uomo più veloce del mondo. Per anni ho vissuto senza la mia sembianza umana, consumata dall'attrito di un folle viaggio alla velocità della luce, teso nello spazio e nel tempo alla rincorsa di un vettore invisibile e inarrestabile. Potevo racchiudere l'assoluto nel palmo della mia mano, percepire l'eternità in un battito delle mie ciglia. Capii allora di essere diventato qualcosa di più. Qualcosa di diverso rispetto a un uomo che corre più veloce degli altri. Io ero la Forza della Velocità." (Barry Allen – Flash)

Il potere, acquisito la notte dell’incidente e derivato dalla forza della velocità manifestatasi con la sagoma di una folgore, forse scagliata da Zeus in persona, ha trasformato Barry in un semidio che giace tra gli uomini. La facoltà di correre a ipervelocità pone il supereroe nel mezzo, tra l’umanità terrena e la gloria del cielo. Barry può superare la velocità della luce, viaggiare attraverso le epoche, pensare e ponderare così velocemente da poter calcolare e anticipare qualsiasi mossa di un rivale.  Flash possiede riflessi fulminei e una considerevole forza e resistenza fisica, benché per sostentarsi necessiti di consumare ingenti quantità di cibo. Il suo metabolismo accelerato gli permette di guarire rapidamente dalle ferite.  Barry può inoltre far vibrare le molecole del suo corpo e attraversare indenne la materia.

Sebbene venga considerato un eroe radioso, Flash può essere altresì inteso come un personaggio drammatico. Egli percepisce la realtà esterna con grande inerzia. Nel brano “The Ballad of Barry Allen” dei Jim's Big Ego, Flash viene descritto come un personaggio vittima del suo stesso potere. La velocità per Flash risulta essere, secondo questa interpretazione, una maledizione che avviluppa l’eroe.

In effetti, anche secondo il sottoscritto, una simile rivisitazione del personaggio assume un aspetto fascinoso. Il tempo trascina Flash costantemente, e proprio perché egli è così rapido, fatica a controllare l’esasperante scorrere dei secondi. La velocità si tramuta in un bisogno irrefrenabile ed intollerabile. Flash non può mai fermarsi davvero, e nessuno può vederlo muoversi realmente. Conseguentemente nessuno può riuscire a capire le sue sensazioni. Flash resta pertanto preda della solitudine. Sotto i suoi occhi la realtà quotidiana, le gesta e i movimenti dei suoi simili, scorrono con estrema lentezza.  C’è chi direbbe che la vita scorre troppo in fretta, ma a Flash la vita stessa pare progredire in modo compassato. Il tempo computato dagli orologi è diverso da quello calcolato dalla sua mente che finisce per precipitare in un gorgo incessante e inesorabile. I suoi pensieri e le sue percezioni si susseguono più rapidamente del tempo convenzionale così come viene percepito dagli uomini comuni, facendo piombare l’eroe in uno stato di abbandono e d’incomprensione. Flash permane così in una stasi tra il tempo effettivo e il tempo soggettivo, con quest’ultimo che prende il sopravvento sulla sua completa esistenza. Egli, uomo, vivrebbe così con il dono di un dio che tortura il suo spirito mortale con un potere destinato ad un’anima immortale come quella di Ermes.

  • Correre come metafora della vita

La vita non ci dà un senso, siamo noi a dare un senso alla vita”. (Flash)

La corsa di Flash verso l’infinito è la rappresentazione del coraggio, di quell’audacia necessaria per affrontare un avversario che compare all’orizzonte. Ma la corsa è, al contempo, l’espressione di una brama di vita. Nella corsa, la mente tende a schiarirsi e a far fluire liberamente il pensiero. Nel suo progredire armonico, il respiro di Flash si fa flebile, il vento gli sfiora il viso e l’aria sembra sollevarlo dal terreno che lambisce con i piedi che lo sospingono. L’elettricità scorre nelle sue vene come un fuoco ardente che viaggia in ogni sua terminazione nervosa. Flash corre per comprendere il mondo, il senso dell'esistenza a cui noi diamo un valore e uno scopo. Correndo, Flash riscopre, giornalmente, le meraviglie dell'arco vitale, e per esse si batte. Ed è per tale ragione che nella corsa si concretizza anche la fuga dall’oscurità. Flash può correre, ma non può sottrarsi da alcun problema, da alcuna fatalità. I poteri rendono l'eroe speciale, ma gli stessi non lo rendono, in fondo, diverso da ogni altro uomo. La morte per Flash è rappresentata dal velocista nero, una figura scheletrica che incarna la figura della triste mietitrice e che insegue il corridore per sottrargli la vita. Tale personificazione è la novellizzazione di un’allegoria. Il Flash Nero insegue il velocista scarlatto per fermarlo e porre, così, fine alla sua esistenza. La morte che insegue il supereroe con passo incalzante è l'espressione figurata del tempo che scorre via, e rende il supereroe cosciente della propria mortalità. Flash potrà avere i poteri di un dio greco, ma sarà sempre, nonostante tutto, un uomo soggetto alla morte. Il Flash Nero esacerba tale consapevolezza nel cuore e nell'animo dell'eroe, la cognizione della fine che può sopraggiungere inaspettatamente. Flash, che domina lo scorrere dei secondi con la sua velocità, comprende come i singoli istanti, i momenti stessi, spesso sottovalutati per la propria caducità, possano acquisire un valore profondo tanto da diventare "infiniti". Flash, nelle sue sgroppate, deduce quando bisogna correre via, allontanarsi dai mali che potrebbero arrecare distruzione, e fermarsi nella propria dimora, a vivere serenamente l'affetto dei propri cari. E’ in tal modo che l’eroe dà e trasmette valore alla famiglia, all’amore e all’amicizia, fuggendo dalle tenebre per tornare e restare nella luce. La corsa, per Flash, è metafora della vita stessa, fatta di sacrifici, di missioni da dover adempiere, di pericoli da dover scacciare, di affetti indissolubili da dover proteggere, di ritorni.

Il grande amore di Barry Allen è Iris West, colei che rappresenta la meta finale della propria corsa. Iris incontrò Barry (apparve per la prima volta nel numero 4 di Showcase nel 1956) mentre quest’ultimo stava indagando su un caso di omicidio. Barry fu subito attratto dai modi di fare della giornalista, curiosa, simpatica e dalla parlantina sciolta, mentre Iris rimase colpita dall’onestà e dalla fermezza dell’uomo. Dopo un lungo fidanzamento, una sera Barry propose a Iris di sposarlo, durante un giro sulla ruota panoramica al parco dei divertimenti di Central City. In Flash n. 165 (del novembre del 1966) Iris sposò Barry, scoprendo proprio quella notte che il marito era in verità il guardiano di Central City. Nel futuro si vedrà che Barry e Iris concepiranno due figli, Don e Dawn Allen, “i gemelli tornado”.

Iris come la maggior parte delle donne dei fumetti è rappresentata come una donna bellissima, dai fluttuanti capelli rossi, dal volto candito, e con solo un accenno di lentiggini, dalle forme aggraziate. La figura di Iris nella vita di Barry è sempre dominante. Ella rappresenta per Flash la motivazione per andare avanti, un po’ come Arwen è per Aragorn l’ispirazione capace di riscaldare il cuore e risollevare lo spirito del ramingo durante le ardue battaglie. Per Flash, Iris è il centro del proprio universo, il fattore stimolante della propria vita. Barry corre, resiste e sopravvive ripetendo a se stesso: “al ritorno a casa c’è lei ad attendermi”. Iris è il traguardo, l'abbraccio finale che sancisce per Barry l'approdo alla felicità. Al termine di ogni missione, alla fine di ogni corsa, l'eroe si toglie la maschera, torna ad essere un uomo, smette di vagare in solitudine e rientra a casa, il luogo in cui può finalmente cedere al riposo. La destinazione in cui, fermandosi, Flash può godersi pienamente le bellezze quotidiane dell'esistenza.

  • Conclusioni

“Forse non è così terribile morire. Non se lasci un erede, se sai che qualcuno combatterà ancora per ciò in cui hai creduto.” (Flash – Vendicatori/JLA)

Leggendo Flash si fantastica tangibilmente sulla possibilità di poter correre più veloce del suono, sempre verso l’orizzonte e il futuro più roseo; egli è un pensiero positivo, una luce carica di speranza che schiarisce il buio e che, certamente, non può che affascinare ogni lettore dall’estro sognante. Flash non è che la personificazione rivisitata del mercurio alato, uno sgomento per gli scienziati, una gioia per gli oppressi e un incanto per le folle.

I supereroi DC Comics, con i loro racconti di epiche battaglie, di uomini capaci di volare verso le stelle o di sollevare montagne, rivisitano le gesta degli dei e degli eroi della mitologia greca, in cui il racconto fungeva da fuga dalla realtà. Il mito possedeva la capacità di stimolare l’immaginazione. Il racconto greco ammaliava e rubava sogni ed attenzioni con la descrizione di una giovane donna che nasceva dalla spuma del mare, o con la narrazione di dei in collera che sconfiggevano i titani con la folgore, il tridente o l’elmo che rendeva invisibili. Erano gesta narrate da cantori e vertevano sull’esaltazione della fantasia, uno dei più grandi doni che l’uomo abbia mai ricevuto. Il fumetto è arte sequenziale che trasforma in tavolozza pittorica ciò che veniva raccontato nell’antichità a parole, magari accompagnato dal suono della cetra, e portato via dal vento che ne conservava tutto il valore.

Flash, il più veloce, il più lesto tra gli eroi, è ancora oggi la personificazione del domani, di un futuro che, per quanto remoto, si avvicinava e continua ad avvicinarsi a grandi passi.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Batman, Wonder Woman, Flash, Aquaman e Cyborg dipinti da Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Ai piedi dei due eroi sopravvissuti, Batman e Wonder Woman, giace il corpo senza vita di un superuomo. “Dio” è caduto dal cielo, Superman è morto! Al termine di un aspro conflitto che lo ha veduto vincitore e, al contempo, vittima sacrificale, i suoi resti inermi, privi di un qualsiasi anelito di vita giacciono a terra, in un suolo macchiato del suo stesso sangue. Superman non volerà più nel cielo, riposerà sottoterra. Fu questo l’ultimo atto di “Batman V Superman”. La grande “S”, quel simbolo idiomatico che in Kryptoniano significa “speranza”, impressa su di uno sfondo azzurro come il cielo senza nuvole, che solcava impavida il firmamento, scomparve per sempre dallo sguardo degli uomini. “Justice League” riprende da questo punto ben preciso nell’arco narrativo dell’universo cinematografico DC Comics, e ci mostra gli esiti conseguenziali di una morte così inaspettata. E’ un mondo in crisi, scosso dalla notizia della dipartita di un amico, di un paladino della giustizia, di un protettore invulnerabile. Batman intuisce che la Terra è oramai indifesa, esposta pericolosamente alle minacce di invasori senza scrupoli, pronti a discendere dalle remote regioni dell’universo, coscienti che Kal-El non veglia più sul pianeta da cui è stato adottato. Bruce decide di costituire una lega di giustizieri, composta da uomini con capacità straordinarie, noti come metaumani. E’ l’alba della Justice league.

(Attenzione pericolo spoiler!!!!)

“Justice League” sbarca al cinema con il gravoso compito di proseguire l’universo filmico DC Comics, più volte funestato da giudizi inclementi, e di portare, per la prima volta sul grande schermo, la lega della giustizia, la collaborazione tra i più grandi supereroi della storia del fumetto americano. Diretto per buona parte da Zack Snyder, poi sostituito alla regia da Joss Whedon, “Justice League” è sostanzialmente avvicinamento, conoscenza, fiducia e unione.

  • Paradisiaca unione, infernale disgiunzione

Il concetto di “comunanza” è il fulcro basilare della storia, e progredisce perpetuamente durante lo scorrere della visione. Sin dal palesarsi dell’antagonista, Steppenwolf, ricorre il tema dell’inscindibile unione, la quale genera una forza indissolubile.  Steppenwolf fu un’entità arcana, un guerriero imponente, dalla forza sovrumana, armato di una robusta e affilata ascia grondante sangue. Questo combattente era a capo di un infernale esercito di parademoni con cui intendeva schiavizzare la Terra e soggiogarla al proprio dominio distruttore. Sull’orlo del baratro, gli abitanti della Terra, qualunque spazio essi occupassero, sia il regno marino, che quello terrestre, e ancora il regno di Temishira, unirono le loro forze a difesa di un bene universale.  Steppenwolf venne combattuto e sconfitto da un immenso esercito, sorto dall’alleanza tra uomini, amazzoni e atlantidei. Fu l’ultima testimonianza storica di una inseparabile alleanza. Da quel giorno non si ebbe più alcuna intesa tra i viventi dei tre regni, e il mondo progredì nell’apatia e nel disinteresse generali. Con il trapasso di Superman, Steppenwolf fa ritorno dal suo esilio, deciso a terminare ciò che aveva lasciato incompiuto, e per farlo ha bisogno delle mitologiche tre scatole madri da cui fuoriesce un potere smisurato. Le tre scatole madri sono state volutamente separate e nascoste in epoca antica poiché, se rinvenute e messe assieme, potranno alimentare il potere di Steppenwolf fino a renderlo invincibile.

Batman illustrazione Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Anche in merito alle tre scatole madri, “Justice League” effettua un’analisi sul concetto di “unione”. Il potere in esse contenuto è smisurato, e per tale ragione, le scatole furono separate, onde evitare un ulteriore accrescimento di una forza già incontenibile. Unione e divisione, due parole appartenenti a significati diametralmente opposti ma che sono soggette alla medesima indagine nel film. Dal vincolo trittico tra le tre scatole madri fuoriesce un potere malvagio, dalla cooperazione tra i supereroi, invece, emerge una forza votata al bene. L’eterna lotta tra il bene e il male in “Justice League” assume i contorni di uno scontro tra la forza perentoria della lealtà e tra la disfatta apocalittica della divisione perpetrata da Steppenwolf. Lo scenario paradisiaco dell’alleanza tra i supereroi della Justice League si contrappone al fronte della disgiunzione infernale alimentata dall’oscurantismo di Steppenwolf. La stessa arma, padroneggiata con efferata maestria da Steppenwolf, possiede una sorta di allegoria del genere. L’ascia è un’arma divisoria, in grado di “spaccare”, di spezzare e divincolare un legame, di annientarlo con la violenta separazione di un taglio netto.

  • Viaggio conoscitivo

E’ un bisogno inevitabile per il bene della Terra quello che sospinge l’uomo-pipistrello e la principessa delle Amazzoni a reclamare i più grandi eroi del mondo. E’ giunto il momento per decretare la scesa in battaglia di Barry Allen/ Flash, di Arthur Curry/Aquaman e di Victor Stone/Cyborg. Quello che balza all’attenzione è che sono supereroi alle prime armi. “Justice League” non traspone le icone della DC Comics al massimo della loro potenza, li rende, in vero, supereroi più fragili, come fossero agli inizi del loro viaggio di adempimento.

Aquaman dipinto da Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Ciò che accade in epoca antica, si ripete, in un certo senso, in età contemporanea: non viene radunato un esercito quanto un manipolo di supereroi rappresentativi e pronti a credere nel bene. “Io ci credo” afferma con decisione Wonder Woman! La fedeltà, il crederci, la fiducia reciproca sono tutte caratteristiche fondamentali per l’insaldarsi di una relazione cooperativa. E’ così che la lega della giustizia si plasma sotto i nostri occhi, nella difficoltà di un’interazione tra sconosciuti. “Justice League” è un viaggio di comprensione e di amicizia. E’ un film introduttivo e al contempo formativo. Spetta ad un solo rappresentante della “casata” degli uomini riunire le forze della Justice League. In questo viaggio esplorativo, concernente l’interazione tra supereroi diversi tra loro, Batman assurge ai canoni dell’uomo mortale e sprovvisto di poteri, all’esponente virtuoso di un’umanità distaccata.

  • Umanità e ispirazione

Ben Affleck veste gli abiti di un Batman tormentato, come fosse fuoriuscito dalla tavolozza di un fumetto e siffatto in carne ed ossa tanto è il rimando estetico che dà la sua presenza scenica se confrontata alla controparte cartacea. L’interpretazione di Affleck verte sull’umanizzazione del cavaliere oscuro. Il mostrare con animo provato le ferite fisiche calca la fragilità del crociato incappucciato, soggetto, in quanto uomo, al dolore e a un maggiore rischio in battaglia. Bruce Wayne è un uomo apparentemente comune, che si erge rispettosamente sui suoi simili per selezionare un team di protettori, ma mai per elevarsi a loro guida, in quanto avverte di non essere sufficientemente ispiratore per gli uomini. Il Batman di Affleck si prefigge un compito, quello di ridare vita a Superman. L’uomo d’acciaio, a detta di Wayne, era molto più umano di lui.

La fragilità umana del Batman di Affleck è dualistica: da una parte ci mostra l’unicità di un eroe mancante di poteri ma, allo stesso tempo, l’insofferenza di un supereroe che confessa di non sentirsi parte integrante dell’umanità stessa. L’umanità di Batman reca in sé una caratteristica che evidenzia i disagi, le turpe, e gli incubi del cavaliere di Gotham, elementi disturbanti che gli impediscono d’essere un eroe ispiratore e solare come lo era Superman, extraterrestre ma molto più integrato nella vita quotidiana rispetto a Bruce Wayne.

L’ispirazione è un argomento caro alla pellicola della “Justice League”. E’ un mondo privo di figure ispiratrici quello a cui le scenografie urbane di “Justice League” danno vita. Non vi è più ispirazione nel votarsi a una causa altruistica, non vi è ispirazione nello sforzarsi di vedere una luce fioca che lampeggia nelle profondità di un’opprimente oscurità. Neppure Lois Lane trae ispirazione alcuna dai suoi sentimenti per approcciarsi alla scrittura, e per comporre un testo che possa ridare speranza ai lettori del Daily Planet. Il compito della Justice League è più oneroso di quanto possano credere: essi devono scuotere gli animi degli indifesi e restituire loro la speranza di un domani luminoso.

Justice League” è un film sui supereroi, intesi in senso classico, coloro i quali vengono forgiati nelle fiamme divampanti della speranza, e ha il merito di presentarci i protagonisti in un tempo dilatato.

  • Supereroi: diversità e analogie

In principio, i guerrieri della Justice League hanno in comune soltanto le loro sbalorditive capacità, ma devono comprendere le reciproche affinità per divenire una squadra. “Justice League” fa interagire personaggi provenienti da “realtà” ed esistenze diversificate. Per tale ragione, la pellicola crea un gruppo eterogeneo nelle cui differenze emergono i corrispondenti pregi. Ezra Miller ci regala un Flash allegro, giocoso ed inesperto. Veniamo a conoscenza della tragica storia della sua infanzia, ma ciò non ci impedisce di notare come Barry, sebbene patisca la solitudine, viva la sua vita con il sorriso e con la speranza ottimistica che un giorno tutto possa cambiare. Barry è in piena attività da pochi mesi, è una scia rossa invisibile e inafferrabile. A Flash è spettato l’impegno di far divertire il pubblico mediante una verve comica opportunamente sceneggiata per far sorridere ma non certo ridere. Barry, con la sua dialettica gioiosa, vuol solamente strappare un accenno di sorriso, non ha affatto l’intenzione di far ridere a crepapelle. E’ questa una chiave interpretativa dell’opera, la DC Comics, per quanto con “Justice League” abbia sacrificato l’atmosfera cupa e drammatica dei precedenti lungometraggi, non tramuta se stessa. Mantiene una serietà limite e l’alterna ad alcuni momenti più spensierati ma mai costanti o esagerati, fino ad ottenere un ritmato equilibrio tra toni gravi e divertimento.

Il Barry Allen di Ezra Miller è un ragazzo timido, introverso e insicuro, e la sua interpretazione flirta col pubblico perché ci dona l’illusione che anche una persona apparentemente impacciata possa nascondere un potere fantastico che imparerà a dominare. Per come è sceneggiato, il suo potere è un dono non una maledizione. L’esatto contrario di Cyborg. Cyborg vive la sua nuova vita come se dovesse pagare il prezzo di una resurrezione incorporea. E’, infatti, risorto dalla morte per rivivere con una veste robotica, cibernetica ed eroica. Anche Aquaman è insoddisfatto, risente del peso della sua investitura da Re di Atlantide, e si unisce alla lega con più di qualche remora. L’Aquaman di Momoa è un eroe indomito e indomabile, schietto e possente, ma dietro la sua scorza coriacea e cinica nasconde l’orgoglio nell’essere sovrano di un reame acquatico e di far parte di una compagine di eroi.

Solitudine, malcontento, frustrazione, voglia di cercare il proprio posto in un mondo che necessita di eroi, sono solo una parte degli stati d’animo e dei desideri che accomunano i supereroi della lega della giustizia. Nei loro caratteri diversi sono riscontrabili più similitudini di quanto parrebbe superficialmente. Persino l’evento religioso e sovrannaturale della resurrezione, vissuto da Cyborg, si verifica nuovamente con Superman, quando egli verrà riportato in vita dagli eroi della Justice League. Le vicende e le sensazioni emotive vissute dai supereroi finiscono per dipanare un analogo e ingarbugliato intreccio. “Justice League” è la progressione, nonché l’evoluzione intima, di un manipolo di eroi. Questi eroi, prima ancora di divenire una compagnia indivisibile, ritrovano la propria identità grazie al rapportarsi tra loro.

Ed è con Superman e Wonder Woman che la Justice League scova i suoi emblemi carnali, le ideologie personificate e ispiratrici che tanto stava ricercando. Clark e Diana vengono caricati di una virtù trascendentale, perché incarnano le fattezze del dio uomo e della dea donna. Il ritorno dell’ultimo figlio di Krypton rappresenta lo schiudersi di una nuova alba, avvenuto dopo un “crepuscolare tramonto” che aveva ceduto il passo alla notte più buia. Gal Gadot con la sua Wonder Woman illumina lo schermo con la delicatezza di un volto bellissimo, con la grazia, il coraggio e la benevolenza di un’icona elegante, elevandosi al rango di eroina-simbolo più sfavillante della Justice League.

  • Conclusioni

“Justice League” è un valente e piacevolissimo Cinecomic, che incespica soltanto in poche pecche. Discutibile e lacunosa è la caratterizzazione del cattivo di turno. L’antagonista Steppenwolf è privo di carisma, non ha intriganti motivazioni dietro il suo oscuro agire, se non quelle d’annientare l’Umanità. Egli risulta, pertanto, mortificato a discapito di un’attenzione dedicata, e più che ben eseguita, agli eroi protagonisti. Le due ore di visione scorrono via con rapidità, tuttavia, si avverte distintamente il taglio di alcune scene che avrebbero reso il film ancor più avvincente. Sarà lecito attendersi una versione estesa con l’uscita del formato Blu-ray.

Justice League” diverte ed emoziona con una storia lineare, con adrenaliniche scene d’azione ma soprattutto con un’ottima caratterizzazione dei personaggi. “Justice League” è un film che vuol rammentare l’importanza di credere negli eroi, e quanto essi siano importanti nel reggere sulle loro possenti spalle il peso della configurazione della speranza, di un’ispirazione che possa rincuorare l’animo timoroso degli uomini soli. Un fardello che può piegare il corpo di un solo supereroe, non se questi è supportato, nel reggere tale vincolo, da altrettanti supereroi. E’ questa la Justice League, la solida fratellanza che fa la differenza e ne costituisce la forza; è questa l’unione ispiratrice.

Justice League dipinta da Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Quella che ristora l’animo degli scrittori, come accade sul finale a Lois Lane, e li invita a comporre ancora un altro pezzo, le cui parole vengono intrise nell’inchiostro e scritte coi sentimenti.

Voto: 7/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Christopher Reeve non si limitava soltanto ad indossare dei grossi occhiali che contornavano gran parte del viso, ma trasformava abilmente il proprio aspetto con l’ausilio di un leggero ma efficace trucco, assieme ad una pettinatura che gli copriva parte della fronte. A differenza di ciò che in futuro faranno i suoi successori, Reeve, quando interpretava Clark Kent, cambiava anche modo di recitare, anteponendo al suo atteggiarsi sicuro, un’andatura dinoccolata, una gestualità buffa e un parlare timido e impacciato. Richard Donner, il regista dei primi due film che ebbero Reeve come protagonista, diceva spesso che l’attore interpretava un ruolo nel ruolo. La rappresentazione del dualismo Kent/Superman offerta da Reeve si sposa magnificamente con il commento che Umberto Eco fa nel suo saggio “Apocalittici e integrati” all’iconico personaggio nato dalla penna di Jerry Siegel e dalla matita di Joe Shuster. Superman è l’aspirazione a cui noi tutti aneliamo, Clark, invece, è per l’ultimo figlio di Krypton il suo desiderio di normalità e di integrazione in un mondo che inizialmente non gli appartiene.

Un’interpretazione così affascinante del personaggio fa leva sulla necessaria diversità che dev’essere mostrata tra le due personalità dell’eroe. Questa differenza mai (secondo il mio modesto parere) è stata realizzata sul grande e piccolo schermo, se non nella figura di Christopher Reeve. L’unico ad aver catturato i tratti gentili e garbati di un timido Clark, il solo ad aver ostentato con profonda naturalezza, l’onnipotenza del primo eroe dei fumetti.

Risale al 1973 l’inizio dell’amicizia tra Reeve e Robin Williams, quando entrambi studiavano alla Juilliard School. I due, tra gli studenti più meritevoli e apprezzati nell’ambito della recitazione dell’intero istituto, stringeranno un rapporto di sincera e leale amicizia, arrivando a fare una promessa: chiunque dei due avesse ottenuto fama e successo, avrebbe aiutato l’altro, se questi si fosse trovato in difficoltà economica.

Nel '77 fu portata all’attenzione di Reeve la notizia che si svolgevano dei provini per il ruolo di Superman. La lavorazione della pellicola stava catturando la curiosità dei critici per la presenza di due stelle del cinema come Marlon Brando e Gene Hackman. L’attore nativo di New York, fino a quel momento sconosciuto, aveva avuto una prima esperienza a teatro in un’opera dal titolo “A Metter of Gravity”, venendo scelto, dopo un’audizione, direttamente da Katherine Hepburn che lo volle nel ruolo di suo nipote. La foto di Reeve e il suo breve curriculum vennero spediti a Lynn Stalmaster, il direttore del casting, che mise inizialmente l’immagine dell’attore tra coloro che dovevano essere scartati. Una più accurata riflessione, che coinvolse anche il regista, portò a rivalutare la scelta e si decise di contattare il giovane Reeve per un breve incontro che si svolse allo Sherry Netherland hotel. Quando Reeve arrivò, il cineasta e la produttrice Ilya Salkind, rimasero impressionati dalla somiglianza e dal richiamo fisico che l’attore emanava. Decisero cosi di consegnarli un copione di 300 pagine e di invitarlo all’audizione. Reeve credeva di non avere molte possibilità ma quando salì sul piccolo palcoscenico utilizzato per i provini, la sua altezza (193 cm) e l’imponenza che trasmetteva unita al modo di porsi convinsero immediatamente Donner, che di lui finirà per dire “E’ Superman, l’abbiamo trovato!” Il resto, come spesso si dice, è storia nota. Il film sull’eroe DC Comics sarà acclamato dal pubblico e dalla critica conquistando anche ai premi Oscar una statuetta nella categoria dei migliori effetti speciali.

Dopo un successo cosi planetario, la realizzazione di un sequel fu un processo del tutto conseguenziale e più che scontato, tenendo presente che molte delle scene del secondo film furono girate nello stesso periodo di lavorazione del primo. “Superman II” uscirà nel 1980 e sarà uno dei pochi casi dove un seguito batterà addirittura “l’originale”, sia in chiave economica che critica. E’ il periodo d’oro di Christopher Reeve che accoglierà il successo e la gloria insieme all’amico di un tempo, Robin Williams, anche lui ormai una stella affermata e pronta ad illuminare le platee e le sale cinematografiche. La figura di Reeve comincerà ad essere indissolubilmente legata a quella dell’Uomo d’acciaio. Reeve tornerà ad indossare il mantello rosso in altri due film, qualitativamente inferiori ai primi due, ma sorretti senza dubbio dalla sue sempre ottime performance. Nel terzo, in particolare, lo vediamo dilettarsi in una duplice versione dell’eroe: una burbera e vendicativa pronta irrimediabilmente a scontrarsi contro l’animo buono e altruista dell'"umano" Clark.

In quegli anni Reeve saprà spaziare abilmente anche in altre pellicole, dimostrando una versatilità che avrebbe fatto di lui un attore completo, capace di calarsi nei ruoli più disparati. Lo vediamo, infatti, nei panni del protagonista Jonatahan Fischer nell’acclamato “Street Smart” al fianco di Morgan Freeman, e in quelli di Jack Lewis nel capolavoro “Quel che resta del giorno” accanto ad Anthony Hopkins e Emma Thompson. L’anno precedente, nel 1992, è tra gli straordinari protagonisti dell’esilarante commedia “Rumori fuori scena” film che porta sullo schermo l’opera di Michael Frayn, appartenente al genere del Teatro nel teatro.

Superman/ Christopher Reeve disegnato da Erminia A. Giordano per CineHunters

 

Tre anni dopo, Il 27 maggio 1995, nel corso di una gara a cavallo a Charlottesville, Christopher Reeve cade brutalmente da cavallo, riportando lo spostamento di due vertebre cervicali. Reeve rimase paralizzato dal collo in giù perdendo l’uso di tutti gli arti. Da allora e per tutto il resto della sua vita rimarrà costretto a vivere su una sedia a rotelle e collegato a un respiratore artificiale. Quando la notizia si spargerà, accorrerà all’ospedale anche il suo fraterno amico, Robin Williams. Erano arrivati entrambi al successo, ma quel patto di un tempo, dettato dai più puri sentimenti di amicizia stava per concretizzarsi in uno scenario purtroppo ancor più drammatico di quello che poteva essere rappresentato dalla difficoltà economica: Robin Williams coprirà gran parte delle spese per garantire all’amico l’uso di una macchina che gli permetta di vivere il più possibile.

Il destino fece una violenta breccia rompendo lo specchio tra la finzione e la verità e distruggendo l’immaginario confine che separa il sogno del cinema con la dura realtà. Il fato così crudele spianò la strada a un esito beffardo e intollerabile. Reeve, che con tale spontaneità era riuscito ad incarnare le fattezze dell’uomo d’acciaio, venne prostrato e immobilizzato da una Kryptonite dilaniante che volle ricordare con estrema crudezza quanto la fantasia possa essere, a volte, spazzata via dall’asprezza della fatalità. L’uomo non era più un “Superuomo”, non era davvero invulnerabile come poteva così tangibilmente sembrare su quel nastro di pellicola. Il suo corpo non era realmente d’acciaio e le sue ossa furono pertanto come frantumate dalla violenza di un imprevedibile e maledetto incidente. La sua forza corporale era venuta meno, le sue gambe avevano ceduto: Superman non poteva più volare su nel cielo. L’imprevedibilità aveva annientato la sicura affidabilità di un sogno, il medesimo che a noi spettatori ci aveva oniricamente illuso che quell’attore fosse ben più di un interprete, ma un vero supereroe dalla robustezza inviolabile.

Dopo l’incidente, Christopher Reeve sarà in prima linea nella lotta sui diritti dei disabili e sulla ricerca per le cellule staminali. Se il suo corpo aveva ceduto, il suo cuore continuò invece a lottare. Con quella sua coraggiosa resistenza stava dimostrando quanto i canoni di quel personaggio continuavano ad appartenergli. Reeve si elevò così ad eroe imbattibile, a un simbolo di ricerca costante di felicità, del superamento di ogni forma di afflizione fisica ma soprattutto mentale. Nel 1998, nonostante le sue condizioni, Reeve offrirà una prova di assoluto spessore nel film per la televisione “La finestra sul cortile”, remake del capolavoro di Alfred Hitchcock, dove, nonostante la suspense registica non sarà paragonabile a quella del Maestro, la prova del protagonista verrà comunque elogiata universalmente fino a fargli ottenere una nomination al Golden Globe come Miglior attore. Tra il 1998 e il 2003 scriverà due libri, in cui racconterà la sua esperienza e il suo stato d’animo, cercando di incoraggiare chi sta vivendo situazioni analoghe e trasmettendo la sua voglia di vivere. Nel 2003 e nel 2004 sarà sul set della serie “Smallville” adattamento televisivo delle origini di Superman.

Il 10 ottobre del 2004, a soli 52 anni, si spegne al Norther Westchester Medical Center di New York lasciando la moglie Dana, il figlio Will, e i figli Matthew e Alexandra avuti da un precedente matrimonio con Gea Exton.

Quel giorno, il Superman di intere generazioni, smise di volare, col cuore e con la mente, per sempre.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

Potete leggere il nostro articolo "Superman - Credere che un uomo possa volare" cliccando qui.

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Batman ritratto da Erminia A. Giordano per CineHunters

Batman venne concepito da un’idea di un artista, tale Bob Kane. Agli stadi embrionali non era che un’immagine fetale, abbozzata, che fiorì nella fantasia fino al giorno in cui l’ora di venire al mondo giunse. La matita e i colori veicolarono la sua nascita come ostetriche e permisero il parto di questa creatura che conobbe la vita su di un foglio di carta, nel momento esatto in cui quella matita finì d’imprimere il suo ultimo tratto. Quel primo disegno andava considerato come un infante che aveva aperto per la prima volta gli occhi al mondo, ancora ben diverso dall’aspetto che assumerà quando maturerà nello sviluppo che i suoi genitori creativi infonderanno in lui. Il primo ritratto di Batman fu uno schizzo delineato con il desiderio di dare essenza ad un supereroe non ancora chiaro e cristallizzato con limpidezza nelle forme e nel costume. Solo un simbolo era evidente sin dal principio: quello di un grosso pipistrello che l’eroe avrebbe dovuto portare sul petto come fosse un emblema. Era Batman, che in quella sua iniziale raffigurazione lasciava echeggiare il suo primo pianto, come fosse venuto al mondo al cospetto dei propri creatori. Bob Kane e Bill Finger lo perfezionarono nelle settimane a venire e gli conferirono il dono della parola, racchiusa in nuvole d’inchiostro. Era il 1939. Ma Batman reificò nel pensiero di Kane ancor prima, essendo stato ispirato da un’immagine anch’essa stampata su carta e risalente addirittura a secoli e secoli antecedenti la data del periodo. Erano i disegni curati a mano da Leonardo da Vinci e rappresentanti il Grande Nibbio, la macchina volante progettata dal Genio tra la fine del 1400 e l’inizio del 1500. Gli appunti didascalici e le illustrazioni del Grande Nibbio furono raccolti dal da Vinci nel Codice sul volo degli Uccelli. Leonardo, che sempre cercò di creare una macchina che potesse replicare il volo degli uccelli e renderlo possibile per l’uomo, realizzò una versione della suddetta idea che mimasse una sorta di volo in planato. L’apertura alare del marchingegno attirò l’attenzione del fumettista che ne trasse suggerimento per creare il mantello dell’eroe, il cui dispiegamento replicava l’apertura alare della macchina e, altresì, dei pipistrelli.

Batman vide la luce nella storia dell’arte, il suo mito si accrebbe col volere della concretizzazione di una fantasia e nel desiderio della scoperta, dell’invenzione. Dalla stretta collaborazione tra Kane e Finger i particolari del costume si accentuarono fino a dar forma all’eroe come lo conosciamo oggi, con un background definito, un’identità umana e una storia. Batman conobbe il mondo quando completò il proprio iniziatico processo di formazione e, come albo a fumetti, venne pubblicato per l’etichetta DC Comics nel maggio del 1939; qualche anno dopo Superman, e prima di Flash, Lanterna Verde e Wonder Woman.

La figura dell’uomo-pipistrello divenne, col passare degli anni, un’icona incomparabile nel mondo del fumetto e nell’immaginario collettivo popolare. Il fascino tenebroso e maledetto del cavaliere oscuro permane tutt’oggi come se non fosse mai stato scalfito dal passare delle decadi. Batman è comparabile a un’opera che conserva la magnificenza originaria, e necessita soltanto sporadicamente di qualche lieve ritocco, eseguito dagli esperti restauratori, i quali correggendo leggermente l’estetica e modernizzando la storia riescono a rendere le sue avventure sempre al passo coi tempi.

Dietro la maschera dell’uomo-pipistrello si nasconde il miliardario Bruce Wayne. Bruce, quando era soltanto un bambino, ha assistito alla morte dei propri genitori, uccisi sotto i suoi occhi da un ladro di strada. Il drammatico evento segnò irrimediabilmente il piccolo, che giurerà sul corpo esanime del padre e della madre, che farà tutto ciò che sarà in suo potere per impedire ad altri di provare la medesima sofferenza arrecatagli da un malvivente. Il trauma cui venne investito da bambino gli farà sviluppare uno stato di diffidenza, di paranoia e sospetto che, da un lato, affinerà le sue straordinarie qualità intellettive e investigative, dall’altro minerà i suoi rapporti con le altre persone. A quella fatidica notte, i suoi creatori fecero risalire alcuni elementi che andranno poi a formare la personalità del protagonista e che fungeranno da spiegazioni esaustive su quella che sarà la sua scelta. Bruce stava guardando uno spettacolo a teatro riguardante la maschera di Zorro. Come lo spadaccino che combatteva per l’indipendenza della sua gente così Batman avrà un costume color nero che potrà aiutarlo a mimetizzarsi tra le ombre. Bruce crescerà tra le cure di Alfred, il suo maggiordomo, e da lui spalleggiato, ma dalla lussuosa residenza, comincerà la sua personale battaglia contro il male che aleggia sulla città e che cercherà d’estirpare con sempre crescente vigore. Batman tutela la città di Gotham, una metropoli rigida, sozza, ricolma di quartieri sudici e periferie traboccanti di delinquenza. E’ una città fortemente inquinata, le cui esalazioni di gas si levano dagli scarichi infiammati, un centro urbano dal sapore antico, ricco di grattacieli che si stagliano alti verso il cielo e che recano sui propri esterni Gargoyle in pietra. Questi scenari gotici sono terreno fertile per le imprese del crociato incappucciato.

Definire Batman un antieroe dark è quanto ma sbagliato. Batman è un giustiziere, un vigilante che accetta volontariamente la propria missione di salvataggio e veglia, e alla sua gente ha offerto, in un patto vincolante, la sua vita. L’adempiere questo compito che non avrà mai fine è lo scopo della sua intera esistenza, ed egli lo assolverà fin quando la sua battaglia contro le forze del male non esigerà la sua morte. Batman non corrisponde quindi ai canoni tradizionali dell’antieroe cinico, disinteressato, che compie l’azione eroica sebbene non voglia volgere completamente se stesso alla causa. Batman è l’esatto opposto, colui che dedica tutto ciò che ha al perseguimento di un obiettivo che non ha mai fine. Al contempo, tuttavia, Batman si differenzia dall’eroe incorruttibile e senza macchia, solare e ottimista, generoso e altruista, tutti criteri personificati da Superman. Batman è un eroe oscuro, deciso, violento con i criminali più efferati, tormentato e distolto. Egli, nella sua interpretazione più classica, agisce sulla linea che demarca i due stadi esistenziali dell’eroismo, quello dell’eroe vero e dell’antieroe, poiché non corrisponde completamente né all’uno né all’altro. Egli vive in una sorta di stasi sospesa tra le due realtà parallele, ed è ciò che calca maggiormente l’unicità di questo supereroe. Batman si differenzia dagli altri personaggi anche perché non possiede alcun superpotere, è un uomo comune, mortale e vulnerabile, ma che si è sottoposto ad addestramenti severi e tempranti che ne hanno fortificato il fisico, le abilità e la tenacia, permettendogli di superare il limite delle possibilità umane.

Batman è l’umanizzazione di una rara forma di paura. Egli deciderà di sfruttare il pipistrello, quel volatile notturno che tanto gli aveva arrecato spavento da bambino per farne un suo simbolo e terrorizzare i criminali. Batman si riveste della sua stessa paura per divenire un demone della notte dal terrificante aspetto che possa seminare il panico nel cuore e nella mente dei malavitosi. Eppure, egli si fa carico di una paura particolareggiata, un sentimento di allerta che da una parte si erge ad effige immateriale di terrore verso tutti coloro che compiono azioni malvagie, dall’altra ha l’obiettivo di costituire l’emblema carnale di giustizia e bontà. La paura intessuta tra i filamenti del mantello di Batman è un’arma contro i criminali di tutto il mondo ma anche un rifugio, come fosse un drappo di velluto sotto cui gli innocenti possono trovare riparo. Timore e speranza possono essere trasfigurati nel simbolismo di due mani che si toccano vicendevolmente e combaciano come epidermide appartenente alla stessa natura, ed esse si uniscono, piegando ogni dito nello spazio corrisposto e lasciato libero dal palmo. Le due mani si stringono in un’univoca presa, rappresentando un’alleanza comune di terrore e speranza. Batman è paura ma è altresì gioia per gli indifesi. Egli agisce nell’ombra ma è come fosse un faro di luce che schiarisce l’oscurità della notte. Il vigilante viene come posseduto da questo continuo dualismo tra luce e oscurità che lo vede sostare nell’ombra come un faro prossimo ad accendersi. Batman è la metamorfosi di una notte buia, di una mezzanotte che rintocca per scandire l’inizio di un’attività criminale senza tregua, ed egli combatte per fermarla prima del sorgere delle prime luci dell’alba: egli è notte che trascorre per garantire un nuovo giorno, che possa essere più sereno di quello già trascorso.

Il Batsegnale che proietta in cielo il simbolo del pipistrello è il grido d’aiuto di un popolo che vede in quel fascio di luce l’allegoria di un provvidenziale salvatore.

La mitologia di Batman è composta da innumerevoli Villan che hanno personalità complesse, pieni di sfaccettature psicologiche e caratteriali con storie curate e approfondite. Tra gli avversari più pericolosi di Batman, Due Facce è colui che più di altri ricalca il tema della dualità, della personalità divisoria che in un mondo governato dal disordine ha come unica fonte di giudizio la sorte, immaginata sotto forma di una moneta, il cui lancio è capace di dare un solo esito tra due possibili scelte. Dopo di lui meritano una menzione speciale:

  • Il Pinguino, dall’aspetto grottesco e dal carattere insensibile e orripilante, che rappresenta una sorta di boss del crimine anch’esso chiamato col nome di un volatile. Vestito con tuba, frac, e munito di monocolo, porta sempre con sé un… ombrello.
  • Lo Spaventapasseri, vera e propria personificazione estetica del fantoccio, che incute paura agli uccelli per allontanarli dalle coltivazioni, diventa esso stesso paura da riversare sul “volatile umano” quale è Batman. Crane è la parte più tetra dell’emozione della paura trattata nelle opere di Batman, trasformando l’astratto terrore immaginato in un incubo che la vittima crede di star vivendo davvero. Se Batman è “paura” avversa ai soli criminali, Crane si eleva al rango di paura universale, metamorfizzata e siffatta ad uomo, che può contagiare chiunque come un’infezione per cui non esiste alcuno antidoto. Lo Spaventapasseri crede fermamente che ogni scelta compiuta dall’uomo sia legata alla paura.
  • L’enigmista, il cui vero nome è Edward Nigma, è una personalità distorta e compulsiva. E’ ossessionato dagli enigmi con i quali anticipa spesso le sue prossime mosse, sfidando le autorità a capire ciò che si nasconde dietro i suoi indovinelli. Nigma è intimorito dall’arguzia di Batman e vuol metterlo alla prova in una sottile sfida d’intelligenza che verte sul comprendere le mosse dell’avversario anticipandone gli indizi contenuti tra gli enigmi.
  • Freeze, glaciale avversario con un cuore di ghiaccio che batte solo per la propria sposa. Freeze adopera con destrezza un’arma congelante e può sopravvivere solo restando all’interno di una speciale tuta criogenica che mantiene la temperatura del suo corpo al di sotto dello 0.
  • La velenosa e bellissima Poison Ivy, crudele madre natura somigliante a un’eterea ninfa dei boschi che cammina a piedi spogli restando nuda, rivestita di sole foglie. Ella è in grado di dar voce e anima alle piante ed è il simbolismo vivente della feroce vendetta della natura sull’indifferenza dell’uomo.
  • Bane, colossale nemico dotato di una forza sovrumana alimentata dal Venom.
  • L’immortale Ra's al ghul che anela a un utopistico mondo privo di criminali e che ricerca il bene generando altro male in un’esistenza che verte all’eternità.
  • Hugo Strange, sadico psichiatra dalla sopraffina intelligenza.

La galleria dei nemici comprende molti altri avversari di spessore. Tra questi, villan come Clayface, Killer Croc e Solomon Grundy rappresentano uno stadio successivo, dove la deformità della mente tipica dei precedenti avversari viene sostituita da una mostruosità nel corpo.

Contro ognuno dei suoi acerrimi nemici, Batman sperimenta una sfida che ne mette a dura prova la resistenza, l’audacia e la perspicacia. Lo Spaventapasseri, ad esempio, sfida le paure inconsce e mai superate di Batman, Ra's al ghul i suoi intoccabili dogmi di incorruttibilità e di discernimento tra moralità e immoralità, e Poison Ivy, come l’antieroina Catwoman, con la sua bellezza fa vacillare la sua resistenza in quanto tentazione sensuale del male. Le pulsioni sessuali che Bruce prova nei confronti delle donne fatali quali possono essere Poison Ivy, Talia al Ghul e Harley Quinn vengono sublimate nel suo intenso e passionale rapporto con Selina Kyle, la più rappresentativa tra le donne pericolose che è riuscita a far invaghire Batman di lei e a costruire un rapporto in cui l’amore e l’odio si intrecciano in un contesto avventuroso e d’azione. 

Ad allietare la solitudine di Batman sono i personaggi di Robin, Nightwing e Batgirl, divenuta poi Oracle, ed in particolare Alfred che riveste il ruolo di padre adottivo, alleato e confidente. Tuttavia, la misantropia di Bruce è un male incurabile. L’astraente senso del dovere che lo opprime gli impedirà di poter mai vivere una vita normale.

Bruce Wayne, come vollero Bob Kane e Bill Finger, è un figlio dannato. Un cavaliere maledetto, ossessionato dalla reminiscenza della morte dei suoi cari genitori. Egli vive schiacciato da un irrazionale senso di colpa che lo conduce a sentirsi come responsabile della loro morte. Batman è un eroe disturbato, la cui “sofferente pazzia” trova ristoro nella battaglia per un fine superiore. Quella di Batman è un’assuefatta follia razionale che viene sepolta sotto il peso dell’armatura che lo aiuta a tollerarne il dolore. Quella che definisco la sua follia razionale è diametralmente opposta alla follia irrazionale, insana e omicida del Joker, la sua nemesi. Batman e Joker sono due facce di una medaglia che li vede uno contro l’altro, in una atavica battaglia tra bene e male. Joker è ossessionato dalla sua esistenza, ed è attratto da ciò che rappresenta l’eroe mascherato non l’uomo. Batman è la democrazia equilibrata, Joker l’anarchia dell’insurrezione sregolata. I due vengono stilisticamente rappresentati in maniera opposta anche per un piccolo dettaglio che molto spesso sfugge all’attenzione: la seriosità e l’ilarità.

Joker genera l’incubo reale di una felicità spensierata e senza regole che sfocia nella cruenta apatia. Quello di Batman è un temperamento drammatico, afflitto, angoscioso, quella del clown è invece una lucida follia, esternata in una risata inquietante che trova piacere nell’attuazione del dolore. Batman soffre e alimenta la bontà insita del suo animo nell’afflizione, Joker incrementa la propria malvagità nella vivacità macabra della comicità. Nella contrapposizione tra Batman e il Joker, la drammaticità rappresenta il bene e l’ilarità il male. La compromessa sanità mentale di Batman ricerca l’ordine, l’instabilità mentale del Joker il caos, in un continuo gioco fatale che li vede contrapposti.

L’architettura imperscrutabile del palazzo mentale qual è la mente di Batman è paragonabile alle salde mura di Arkham, dove restano segregate nelle profondità irraggiungibili delle celle le torbide paure e i tormenti ansiogeni di un uomo che ha trasformato il dolore in fuoco che arde per dar calore e fiamma al suo volere.

Batman custodisce dentro di sé uno spirito crucciato, un animo desolato e oppresso. Le sue disperate fatiche compiute sempre con enorme rischio sembrano voler far intendere che Batman non tema mai la morte e che l’accolga come una liberazione. Come un autunno prossimo a cessare, l’anima del cavaliere oscuro può essere descritta come un paesaggio malinconico con cumuli di foglie rattrappite che giacciono senza vita e colore sul freddo terreno. E’ lo spirito di un uomo che vive da sempre in un interminabile inverno, stagione che avverte interiormente e che scandisce ogni giornata della sua vita con pioggia copiosa e nevicata incessante. Batman vive in un lungo inverno che non può essere ravvivato da alcun soffio estivo. E’ proprio in una notte gelida che Batman appare in piedi sulla cima di un palazzo, quando la luna piena su nel cielo sembra essere alle sue spalle e un fulmine che tuona dal nulla illumina per qualche istante la sua sagoma minacciosa.

Batman è mente pensante che riflette sull’asperità dell’esistenza con il gelo dell’inverno, la sola atmosfera che lo avvicina ad un senso di quella chiusura intima che motiva la propria battaglia. Bruce nella malinconica bellezza dell’inverno ha trovato se stesso, la sua doppia vita, la sola causa eroica che dà un senso normale a un mondo anormale.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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