"Le 5 leggende" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
"Era festa dovunque: in ogni chiesa, in ogni casa: intorno al ceppo, lassù; innanzi a un Presepe, laggiù; noti volti tra ignoti riuniti in lieta cena; eran canti sacri, suoni di zampogne, gridi di fanciulli esultanti, contese di giocatori... E le vie delle città grandi e piccole, dei villaggi, dei borghi alpestri o marini, eran deserte nella rigida notte. E mi pareva di andar frettoloso per quelle vie, da questa casa a quella, per godere della raccolta festa degli altri; mi trattenevo un poco in ognuna, poi auguravo: Buon Natale e sparivo...
Ero già entrato così, inavvertitamente, nel sonno e sognavo. E nel sogno, per quelle vie deserte, mi parve a un tratto d'incontrar Gesù errante in quella stessa notte, in cui il mondo per uso festeggia ancora il suo natale. Egli andava quasi furtivo, pallido, raccolto in sé, con una mano chiusa sul mento e gli occhi profondi e chiari intenti nel vuoto: pareva pieno d'un cordoglio intenso, in preda a una tristezza infinita."
Da "Sogno di Natale" di Luigi Pirandello.
Come un'illusione, un miraggio, una visione onirica, un sogno per dirla alla buona; il Natale è un'ebbrezza più che una festa, un pensiero raggiante e confortante, ed il mese di dicembre è un periodo intriso di un'astratta e caduca magia incassata tra la fine e il principio, il crepuscolo e l'alba di un anno che muore con le sue aspettative disattese e che sorge con le sue speranze sempre nuove.
Nell'augurarvi Buone Feste vi invitiamo a trascorrere parte delle vostre vacanze qui con noi, leggendo alcuni dei nostri articoli a tema natalizio. Potete "sfogliarli" cliccando ai seguenti link.
Inchiostro e calamaio – Lo stregone rosso. Per leggerlo cliccate qui.
Inchiostro e calamaio – Storia di uno Schiaccianoci. Per leggerlo cliccate qui.
Il canto di Natale di Charles Dickens – Sei fantasmi per due “canti”. Per leggerlo cliccate qui.
Ebenezer Scrooge - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
Le 5 leggende – La storia di Jack Frost. Per leggerlo cliccate qui.
Inverno di punizione, inverno di redenzione – La Bella e la Bestia: un magico Natale. Per leggerlo cliccate qui.
Il miracolo della 34ª strada (1947) – Tra genio e follia. Per leggerlo cliccate qui.
Fredda è la mano, le ossa e il cuore… – La piccola fiammiferaia. Per leggerlo cliccate qui.
Inchiostro e calamaio – Esuli pensieri – “Monologo” di Mr. Freeze. Per leggerlo cliccate qui.
“Una poltrona per due” – Un rito sociale. Per leggerlo cliccate qui.
"Babbo Natale" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
Inchiostro e calamaio - Il dissolversi della Befana. Per leggerlo cliccate qui.
“Batman Returns” – Compassionevole mostruosità. Per leggerlo cliccate qui.
Cinque personaggi in cerca di un’uscita – The Twilight Zone. Potete leggerlo cliccando qui.
Quando viene dicembre... - Anna ed Anya: i due volti di Anastasia. Potete leggerlo cliccando qui.
L’unica arma che ci rimane – Le maschere “incantate” di Stanlio e Ollio(Con recensione del classico natalizio "Nel Paese delle Meraviglie"). Potete leggerlo cliccando qui.
A ridosso delle festività natalizie avete per caso voglia di leggere qualche classico disneyano? Poco più sotto, vi aspettano alcuni articoli dedicati ai classici Disney che sanno di "festa".
La Bella e La Bestia disegnati da Erminia A. Giordano per CineHunters
“LA SIRENETTA” – Dall’opera letteraria di Hans Christian Andersen a quella cinematografica della Disney: capolavori a confronto. Potete leggerlo cliccando qui.
La Sirenetta – Ancor prima che da un principe, è stata amata da un re… - Potete leggerlo cliccando qui.
“La spada nella roccia” – Corona di Semola. Potete leggerlo cliccando qui.
Inchiostro e calamaio: Nel mondo dei giocattoli – Toy story, il soldatino e la ballerina. Potete leggerlo cliccando qui.
"Mulan e il suo riflesso" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
Non si udiva nulla quella sera, nient’altro che il lieve soffio del vento. La brezza era debole e riusciva a malapena a far muovere gli stendardi issati sulle torri. La terra era stata inghiottita da una fitta tenebra e su tutto l’orizzonte era calato un velo d’ombra.
Il soldato poneva attenzione, ma non sentiva né vedeva alcunché. Questi camminava irto sui suoi stivali, reggendo in mano una lancia dalla punta argentea. La volta celeste era sgombra di nubi. La luna piena campeggiava sul tetto del mondo, rischiarando a fatica l’oscurità della notte con il suo tenue bagliore. D’un tratto, qualcosa ruppe il silenzio.
Un’aquila, sbucata dal nulla, planò in picchiata sulla testa del soldato, ghermendogli l’elmo con i suoi poderosi artigli. Lo stridulo dell’animale echeggiò lungo tutta la Grande Muraglia. L’uomo sollevò il capo, vide il rapace librarsi sulla porzione di cielo sopra di lui, quindi poggiarsi sull’estremità dell’asta di una bandiera. L’aquila emise ancora il suo verso roco e dal buio affiorò un gancio nero che colpì la roccia. Il soldato si avvicinò al limite della costruzione e scorse una miriade di artigli salire dal fondo, laggiù oltre i contorni della fortezza e agganciarsi ad essa. L’invasione era appena cominciata.
L’armata degli Unni scalava rapidamente le maestose mura, guadagnandone la vetta e penetrando oltre i confini. Il soldato fu circondato. Dinanzi a lui si stagliò un’immensa figura incappucciata. Era avvolta in un mantello tra il nero e il grigio antracite, aveva occhi gialli, denti possenti e affilati. Costui non era uno straniero qualunque ma Shan-Yu, il comandante dell’esercito Unno. Il soldato cinese, in un ultimo, disperato tentativo di dare l’allarme, appiccò il fuoco alla torre di guardia. Le altre torri scorsero il segnale e risposero facendo altrettanto. In pochi istanti le fiamme si propagarono di torre in torre e il messaggio fu colto dai più: la Cina era appena stata attaccata.
I fuochi che ardono sulle torri di guardia al principio di "Mulan". Potete leggere di più su "Il signore degli anelli - Il ritorno del re" cliccando qui.
Comincia in tal modo “Mulan”, in una notte serena, tacita, scossa improvvisamente dal volo di un’aquila che piomba dall’alto, all’improvviso, senza alcuna avvisaglia. L’animale sembra presagire l’avvento di una minaccia imprevista, fino ad allora sfuggita allo sguardo attento delle vedette poste a guardia della Grande Muraglia. L’esercito Unno, protetto dalle tenebre, viene avvistato quando è ormai troppo tardi. Ai soldati cinesi lì presenti non resta che dare l’allarme. Il fuoco arde così da una torre all’altra torre e poi all’altra ancora, trasmettendo un messaggio chiaro come il bagliore da esso prodotto.
La scena iniziale di “Mulan”, in cui i soldati usano il fuoco per segnalare l’inizio dell’invasione, ricorda una sequenza de “Il signore degli anelli – Il ritorno del re”. In quest’ultima opera, la città di Minas Tirith - cuore pulsante del regno di Gondor - è prossima ad essere assediata dall’esercito di Sauron. I fuochi della città vengono pertanto accesi, non senza qualche piccola difficoltà.
Le fiamme si sprigionano da una pira sita in un’alta torre contornata da pietre candide come il marmo. Il fuoco viene immediatamente notato in lontananza. Sulle montagne, una seconda pira viene quindi data alle fiamme per segnalare la richiesta di soccorso della città bianca. Di colle in colle, i roghi che ardono parlano da soli e recano in sé un’accorata richiesta d’aiuto. I fuochi di Minas Tirith giungono sino ai confini del reame di Rohan, alleato del regno di Gondor. Scorgendo quella macchia rossa che brilla intensamente fra le costole dei colli, la gente di Rohan, senza indugio, decide di rispondere alla chiamata di Minas Tirith.
Ne “Il Signore degli anelli – Il ritorno del re” il fuoco assume i contorni di una metafora: la metafora di una speranza che divampa, che si propaga di terra in terra, portando con sé l’auspicio di unità fra i popoli. I fuochi di Minas Tirith bruciano per segnalare il sopraggiungere di un nemico comune, l’avanzata di un avversario inarrestabile ma altresì ardono per infondere coraggio negli animi dei timorosi, per rammentare un’antica alleanza e per ribadire che solo attraverso la vicinanza e la fratellanza tra la gente libera della Terra di Mezzo il male - che è divisivo per sua natura - può essere sconfitto.
Così come mostrato ne “Il ritorno del re”, anche in “Mulan” le fiamme che iniziano ad ardere su di una torre si diffondono da un punto all’altro per raggiungere sempre più persone con il loro messaggio. Il fuoco è un elemento primordiale, dalla forza spesso distruttiva, che si nutre di ciò che consuma, tuttavia in “Mulan” esso diventa un veicolo di speranza. Le fiamme delle torri della muraglia sfavillano per avvertire e per offrire una possibilità di salvezza. Il fuoco in “Mulan” non consuma ma sprigiona una voglia di “vita”, di “libertà”, di “resistenza”, spronando il popolo cinese a unirsi e a prepararsi alla battaglia.
La notizia dell’invasione giunge fino al palazzo dell’Imperatore. Questi sottoscrive avvisi di arruolamento per tutte le province dell’Impero. Ogni famiglia dovrà offrire un rappresentante maschile che dovrà unirsi all’esercito regolare e alle sue riserve. L’Imperatore è fermamente convinto che un solo chicco di riso può squilibrare la bilancia, e che un solo uomo può segnare la differenza tra la vittoria e la sconfitta. Un solo uomo, già!
Un solo uomo può capovolgere le sorti di un confitto. E se fosse una donna a cambiare il destino di un popolo? Nessuno si era mai posto una domanda simile fino ad allora.
Eppure, quando l’Imperatore ha finito di pronunciare il suo discorso, di affermare che un singolo uomo può segnare la differenza tra il trionfo e la dipartita, l’immagine sulla pellicola inizia a sbiadire sino a scomparire del tutto, per far posto ad una nuova “icona” rappresentata da dei chicchi di riso all’interno di una ciotola, dove le due canoniche bacchette, guidate da una mano femminile rimestano i granelli, per poi isolarne uno soltanto. Già, una mano femminile! Proprio così, una donna.
È lei che “pizzica” quel chicco, che lo separa dagli altri e lo allontana. Ed è sempre lei che raccoglie una porzione adeguata di riso e se la porta alla bocca. Le parole dell’Imperatore sembrano riecheggiare ancora in questa sequenza, con un'unica differenza: il chicco di riso in grado di squilibrare la bilancia non ha “l’aspetto” di un uomo, ma di una ragazza assorta nei suoi pensieri e nel suo parlato.
“Silenziosa… E schiva” – ella dice. “Aggraziata, cortese…” – continua a sostenere, mentre gusta il suo riso. “Delicata…” – borbotta con la bocca piena. “Raffinata, ponderata, puntuale!” – finalmente conclude.
Mulan, è questo il nome della ragazza che assaggia il riso, vive in un piccolo villaggio della Cina. Ella è l'unica figlia della famiglia Fa. In quelle prime ore del mattino Mulan è intenta a studiare, se così si può dire. Alcuni concetti che continua a ripetere a voce alta le sfuggono dalla mente e non riesce a farli suoi.
“Silenziosa, schiva, aggraziata… Cosa veniva dopo aggraziata?” - Mulan sembra domandarselo tra sé. Quelle virtù che le donne devono conoscere e possedere Mulan fatica a memorizzarle, forse perché non fanno parte del suo “mondo”. Mulan è, infatti, diversa da tutte le altre ragazze del villaggio. È speciale, sebbene nessuno se ne sia mai accorto. Neppure lei stessa.
Mulan è terribilmente in ritardo. Quando se ne accorge sfreccia per le vie cittadine, correndo all’impazzata verso la mamma e la nonna che la stanno aspettando impazientemente. Le due si danno da fare per rendere Mulan ancora più bella di come appare quotidianamente. Le danno una bella strigliata, le sistemano l’acconciatura, la truccano con del cerone bianco a valanga sul viso e del rosso a rimpolpare le labbra.
Quel mattino, Mulan ha una prova molto importante da superare. Deve portare onore alla sua famiglia nell’unico modo in cui una fanciulla può farlo nella società patriarcale cinese di quegli anni: ovvero diventando la sposa di un uomo di buona famiglia. Per fare ciò, Mulan deve essere messa sotto esame da una corpulenta “paraninfa”, che dovrà giudicare le qualità da futura moglie della ragazza. Inutile dire che la giovane, durante la seduta d’esame, provocherà un disastro dietro l’altro e farà rientro a casa con una cocente delusione.
Mulan si sente inadatta, diversa, come se ancora non avesse trovato il proprio posto nell’ordine delle cose, come se ancora non sapesse chi è in realtà e a cosa aspiri. La fanciulla avanza lungo il giardino della sua dimora, e osserva il proprio volto riflesso in uno specchio d’acqua. Ella non riconosce sé stessa. È ancora truccata in viso, ma non è certamente per quello che non riesce a identificarsi. È qualcosa di più recondito, intimo, ancestrale che si cela oltre lo strato di epidermide. Mulan guarda il suo riflesso, confuso e incerto, e non riesce a renderlo nitido. Comincia così ad intonare un canto. Attraverso quella melodia, Mulan si chiede chi è l’ombra che riflette la sua figura, un’ombra che non corrisponde ai suoi desideri.
Già, un’ombra. Mulan osserva quella proiezione di sé e non riesce a schiarirla, a farla sua. Ma cos’è in realtà un’ombra?
L’ombra è parte di noi, è un prolungamento della nostra fisicità, della nostra corporalità. Essa non ha colore, ha soltanto la nostra forma. Non ha occhi, non possiede dettagli, non mostra lineamenti o segni sul proprio viso. L’ombra è una macchia nera, attaccata a noi, che ci segue di pari passo. È un “riflesso” che ci scruta e ci accompagna, ma è altresì un’immagine di noi oscura, priva di particolari, di caratteri che rendono il nostro aspetto dissimile ed unico. Talvolta, l’ombra può essere così diversa dal noi da staccarsi, da allontanarsi. Lo scrittore Hans Christian Andersen immaginò un qualcosa di eguale.
L'uomo colto e l'ombra, Illustrazione di Vilhelm Pedersen. Potete leggere di più su Hans Christian Andersen e le sue opere cliccando qui e poi qui. Ora che ci penso potete cliccare anche qui, poi qui ed infine qui.
Nella sua fiaba “L’ombra” - uno dei suoi scritti più oscuri e inquietanti - Andersen raccontò la storia di un uomo colto, proveniente da luoghi molto freddi, che giunse, un bel giorno, in un paese caldo, dove il sole picchiava con prepotenza e la gente, sotto i suoi raggi, diventava bruna come il mogano o nera quasi come la pece.
Quest’uomo era costantemente “braccato” da un’ombra smilza come lui, che diventava sempre più allungata, ferma, immobile contro una parete ogni qual volta una fonte luminosa illuminava la figura di quest’individuo profondamente erudito.
Una sera, questo straniero si sedette su di una piccola seggiola nella veranda; alle sue spalle brillava la tenue luce di una candela. Essa lo illuminò, proiettando la sua ombra innanzi a lui. All’inizio, egli non ci fece caso, la ignorò, assorto com’era nelle sue letture. L’ombra dell’uomo si era posata sulla parete della casa di fronte, e imitava le azioni del suo “padrone”. L’uomo sfogliava le pagine del libro che aveva in mano e l’ombra faceva lo stesso. Essa giaceva lì davanti, tra i fiori del terrazzo. Dopo un po’, l’uomo alzò lo sguardo e vide la sua ombra. Quest’ultima gli ricambiò attenzione, mimando lo stesso gesto. Per un po’ si guardarono. Poi, l’uomo rivolse la vista al grazioso palazzo che aveva dinanzi: sembrava una casa accogliente, piena di belle cose.
“Credo che la mia ombra sia l'unica persona vivente che si vede laggiù!” - disse l'uomo colto. “Guarda come sta seduta con garbo tra i fiori, la porta è socchiusa; adesso l'ombra dovrebbe essere tanto accorta da entrare, guardarsi intorno, e poi tornare a raccontarmi quello che ha visto. Eh già, dovresti farmi questo piacere!” – proseguì a borbottare con ingenua speranza. Attese, come se davvero si aspettasse che la sua ombra potesse muoversi da sola e addentrarsi in quella bella dimora. L’ombra restò ferma a guardarlo e a fargli il verso. I minuti passarono e l’uomo decise di rientrare nel suo alloggio. Così, volse le spalle al terrazzo. Proprio in quell’attimo l’ombra si mosse, come animata da un afflato tutto suo.
L’ombra entrò di sua iniziativa in quella casa, e lì stette. L’uomo non lo sapeva ancora, ma la sua ombra era diventata viva, cosciente. Laggiù, lontana dallo sguardo dell’uomo, iniziò il suo viaggio in solitaria, la sua lenta peregrinazione verso la propria affermazione, il proprio riconoscimento.
Quell’ombra era tetra, furba e malvagia. Se l’uomo l’avesse osservata attentamente si sarebbe accorto che quell’ombra non era una proiezione di sé, bensì la proiezione di una parte di sé: la più ambiziosa, diabolica, superba del suo animo.
Venne il giorno successivo. L’uomo colto non badò a null’altro che ai suoi studi, durante le ore diurne. La sera, egli uscì sul terrazzo e si accorse di non vedere più la sua ombra. Capì che era fuggita, e ne restò colpito. Dov’era andata? Che fine aveva fatto? Sarebbe mai tornata? Tante domande affollarono la mente dell’uomo ma nessuna ottenne risposta.
Passarono molti anni e un bel giorno bussò alla porta dell’uomo dotto una persona tanto magra da far spavento, alta quanto lui.
“Non mi riconosci?” – domandò il misterioso visitatore.
“Riconoscervi? Oh cielo, ci siamo già incontrati?” – rispose, sconvolto, lo studioso.
“Sono la tua ombra” – sibilò la silhouette.
Il colto interlocutore spalancò la bocca. Ciò che aveva innanzi a sé non somigliava minimamente ad un’ombra. Si trattava invece di una sorta di essere vivente dotato di voce, volto, e tanto d’incarnato; un esile corpo maschile, direi striminzito ma in salute. L’ombra aveva un’andatura elegante, era ben vestita e portava attorno al collo una vistosa collana d’oro e anelli alle dita.
“Dove sei stato in tutti questi anni?” – chiese l’erudito.
L’ombra prese posto in salotto e si compiacque nel narrare le sue traversie. Aveva girato il mondo, conosciuto le sue meraviglie, i suoi segreti. Aveva osservato il bello ed il brutto del creato, e aveva appreso il male. Lo aveva fatto suo, e lo aveva seminato in ogni luogo in cui si era recata. Quando finì di parlare, l’ombra imboccò la porta e sparì nuovamente.
Passarono degli anni. L’ombra si ripresentò e chiese all’uomo colto, divenuto nel frattempo stanco e malaticcio, di accompagnarla in uno dei suoi lunghi viaggi. Questi non poté rifiutare, mosso com’era da un’insana curiosità di trascorre del tempo con quella che fu la sua “metà”.
Nei loro lunghi spostamenti l’uomo era solito camminare alle spalle dell’ombra, talvolta gli veniva concesso di restarle accanto ma raramente. Ovunque andassero, l’ombra parlava per prima, zittiva il suo compagno di viaggio, si presentava agli altri col piglio di chi comanda. Nessuno poneva gli occhi sull’uomo, come se questi stazionasse nell’oscurità e si limitasse a seguire il suo padrone, senza possedere il benché minimo spirito di iniziativa.
L’uomo diveniva sempre più stanco, provato da un’esistenza lunga e spossante. Passarono gli anni. Lentamente, l’uomo colto e buono si trasformò nell’ombra e l’ombra superba e cattiva divenne a tutti gli effetti il padrone. Quando fu troppo tardi per capire ciò che era avvenuto, l’uomo fu raggiunto dal tradimento e dalla morte e l’ombra si prese tutta la sua vita.
Potrebbe succedere davvero che un’ombra sostituisca il suo padrone? Potrebbe accadere che un essere umano lasci che il suo riflesso prenda il sopravvento sulla sua volontà o divenga indipendente?
In un altro racconto fantastico, un’ombra tentò di recidere il legame col suo padrone. Quanto affermo capitò a un ragazzo che sapeva volare e non voleva saperne in alcun modo di crescere. Come si chiamava? Vediamo… Ah, sì, un certo Peter Pan.
Potete leggere di più su Peter Pan cliccando qui. E perchè no, fate un salto anche qui.
La sua ombra era solita allontanarsi da lui, volare via perché non intendeva restargli accanto. Peter la inseguiva costantemente, per riunirsi a lei, per diventare un tutt’uno con il suo riflesso. Un giorno, Peter, per recuperare la sua ombra, lasciò il suo territorio, l’Isola che non c’è, e volò fino al nostro mondo. L’ombra si era annidata nella camera di una giovane fanciulla, Wendy. Peter inseguì la sua metà fin laggiù e vide la sua ombra che ondeggiava sulla parete, a pochi passi dal letto di Wendy. Il ragazzo che sapeva volare si lanciò contro il muro, afferrò la sua metà e tentò di legarla a sé con ago e filo. Spaventata dal frastuono, Wendy si svegliò e domandò chi fosse quell’intruso. Peter si presentò e spiegò con garbo la sua strana disavventura. L’ombra gli era sfuggita dalle mani nuovamente, quel “riflesso” proprio non ne voleva sapere di unirsi a lui. A volte capita. L’ombra di una persona può non corrispondere affatto al suo padrone: essa può assumere una forma singolare, tanto diversa da non essere riconosciuta dal legittimo proprietario.
L’ombra di Mulan aveva un qualcosa di simile all’ombra descritta da Andersen e a quella inseguita e bramata da Peter Pan. Vedete, l’ombra della ragazza non era un’ombra “viva”, senziente e quindi in grado di scappare via, di sfuggire allo sguardo di Mulan come accadde all’uomo dotto o al giovane capo dei bimbi sperduti.
L’ombra di Mulan non osava incamminarsi per la sua strada, staccarsi da lei. Eppure, anche quell’ombra non apparteneva del tutto alla donna che la proiettava. Pareva un’entità a sé stante, lontana, irriconoscibile. Mulan osservava la sua ombra e non la discerneva, come se la figura che il suo corpo proiettasse non corrispondesse ai suoi voleri, alle sue aspettative.
L’ombra di Mulan, come tutte le ombre, la segue e la osserva. Lei ricambia il suo sguardo spento e cerca di indagarla. Quell’ombra che Mulan vede e che non riesce ad afferrare, a far sua all’inizio del film, è l’ombra di una sposa ubbidiente, di una figlia devota, che deve essere accondiscendente, taciturna, ponderata, raffinata, puntuale, tutte quelle cose che Mulan cerca di approfondire al principio della sua storia e che proprio non coincidono con la sua vera personalità.
Mulan non vuole essere una semplice sposa, una donna senza sogni o speranze. Una creatura femminile che vive con il solo scopo di servire il marito, badare alla casa o alla crescita dei figli. Mulan vuole di più, e cerca ancora di capire qual è la strada che vorrà intraprendere. L’ombra che Mulan mira quando fa ritorno a casa è un prolungamento che non riconosce, perché è il riflesso dei desideri di chi le sta accanto, la sua famiglia, i suoi conoscenti; auspici che lei stessa non può e non potrà mai soddisfare perché non corrispondono ai suoi autentici sogni. Mulan non lascerà mai che la sua ombra – l’insieme delle richieste della società patriarcale che la circonda – fagociti sé stessa, che si sostituisca a lei come accaduto all’uomo erudito della fiaba di Andersen. Allo stesso tempo, come Peter Pan che insegue la sua ombra per divenire un tutt’uno con lei, anche Mulan vuole che la sua ombra assuma i contorni del suo vero “Io”, si unisca a ciò che sente nel suo ego, nella sua intimità.
Tutto questo, oltre che per l’ombra, vale anche per il riflesso chiaro ed evidente che la fanciulla vede allo specchio. Mulan contempla più volte sé stessa sulla fredda superficie riflettente. La sua faccia, nella sequenza del film in cui canta il brano “Riflesso”, è ancora impreziosita da un trucco candido. Così, Mulan cerca di toglierlo e il suo volto rimane per un istante diviso a metà: da un lato la sua pelle nuda, ciò che lei è, dall’altro la cute dipinta di bianco, il trucco da sposa, ciò che lei dovrebbe essere.
Così Mulan seguita a cantare cercando di interrogare sé stessa, di scoprire chi è davvero. Dopo aver rimosso completamente il trucco dal volto, Mulan scioglie i suoi capelli. La chioma bruna le scende lungo la schiena. Quei folti capelli che Mulan libera non appena rimuove il trucco saranno i caratteri del suo aspetto che per primi cambieranno non appena avrà compiuto la sua scelta finale. Infatti, quando Mulan deciderà di indossare l’armatura del padre e di partire per il campo di battaglia, la giovane taglierà i capelli con la sua spada, rimuovendo quella parte di sé che accarezzava con la mano quando intonava il suo canto, cercando di capire chi fosse e cosa volesse.
Triste e sconfortata, Mulan siede vicino al padre. Entrambi si trovano immersi nel verde del loro giardino. Accanto ai due, un albero meraviglioso mostra dei rosei fiori appena sbocciati. Il padre se ne compiace. Egli cerca di distrarre la figlia da tutte le preoccupazioni che l’attanagliano. Quindi, attira la sua attenzione. “Che bellissima fioritura che abbiamo quest’anno” - egli dice. E poi nota che c’è un fiore non ancora fiorito. “Ma guarda… quello è in ritardo. Scommetto che quando sboccerà diventerà il fiore più bello di tutti”. Dicendo ciò, il papà raccoglie un pettine a fermaglio e lo avvicina ai capelli della figlia. Mulan sorride rincuorata. Non sa ancora che è proprio lei quel fiore di cui il papà parla, colei che ancora non è sbocciata, ma quando lo farà i suoi petali saranno i più floridi e i più soavi.
Dopo qualche minuto, al villaggio arrivano i messaggeri dell’Imperatore che ordinano ad ogni famiglia di inviare un rappresentate maschile in veste di combattente. La famiglia Fa non ha eredi maschi, dunque il padre di Mulan, un uomo valoroso ma vecchio e per giunta ferito, accetta di partire di nuovo per la guerra. Mulan è disperata: sa benissimo che il suo anziano padre non potrà sostenere il peso di una battaglia. Pertanto, la giovane tenta di convincerlo a rifiutare la chiamata ma il padre non può farlo, ne va di mezzo l’onore della famiglia. Durante la cena a casa Fa, Mulan implora il genitore di disertare ma questi si infuria: “Io so qual è il mio posto” – egli sbotta – “È ora che impari qual è il tuo”.
Già, ma qual era il posto che Mulan avrebbe dovuto conoscere e rispettare? Quello della donna tacita e accondiscendente? Fortunatamente, Mulan avrà la forza di fare ciò che reputerà giusto e troverà da sola, attraverso le sue gesta, la propria dimensione.
Di donne che non hanno rispettato il proprio “posto” o, perlomeno, “il posto” che la società del tempo impartiva loro, ce ne sono state tante. Alcune di esse sono passate alla storia e sono divenute fulgidi esempi di coraggio e abnegazione, donne pronte a dare la propria vita per ribellarsi a qualcosa che ritenevano ingiusto. Pensate ad Antigone, la donna protagonista della tragedia greca di Sofocle che non accettò di starsene al suo posto, e che fronteggiò i suoi oppositori con il valore delle sue parole e con il peso delle sue azioni.
Parte del vissuto di Antigone e della sua lotta vengono già accennati negli ultimi passi dell’opera di Eschilo “I sette contro Tebe”. La tragedia di Sofocle – che pone per l’appunto Antigone come assoluta catalizzatrice delle vicende – narra ciò che avvenne dopo la conclusione del dramma eschileo. Il mito di Antigone, che desidera seppellire il fratello Polinice sebbene quest’ultimo sia perito combattendo fra i ranghi dei nemici di Tebe non meritando, quindi, gli onori funebri, affonda le radici nelle leggende della stirpe di Edipo.
Antigone segue la voce del suo cuore, i sussurri della sua coscienza. Ella conosce la legge della sua città e il volere del suo nuovo Re, Creonte, ciò nonostante ad essi si ribella. Antigone non può accettare che il corpo senza vita del fratello Polinice venga abbandonato, pertanto si erge contro un dettame che reputa disonorevole ed errato.
Per Sofocle, Antigone è una creatura femminile segnata dal dolore; una donna che ha veduto la sua giovinezza sfiorire in un attimo, divenendo vecchia alle soglie della fanciullezza, quando l’evento tragico si abbatté sulla sua famiglia e in particolare sul padre Edipo. Dalla sofferenza, Antigone trae la forza necessaria per compiere la sua battaglia personale. Lo spirito di Antigone è dominato da una nobile passione che trascende il comune sentimento umano. Antigone agisce di sua volontà, viola le leggi della sua città e copre di terra il corpo privo di sepoltura del fratello, e lo fa con un coraggio senza eguali, conscia che così facendo andrà incontro alla sua stessa morte. Ciò che Antigone vuole far rispettare è una legge non scritta, secondo la quale i defunti, tutti, devono essere seppelliti con rispetto, comprensione e umanità. Creonte, al contrario, intende far rispettare la legge dello Stato, ignorando con superbia la legge morale. Antigone non intende piegarsi, restare al posto che il sovrano le ordina; ella lotta per quello che reputa corretto, rifiuta ogni compromesso, si isola e si irrigidisce in un radicale scontro col mondo e l’intera società che la circonda. Antigone sfida l’ordine costituito, il costume della sua epoca e lo fa per proteggere l’onore del fratello caduto e da lei ancora amato.
Come Antigone, Mulan, la protagonista dell’opera disneyana, sfida la legge del suo tempo per proteggere il proprio padre, costretto a prendere parte a una guerra da cui non sarebbe mai più tornato. Mulan, con la medesima sfrontatezza e audacia del personaggio cardine della tragedia sofoclea, ragiona con la sua testa, ignora una legge sbagliata, capovolgendola, mettendola in discussione, e lo fa mutando il suo aspetto, mascherando sé stessa, senza però perdere la femminilità di cui è portatrice. Al pari di Antigone, Mulan è una donna che riscrive il proprio posto con fermezza e animosità, mettendo in pericolo la propria vita per un fine superiore.
Dopo la cena con i suoi genitori, bruscamente interrotta dalla rabbia momentanea del padre, Mulan va via e si lascia andare ai pensieri. Durante la notte viene giù una pioggia intensa; la fanciulla, osservando ancora il proprio riflesso nell’acqua cristallina, prende la sua decisione. Chiedendo perdono ai suoi antenati, Mulan ruba l’armatura del padre e raccoglie fra le sue mani la spada. La lama estratta dal fodero brilla sul viso della protagonista, mostrando l’immagine del suo volto deciso. Con quella spada, Mulan taglia parte dei suoi capelli, segno della sua femminilità, del suo sacrificio, della rinuncia che sta compiendo per proteggere i suoi cari. Prima di rinfoderarla, Mulan mantiene per qualche istante la spada al centro del suo viso: l’argento della lama lo divide a metà, esattamente come era accaduto quando Mulan aveva ripulito il suo ovale dal trucco. Ancora una volta nel lungometraggio si presenta il tema della dualità, la divisione tra i doveri che Mulan dovrebbe compiere e le azioni che in realtà vuole attuare. Inguainando la spada, Mulan completa la sua scelta. Ella trasforma sé stessa, mascherandosi da soldato e quindi da uomo per intraprendere un viaggio alla scoperta del proprio “Io”.
La nonna si sveglia di soprassalto, come se avesse avvertito la fuga della nipote. L’anziana prega gli antenati di vegliare su Mulan. Essi rispondono all’appello e si manifestano, in gran segreto, come spiriti evanescenti. Da una nube grigia e fumosa emerge Mushu, un draghetto dalla pelle rossastra. Egli affiora con le braccia tese verso l’orizzonte, al grido di “Sono vivo”. Beh, in effetti, in quella posa Mushu ricorda il personaggio del mostro di Frankenstein, appena ridestatosi da un sonno eterno.
Al draghetto viene chiesto di risvegliare il più potente dei draghi protettori della famiglia Fa, così che questi possa accorrere in aiuto di Mulan. Purtroppo (o per fortuna) Mushu combina un disastro e non riesce a richiamare alla vita il dragone. “Che fare adesso?” - pensa il draghetto. Idea! Sarà lui ad accompagnare Mulan, a sostenerla nel suo inganno, così da poter riscattare sé stesso agli occhi degli altri antenati, che lo considerano nulla più che un suonatore di gong.
Mushu raggiunge Mulan, arrivata nei pressi dell’accampamento militare. La fanciulla e il draghetto fanno subito amicizia. Entrambi hanno molto in comune: sono ambedue avventurieri impreparati, incerti, impacciati e, perché no, anche inattesi. Ma perché inattesi?
Beh, perché entrambi non sono ciò che tutti si aspettano. Mulan non è un grande guerriero né un valoroso combattente maschile. Ella è infatti una donna, che sa ben poco di battaglie e duelli. Mushu è un drago, ma non di quel tipo che potremmo attenderci di vedere. Egli non è imponente, maestoso, non ha una grossa apertura alare, non vola su nel cielo, al contrario è piccino e, di primo acchito, potrebbe facilmente essere scambiato per una banale lucertola. Mushu e Mulan devono dimostrare di che pasta sono fatti: la donna dovrà dare a vedere d’essere un guerriero capace, forte e coraggioso, Mushu dovrà invece dimostrare d’essere un guardiano affidabile.
Appena giunta al campo d’addestramento, Mulan conosce il capitano Li Shang, che la colpisce al primo sguardo. Mulan, naturalmente, non può darlo a vedere. Ella d’ora in avanti dovrà far finta d’essere un uomo e comportarsi come tale. Quello stesso giorno, la giovane fa la conoscenza di Yao, Chien-Po e Ling, i quali, dopo qualche incomprensione iniziale, diverranno suoi amici.
I giorni scorrono via e l’addestramento si fa sempre più duro e impegnativo. Tutti i combattenti devono imparare la dura arte della guerra, migliorarsi quotidianamente. Il capitano Shang farà di loro dei veri uomini, col sudore, l’impegno, e la sofferenza. Mulan sarà la recluta più abile e tenace, prevalendo in tutte le prove. Al ritmo di “Farò di te un uomo”, l’unica donna della guarnigione trionferà su tutti gli altri.
L’avventura di Mulan sarà lunga ed estenuante. Ella combatterà in battaglia, alle pendici di un monte ricoperto di neve. In quel luogo, si troverà faccia a faccia con Shan Yu. La giovane riuscirà a respingere con un astuto stratagemma la carica dell’armata Unna, ma le ferite che riporterà la obbligheranno ad ammettere la verità: ella è una donna, non un uomo. Una volta che la menzogna è stata svelata, Mulan viene abbandonata a sé stessa, ma non si darà per vinta. Giungerà sino alla città Imperiale, per salvare il suo sovrano. Gli Unni si sono infatti nascosti all’interno di un dragone di scena, che sfilava nel centro cittadino. Il dragone, come il cavallo di Troia ideato da Ulisse, era penetrato nella città per distruggerla dall’interno, per sorprendere i suoi abitanti intenti a festeggiare, noncuranti del pericolo nascosto proprio sotto il loro naso.
Mulan riuscirà a fermare Shan Yu e a salvare l’Imperatore. Quando quest’ultimo vedrà Mulan partire via, sussurrerà a Li Shang che “Il fiore che sboccia nelle avversità è il più raro e il più bello di tutti”. L’immagine sbiadirà nuovamente, e la scena si sposterà su un luogo diverso: la dimora di Mulan. Il padre della ragazza attende, seduto in giardino, speranzoso, il ritorno della figlia. Quel fiore che non era ancora sbocciato e che egli aveva visto insieme a Mulan poco tempo prima è finalmente fiorito. Esso cade giù dal ramo, poggiandosi sulla gamba dell’anziano genitore. Il padre lo ammira, lo sfiora con le dita. In quell’istante, Mulan riappare sulla soglia di casa. È lei, è Mulan il fiore sbocciato nell’avversità. Ella è divenuta, come il padre aveva immaginato, il fiore più bello e più prezioso.
"L'ombra di Mulan e la sua fioritura" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
Quando Mulan e il papà si congiungono in un abbraccio, i loro corpi vengono riflessi nello stagno d’acqua che si trova nella casa della famiglia Fa. Se Mulan avesse voltato lo sguardo avrebbe visto il suo riflesso e avrebbe finalmente riconosciuto la sua immagine, perfino la sua ombra. Mulan è divenuta tutt’uno con sé stessa, la donna che ha sempre voluto essere agli occhi dei suoi genitori e di sé stessa. Una donna intrepida, risoluta, che sa cosa è giusto fare.
Mulan ancora non ne è a conoscenza, ma di lì a poco Li Shang varcherà la soglia della sua casa e i due potranno vedersi di nuovo, questa volta senza trucchi o inganni. Nel frattempo, Mushu ha fatto ritorno fra gli antenati: anche lui, d’ora in avanti, potrà rimirare il suo riflesso e vedersi per come ha sempre desiderato: un guardiano riconosciuto e amato da tutti.
"Up" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
La prima volta che vidi “Up” rimasi folgorato. Da cosa, vi starete senz’altro chiedendo. La risposta, beh, potrebbe sorprendervi.
Rimasi incantato non solo dalla meravigliosa sequenza che cadenza i primi minuti della pellicola, non soltanto dalla delicatezza del tema trattato o dalla bellezza dell’opera in sé. Restai, ancor prima, interdetto e piacevolmente rapito da un elemento in particolare: un volto. Il volto del protagonista della storia. Mi colpì in un lampo, come una fitta avvertita improvvisamente, uno stupore percepito d’un tratto, similmente al saettare di un fulmine all’orizzonte che appare e svanisce nel breve volgere di un battito di ciglia.
Il faccione di Carl Fredricksen, il protagonista di “Up”, aveva, nel suo insieme, un qualcosa di accattivante, di tremendamente riconoscibile. Carl compare sin da subito, all’echeggiare delle prime note della colonna sonora, al comporsi delle prime immagini animate, non appena il sipario si alza sul palcoscenico cromatico di “Up”, la cui scenografia è composta da palloncini di mille colori e affetti indissolubili.
Carl non è che un bambino nelle sequenze iniziali del lungometraggio, eppure il suo volto che, salvo i segni del tempo, permarrà pressoché identico anche in vecchiaia, aveva catturato il mio sguardo; lo aveva carpito, ghermito con la stessa destrezza di un’aquila di mare quando, in picchiata, plana sull’acqua per afferrare, con i suoi artigli, un pesce che, ignaro, nuota, beato, contro corrente.
I connotati di Carl possedevano una peculiarità quasi evocativa. Quel musone aveva un non so che di familiare. Me ne accorsi immediatamente.
“Quella faccia l’ho già vista da qualche parte” - borbottai sotto voce. “Sì, ecco, somiglia a qualcuno che conosco. No, ma che dico, non a qualcuno che conosco davvero ma alle fattezze di una persona che ricordo, che distinguo piuttosto chiaramente, che discerno come se l’avessi vista dal vivo”.
Quel naso prorompente, tondo come un tubero appena portato alla luce, quelle sopracciglia aggrottate, folte come cespugli che necessitavano di una bella potatura, quelle orecchie ampie come due vele spiegate al vento, quei capelli bianchi, corti con un piccolo ciuffo che si elevava sulla fronte, leggermente verso l’alto; quella espressione burbera, seccata, aspra, quei lineamenti ruvidi, quell’ovale teso in un grugnito che sembrava anticipare la pronuncia di un rimprovero, l’esternazione di un ammonimento, erano tutte caratteristiche che mi ricordavano una persona in particolare, che non riuscii a richiamare alla mente in maniera subitanea.
“Un momento!” – dissi tra me e me – “Facciamo un rapido elenco: un nasone a patata, una faccia palesemente scocciata, incline a sbuffare per la troppa noia, un’espressività paragonabile alla tenera e costante “brogna” di un simpatico vecchietto ormai spazientito, stanco e scorbutico ventiquattr’ore su ventiquattro. Ci sono, il viso di Carl, e di conseguenza il suo carattere, sono un omaggio a Walter Matthau”.
“Sì” - mi ripetei - “Adesso tutto torna” – e proseguii - “I creatori di Up avranno basato la fisionomia di Carl sul grugno inconfondibile di Walter”. Per qualche minuto, ne fui più che convinto. Eppure, mentre continuavo a guardare il film le mie certezze cominciavano a venire meno.
“No, Walter aveva un aspetto, in fin dei conti, notevolmente diverso. E’ vero, aveva anch’egli un naso dirompente ma la sua faccia era più allungata, i suoi lineamenti erano alquanto marcati, grezzi, e la sua mascella era cascante come quella di un cagnolone”.
Di punto in bianco, l’eco di un altro dei miei attori prediletti si fece spazio tra i miei pensieri come un riverbero: il faccione di Spencer Tracy. Dopo una mezz’ora passata a spremermi le meningi avevo finalmente fatto centro: Carl doveva essere, per forza di cose, Spencer, quel viso rugoso altro non era che un omaggio ad una delle stelle più luminose del firmamento hollywoodiano dell’età dell’oro.
Ritratto fotografico di Spencer Tracy
Gli occhiali a forma di rettangolo, gli occhi azzurri come un cielo terso, la candida peluria che smussava gli angoli di quella maschera paffuta erano tratti somatici studiati ad arte per modellare la faccia di Carl su quella di Spencer Tracy, così come quest’ultimo appariva sul grande schermo quand’era, oramai, avanti negli anni.
Spencer Tracy è stato uno dei più grandi interpreti della storia della settima arte. Attore versatile, disinvolto, completo, seppe destreggiarsi abilmente tra i generi più disparati conquistando due premi Oscar su nove candidature. Tra i ragguardevoli capolavori della sua filmografia figurano film avventurosi come “Capitani coraggiosi”, commedie argute e raffinate come “Il padre della sposa”, western ritenuti autentici classici come “Giorno maledetto” nonché opere dal profondo significato che inneggiano alla tolleranza e al rispetto del prossimo come “Indovina chi viene a cena?”, l’ultimo lungometraggio girato da Tracy poco prima di spirare in una notte d’inizio giugno.
Oltre alle già citate pellicole, nel corso della sua carriera Tracy ebbe modo di interpretare un ruolo che, come vedremo sul finale di questo mio testo, vanterà alcune assonanze con lo stesso personaggio di Carl Fredricksen.
Or dunque, nelle primissime scene del film “Up” uno “Spencer Tracy” minuto, buffissimo e un tantinello goffo si aggira per le strade di una ridente cittadina. Carl corre di quartiere in quartiere, reggendo in mano un palloncino blu, lo stesso colore che avvolge il cielo ed il mare.
Il piccolo Carl porta in testa un “berretto” e sul nasino un paio di occhialoni da aviatore. Questi corre come un forsennato, superando dirupi immaginari, balzando al di là di canyon concepiti dalla sua fantasia, aggirando montagne che si ergono con le loro punte aguzze solamente nei suoi sogni più sfrenati.
Carl galoppa all’impazzata, fingendo di vivere ardite traversie come il suo mito, l’esploratore Charles Muntz.
Un mattino Carl, sostando davanti ad una casa fatiscente, sente una voce squillante provenire dal suo interno. Incuriosito, il bimbo entra nella casetta dismessa e intravede Ellie, una bambina che gioca, sola soletta, all’interno dell’abitazione. Ellie se ne sta ritta, con un grande sorriso a delimitare le sue gote, al cospetto di una finestra sbarrata da alcune assi di legno sopra le quali vi è appiccicato un disegno. La bimba porta sul capo un caschetto da aeronauta e un paio di occhiali, del tutto simili a quelli di Carl. Sotto gli occhi attoniti del bimbetto, Ellie immagina di “navigare”, di “scivolare” verso un orizzonte lontanissimo ruotando il cerchione di una bici, come se questo fosse il timone di una grossa imbarcazione o, magari, la barra di comando di un velivolo che solca un oceano ammantato di stelle.
“Il vento soffia di levante” – Strilla Ellie, frenetica – “Velocità dieci nodi”. Carl si distrae solo per qualche istante, indugiando sui dettagli di quella casa ricoperta da pulviscoli, quando, di colpo, viene notato da Ellie. Non appena la vede da vicino, Carl, sorpreso, schiude la sua mano ed il palloncino azzurro che teneva con sé vola via, lambendo il tetto dell’edificio.
E’ la prima volta in cui Carl incrocia lo sguardo di Ellie, ed ecco che un oggetto attorno a lui spicca il volo: non certo una coincidenza. I due bimbi si sono appena incontrati, eppure una scintilla è scattata, qualcosa è subito avvenuto; un qualcosa di tanto simbolico che non può essere ignorato.
Quel palloncino che Carl lascia libero di volare fino al limite della costruzione, nell’attimo esatto in cui posa gli occhi su Ellie venendo, a sua volta, ricambiato, è una metafora del loro prossimo amore, la testimonianza di una cosa che, nel futuro, accadrà costantemente tra i due; Ellie sarà, per Carl, un’eterna fonte d’ispirazione, una donna che non gli permetterà mai di tenere i piedi ben piantati per terra, ma lo esorterà sempre ad “alzarsi in volo” senza remore e senza paure, verso quel cielo limpido, dipinto con la medesima cromatura del palloncino che Carl teneva con sé il mattino in cui vide Ellie per la prima volta.
Di fatto, Ellie, l’intraprendente ragazzina che Carl ha appena conosciuto, non farà altro che ispirare la vita del nostro caro protagonista e condizionare positivamente il suo avvenire. Restando fianco a fianco ad Ellie, Carl si sentirà sempre leggero come una piuma dondolata dalla fresca brezza, alto come un albero maestro che sfiora, con la sua punta, una nube densa di pioggia senza averne alcun timore, leggiadro come un palloncino sostenuto dalla corrente e che vola verso un orizzonte tutto da scoprire.
Carl ed Ellie si innamorano al primo sguardo, senza neppure accorgersene, senza rendersene propriamente conto, quando non sono altro che dei bambini innocenti, nel periodo in cui non sanno neppure cosa sia l’amore.
Il loro incontro, le loro discussioni (invero sarà, per lo più, Ellie a tenere le redini delle loro conversazioni) i giochi che faranno assieme, le confidenze che si scambieranno da quel momento in avanti saranno semi gettati in un terreno fertile, che germoglieranno con l’alternarsi delle stagioni.
La sera stessa del loro primo, indimenticabile incontro Carl riceve la visita di Ellie, la quale lo raggiunge nella sua cameretta. In quegli attimi, il piccoletto è intento a sfogliare un libro ricco di illustrazioni. Dalla finestra semiaperta irrompe un palloncino blu, lo stesso che Carl aveva smarrito quel mattino, seguito da Ellie che fa irruzione con il suo piglio travolgente.
“Ciao, ragazzino!” – Strepita la fanciullina, che tiene con sé un volume molto speciale: “il libro delle avventure”, una sorta di cartella in cui la bimba è decisa a raccogliere le istantanee di tutte le avventure che vivrà in futuro. Quella sera stessa Ellie esorta Carl a sancire una promessa: un giorno, quando saranno grandi, dovranno partire insieme per un lungo viaggio, per realizzare il sogno più grande della piccolina, vale a dire raggiungere le Cascate Paradiso, una terra perduta nel tempo.
Gli anni fluiscono e Carl ed Ellie crescono, senza mai separarsi. Un flash fotografico interrompe, in un battito d’ali, la loro fanciullezza ed ecco che i due sono divenuti adulti e hanno appena pronunciato la loro promessa d’amore.
La coppia di sposi va dritta alla “spelonca” in cui si erano conosciuti e che giace ancora diroccata, prossima a venir giù. Rimboccandosi le maniche, settimana dopo settimana, Carl ed Ellie la rimettono a nuovo, trasformandola nella loro accogliente e deliziosa “tana”.
Non è che l’inizio di una corposa “carrellata” in cui viene riassunta tutta un’esistenza vissuta in coppia: le gioie e i dolori della quotidianità si intrecciano nell’intenso e toccante vissuto di Carl ed Ellie. Scopriamo così che i due hanno cercato di avere un figlio. Quando Ellie rimase incinta, lei e Carl, colti dalla letizia, prepararono una stanza, nel cui centro era possibile scorgere una culla su cui galleggiavano un paio di dirigibili giocattolo, simbolo della passione di Carl ed Ellie per il volo. Fu soltanto una gioia momentanea, poiché Ellie perse il bambino e scoprì di non poterne avere a causa della sua sterilità.
Distrutta dal dolore, Ellie viene consolata da Carl che le mostra il libro delle avventure, rammentandole il giuramento stabilito da piccini, quello di giungere alle Cascate Paradiso. Questo sogno riportato alla ribalta diviene una “molla”, una spinta per Carl ed Ellie i quali, d’ora in poi, ogniqualvolta ne avranno l’opportunità, metteranno da parte i loro risparmi per finanziare questo viaggio tanto atteso. Tuttavia, i due non riusciranno mai a recarsi alle Cascate Paradiso a causa di continui intoppi e imprevedibili “infortuni” che si verificheranno lungo il loro tortuoso ma splendido percorso condotto all’unisono.
I mesi si accavallano, i decenni si estinguono, le mattine si sovrappongono, le une con le altre: in questi frangenti, la routine di Carl ed Ellie si trasforma in una poesia. L’immagine della donna che, al sorgere di ogni nuovo dì, fa il nodo estringeuna cravatta gialla, poi un’altra rossa, poi un’altra con su disegni e ghirigori, righe o cerchi, al collo di Carl fa rima con l’immagine in cui la stessa Ellie, divenuta anziana, sistema il papillon al marito.
Quelle tante cravatte dai colori e dagli stili più vari e stravaganti, quello stesso papillon, sembrano rappresentare il legame che unisce Carl ed Ellie, solido come un nodo serrato, riordinato, rifatto giorno per giorno. L’amore di Carl ed Ellie, come il nodo di una cravatta, è saldo, non può sciogliersi mai del tutto o strapparsi poiché viene “rammendato” di continuo, accudito come un fiore prezioso dissetato e rinfrescato da una goccia d’acqua.
In quel gesto che Ellie compie tutte le mattine, in quel singolo atto, quando accosta la cravatta al collo del marito, vi è la metafora del loro rapporto: un “nodo” che va curato, accomodato, un nastro che va liberato e ricongiunto continuamente, un laccio che va intrecciato con un altro per restare fisso; esso è un vincolo sempiterno, ed è tale proprio perché viene rinnovato giornalmente. Il nodo alla cravatta di Carl, fatto e rifatto da Ellie, simboleggia l’amore, il matrimonio, la vita coniugale che va nutrita, ricucita, corretta, coltivata, appianata per perdurare e sopravvivere all’inesorabile progredire del tempo.
Va inoltre sottolineato che nella prima, brevissima scena in cui Carl tenta di indossare una cravatta per andare a lavoro, questi non riesce a metterla a posto come dovrebbe. Carl fatica a fare il nodo, e viene interrotto da Ellie, la quale, prontamente, riesce ad accomodare il tutto, a “sbrogliare” il pasticcio fatto da Carl alla sua cravatta e a posizionarla perfettamente, poco al di sotto del mento massiccio e pronunciato del marito. Un atto emblematico che evidenzia come Ellie riesca a sorreggere Carl, ad aiutarlo quando questi perde la pazienza o non riesce a districarsi da un qualsiasi impiccio: Ellie incarna il conforto, la sicurezza, il sostegno di Carl, una perla inestimabile a cui l’uomo, innamorato perdutamente, non riuscirà mai a rinunciare.
Una volta raggiunta l’anzianità, Ellie contrae un brutto male che la conduce rapidamente alla morte. Durante gli ultimi momenti Carl segue Ellie in ospedale, sostando sull’uscio della sua camera e facendo volteggiare verso la sua sposa un palloncino blu, nella cui estremità vi è legato un ramoscello. Lo stesso gesto che la piccola Ellie fece, tanti e tanti anni prima, la sera in cui Carl giaceva nel suo lettino. E’ il principio che abbraccia la fine, l’atto conclusivo dell’amore terreno tra Carl ed Ellie: un amore sbocciato in tenerissima età, capace di elevarsi oltre la gravità, di sopraffare la superficie, il suolo freddo della strada e persino la delicatezza dell’erba.
Ellie rende a Carl il loro libro delle avventure, sfiora la guancia del suo amato e poi gli raddrizza per un’ultima volta il papillon che sormonta il maglioncino indossato dall’uomo. E’ l’ultima carezza di Ellie, l’ultima volta in cui lei potrà prendersi cura del loro legamesimboleggiato da quel cravattino a farfalla.
Rimasto solo, dopo aver perso la sua anima gemella, la compagna con cui ha condiviso un’intera esistenza, l’anziano Spencer… ehm… perdonatemi… l’anziano Carl si trova a dover far fronte alla fase più ardua, tediosa e angosciante della sua vita: svegliarsi ogni mattino senza più una autentica motivazione.
“Come fai a raccogliere le fila di una vecchia vita? Come fai ad andare avanti, quando nel tuo cuore cominci a capire che non si torna indietro? Ci sono cose che il tempo non può accomodare, ferite talmente profonde che lasciano un segno”.
Questo breve monologo recitato da Frodo durante i passi finali de “Il Signore degli Anelli – Il ritorno del Re” calza a pennello per descrivere lo stato d’animo a cui va incontro Carl. Come può, per l’appunto, un uomo che ha perduto il bene più caro, la donna amata, il caposaldo di un’esistenza, raccogliere i cocci della propria vita investita, travolta, spezzata e divisa in molteplici pezzi come se essa fosse un vaso di terracotta scagliato contro un muro e per questo scalfito, rotto, infranto, oramai impossibile da riparare?
Come può un essere umano assorbire le forze residue per “tirare a campare” quando il suo cuore serba un dolore tanto grande, un vuoto talmente incolmabile?
Come precisato dallo stesso Frodo, esistono ferite che neppure il progredire degli anni riesce a guarire. Il tempo può, a stento, cicatrizzarle ma esse seguiteranno a farsi sentire, a bruciare, a fare male nei momenti bui, tristi, desolanti, durante gli autunni più malinconici, negli inverni più freddi, persino nel pieno delle primavere più soavi, fiorite e rinfrancanti.
Non vi è un modo per accettare una perdita tanto grande, neppure se essa è avvenuta alla fine di un ciclo vitale pieno di appagamento ed intensità. Non vi è una terapia specifica per elaborare e superare un lutto così profondo. Carl lo sa bene. Ci ripensa al sorgere di un nuovo dì e al crepuscolo di un giorno che sta per andarsene. Ci rimugina su, standosene seduto nel suo soggiorno, sulla sua poltrona rossa.
Lì, bello comodo, allo scadere ritmato di qualche secondo, quasi ossessivamente, Carl getta un’occhiata addolorata all’altra poltrona che si trova laggiù, a pochi passi da lui; una poltrona di tutt’altro tipo, dallo schienale più imponente, totalmente diversa dalla sua: la poltrona sulla quale era solita rilassarsi Ellie, magari tuffandosi in qualche appassionante lettura.
L’aver scelto per il salotto del loro nido due poltrone ben differenti era una precisa scelta di design di Carl ed Ellie, un’inconsueta caratteristica del loro “covo”, una stravaganza tutta loro. Quando guardava quella poltrona tanto diversa eppure tanto unica, Carl non faceva che rammentare quanto la stessa Ellie fosse esattamente così, come appena descritto: una donna rara, introvabile, esclusiva, speciale come nessun’altra potrà mai essere.
Senza Ellie, senza quella creatura femminile straordinaria, dal carattere impavido, inarrestabile, mai fiacca, Carl si sente svuotato. Del resto, Ellie era stata per lui un carburante illimitato, sin dal primo momento in cui i due ebbero modo di avvicinarsi l’uno all’altra. La diversità dei loro caratteri rende Carl ed Ellie una coppia in grado di completarsi a vicenda. Quel timido bambino che faticava a stento a bofonchiare una sola sillaba, travolto e stupito com’era da quella ragazzina per nulla timorosa o introversa, bensì espansiva e incredibilmente socievole, non poteva che diventare un uomo garbato, gentile, dolce, compassato eppur mai domo né arrendevole.
Carl non poté mai cedere a qualche forma di rimpianto o di nostalgia durante lo scorrere di tutta la sua vita poiché aveva Ellie accanto a sé; quella donna che, fin dal loro primo incontro, non smise mai di parlare, di esprimere le proprie emozioni a parole, di approfondire ad alta voce i suoi sogni e le sue aspirazioni. Ellie era un persona estroversa, ottimista, spontanea, solare, la compagna ideale per un uomo taciturno, insicuro, schivo e delicatamente impacciato come Carl. Ellie era incline a sorridere, a rendere la routine di Carl emozionante come la più imprevedibile delle avventure. Soltanto una volta Ellie cedette al dolore, alla tristezza: quando seppe di non poter diventare madre. In quei giorni, spettò a Carl far tesoro del dono più grande che Ellie avesse mai potuto dargli: il dono di tirare su il morale della persona a cui si vuol bene. Fu proprio la stessa Ellie ad usare queste parole: “Sono venuta a tirarti su il morale!” - disse la piccola la sera del loro primo incontro sgattaiolando nella camera di Carl, rimasto a letto con un braccio “ammaccato”.
Ellie era fatta così, riusciva a infondere gioia nel cuore del suo innamorato. Carl seppe fare lo stesso quando, sconvolta dall’impossibilità di mettere al mondo una vita tutta loro, Ellie soffrì come mai le era capitato. Carl riuscì a distrarla, a scacciare via dalla sua mente quel triste pensiero. Le ricordò l’accordo fatto da bambini, di recarsi insieme alle Cascate Paradiso. Da quel giorno, un nuovo obiettivo, una nuova motivazione, una nuova meta da conquistare si dipanò dinanzi ai loro occhi. Questa speranza li accompagnò per tutto il loro matrimonio. Ciononostante, come già detto, entrambi non poterono mai vedere di persona quel luogo tanto agognato. Gli imprevisti della vita: un incidente di qua, un infortunio di là, e le monete messe da parte per intraprendere il fatidico viaggio venivano puntualmente spese per riparare i danni più disparati.
Rimandarono troppo a lungo, fin quando Ellie morì. Carl era rimasto solo, tutto solo in una casa in cui la memoria di Ellie risuonava in ogni angolo, in ogni minimo spazio.
Chi avrebbe mai potuto ridare nuova linfa vitale ad un uomo fiaccato nello spirito ancor più che nel corpo? Cosa avrebbe mai potuto tirarlo su?
La storia riprende qualche mese dopo. La casa di Carl sorge adesso al centro di un cantiere di lavoro, nel quale sta vedendo la luce un nuovo complesso residenziale. Un pomeriggio, alla porta di casa Fredricksenbussa Russell, un bambino di 8 anni che si offre di dare una mano a Carl per poter ottenere il distintivo-scout di "assistenza agli anziani", che gli permetterebbe di completare il suo già invidiabile medagliere.
Il vecchio non è affatto ben disposto nei riguardi del fanciullo, quindi, per scacciarlo, gli racconta una strana “favola” che altri non è che una fanfaluca: a due isolati dalla sua abitazione vive il Beccaccino, uno strano animale dalla forma di uccello, con due occhi simili a degli spilli appuntiti, che, stando al racconto dell’anziano, ogni notte si introdurrebbe nel suo giardino pappandosi le sue povere azalee. Russell, ingenuamente, si propone di aiutare il signor Fredricksen nella caccia al Beccaccino. Animato da una vulcanica vitalità Russell si mette subito alla ricerca del presunto volatile, lasciando Carl “felicemente” in solitudine.
Quello che il signor Fredricksen ancora non sa è che Russell, quel bambino tanto simpatico e pacioccone che con le nocche ha picchiato alla porta dell’alloggio, è il figlio e, al contempo, il nipote che Carl ed Ellie non hanno mai potuto avere, atterrato in un pomeriggio qualunque, portato e lasciato sulla loro veranda da una cicogna… ma che dico… da un “Beccacino” alquanto generoso.
Russell, con il suo entusiasmo fanciullesco e la sua voglia di diventare un esploratore della natura selvaggia, somiglia allo stesso Carl, il quale, da ragazzo, immaginava di sperimentare sulla sua pelle mille e più avventure. Quest’ultimo, oramai, è troppo vecchio per ricordare cosa provava da ragazzo, troppo amareggiato, disilluso, fiaccato dalla perdita di Ellie. La vicinanza di Russell rappresenta l’incontro e lo scontro tra l’età della vecchiaia, rassegnata, e l’età dell’innocenza, colma di fiducia. Restando vicino al piccolo Russell, Carl riscoprirà la gioia di vivere, l’euforia della giovinezza, quello stesso fervore che ha sempre contraddistinto la sua amata Ellie.
Il giorno in cui Carl fa la conoscenza di Russell, un operaio alla guida di un gigantesco e minaccioso bulldozer colpisce involontariamente la cassetta delle lettere di Carl, oggetto a cui il vecchietto è fortemente affezionato, in quanto, su di essa, vi è dipinta l'impronta della mano di Ellie. Uno dei tanti lavoratori lì presenti cerca di ripararla, ma Carl, adirato, lo colpisce alla testa con il suo bastone da passeggio. Accusato di demenza senile, Carl viene obbligato al ricovero in un centro di accoglienza e la sua casa viene aggiunta alla lista delle abitazioni da abbattere.
Carl non ha più scelta: deve fuggire, ma non può far sì che la sua casa, quel nido in cui sembra riposare ancora l’anima di Ellie, venga rasa al suolo. Pertanto, escogita un piano per lasciare quella misera terra e toccare, finalmente, quel cielo che possiede il sapore della libertà.
L’indomani, due operatori del centro anziani vengono a prelevare Carl. Con il pretesto di voler dire addio alla sua casa, il vecchio vi si barrica dentro. Improvvisamente dal tetto dell’abitazione s’innalzano migliaia di palloncini che sollevano la casa, sradicandola dalle sue fondamenta, e la portano in alto, oltre i grattacieli sparsi per tutta la metropoli. Carl orienta il moto della sua casa attraverso l’uso di appositi comandi progettati con mezzi di fortuna, navigando in direzione delle Cascate Paradiso.
L’ultima motivazione della vita del vecchietto si concretizza, quindi, in un viaggio sospeso tra la volta celeste e il grigio della strada, talvolta rallegrato dal verde acceso e vivido di qualche prato che spunta qua e là; un viaggio compiuto librandosi in aria per porre fine ad una questione insoluta, ad una faccenda rimasta in sospeso.
Durante il volo bussa alla porta Russell, rimasto, suo malgrado, “intrappolato” sul portico. Carl, seppur restio, data la situazione d’emergenza, acconsente a farlo entrare e, insieme a lui, approda in Sudamerica. Sul posto, i due incontrano un gigantesco uccello dalle piume sgargianti, che Russell deciderà di chiamare Kevin. Per il bambino, quel gigantesco “struzzo” è proprio il Beccaccino che stavano cercando.
In quel luogo sperduto e sconosciuto, l’anziano Carl incontrerà l’idolo della sua infanzia, l’esploratore Charles Muntz, il quale si rivelerà essere un astuto e spietato cacciatore di animali rari e in via di estinzione. Muntz sarà l’antagonista della storia e tenterà in ogni modo di ostacolare la missione di Carl. Il signor Fredricksen accetterà di aiutare Russell, riuscendo a salvare il suo “Beccaccino”, strappandolo dalle grinfie del perfido Muntz.
Durante la sua disavventura, Carl avrà modo di sfogliare il libro delle avventure di Ellie. Il tomo, per gran parte delle sue pagine, è tappezzato di fotografie che ritraggono Ellie insieme al marito. Tutti i piccoli momenti della loro vita coniugale sono immortalati in decine e decine di scatti ma, ancor di più, serbati nel cuore e nella mente di Carl. Le ultime pagine appaiono vuote, il libro è ancora incompleto. Su una pagina intonsa, Ellie ha scritto un ultimo messaggio, rivolgendosi direttamente al suo adorato Carl: “Grazie per l'avventura. Ora vai, e vivine un'altra".
Il vecchietto comprende così che quella vissuta con Ellie è stata la più grande avventura della sua vita e che adesso, spronato dallo stesso volere della moglie, dovrà sfruttare il tempo rimastogli per sperimentare una nuova fase del suo arco vitale.
Carl ed Ellie, che fin da bambini sognavano di vivere avventure in luoghi esotici e imperscrutabili, hanno, al contrario, vissuto l’avventura più bella, avvincente, tenera e soddisfacente conducendo una vita mite, tranquilla, nella loro casa scintillante di colori. Quella dimora che i due hanno rimesso a nuovo con le loro mani è stato il loro nido, il loro focolare, ma in essa non vi è confinato lo spirito di Ellie. Esso è volato via, su in cielo, come un palloncino lasciato andare da un bambino distratto o, perché no, stupito da qualcosa che ha rubato il suo sguardo.
Carl lo ha finalmente compreso: non è in quella casa che vi è conservata l’essenza di Ellie, è nel suo cuore che vi è ancora, e per sempre, custodita l’anima della sua sposa.
Resosi conto di questa verità, Carl riesce a staccarsi da quel luogo, dalla sua casa, quello spazio in cui si è sempre sentito al sicuro e felice. Carl riuscirà, così, a lasciare andare via la sua dimora, la quale scomparirà fra pascoli di nuvole, atterrando lentamente sulla vetta delle Cascate Paradiso, lì dove dormirà in eterno, deliziata dall’incessante scorrere dell’acqua.
Nelle ultime sequenze del film, Carl darà il via al secondo ciclo della sua esistenza, vivendo una nuova giovinezza come un “padre” ed un “nonno” allo stesso tempo, accompagnando il piccolo Russell nelle sue peripezie quotidiane. Le giornate di divertimento vissute con il piccino verranno eternate come immagini fotografiche dallo stesso Carl e aggiunte al libro delle avventure della sua Ellie.
Su, in quella volta celeste adornata da manti candidi e spessi come lana, in quel cielo sgombro ma abbellito dalla luna, quell’astro solitario e rotondo come una moneta luccicante appesa ad un filo sottilissimo, Carl ha ritrovato l’ispirazione per tornare a sorridere, per tornare a vivere.
Quel cielo azzurro, accarezzato dalla sua casa grazie ad una serie di palloncini, è stato per Carl un mare costellato da pianeti e satelliti in cui rimirare il sorriso di Ellie, incastonato su di una stella che brilla in una notte serena.
Spencer Tracy ne "Il vecchio e il mare"
Il volto di Carl - cosi somigliante a quello di Spencer Tracy - ricorda il viso di un altro personaggio, anch’esso vecchio, anch’esso rimasto solo, anch’esso tenuto “sveglio” dalla compagnia di un ragazzino.
Nella pellicola del 1958, “Il vecchio e il mare”, opera filmica basata sul romanzo di Ernest Hemingway, Santiago, l’anziano protagonista della storia, ha i lineamenti affannati e, per tale ragione, ancor più vivi di Spencer Tracy. L’attore americano impersonò il personaggio cardine del racconto in questa omonima trasposizione, donando a Santiago una forza comunicativa senza eguali, una dignità altissima, una sensibilità estrema.
Santiago ha alcuni punti in comune con Carl Fredricksen: entrambi i personaggi vivono soli, all’interno di una casetta, e sono entrambi rimasti vedovi. La moglie di Santiago viene a stento accennata nel romanzo, ma dalle poche righe che Hemingway le dedica, è possibile cogliere il profondo affetto che il vecchio seguita a nutrire per lei.
Una fotografia della sua sposa campeggia su di una mensola nella casa di Santiago. Ad ella, l’uomo dedica i suoi pensieri più affettuosi, quelli celati nella sua intimità e che non vengono confessati neppure al lettore. Il vecchio conduce una vita ritirata, ignorato dai più, additato di essere un pescatore a cui la dea bendata ha voltato le spalle. Egli riceve solamente una visita nel suo contenuto eppur accogliente alloggio, quella di Manolin, un ragazzo che ammira il vecchio per il suo carattere flemmatico che trasmette saggezza, per la sua bontà e per la sua tenacia.
Il vecchio non ha che ricordi per ristorare il proprio animo, esattamente come Carl, ed egli ha nell’oceano, quel luogo vasto, inquieto, talvolta generoso talvolta inflessibile e avaro nell’elargire i suoi doni, l’unica scappatoia per potersi ancora sentire vivo, per mettere alla prova la sua tempra, per poter sognare ancora e ancora.
Ogni volta che pesca, seppur deluso da tante giornate terminate con l’amaro in bocca, Santiago riscopre i propri sogni, la propria immaginazione, il suo desiderio.
Pescare equivale a fantasticare, dopotutto. Si getta la lenza nel manto ondulato senza sapere cosa abboccherà, all’amo, lì sotto. La fantasia resta appesa alla canna e al suo mulinello.
Se per Carl Fredricksen il cielo rappresentò un mezzo per riscoprire sé stesso, per accrescere la fiamma delle sue speranze e per metabolizzare l’addio di Ellie, per Santiago il mare personificò lo strumento per fomentare le aspettative di un domani migliore.
Senza più una compagna ad allietare il loro rientro a casa, Carl e Santiago hanno scovato in una tavola azzurra il proprio angolo di paradiso, che sia una distesa acquosa o una volta celeste.
Santiago, con la sua barca sospinta dalla vela, tiene i suoi sogni ancorati alla furia dei marosi, Carl, al contrario, lascia che volino via sospinti dal vento come aquiloni liberi di spirare più lontano possibile.
I due personaggi, accomunati da un volto unico, affrontano il capitolo finale della loro vita “affogati” nella natura, immersi in un blu dipinto di blu.
"Alice nel Paese delle Meraviglie" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters
La Zona del Crepuscolo
Coloro che vivono insoddisfatti del presente, di solito, trovano rifugio nel passato. Queste persone, nostalgiche per natura, rivelano, sovente, d’essere grandi viaggiatori. Viaggiatori instancabili - oserei dire - sempre pronti a partire verso una meta da esplorare. Queste persone sono solite compiere i loro spostamenti senza preparare alcuna valigia, senza rivolgersi ad alcuna agenzia di viaggio, senza imbarcarsi su traghetti e velivoli, senza montare su materiale rotabile di nuova generazione, senza spendere neppure un centesimo.
Non hanno bisogno di portare a termine - e in gran fretta - grossi preparativi e non hanno neppure necessità di arrovellarsi troppo nell’organizzare l’itinerario delle loro gite con visite mirate. Questo perché tutti coloro che ripensano quotidianamente al proprio passato effettuano i loro tragitti standosene comodamente seduti in poltrona, fissando un punto qualunque della stanza e smarrendosi in esso.
Del resto i nostalgici migrano con la mente, liberi come il vento che soffia impetuoso. Essi si spingono verso destinazioni che non possono essere raggiunte dai mezzi di trasporto consueti, fanno soste in luoghi serbati dai loro ricordi, ritrovandosi, di colpo, in un mondo che tanto desiderano ma che ormai non esiste più; perlomeno non come lo rammentavano, consumato dall’inesorabile alternarsi delle stagioni.
Capita a tutti, almeno una volta nella vita, di indugiare sul tempo andato, di riflettere sulla giovinezza, sull’infanzia, di richiamare alla mente un periodo o un momento lieto dell’esistenza. Ripensando a quell’attimo specifico, a quel frangente particolare, la mente vaga, si muove a ritroso, proprio come accadrebbe alle lancette di un orologio se si volesse rimandarlo indietro di qualche ora.
Rod Serling, il celebre creatore della serie televisiva “Ai confini della realtà”, faceva parte di questa cerchia unica nel suo genere: la cerchia degli inguaribili romantici, dei nostalgici cronici. Egli ripensava abitualmente al passato, menzionava spesso il periodo precedente al secondo conflitto mondiale, la sua adolescenza, una fase alquanto felice della sua vita.
Più si spingeva in là con gli anni, più Serling sentiva un’oppressione lacerargli il petto, un groviglio prendere forma nel suo stomaco fino a comprimerlo: il peso dei decenni che scorrevano via. Talvolta, gli sarebbe davvero piaciuto usufruire di un po’ di magia, quella stessa magia che i personaggi delle sue storie sono soliti incontrare nella quinta dimensione, quella che sorge tra l’oscuro baratro dell’ignoto e le vette luminose del sapere. Serling voleva - almeno per una sola volta - fare ritorno a quell’epoca ormai scomparsa, nella città in cui era cresciuto, fra quelle strade che aveva frequentato da fanciullo e in cui aveva trascorso ore ed ore a giocare con gli amici nei panni del cowboy che imbracciava una pistola o dell’indiano che brandiva arco e freccia.
Ma quando pensava a tutto ciò la sua sfera razionale, il suo pragmatismo, caratteristica di ogni adulto, prendeva il sopravvento facendogli capire che semplicemente non si può viaggiare indietro nel tempo, non si può ritornare bambino, è praticamente impossibile.
Ciò che è stato appartiene al passato e non può essere recuperato. E’ la consapevolezza della maturità: l’avvicendarsi dei tanti inverni muta ogni cosa, arreca affanni e rughe sul viso degli uomini e delle donne, deturpa e cambia l’aspetto dei luoghi distorcendone l’immagine, imbrattandone il ricordo. E così ciò che rammentiamo in un modo, rivedendolo a distanza di tempo, potrà sembrarci profondamente diverso, non più influenzato dalle emozioni e dai sentimenti legati ad una fase del nostro vissuto.
Ma l’essere umano non può in alcun modo darsi alla fuga, evadere da tutto quello che lo avvolge e trovare pace e ristoro in un mondo concepito dalle proprie idee, sia esso situato nel passato o nel proprio immaginario.
Nell’episodio “La giostra” della prima stagione di “Ai confini della realtà” Rod Serling poté trasporre questa sua smania, questa sua recondita speranza: la lenta traversia di un uomo stanco del suo mondo che vorrebbe, inconsciamente, fare un passo indietro, ripiegare verso una primavera che non esiste più. Il personaggio cardine di questa storia è tormentato da un male che non ha un nome, da un malcontento, da un rimpianto. Vorrebbe tornare alla sua infanzia, contemplare quel ciclo della sua crescita con consapevolezza, riammirare quello “spazio” ovattato in cui ha vissuto con gli occhi dell’innocenza e con il cuore colmo di felicità.
“La giostra” è un episodio mesto, sentimentale, profondamente toccante. Le prime scene staccano su di una strada polverosa e mostrano un certo Martin Sloan, un uomo di trentasei anni, percorrerla con la sua macchina.
Questi si ferma ad una pompa di benzina per fare il pieno, si asciuga il sudore dalla fronte con un fazzoletto di stoffa, quindi scende dalla vettura. L’uomo sembra nervoso, irrequieto, non riesce a stare fermo. Così, lascia l’auto sul posto e decide di avviarsi a piedi lungo il viottolo. Martin aveva bisogno di attardarsi, di fare una piacevole pausa; quello che ancora non sa, però, è che la sua non sarà una sosta come tutte le altre, sarà, bensì, un’escursione alla volta di una dimensione sconosciuta sita tra la luce e l’oscurità: una zona crepuscolare.
Martin ed il suo riflesso nello specchio
Quando Martin percorre il sentiero che porta alla sua città natale, la camera si sofferma dinanzi ad uno specchio che riflette l’immagine del personaggio principale dell’episodio, intento a passeggiare verso l’orizzonte o, per meglio dire, verso l’ignoto. La camera non resta immobile ma avanza, procede verso quello specchio, superandone i confini e travalicando la soglia della superficie riflettente.
E’ come se la cinepresa seguisse Martin e inquadrasse il suo incedere apparentemente normale; invero, la camera, tuffandosi dentro quello schermo freddo e immutabile, fa sì che allo spettatore arrivi un messaggio tra l’ambiguo e il misterioso: Martin, con il suo passo leggero, ha appena attraversato lo specchio, ha superato i confini di un regno fatto di ombre evanescenti. Un po’ come fatto da Alice, la protagonista del romanzo di Lewis Carroll, anche Martin ha varcato la soglia di un cancello incantato, marciando verso un mondo che tanto agognava.
Di lì a poco, infatti, Martin si renderà conto di aver viaggiato nel tempo. Egli rivedrà la sua città esattamente come la ricordava, mirerà i bambini giocare tra le aiuole, e scorgerà persino sé stesso in tenera età, tutto preso a incidere le proprie iniziali sull’intonaco di un chioschetto. Martin non riesce a darsi una spiegazione logica, eppure la sua immaginazione è riuscita a concretizzare un miracolo: lo ha condotto dove si auspicava, in un ambiente familiare e rassicurante che per lui significava tutto.
Martin ha così l’occasione di rivedere i suoi genitori, di sentire l’eco dei canti che echeggiano dalla piazza del quartiere, di riassaggiare la stessa coppa di gelato che era solito gustare di buon mattino, di sentire sulla pelle la fresca brezza dell’estate, la medesima che gli rinfrancava il viso e gli sferzava i capelli da ragazzino. Vagando per le vie della sua contea, Martin scorgerà anche la sua adorata giostra: la meravigliosa giostra di cavalli che girava, senza mai fermarsi, ancora e ancora, e su cui ha passato le ore più divertenti della sua gioventù.
Martin era un malinconico, un uomo fiaccato dal duro lavoro. Questa digressione improvvisa del suo peregrinare non fa altro che rammentargli quanto il periodo della giovinezza sia gradevole: le estati passate a starsene rannicchiati dietro i cespugli quando giocava a nascondino con i suoi compagni, lo zucchero filato addentato voracemente costituivano un’autentica felicità che, ineluttabilmente, andrà a perdersi con la crescita e l’età della maturità.
Riassaporando, seppur fugacemente, le gioie della propria infanzia, Martin riuscirà ad accettare ben più volentieri ciò che è inevitabile: la vita di un essere umano non può arrestarsi, non può immobilizzarsi ad un determinato stadio, deve andare avanti. Saranno le reminiscenze, le memorie, le fantasie rivolte agli attimi vissuti ad allietare gli attacchi di malinconia che si ripresenteranno, non di rado, quando il presente denuncerà la sua aridità. Pertanto, Martin, pur malvolentieri, sceglierà di andar via, di abbandonare quei luoghi e il suo stato di fanciullo lieto e spensierato. Monterà sulla giostra, che riprenderà a girare per un’ultima volta, riportandolo al tempo attuale.
Non fu che un intervallo, una tregua nel continuo ramingare di Martin. La giostra con i cavalli era scomparsa e con essa anche tutta l’atmosfera che ivi si respirava. I magnifici destrieri della giostra erano scappati via imbizzarriti, disperdendosi con i loro nitriti oltre il confine che divide il sole ed il suo tramonto.
La Zona del Sogno
Eppure quanto sarebbe bello, di tanto in tanto, fare una capatina in una terra lontana, darsela a gambe da questa tediosa realtà? Scappare lontano da essa e cercare conforto laggiù, in un mondo su misura per noi, creato a nostra immagine e somiglianza, secondo il nostro gusto più sfrontato. Nessuno ce l’ha mai fatta per davvero. Beh, quasi nessuno.
Una ragazza ci è riuscita, in una strana circostanza. Proprio così! Ve lo assicuro, parola mia! Croce sul cuore.
Questa damigella non compì un viaggio come quello di Martin; si spinse ancora più oltre. Dopotutto, ella non voleva tornare nel passato. Era ancora una ragazzina, non provava nostalgia ma un senso di intolleranza, di noia, una stanchezza derivata da una realtà piatta, bieca, per nulla stimolante né avvincente. Alice - così si chiamava quella donzella dall’immaginazione sconfinata - non gradiva affatto il luogo in cui viveva. Ne voleva un altro, uno che potesse appagare il suo estro e saziare la sua fame di brio.
Tanto tempo fa quella fanciulla dai lunghi capelli d’oro si allontanò, pian piano, dalla sua terra natia e giunse lì dove nessun altro ebbe mai il coraggio di arrivare. Alice voleva con tutto il cuore vivere in un mondo tutto suo, come piaceva a lei. Un reame dove tutto sarebbe stato assurdo e niente sarebbe stato come sarebbe dovuto essere.
Un soleggiato mattino Alice - che si trovava all’aperto - tuffata nel verde della natura, a pochi passi da un limpido ruscello, si mise a pensare, a fare quello che, nel gergo comune, potremmo tranquillamente definire “sognare ad occhi aperti”.
La ragazza se ne stava sdraiata sopra il ramo di un grande albero, a giocherellare con il suo Oreste, un gatto rossiccio. Alice aveva appena infiocchettato una coroncina, ricavata dai petali dei fiori, e l’aveva posta sul capo del suo piccolo amico felino. L’animaletto pareva così buffo con quell’emblema regale in testa da indurre Alice a scoppiare in una fragorosa risata. Tale riso non passò inosservato.
“Alice, ti dispiacerebbe prestare attenzione alla lezione?” – Borbottò una signora ben più matura della nostra protagonista. La donna era seduta sull’erba, giù alle fronde dell’albero, con le spalle poggiate contro il tronco. Teneva in mano un grosso tomo dalla copertina rossa, leggendo ad alta voce le asserzioni che vi erano scritte. Sebbene la signora avesse un timbro squillante e facilmente udibile alla giusta distanza Alice dava l’impressione di non riuscire a sentirla, tutta assorta com’era ad immaginare.
“Scusami, sai, ma come si fa ad interessarsi ad un libro in cui non vi è neppure una figura?” – Sussurrò Alice, amareggiata.
“Mia cara bambina, ci sono tanti libri interessanti anche senza figure a questo mondo.” – rispose, seccata, la “maestra”.
“A questo mondo, forse…” – disse Alice e proseguì – “Manel mio mondo, i libri sarebbero fatti solo di figure.” sentenziò, in conclusione.
“Il tuo mondo?!” – chiese, sorpresa, l’educatrice.
E come darle torto, in fondo. Non esiste un altro mondo al di fuori di quello che conosciamo tutti. Eppure, Alice non la pensava allo stesso modo. “Nel mio mondo…” – bisbigliava – “Là tutto sarebbe assurdo: niente sarebbe com'è, poiché tutto sarebbe come non'è, e viceversa! Ciò che è non sarebbe e ciò che non'è sarebbe!”.
Già dall’accenno e dalla descrizione di questa prima scena, estratta dal lungometraggio d’animazione della Walt Disney “Alice nel Paese delle Meraviglie”, è possibile cogliere la sfumatura caratteriale della minuta protagonista della storia, una ragazza che sogna costantemente, a qualunque ora del giorno e della notte, e che osserva il “vero”, il “tangibile”, ciò che la circonda con distacco, cogliendone solamente le brutture e mai il lato gradevole.
Alla fredda realtà Alice predilige la fantasia, quella regione che non conosce limiti né confini, che esiste solamente nella sua testa. In quella singola battuta dedicata alle figure, alle illustrazioni dei libri, Alice palesa una sua inclinazione: ella antepone le immagini alle “proposizioni” degli autori, poiché le prime colpiscono il suo sguardo ben più rapidamente di un’articolata frase scritta o di una pur accattivante parola pronunciata a voce alta. Alice adora i disegni stravaganti, i colori sfavillanti, i dipinti densi di pennellate vigorose.
I versi inventati dai poeti e le frasi riportate dagli scrittori la lasciano indifferente e non carpiscono il suo occhio. Alice ama le forme bizzarre, le sembianze eccentriche, i ritratti strambi, gli aspetti inverosimili, soprattutto se recano in sé tonalità scintillanti, se sono tratteggiati con pastelli dalle mille gradazioni cromatiche, tanto da infondere in essi incarnati floridi e vivaci.
Il regno che sembrerà nascere dalla sua fantasia, nel quale si avventurerà di lì a breve - il Paese delle Meraviglie per l’appunto – soddisfa pienamente questi suoi gusti, queste sue propensioni. Le creature che incontrerà in quell’universo tanto strampalato quanto rilucente saranno bislacche, avranno fisionomie vagamente imbarazzanti, distorte, persino inquietanti, ma saranno tutte accomunate dal medesimo tocco, come se fossero nate dallo stesso cervello, dalla stessa mano, da uno stile riconducibile ad una sola persona: Alice stessa.
Alice è una sorta di pittrice, un’artista che dipinge su di una tela vasta come la volta celeste: questa tela immacolata altro non è che la sua illimitata immaginazione. Di lì a poco, Alice raccoglierà – metaforicamente parlando – la sua tavolozza ed il suo pennello e darà forma e contenuto ad un dipinto vivido ed espressivo dentro il quale potrà rifugiarsi ed espatriare, sciolta da vincoli di ogni genere e da catene forgiate per tenere a bada le sue caviglie mai stanche. I personaggi che incontrerà porteranno tutti il suo tratto distintivo, ed il luogo multicolore che la accoglierà recherà in basso la sua firma, ancora grondante di cromia.
Or dunque, Alice, quel dì, cominciò a navigare con la sua mente. Si allontanò dall’albero e si perse nel prato fiorito.
Tutto d’un tratto, in lontananza, la fanciulla dalla chioma luccicante come un raggio di luna scorge qualcosa di buffo quanto d’improbabile: un coniglio dal manto candido, tutto in ghingheri, che corre all’impazzata. Questo indossa un panciotto, regge l’ombrello con una zampa e porta sul musetto un paio di occhiali tondi. Saltellando su delle pietre emerse dal rigagnolo, il coniglio afferra il suo orologio da taschino, guarda l’ora segnata e, sbigottito, accelera nel suo ballonzolare.
“Poffare poffarissimo! E’ tardi! E’ tardi!” – afferma l’animaletto con fare distinto ma trafelato.
Alice non sa che aggiungere. Perché mai un coniglietto dovrebbe essere in ritardo? E per cosa, poi? Magari, sì, per un ricevimento.
“Signor coniglio!” – urla Alice – “Aspetti!” – e fa quanto deve per seguirlo. Guadagnata la sua tana, accade l’impensabile: con suo grande stupore Alice comincia a cadere, piombando giù, sempre più giù, verso un dominio fatto di meraviglie. La caduta a cui va in contro la timida Alice costituisce un primo elemento simbolico, il quale suggerisce l’origine onirica della sua disavventura: cascando, la ragazza vive ciò che tutti avvertono quando, preda di Morfeo, sognano di rotolare via, di ruzzolare giù da un’altura provando uno spavento tale da indurre il risveglio. Ma Alice non si desterà dal suo sogno poiché il suo capitombolo sarà lento, gradevole, leggiadro e non le farà provare alcun senso di vuoto allo stomaco.
Pertanto Alice precipita attraverso una voragine, librandosi dolcemente mediante l’ampia gonna del suo vestito azzurro, che l’aiuta a galleggiare come fosse una nuvola bianca che solca il cielo terso con la stessa intensità di una gondola che scivola sull’acqua.
Adagio, Alice atterra in un terreno mai visitato prima. Puntando i suoi occhietti cerulei e vispi, la fanciulla intravede nuovamente il Bianconiglio che sgattaiola dentro una fessura. Alice tenta, come può, di proseguire il suo inseguimento: allora apre una serie di porte che, man mano, si fanno sempre più piccole sino a rivelare una porticina in legno con un vistoso pomello d’oro, che giaceva celata dietro un drappo rosso.
Al tocco di Alice il pomello si desta, rivelando d’essere parte integrante di un volto buffissimo, incastonato nel legno: infatti quel pomello dorato altro non è che un grosso naso tondo su cui svettano due occhi vividi che sormontano un’ampia bocca, perfettamente in grado di parlare.
Il Signor Serratura si presenta ad Alice: egli è un minuscolo uscio di servizio, che si frappone con l’ingresso del Paese delle Meraviglie. Purtroppo, Alice è troppo alta per valicare l’accesso, così prende in prestito un’ampolla di vetro, posta su di un tavolo di cristallo che nel frattempo si era di colpo materializzato. Quel piccolo recipiente di vetro reca un biglietto con su scritto: “Bevimi!”. Seppur inizialmente restia, Alice beve la pozione che acquista, ad ogni sorso, un sapore diverso ma sempre più gradevole: dapprima l’estratto sa di marmellata, poi di crema, successivamente un retrogusto di ananas e, infine, l’intensità di un pollo arrosto.
Una volta finito di assorbire la strana miscela, Alice si rende conto d’essersi rimpicciolita tanto da poter finalmente varcare la soglia della porta custodita dal Signor Serratura. Tuttavia, Alice ha dimenticato di prendere la chiave, rimasta sola soletta sopra il tavolino. Adesso, la ragazza è costretta a ingurgitare un dolcetto che la fa nuovamente ricrescere. Disperata per essere ritornata grande, Alice inizia a piangere. Le lacrime che sgorgano dai suoi occhi, che percorrono le sue gote e che cadono giù, come grossi chicchi di grandine, inondano la camera, sbattendo contro la porticina del Signor Serratura come onde di un mare in tempesta, le quali s’infrangono rovinosamente sugli scogli di una riva.
Inzuppato a dovere e vittima del fiume in piena generato dal pianto di Alice, il Signor Serratura spalanca la sua bocca. Alice, che nel frattempo aveva bevuto una stilla rimasta della pozione, ridiventa minuscola e si rifugia proprio all’interno della boccetta la quale, cullata dall’acqua, viene “mangiata” dal Signor Serratura.
Al termine del suo quatto navigare, Alice guadagna la terraferma. Qui rivede il Bianconiglio, il quale, seppur indaffarato e in ansia per il suo ritardo, le dà corda, esortandola a raccogliere i suoi guanti. Quello che Alice ancora non sa è che tutto ciò non è che l’inizio di una estenuante peregrinazione che la porterà a vivere un’esperienza incredibile, divertentissima ma, per certi versi, anche spaventosa.
Tra le creature più strane che la ragazza incontrerà vi è senza dubbio lo Stregatto, un felino decisamente in carne, dal pelo viola e nero, con un viso molto largo ed un sorriso sprezzante. Lo Stregatto possiede poteri particolari: ha la facoltà di rendersi invisibile, di librare, e di eliminare alcune parti del proprio corpo, come se la sua pelle fosse fatta della stessa materia di cui sono fatti i sogni.
Egli incarna l’impossibile, l’assurdo, l’inverosimile che si manifesta nel corpo rubicondo di un gatto sardonico. La leggerezza che mostra lo Stregatto quando giace sospeso tra il suolo e le stelle con il suo ghigno ampio, in cui scopre completamente tutta la sua dentatura, sembra rappresentare la vera spensieratezza, la libertà insita nella “lucida follia”. Lo Stregatto è - come ogni altro essere incontrato da Alice - inconsueto, svitato, ma, differentemente dalle altre creature partorite dall’inventiva della protagonista (nella versione Disney si intende), sembra essere pienamente cosciente della propria “pazzia”, della propria “anormalità”.
Lo Stregatto, con fare intrigante e con un atteggiamento di chi la sa lunga, si esprime con un linguaggio ora preciso ora enigmatico, ironico e pungente. Il suo starsene per aria, sfidando la gravità, il suo scomparire e riapparire, tutte le sue mosse insolite non fanno altro che testimoniare quanto lo Stregatto sia un essere consapevole della propria assurdità; di essa se ne fa beffe, ma non solo, si prende gioco della stessa normalità. Egli volteggia perché non possiede alcun “peso”, è leggero come il soffio della corrente e vive felice e sereno nel suo squilibrio, nella sua stabilità precaria.
In fondo, chi è veramente “pazzo”? E chi è propriamente “normale”? Quali parametri lo stabiliscono? Lo Stregatto sembra chiedersi tutto questo e sembra anche farlo presente a tutti noi, ogni qualvolta rivolge quel suo sorriso irriverente alla giovane Alice. Il vero “matto”, forse, è colui che riesce ad essere pienamente felice, cosa impossibile per l’uomo comune, troppo afflitto dal trantran quotidiano, dall’implacabilità del tempo che non reca altro che afflizioni, dalla crudeltà del reale.
Dopo aver interloquito con lo Stregatto, Alice raggiunge il Bianconiglio il quale si è ricongiunto con alcuni dei suoi amici. Questo ricongiungimento è una mera toccata e fuga. Di fatto, il Bianconiglio non può mai star fermo: come ogni “adulto” che si rispetti egli è schiavo del proprio orologio, dei propri impegni, del proprio lavoro, dei propri obblighi, e non può arrivare in alcun modo in ritardo. Egli, poverino, non ha né il privilegio né la possibilità di fermarsi un istante, di rinfrancarsi, non gli è consentito neppure bere un caffè o concedersi una tazza di thè.
Proprio in quegli attimi, il Cappellaio Matto, il Toperchio ed il Leprotto Bisestile stanno festeggiando: essi sono soliti prendere il thè per celebrare un “buon non compleanno”, una giornata come un’altra in cui non ricorre alcuna nascita né qualsivoglia data importante. Per questa ragione, i personaggi festeggiano il non compleanno di Alice, che si ritrova, suo malgrado, a sorseggiare del buon thè, attorno ad una tavola imbandita con tazze traboccanti di bevande, piatti pregevolmente decorati, prelibatezze varie, dolciumi di ogni foggia e contenuto, ma soprattutto teiere animate, che danzano, emettono soavi melodie e lasciano effluire nell’aere circostante il fumo del liquido caldo contenuto al loro interno.
Contrariamente al Bianconiglio, che saltella da un dovere ad un altro con assoluta dedizione, perennemente oberato dal progredire dei minuti, il Cappellaio Matto ed il Leprotto Bisestile hanno perso la concezione stessa del tempo. La clessidra che scandisce le loro giornate si è arrestata e la sabbia contenuta al suo interno non defluisce più, ristagnando in un unico scompartimento; gli ingranaggi dell’orologio a cucù che orienta le loro mattine e le loro sere si sono guastati: esso non rintocca più, non fa risuonare nessun cinguettio. Questo perché il Cappellaio Matto ed il Leprotto Bisestile ignorano categoricamente il fluire dei secondi, l’avvicendamento dell’alba e del calar del sole.
Per i due personaggi esiste un solo orario: le cinque del pomeriggio. Del resto, è sempre l’ora del thè per il Cappellaio Matto ed il suo fido compagno di zuccherose bevute. Entrambi personificano un distacco ancor più evidente dalla normalità. Essi vivono - avulsi dal resto - nel loro piccolo “borgo” fatto di tavole splendidamente apparecchiate e di festicciole sempiterne. Le giornate, per loro, si succedono con un ritmo sempre uguale, con la medesima cadenza e questo è sufficiente a renderli felici perché essi non patiscono uno dei mali peggiori che angustia l’animo umano: il tedio derivante da un giorno scevro dal divertimento e privo di sorprese.
Lungo il suo tortuoso sentiero Alice farà anche la conoscenza del Brucaliffo, una figura saggia e paziente che le farà da guida. Il Brucaliffo può vantare un pregio molto raro: la pacatezza, la calma, la cosiddetta virtù dei forti, una dote sconosciuta alla maggior parte degli uomini, spesso agitati ed affannati, soggetti alla furia del tempo, all’amarezza dell’invecchiamento e con l’incubo perenne del ritardo (un po’ come accade al Bianconiglio).
Il Brucaliffo è una creatura che trasmette serenità, quiete, flemma, che sembra aver raggiunto, dall’alto della sua maturità, una vasta conoscenza. Alice, ancora una bambina, vorrebbe sapere molto dal Brucaliffo circa il Paese delle Meraviglie ma esso si limita a darle qualche piccolo consiglio che la ragazza dovrà capire da sola: una metafora della crescita, del cavarsela con le proprie forze.
Con la sua parlantina tranquilla e compassata, il Brucaliffo sprona Alice nel proseguire il suo viaggio. Verso la fine del suo lungo percorso, la ragazza finirà per imbattersi anche nella Regina di Cuori, una monarca instabile, soggetta ad attacchi d’ira, e molto incline a decapitare chi le fa il benché minimo torto. Spaventata e oltraggiata dalla pericolosa Regina, Alice cercherà in ogni modo di trarsi in salvo e di venir via dal Paese delle Meraviglie.
Inseguita da molti abitanti del luogo, la fanciulla riuscirà a tornare sui suoi passi e a rincontrare la serratura parlante. Scrutando nelle sue fauci dischiuse, la ragazza noterà sé stessa, addormentata in un sonno profondo. Alice, allora, picchierà con le mani sulla porticina, finché il frastuono non farà risvegliare il suo “doppione”, rimasto a sonnecchiare nel mondo reale.
Alice aprirà gli occhi e si ridesterà lì dove aveva schiacciato il suo pisolino: vicino a quell’albero dove tutto ebbe inizio.
Era soltanto un sogno. Almeno, è questo che l’ultimo atto del lungometraggio della Walt Disney vuol lasciare intendere allo spettatore. D’altronde, l’intera pellicola non è che una sequela di miraggi straordinari, di allucinazioni, di atmosfere psichedeliche, di animazioni singolari, fuori dal comune, esagerate eppure incredibilmente probabili, perfino plausibili nella loro naturale assurdità, tutti elementi che soltanto nel regno dei sogni è possibile scovare e percepire.
“Alice nel Paese delle Meraviglie” è un elogio all’irrazionalità, un tributo al paradosso, un’ode alla stramberia, un madrigale fatto di immagini distorte, di melodie stravaganti e di parole inusuali: un’opera filmica che è un omaggio alla fantasia più dirompente.
“Andiamo, su, è l’ora del thè.” – Dirà la sorella di Alice. La fanciulla, ancora confusa, raccoglierà il suo gattino Oreste fra le braccia e s’incamminerà verso il ponte che sormonta il fiume d’acqua cristallina.
Alice ha fatto ritorno alla realtà. Non era altro che un’illusione, una visione onirica cominciata quando la damigella aveva ancora gli occhi schiusi e proseguita quando le sue palpebre erano scese, conducendola verso il buio del sonno e poi verso il colore dei sogni. E se non fosse stato così?
Se il Paese delle Meraviglie esistesse realmente? Chi potrebbe dirlo. Alice aveva bisogno di evadere, di allontanarsi, di scappare, di rincorrere una fantasia che infondesse ad una giornata monotona, dal battito lento e sempre uguale, l’ebrezza di una fantasticheria.
Forse ognuno di noi ha il proprio Paese delle Meraviglie, una regione nascosta in cui potersi recare per scampare alla routine. Ma, come imparato dalla stessa Alice, per quanto bella e coinvolgente possa apparire una fantasia, un ricordo, una memoria, un’immagine, un miraggio, non lasciatevi mai catturare del tutto da essi. E’ bene fare sempre ritorno alla realtà, quanto meno per l’ora del thè.
Io e papà ci scherzavamo
su, ogni nove di dicembre. A dire il vero, cominciavamo qualche giorno prima. “Il compleanno di Kirk Douglas sta arrivando”
– dicevo a mio padre e lui, prontissimo, faceva eco con la solita domanda: “Quanti sono quest’anno? 95, 96?”
“Kirk è del 1916!” – puntualizzavo, di rimando. Papà, allora, accennando un sorriso, annuiva, ricambiando il mio sguardo compiaciuto. Stupore, meraviglia e un muto gongolante “vai, continua così, Kirk!”, trasparivano dalla sua espressione facciale, tutte le volte.
Kirk Douglas era un’autentica
leggenda ai nostri occhi. Non solo
per la notevole carriera che egli si costruì passo dopo passo, copione dopo copione, ma anche per la
sua impressionante longevità. Kirk
visse una vita intensa, appassionata, straordinaria.
Nel 1954, l’anno in cui
nacque mio padre, Kirk era già una star affermata e di prima grandezza. A quel
tempo, si trovava impegnato a navigare a
bordo di un legno malconcio, alquanto fragile, ma che riusciva, ancora, a
domare la superficie dell’acqua. Il personaggio che Kirk stava interpretando
cercava con tutte le sue forze di tornare a casa, nella sua Itaca, dalla sua Penelope. Le onde avverse, l’irrequietezza
del mare e la furia di Poseidone
ostacolavano il suo intento, impedendogli di esaudire il suo desiderio. Per
Kirk, quel viaggio di ritorno si
tramutò in un’odissea estenuante, in
un’avventura senza fine. E così, nel 1954, quando papà venne al mondo, Kirk
Douglas era sbarcato al cinema con l’ultima delle sue fatiche di quell’arco
temporale: “Ulisse”.
Kirk Douglas insieme a Silvana Mangano, interprete di Penelope e di Circe
Qualche anno dopo, precisamente nel 1956, Kirk portava una barba rossa ed incolta, indossava abiti sudici e sporchi di pittura e si era, da poco, trasferito a Saint-Rémy. Una sera, questi si sdraiò e rivolse lo sguardo alla volta celeste; per tutta la notte, giacque sveglio, disteso supino, a pancia all’aria come si suole dire, assorto a rimirare le stelle. I suoi occhi si tuffarono tra quelle sinuose dune, s’immersero fra gorghi blu cobalto, tra luci sgargianti, tra i rami di quei cipressi alti e fitti che si stagliavano in cielo, fino a smarrirsi in esso. Kirk, in quel tempo, aveva assunto le sembianze del pittore Vincent Van Gogh, e se ne stava a contemplare il cosmo, a immobilizzare nella sua mente quel “tetto” azzurro intenso, tutto ammantato di corpi celesti rilucenti di vita propria e non. Fu in quei momenti che concepì in sé la sua Notte Stellata, mentre la mano sicura e decisa, seppur tremante, era già pronta a fissarla sulla tela.
Kirk c’era, c’era sempre
stato. Che fossero gli anni ’40, ’50, ’60, la sua figura possente seguitava a
dominare le sale cinematografiche di mezzo mondo. Immortalato sui nastri di celluloide, l’attore americano vagò da una
meta all’altra, da un’epoca datata a quella successiva e poi oltre e oltre
ancora, senza mai arrestare il proprio cammino.
Kirk era lì, nell’antica Roma, e assistette alla ribellione dei gladiatori. Li guidò con la sua mano ferma, colma di vigore, contro i loro padroni, quegli schiavisti cruenti e senza scrupoli.
Molti secoli dopo, quando
alcune legioni dell’esercito francese
scelsero di non fuoriuscire dalle trincee, di restare al sicuro, di non
inseguire vacui orizzonti di gloria,
che avrebbero condotto i militi alla fine, alla morte su di un terreno zuppo di
sangue, Kirk era anche lì, insieme a
tutti loro. Durante la Grande Guerra, fu
proprio lui a difendere con i gesti e la dialettica i soldati che appartenevano
al suo reggimento, innocenti eppur rei
di aver cara la vita, di aver tentato e fallito una manovra militare
impossibile da compiere sin dal principio. Kirk si trovò anche laggiù, negli
abissi, ventimila leghe sotto la
superficie del mare, fianco a fianco all’empio e impassibile capitano Nemo.
Kirk attraversò cinquant’anni di cinema
americano, mille anni di storia, cento anni di esistenza.
Era un mito inossidabile,
un idolo intoccabile. Per me e per mio
padre, ricordare il compleanno di Kirk Douglas era diventata una tradizione spiccatamente
natalizia, visto il periodo. Ad ogni inizio di dicembre, il nostro giulivo
ricordo di Kirk, che era nato in modo del tutto spontaneo, si presentava come
una sorta di beneaugurante appuntamento. “Papà,
tra qualche giorno sarà il compleanno di Kirk. Un altro anno è passato”. Ne
parlavamo anche negli attimi in cui tiravamo fuori dallo scatolone l’abete per
addobbarlo. In quei momenti il nostro pensiero andava ancora al grande Kirk,
all’attore, all’uomo, con un grandissimo augurio di Buon Natale.
Stando a una nostra "intuizione", i lineamenti del viso di Ercole, protagonista della pellicola disneyana "Hercules", ricordano moltissimo quelli del grande attore Kirk Douglas. Oltre alla forma delle orecchie e ai dettagli del naso e del sorriso, persino la fossetta sul mento richiama quella del leggendario interprete. I disegnatori di "Hercules" non hanno mai dichiarato di essersi ispirati a qualche "star" in particolare. Tale, possibile, somiglianza non viene riportata da nessun articolo dedicato al film ed è assolutamente di nostra ideazione. Potete leggere di più sul film in questione cliccando qui.
Quest’anno,
purtroppo, è stata l’ultima volta che abbiamo avuto la possibilità di parlare
del suo compleanno, ma non potevamo di certo saperlo.
Ci eravamo illusi, sotto sotto. Per noi, Kirk Douglas era riuscito
nell’impossibile: aveva arginato la
morte, era riuscito a divincolarsi dalle sue grinfie. Sapevamo che prima o
poi l’irreparabile sarebbe arrivato ma, con un pizzico di ingenuità, non
volevamo crederci. Kirk Douglas si è spento qualche settimana addietro, alla
veneranda età di 103 anni. Un traguardo
eccezionale, il suo, raggiunto al termine di una vita dinamica, faticosissima, entusiasmante,
impegnata e vissuta sempre a ritmi frenetici.
La mattina in cui seppi
della sua morte, decisi di prendermi una pausa. Nel pomeriggio, cominciai a rivedere
uno dopo l’altro tutti i suoi film più celebri. In seguito, mi fermai a
indugiare sui ricordi e mi chiesi: quando
“incontrai”, per la prima volta, Kirk Douglas? La mente vagò rapida e si
soffermò, nuovamente, su mio padre.
Era una domenica come tante,
e papà mi aveva fatto dono di una vecchia videocassetta. Con tono sfacciato, disse
che in quella cassetta vi erano alcuni tra i più grandi attori di tutti i tempi.
La guardai. L’immagine stampata sulla custodia mostrava, al centro, un tipo
serioso, catturato in una posa eroica. Questi
brandiva una fiaccola accesa, agitandola verso l’alto. Si trattava della
videocassetta di “Spartacus”, uno dei
lungometraggi simbolo della filmografia di Kirk Douglas.
Questo kolossal, diretto
da Stanley Kubrick, fu espressamente voluto dallo stesso Douglas, il quale
investì una cifra sostanziosa nella produzione della pellicola. Kirk desiderava fortemente recitare nei
panni di un eroe d’altri tempi. Precedentemente, aveva cercato in tutti i
modi di assicurarsi la parte principale in “Ben-Hur”,
ruolo che andrà ad un altro gigante del cinema, Charlton Heston.
Non essendo riuscito ad ottenere quella parte, dunque, Douglas si mise in affari per conto proprio e “commissionò” a Stanley Kubrick il progetto “Spartacus”. Il ruolo del guerriero trace, dello schiavo che si erge e affronta coraggiosamente la Repubblica di Roma, parve cucitogli addosso. Kirk, infatti, anche nella realtà, si dimostrò sempre un uomo audace, indomabile, incorruttibile. Egli non si piegò mai alle regole imposte dallo Star System hollywoodiano, anzi tutt’altro. Le fronteggiò con ardore. Scardinò le limitazioni, i pregiudizi generati dal Maccartismo. Restituì la libertà a chi gli era stata sottratta, si impegnò, con coraggio, rischiando in prima linea, per dare lavoro e dignità a coloro che erano finiti nella lista nera.
Kirk Douglas si configurò come un gladiatore romano riapparso nel ventesimo secolo, un guerriero, un lottatore che si erse sui vigliacchi e che non si genuflesse mai ai potenti. Un caso emblematico per comprendere ciò avvenne proprio durante la lavorazione di “Spartacus”. Kirk voleva che Dalton Trumbo, noto sceneggiatore escluso dal business per sospette simpatie comuniste, curasse la sceneggiatura del suo film. Douglas non si lasciò intimorire dalle dicerie e prese Trumbo con sé. L’interprete pagò lo scrittore a sua spese e pretese che il nome del suddetto sceneggiatore fosse inserito nei titoli di coda.
Con grinta e impavidità, Kirk Douglas sfidò apertamente le
reticenze, le ipocrisie del cinema statunitense, contribuendo a ribaltare tabù
e preconcetti limitanti e oppressivi. Se il personaggio di Spartacus sarà
destinato a cadere contro l’esercito romano e a morire sulla croce come un
messia violento e rivoluzionario, Kirk, al contrario, riuscirà a trionfare,
ad estirpare il clima ostile e paranoico vigente nella vecchia Hollywood
dell’età dell’oro.
Le somiglianze tra Kirk e
le sue controparti sul grande schermo, le similitudini tra la “persona” ed il “personaggio” non riguardano soltanto “Spartacus”. Sono molteplici i soggetti virili,
temerari, ma anche pacati e buoni a cui Kirk Douglas conferì vita eternatra i contorni nitidi di una cinepresa.
Kirk somigliava pure ad
Ulisse, il celebre eroe omerico che Douglas impersonò con passione e
coinvolgimento. La pazienza, la tempra resistente, il carattere energico e la
tenacia di Kirk erano proverbiali. Come
Ulisse, Douglas non si dava mai per vinto e, come lo stesso Odisseo, il quale,
per anni, lottò contro gli oceani ribollenti di collera avendo, come unico
conforto, il ricordo della sua sposa, Kirk rimase innamorato della stessa donna
per più di cinquant’anni. Douglas sposò Anne Buydens nel 1954, e insieme a
lei rimase per tutto il resto della sua vita.
Anne era per Kirk ciò che Penelope fu per Ulisse: una certezza, un’ancora tenace, un porto su cui attraccare senza voler mai ripartire, un richiamo perenne, una meta da raggiungere costantemente. La conobbe sul set di “Atto d’amore”. Ne rimase incantato, ne venne rapito. Anne era una donna attenta e intelligente, una bionda furba e con la risposta sempre pronta. Ella non si lasciò facilmente “abbindolare” e sedurre dal divo di turno. Così, respinse le avance. Il corteggiamento per Kirk fu decisamente spossante, si protrasse per settimane ma, infine, sortì l’effetto sperato. Anne capì che per Douglas non si trattava della solita, fugace avventura di una notte. Acconsentì al loro primo appuntamento, a cui ne seguirono molti altri. In breve tempo, convolarono a nozze. Il loro sarà un matrimonio duraturo, sebbene Kirk, un po’ come lo stesso Ulisse, non esiterà ad essere “infedele”. Del resto, Kirk era un duro di buon cuore ma anche un “infame”, per sua stessa ammissione.
Egli era un sognatore, un idealista come il colonnello Dax, il
protagonista di “Orizzonti di gloria”.
In quest’opera filmica, Douglas impegnò tutto se stesso per portare in scena una
tematica scomoda. La tragica battaglia “legale” condotta dal colonnello per
salvare la vita a tre commilitoni, condannati alla pena di morte per un
“crimine” mai commesso, evoca una critica
sprezzante al militarismo, alla guerra che non custodisce, in sé, alcuna gloria. Idealista fu anche un altro personaggio
impersonato da Douglas, ovvero Jack Burns, un cowboy che si allontanò
volontariamente dalla modernità per vivere a contatto con la natura, seguendo i
dettami, le leggi, il credo di un passato “western”, di un mondo fatto di lealtà ed onore che non esiste più.
Kirk Douglas vantava un
carattere infaticabile, una personalità irrequieta, ansiosa di creare, di fare arte in ogni sua forma. Questo lato della sua persona ricordava
quello del pittore olandese Vincent Van Gogh a cui Kirk Douglas prestò il
suo inconfondibile volto in un’interpretazione straordinaria, e per la quale
mancò clamorosamente il premio Oscar.
Le pellicole più
importanti della sua carriera costituiscono una fonte da cui attingere informazioni, una sorgente da cui trarre
un’indicazione, una verità sull’identità sfaccettata di questo attore che visse
per più di cento anni.
Ma forse, il ruolo più interessante e complesso di
Kirk Douglas resta quello che, di rado, viene menzionato. Un ruolo profondamente
diverso da quelli a cui ci ha abituato, che poco ha a che vedere con la
personalità di Kirk Douglas. Come si è soliti affermare: un bravo attore si dimostra tale quando dà vita a un personaggio che è
quanto di più distante da se stesso.
Se con i ruoli citati in
precedenza, è possibile scandagliare l’animo di questo artista indipendente in
virtù delle affinità evidenziate tra
persona e personaggio, facendo riferimento a quest’ultima parte, sarà
possibile, invece, indagare un’altra caratteristica: il talento, la bravura eccelsa di Douglas nel dare forma, presenza,
portamento e voce ad un personaggio corrotto, insensibile, insaziabile e arrivista.
Nel film “L’asso nella manica”, per la regia di
Billy Wilder, Kirk Douglas interpretò Charles Tatum, un giornalista arrogante e
senza scrupoli, disposto a tutto pur di arrivare allo “scoop”.
Charles ha lavorato per i
quotidiani più importanti di New York, venendo poi sistematicamente licenziato
da ognuno di essi per cattive abitudini
tenute sul luogo di lavoro. L’uomo, poco propenso a cambiare comportamento, rimasto
senza un soldo, giunge ad Albuquerque e viene assunto nel piccolo giornale cittadino. Attende più di un anno per trovare una grande
“notizia” che possa riportarlo sulla breccia.
Un giorno, Charles si
imbatte in un evento decisamente particolare: una frana che ha intrappolato
all’interno di una montagna un pover’uomo, Leo Minosa. Costui, da svariati
giorni, stava saccheggiando tombe indiane in una vecchia caverna. I nativi avevano
avvertito il ricercatore circa i pericoli celati in quel massiccio roccioso, su
cui aleggia un’oscura maledizione. Fiutando
le potenzialità dell’accaduto, Charles si avventura in quei luoghi e incontra
l’uomo, rimasto con entrambi gli arti inferiori bloccati sotto un cumulo di grosse pietre. Un corposo
masso sbarra la strada e separa il giornalista dal saccheggiatore, e i due
riescono ad interagire soltanto attraverso una sottile apertura.
Charles comincia a scrivere il primo articolo sull’incidente. Mescolando elementi reali ad allusioni sovrannaturali riguardanti il presunto anatema che si è compiuto ai danni del “profanatore di tombe”, il giornalista crea una narrazione avvincente che desta l’attenzione di molti lettori. Charles, giornalista navigato, rammenta come scrivere un “racconto” intrigante e a puntate, conosce i gusti del “pubblico”, sa che la notizia dovrà apparire sensazionale e la “questione” lunga e complessa. Concorda così con lo sceriffo del luogo di ritardare il più possibile i soccorsi. Per giorni, Charles scrive articoli repleti di parole forti, ammiccanti, appassionanti, che descrivono lo stato d’animo, la sofferenza dello sventurato rimasto prigioniero della montagna. I lettori vogliono sempre più particolari e non riescono a smettere di leggere tutti i pezzi che i quotidiani propongono loro. Una folla si raduna nei pressi della catena montuosa, e la tragedia umana finisce per tramutarsi in una forma raccapricciante di spettacolo. Charles trascinerà la sua inerme vittima sino allo sfinimento. Solo allora, distrutto dai sensi di colpa, si renderà conto del suo agire disumano e fraudolento, del suotradimento compiuto nei riguardi del giornalismo libero e vero.
Kirk Douglas, col
ritratto del suo reporter arrivista, lanciò
una critica severa alla spettacolarizzazione del “fatto”, alla cronaca
plasmata secondo le regole dell’intrattenimento, del “mito” narrato, il quale
mira, sovente, a generare una reazione
emotiva piuttosto che a stimolare una
coscienza collettiva.
Se con “Spartacus”, “Ulisse”, con “Orizzonti di
gloria” e con “Brama di vivere”
aveva messo in mostra l’eroismo, la tenacia, l’orgoglio, l’altruismo, la
genialità e l’amore per l’esistenza umana, caratteristiche che derivavano dalla
sua stessa persona, al contrario, con “L’asso
nella manica” Douglas volle ricordare la
malvagità, l’opportunismo che può albergare nei cuori delle persone.
Fu questo il compito più
importante e simbolico compiuto da Kirk Douglas. Rammentare quanto il sadismo,
la crudeltà, e soprattutto l’egoismo umano possano essere corrosivi e
pericolosi.
Dall’individualità, dall’egoismo,
il cinema, che ha visto Kirk Douglas tra i suoi più grandi rappresentanti, non
smette mai di metterci in guardia,
educandoci nell’essere persone migliori.
"Rey, Kylo Ren, Leila e Darth Sidious" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters
Attenzione pericolo SPOILER!!!!
Non ho intenzione di
scrivere una vera recensione sul nono episodio della saga di “Star Wars”. Non riuscirei a farlo.
Per quest’ultimo
capitolo, dubito valga veramente la pena di sprecare gocce d’inchiostro, seppur di inchiostro “virtuale” io
stia parlando. Mi ero ripromesso di non spendere più alcuna frase per questa
trilogia sequel, tanto il malumore e lo
scontento avevano avuto la meglio nel mio animo. Con un pizzico di
ingenuità, in tutti questi mesi, ho seguitato a ripetermi che i sequel non mi appartengono e che ciò
che mostrano non può scalfire il ricordo della storia che ho amato perdutamente.
Cronologicamente
parlando, “Star Wars”, per me, comincia
con un bambino scoperto su Tatooine e termina molti anni dopo con la morte di
quello stesso “bambino”, divenuto un uomo adulto, racchiuso in un elmo scuro.
Durante l’evolversi di
questa storia, il “bambino” di cui faccio menzione si era tramutato in un
terribile servitore del male, genuflesso
ad un dolore che non avrebbe mai avuto fine. Il biondo dei suoi capelli era
scomparso così come il candore del suo volto. Dall’episodio I all’episodio VI, di
Anakin non è rimasto che un viso paonazzo, saturo
di sofferenza. Quella faccia demolita dal patimento veniva osservata con
dolcezza dal figlio Luke, poco prima che Anakin spirasse tra le sue braccia. Che splendido finale era quello!
Anakin Skywalker, il prescelto dei Jedi, era un personaggio torturato dal rimorso, ottenebrato, sconvolto tanto nel corpo quanto nello spirito. Un uomo che, nel periodo più buio della sua vita, quando aveva perso ogni speranza e si era, da tempo, allontanato dal bene, scopre d’essere un padre. Anakin era un eroe caduto, eternamente in conflitto con se stesso, che cercava di risorgere dalle tenebre. Darth Vader era il “malvagio”, ma anche il vero protagonista delle vicende. Un protagonista che otteneva la redenzione salvando il figlio dalla morte, sottraendolo allo strazio del “vero” antagonista, vale a dire l’Imperatore Palpatine. I fulmini scagliati dal tiranno all’indirizzo dell’inerme Luke riaccesero l’umanità mai del tutto sopita nel cuore del cavaliere jedi. Anakin tornò in sé, riemerse verso la luce. Uccidendo il “cattivo”, ovvero il Signore dei Sith, Anakin compì la profezia teorizzata dal creatore di questo racconto immortale, George Lucas. “Star Wars” finiva in tal modo. La storia era stata conclusa, non vi era altro da raccontare.
L’epilogo della saga era
perfetto, talmente soddisfacente da non lasciare alcuno spiraglio. Qualunque
cosa fosse stata imbastita per un “fantomatico” seguito, avrebbe assunto i toni
della “forzatura”. E’ il destino delle grandi storie: hanno un inizio ed una
fine, proseguirle quando esse hanno già mostrato tutto significa rischiare di
rovinarle.
Tutto ciò che è stato prodotto dopo la fine dell’emozionantissimo “La vendetta dei sith”, non incontrando i miei favori, ho preferito abbandonarlo, ignorarlo, cosciente che avrebbe fatto felice qualcun altro.
Ad oggi, però, mi sento in dovere di scrivere qualche altra riga su questo strampalato proseguimento dell’esalogia ideata da Lucas, e per un motivo molto chiaro: il finale di “Star Wars: episodio IX” non può essere tralasciato, obliato, trascurato poiché inficia maledettamente l’arco narrativo dei capitoli precedenti, quello stesso arco narrativo sceneggiato in sei splendidi film, i quali materializzavano, sotto i nostri occhi, il fato di due cavalieri Jedi, Anakin e Luke Skywalker, ad oggi resi completamente inutili da una sciagurata prosecuzione firmata Walt Disney e Lucasfilm.
Riflettere sul “come” si
siano sviluppati questi bizzarri sequel, colmi
di una storia già vista e repleti di incongruenze e trame imbastite senza
un’intenzione precisa, fa sorridere amaramente. Con pacatezza, cercherò di
tirare le somme di questa “mirabolante” e “stupefacente” trilogia targata “Topolino”. Partiamo dall’inizio, “dall’originalissimo”
e “audace” episodio VII. Il nuovo
corso, infatti, comincia da lì.
E’ il 2015. I propositi
sono ambiziosi, il marketing pervasivo. Il seguito de “Il ritorno dello jedi” viene pubblicizzato come l’evento cinematografico più importante
degli ultimi dieci anni. La regia è stata affidata al noto J.J. Abrams. Con
una ruffianeria per nulla celata, il cineasta dimostra di voler appagare e
compiacere il pubblico di devoti, riportandolo a rivivere le identiche atmosfere
della prima trilogia. Abrams plasma, così, un’opera
filmica studiata a tavolino: stucchevole, prevedibile, scontatissima ed
estremamente scimmiottata. L’impatto per molti è spiazzante: episodio VII non è
un seguito, o per meglio dire è un seguito furbo e potenzialmente irrispettoso.
La trama introdotta dal
settimo episodio della saga è un allucinante copia-incolla. Più che un sequel, J.J. Abrams confeziona un
remake/reboot delle opere di George Lucas, non
osando nulla e non compiendo nessuna innovazione stilistica e narrativa. Il
sequel di un film che era terminato con la caduta dell’Impero Galattico e la
vittoria dell’Alleanza Ribelle, non
presenta alcunché di moderno, “inaspettato”, nuovo. L’ambientazione è la medesima, l’approccio è identico, i
conflitti lo sono altrettanto, il canovaccio, inoltre, calca in tutto e per
tutto quello di “Una nuova speranza”.
Ne “Il risveglio della forza” non
vengono mostrate le dinamiche di un universo evoluto, necessariamente cambiato in trenta e passa anni dall’ultima volta
che noi tutti gli avevamo dato un’occhiata.
Nessun contesto politico viene indagato, nessun aspetto sociale vagliato.
Il tutto si presenta come se nulla fosse mai variato.
Il Primo Ordine (la copia
mal fatta dell’Impero) viene rappresentato come l’organismo dominante, la
“cellula” più forte di questa realtà incerta e indefinita. La Resistenza (che
resiste non si sa a cosa visto che dovrebbe essere la milizia della Nuova
Repubblica e, dunque, del sistema politico dominante) vanta un esercito
risicato, abbozzato. Praticamente
Abrams, pur di farci vivere le medesime guerre stellari della tanto adorata trilogia
classica, ripropone, come in copia carbone, i medesimi conflitti battaglieri
dei film precedenti, senza aggiungere nulla di nuovo, senza contestualizzarli.
Ma non solo!
L’intera struttura del
film fa il verso ai passi più importanti della trilogia originale, perseguendo
un maldestro tentativo di rifacimento.
Non si può parlare d’altro che di un’operazione
retrò codarda e astuta. L’episodio VII è, a mio umile parere, l’anticinema!
Abrams fa proprio
l’opposto di ciò che dovrebbe fare un regista, un autore, “accontentando” il
pubblico con un mero rifacimento,
senza mai tentare di sorprenderlo. Cosciente
che la maggior parte dei fan aveva contestato a Lucas le troppe innovazioni
stilistiche della trilogia Prequel, Abrams
si nasconde dietro saldi scudi di fanservice, dando in pasto agli
appassionati lo stesso film di
quarant’anni fa. Così, J.J. inscena una continuazione che non è una vera
continuazione per paura di subire le critiche che George Lucas incassò ai suoi
tempi con episodio I, II e III, sinceri e cristallini esempi autoriali di rinnovo, di
sperimentalismo, di ampliamento, di coraggio.
Per come la storia viene
presentata in episodio VII, la lotta dei
ribelli, di Luke, di Leia e di Han risulta essere stata del tutto vana. La
Repubblica, rimessa in piedi col sangue e il sacrificio di eroi e combattenti
nei tre film della trilogia originale, viene spazzata via in tre secondi netti
dal “raggio di luna” scagliato da “Sailor
Abrams”. Tutto viene riportato al
punto di partenza, come se i film classici non avessero raggiunto alcuna meta.
Non si è voluto parlare di qualcosa di nuovo, di diverso, si è voluto, invece, annullare il “vecchio” e copiarlo.
La pellicola, così facendo, fa regredire la crescita di alcuni personaggi storici. Ne è un esempio l’evoluzione di Han Solo che, da contrabbandiere solitario, testa calda, alla fine della trilogia originale era diventato leader della ribellione ed eroe altruista, temerario e senza macchia. In “Il risveglio della forza”, la progressione di Han viene completamente annullata. Han Solo, a settant’anni suonati, si rimette a fare le stesse cose che faceva quando era giovane e avventato. Si gingilla con questioni di poco conto, truffa alcune fazioni malavitose con Chewbacca, dimostrando di non aver perso per nulla il vizio. Il punto in cui era arrivato al termine di episodio VI è stato spazzato via. Han e Leia che, come ricordavamo, erano diventati una cosa sola, nell’episodio VII appaiono lontani, distanti, separati da un brutto risvolto. Abrams ha, così, mandato in frantumi una delle coppie più simboliche dell’universo di Star Wars. Leia, poi, in tutta la trilogia sequel si limiterà ad essere una comparsa stanca e assuefatta su un altrettanto fiacco sfondo.
Nel medesimo film, Luke
pare essersi “smarrito”, ma per trovarlo viene consegnata alla Resistenza una
mappa (?). Abrams ha poi la sfrontatezza di inserire la terza “Morte Nera”
consecutiva che presenta lo stesso tallone d’Achille della prima.
Nel 2015 fu personalmente
scioccante assistere al cinema a una tale e becera scopiazzatura del lavoro originale e artistico di Lucas. Da
fan di lunga data mi sentii preso per i fondelli.
Nessuno dei personaggi proposti in questo nuovo corso ebbe l’abilità di “acchiapparmi”, di conquistami. Poe Dameron fungeva da “clone” difforme di Han Solo e Finn era del tutto privo di carisma. Rey, pur reggendo il peso della pellicola con un certo spessore, non fece altro che infastidirmi. Bella, intelligente, dolce, coraggiosa, forte, disinvolta, era tutto ciò che si poteva sperare contenuto in un solo corpo. Era troppo, a dire la verità. Rey era brava a duellare con la spada laser senza averne mai impugnata una, era capace di fare trucchi mentali jedi grazie ad una virtù incompresa, era, insomma, l’emblema del nuovo corso Disney: una donna praticamente perfetta sotto ogni aspetto, la degna depositaria dell’eredità disneyana di Mary Poppins.
Kylo Ren, colui che
doveva fungere da antagonista della prima opera, sembrava sin da subito
dilaniato da un conflitto interiore. Diviso tra luce e oscurità, Ben Solo era un
buono che avrebbe voluto essere un cattivo (?). Un personaggio insicuro,
complessato, che sognava d’essere forte come il nonno e seguire le sue orme verso
il lato oscuro. Per tale ragione, Kylo Ren, nel primo lungometraggio di questo bislacco
corso, compie il parricidio, per abbracciare definitivamente le tenebre. Anche
questa mi sembrò una scelta narrativa ingiustificabile.
Evidentemente, Ben credeva
che solo attraverso il male avrebbe potuto eguagliare il suo “mito”,
raggiungere la potenza di Darth Vader. Una domanda, però, sorge spontanea: come è possibile che il fantasma di Anakin
non si sia palesato dinanzi al nipote, indirizzandolo sulla retta via sin da
subito? Kylo Ren voleva finire ciò che Darth Vader aveva iniziato, ma
cos’era questo progetto rimasto incompiuto?
Bene, a trilogia conclusa,
non si riesce a capire quale fosse questo arduo compito. Ben Solo si avvicina
al male perché vorrebbe essere come suo nonno, eppure non sa che quello stesso
nonno che venera assiduamente ha, per l’appunto, dato la sua vita per annientare il simbolo di quel male che lui,
adesso, insegue furiosamente. Com’è possibile che nessuno gli abbia riferito
della redenzione di Darth Vader?
Ma, ancor di più, come è
concepibile che Anakin non sia mai intervenuto per vegliare sul destino di suo
nipote? Non gli abbia mai parlato come un’eco? Incongruenze come queste rendono
la trilogia disneyana piena di no-sense.
Nell’episodio 7, viene introdotto
il misterioso Snoke, figura enigmatica che verrà eliminata senza uno straccio
di presentazione nell’episodio successivo. Proprio così, ex abrupto,
all’improvviso, esattamente come avrebbero immaginato gli sceneggiatori
presenti nella serie tv “Boris”.
E, una volta nominatolo, giungiamo,
dunque, al “rivoluzionario” e “dissacrante” episodio VIII.
Rian
Johnson viene presentato al pubblico come il regista illuminato, il “Robespierre”
di “Star Wars”.
Johnson è pronto a ghigliottinare teste, a tagliare i ponti con il passato, a
mozzare con una lama affilata le corde che legano i nostalgici al trascorso. Johnson
pare essere categorico: bisogna
accantonare il fanservice di J.J. Abrams. E’ ora di cambiare rotta. Purtroppo
per lui, la rotta di navigazione di questi seguiti era ormai bella che
indirizzata. L’episodio VII era il nucleo fondamentale di questa trilogia.
Partendo in quel modo, con uno scenario
che in toto sapeva di già visto, non c’era più niente da fare. E’, di
fatto, impossibile apportare “migliorie” e schiette novità in un contesto platealmente ripetitivo come quello
architettato da J.J. Abrams. L’errore di questa trilogia è a monte, e comincia
proprio con il numero “7”.
Il
risultato del lavoro “innovativo” di Johnson è una dissacrazione del concetto
stesso di Forza. Johnson tratta e inscena la Forza
Unificante come se fosse un potere da fumetto, prestato ad ogni necessità di
sceneggiatura. Nella pellicola, allora, assistiamo, inermi, a momenti
stralunati e balordi.
Rey e Kylo Ren cominciano
a dialogare a distanza, come in una fantomatica “videochiamata” a carattere
fantascientifico. I due parlano, si
osservano, si toccano. Qualcosa di mai visto prima. Invero, in episodio V,
Leila riesce a sentire Luke, ma come un’impercettibile sensazione. Nel caso di
episodio VIII, la Forza abbatte ogni barriera, ogni dogma, ogni limite imposto tanto
accuratamente in più di trent’anni di curata elaborazione dal creatore George
Lucas, rendendo plausibili teletrasporti, sdoppiamenti, ologrammi a distanza. Il tutto senza uno straccio di spiegazione.
Accade questo perché è così e basta!
Nel suddetto
lungometraggio, Luke Skywalker viene trattato come un reietto, un vagabondo, un
maestro che non ha compiuto nulla di
tangibile nella sua esistenza. Luke non ha ricreato un nuovo ordine jedi, è
fuggito dai pericoli, dagli obblighi. Colui che riusciva a intravedere il buono
custodito nel corpo contorto e meccanico
di suo padre è, oramai, un disilluso, un essere che ha dubitato di suo
nipote per un semplice sentore, valutando, addirittura, l’idea di assassinarlo nel
sonno. Qualcosa di aberrante e
inspiegabile. Com’è possibile che un personaggio come Luke sia diventato
quello che ci è stato mostrato? Un anacoreta sventurato, stanco, l’opposto di ciò che era sempre stato.
Johnson, poi, per tutto
il film non fa che calcare la mano con l’ironia. Non vi è una singola scena che
non sia stemperata da una battuta stupida, da
un’ironia grossolana che affligge ogni dannato personaggio. Tutti cadono
preda della febbre della comicità, persino Luke che in tre film interi non
aveva mai palesato alcuna inclinazione comica. Lo “Star Wars” della Disney si adegua, così, allo stile Marvel in cui
non si può prendere seriamente una singola scena che subito deve essere
annacquata con una battuta.
Rian Johnson, reputato dagli estimatori di episodio VIII come “un grande innovatore”, si limita, per il resto, a riproporre la trama de “L’impero colpisce ancora”. Alcune sequenze sono, addirittura, identiche a quelle de “Il ritorno dello Jedi”, specialmente quella in cui Rey, accompagnata da Ben Solo, raggiunge Snoke. La stessa scena è possibile scorgerla, naturalmente, quando Darth Vader conduce Luke al cospetto dell’Imperatore. In questo caso, ancora una volta, non si tratta di semplici citazioni ma di vere e proprie riproposizioni, inscenate per mancanza di idee di fondo.
Un’intera parte del film,
quella relativa a Poe e Finn, è completamente inutile ai fini della trama. Ogni evento che accade non porta, di fatto,
a niente. Se l’episodio VII, col suo delirante citazionismo, aveva diviso
il fandom tra chi si aspettava un vero seguito e chi, invece, si era
accontentato del sicurissimo remake
senza infamia e senza lode, episodio VIII genera una spaccatura ulteriore,
senza precedenti.
Arriviamo, infine, ad episodio
IX, la “degna” chiusura di questa improbabile
trilogia.
Dopo le pesanti critiche
ricevute da “Gli ultimi Jedi”, la
Disney richiama Mr. Fanservice: J.J. Abrams.
Al cineasta più citazionista e scopiazzatore del globo terrestre non frega nulla di raccontare una storia, anche perché non è in grado di farlo se non attraverso l’ispirazione del cinema spielberghiano e lucasiano. Così, Abrams fa quello che, secondo lui, il pubblico vuole: annulla completamente l’episodio VIII. Sin dal primo frame, il compito di Abrams è quello di prendere le distanze dall’opera antecedente, correndo all’impazzata per tappare buchi, rattoppare tagli, ricucire strappi insanabili. Il tutto con un piglio imbarazzante, con la disperazione di chi non sa cosa diamine sta combinando. Abrams fa peggio di Johnson, e trasforma la Forza in un potere che sembra essere uscito da alcuni episodi di “Dragon Ball”.
Nel vano tentativo di rendere appetibile l’operazione, Abrams ha la brillante idea di resuscitare l’Imperatore Palpatine, rischiando di distruggere il meraviglioso arco narrativo che ha visto Anakin ascendere al suo ruolo di Prescelto e portare equilibrio nella Forza. Perpetrando ciò, Abrams tenta di cancellare, con una gomma immaginaria, l'operato del collega Johnson e rinnega tutta la mitologia di Guerre Stellari, imbrattando il lavoro stesso di George Lucas.
La trilogia disneyana di Star Wars credo sia l’unico esempio cinematografico di una trilogia in cui gli episodi si rinnegano tra loro. L’episodio 7 rinnega l’episodio 9, l’episodio 8 sconfessa il 7 e l’episodio 9 rigetta sia l’ottavo che il settimo. Ma non solo, quest’ultimo capitolo distrugge la narrazione dell’intera storia concepita nei sei film da Lucas.
Per quanto Abrams si
sforzi a premere il piede sull’acceleratore e sommerga lo spettatore con scene
d’azione, con battaglie e con nozioni frettolose, è ormai troppo tardi: i
personaggi di questa trilogia sono piatti,
sbiaditi, insulsi perché mai sviluppati con un’intenzione chiara e
definita. A pochi importa veramente cosa possa accadere loro. Questi personaggi
non sono mai evoluti, non sono mai stati resi interessanti o delineati in modo
nitido. Sono pallide comparse, rese centrali
in una trama inesistente, caratteristi infimi, imparagonabili rispetto a
Luke, a Leila, a Han, ad Anakin a Padmé, a Obi-Wan, a Yoda, a Qui-Gon Jinn.
Della maggior parte dei personaggi della trilogia sequel non resta neppure un
briciolo, nessuna emozione particolare. Ogni passo, ogni risvolto è telefonato, privo
di pathos, blando, sciatto, ripetitivo, inguardabile
ed inqualificabile.
La pellicola di Abrams
tocca le più alte vette dell’imbarazzo quando rivela la reale origine di Rey. Un qualcosa di talmente ridicolo, osceno e
difficilmente commentabile che sarebbe meglio glissare se non fosse una parte
così fondamentale. Rey è… la nipote di Palpatine.
In parole povere, noi,
gli spettatori, dovremmo immaginare che Palpatine abbia avuto una relazione con
una donna e abbia avuto degli eredi, il che, di per sé, è già ostico da
valutare senza scoppiare a ridere
freneticamente. Quando, come, perché sarebbe accaduto questo?
A me, francamente, sembra
di vivere in un grosso incubo. Questi
sceneggiatori hanno veramente gettato sul tavolo la carta della “nipote”.
Ma nemmeno in “Beautiful” è
ammissibile un colpo di scena del genere. Siamo al ridicolo, al raschiamento
del fondo del barile, siamo alla parodia.
Kylo Ren, l’unico
personaggio che poteva sperare su uno sviluppo più accurato, compie, invece,
l’ennesimo andirivieni della sua mal sfruttata presenza in questa trilogia. Da
cattivo a buono, da buono a cattivo, e ancora da cattivo a buono, Ben Solo sceglie
di tornare al Lato Chiaro in maniera sbrigativa, sciocca. Il figlio di Han e
Leia finisce per svanire, non prima di aver baciato, in una delle scene più forzate di sempre, Rey. Una
scelta, quest’ultima, realizzata senza alcuno scopo narrativo ma soltanto per
far applaudire le ragazze presenti in sala, molto devote sui social all’hashtag
“Reylo”. Ma che disagio!
Il nono capitolo della
saga vede, come già accennato, la presenza di Palpatine. La morte di Darth Sidious costituiva il culmine della storia di George
Lucas. Il suo ritorno, giustificato in maniera vergognosa, decreta “la
fine” di ogni pretesa logica riservata a quest’ultima trilogia.
In trent’anni, Palpatine
è rimasto nascosto non si sa dove, probabilmente tra la carta colorata di un
uovo di Pasqua, ha mosso lui i fili del Primo Ordine (era tutto ponderato sin
dall’inizio, come no!) e ha creato anche Snoke. Così, senza motivo. Ogni cosa abbozzata in questa trilogia è stata
liquidata con delle spiegazioni che sembrano estrapolate da una fanfiction scritta a quattro mani durante
qualche oretta di svago.
Palpatine verrà ucciso da
Rey e ciò segnerà un confine netto da cui non si tornerà più indietro: gli Skywalker non hanno fatto nulla di
veramente valevole in questo universo. E’ ciò che hanno deciso, con
quest’ultimo episodio, l’accoppiata Disney/Lucasfilm. Gli Skywalker,
dall’essere la famiglia più importante della galassia, sono stati ridotti ad
essere vacue ed ingenue entità di
passaggio. E’ Rey la vera fautrice degli eventi, è una Palpatine il vero perno della storia finale. Una Palpatine
che sceglie di ribattezzarsi Skywalker. E’ questa la grande ascesa a cui
abbiamo assistito: la dissoluzione dei
veri Skywalker, l’annientamento di un leggendario lignaggio e la celebrazione
di una Palpatine.
Al termine della trilogia
disneyana, tirando le somme, gli storici protagonisti della saga, Anakin e
Luke, non hanno compiuto niente di rilevante. Con questa scelta, la
Disney/Lucasfilm ha annientato la profondità delle due trilogie precedenti.
Il
sacrificio di Anakin è stato vanificato. L’intera storia della profezia,
del Prescelto, è stata soppressa. Vi
soddisfa un finale del genere? Com’è possibile? Che storia abbiamo visto
fino a pochi anni fa, allora? Vi aggrada
aver assistito al logorio e allo sgretolamento dei personaggi cardine della
trilogia originale?
La saga di “Star Wars”, per come si è evoluta negli
anni, è diventata la storia di Anakin Skywalker, dalla sua scoperta sino alla
sua morte. Non si poteva prescindere da una tale verità. Con questa orribile
trilogia, la Disney ha adombrato la figura di Darth Vader, rivelando di non aver minimamente compreso la maestosità del racconto
di Lucas, un racconto fatto di fallimenti, di errori, di redenzione,
incentrato sempre sulla figura di un
eroe, di un caduto, di un marito e di un
padre. Tutto nell’esalogia di Lucas si combinava perfettamente, era una
storia amalgamata che faceva rima come
una sola, lunga e meravigliosa poesia. Era la storia di un padre e di un
figlio, di una famiglia, gli Skywalker, ad oggi completamente rovinata. Il
finale di episodio VI è stato neutralizzato.
Era ciò che temevo e
profetizzavo, preoccupato, nel novembre del 2015, quando l’ultima fatica della Lucasfilm
era imminente e doveva ancora sbarcare al cinema. Com’è possibile farsi andare
bene una roba del genere? Con questa trovata, l’intera storia della saga di
Star Wars non ha più alcun senso. Difatti,
non sono più gli Skywalker a riportare equilibrio nella Forza ma è… una Palpatine
a farlo. E’ orribile! E’ indecente!
L’intera trilogia sequel
non è stata diretta e coordinata da un vero narratore. Manca totalmente una
visione univoca e d’insieme. Sembrano tutti film sconnessi, sconclusionati, che
si rifiutano tra loro. Ogni lungometraggio è passato di mano in mano, da
un’idea all’altra, senza seguire un pensiero di base. E’ qualcosa non soltanto
di palese, ma di tremendamente oggettivo.
Sin dal principio, nessuno aveva tracciato una strada da intraprendere, una
direzione da seguire. Si è andati a tentoni, navigando a vista e prendendo come metro di giudizio il parere reazionario
del fandom, direttamente dal web. Abbiamo
assistito a tre episodi fatti con cose buttate a casaccio, con discordanze,con repentini cambi di visione che
annullano ogni tentativo di sospensione dell’incredulità. Ogni pellicola è
stata cancellata e reinventata come se si trattasse di un progetto autonomo. Questa trilogia poggiava su sei film
precedenti, tutti coordinati da un’unica presenza autoriale. L’esalogia di
Lucas è stata barbaramente insozzata, deturpata.
Qual è stato il senso di
questi tre episodi?
Questa è stata la trilogia del riciclo, del ricalco, della scopiazzatura, il simbolo della mancanza di idee, del cattivo modo di fare cinema, dell’improvvisazione, del riadattamento, del pessimo modo di allungare ed espandere una mitologia. Tutto è stato vigliaccamente rabberciato, arrangiato come si poteva, senza un benché minimo senso logico.
In passato, fu aspramente
criticato Lucas, un genio, un visionario, un autore, un vero artista per aver commesso errori umani ma sempre dettati
dalla volontà di ammodernare, di esplorare un mondo vasto ma sempre
armonico, unito da un filo conduttore e portante. Lucas, verso ogni suo film,
verso ognuno dei suoi “figli”, ha sempre
infuso guizzo, magia. Le sue opere erano pregne di meraviglia, di quello
stupore che la Disney e Lucasfilm, nei riguardi di Star Wars, possono soltanto
inseguire e agognare. Oggi, Lucas andrebbe rimpianto, richiamato a gran voce.
Lungi da me mancare di
rispetto verso chi ha apprezzato quest’ultima trilogia. Potete esserne fieri e orgogliosi. Sono veramente felice per voi, anzi vi
invidio. Fatico, però, a capire cosa vi sia piaciuto in tre prodotti confusi, nebulosi, che si contraddicono tra
loro e che annullano i precedenti sei film rendendoli vani. Cosa vi è piaciuto di una trilogia che sconfessa
continuamente ciò che ha proposto essa stessa? Che copia e distrugge?
Non mi resta che
aggrapparmi forte a quei sei lungometraggi, illudendomi che quanto sia accaduto
recentemente si sia verificato in una
realtà parallela. In fondo è proprio così che è andata: il vero finale è
ancora lì, cristallizzato sulla luna boscosa di Endor.
"Woody, Buzz, Bo Peep e Forky" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters
“Il soldatino è tornato!” – recitavano alcuni pupazzi festanti. “E’ lassù, lassù, vicino al castello di carta” – borbottava lo schiaccianoci, accanto alla tabacchiera. Una scimmietta dibatteva le zampe felicemente, il peluche di un cagnolino saltellava gioioso. I gessetti bianchi si levarono da terra e, su di una lavagnetta, tratteggiarono con precisione la sagoma di un grande cheppì, il rosso copricapo a cilindro indossato fieramente dal soldatino. Tutti i giocattoli volevano incontrare l’ometto con la baionetta in mano, colui che era stato inghiottito da un pesce d’acqua salata.
Il soldatino – beh – ne
aveva passate tante, e tra i balocchi si
era diffusa la voce, l’eco della sua grande avventura. Giusto il giorno
prima, a bordo di una barchetta di carta, il soldatino aveva solcato le acque
di un torbido fiume. Non volle farlo di sua volontà, accadde tutto per un incidente.
Il padroncino dei giocattoli aveva raccolto il soldatino tra le mani e
lo aveva poggiato sul davanzale della finestra semiaperta. Non si sa perché lo
fece, forse qualche diavoletto aveva oscurato i suoi pensieri. Per qualche
strana ragione la finestra si spalancò ed il soldatino precipitò giù. Da qui, cominciò
la sua incredibile traversia. Il soldatino rischiò d’essere sbranato da un
cagnaccio famelico, fu rapito da due turpi monelli, finì persino su di una
imbarcazione di fortuna. Con essa, il coraggioso militarino avanzò verso una
meta imprecisata. Provava molta paura il soldatino, ma non voleva darlo a
vedere. Nel suo cuore di stagno, egli
aveva impresso il volto di una graziosa fanciulla. Ad ella pensò
costantemente mentre il torrente lo conduceva lontano. Dondolato dal rigagnolo,
il giocattolo viaggiò a vele spiegate fino a che il corso d’acqua si fece più
denso. Il ruscello, generatosi dall’incedere incessante della pioggia, era
prossimo a raggiungere il mare, fuoriuscendo da una ripida altura. Il soldatino,
allora, s’irrigidì e si preparò ad
affrontare quella audace caduta. La “cascata”, dunque, lo trasse verso sé,
rigurgitandolo negli abissi. Il soldatino riuscì a sopravvivere e, in mare, si
poggiò sul fondale. A quel punto, una creatura dagli occhi strabuzzati venne
attratta dalla bella divisa rossa e
azzurra, la quale rifulgeva luminosa nella semioscurità del fondo sabbioso. Quest’essere si fece sempre più vicino
e divorò il soldatino in un sol boccone.
“Com’è triste ed ingiusta la vita” -
pensò il nostro sventurato eroe, mentre se ne stava disteso nella pancia
del grosso animale. Il tenace milite, rimasto solo, indugiò sui propri
pensieri. Egli, allora, ascoltò la sua
voce interiore, la coscienza, la parte più intima e profonda della propria anima. Con essa, egli seguitò a
rimembrare, a scorgere il viso della sua
amata. Il soldatino udì persino la
voce della ragazza riecheggiare nella sua fantasia: “Addio, mio soldatino, non ci rivedremo più”. Udendo questa triste
frase, il soldatino si addormentò, credendo che quello sarebbe stato il suo
ultimo sonno.
"Il soldatino di stagno e la ballerina" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters. Per saperne di più sulla fiaba di Andersen cliccate qui.
L’indomani, il soldatino
giaceva diritto su di un tavolo, impassibile. Dopo alcune ore, esso parve muoversi per un istante. Il
soldatino si era svegliato e, quando i suoi occhi tornarono vigili, si accorse
d’essere tornato a casa. Su, in alto, gli aereoplanini, per celebrare il suo
rientro, compivano i loro giri, tra audaci volteggi e favolose acrobazie. Guardate voi com’è bizzarra la vita: il
pesce era stato pescato da alcuni marinai e venduto al mercato. Fu, poco dopo, acquistato
dal cuoco che prestava i propri servigi nella stessa dimora da cui il soldatino
proveniva. Quest’ultimo era così felice!
Dinanzi a sé, egli tornò a rimirare la propria amata,
la ballerina di carta dal viso di porcellana. Avrebbe continuato a contemplarla
dal giorno alla notte se non fosse stato allontanato dal suo padroncino. Questi,
senza un perché, lo prese in mano e lo gettò nella fornace. “Che disdetta” – disse il soldatino – “Questa volta, mia amata, morirò davvero”.
Nella fornace egli si sciolse, ammirando ancora e sempre la sua adorata che, sospinta
dal soffio del vento, lo raggiunse e con
lui bruciò.
Il soldatino e la
ballerina, perdutamente invaghiti l’uno dell’altra, non poterono vivere sulla Terra
il loro amore. Che rammarico! Se
solo fossero riusciti a fuggire, a dileguarsi, a scappare dal rio diavoletto e dalla
cattiveria del bambino…
Il soldatino in "Fantasia 2000"
“Il
soldatino di stagno”, al pari de’ “La sirenetta” e de’ “La
piccola fiammiferaia”, costituisce il massimo capolavoro letterario/fiabesco
di Hans Christian Andersen. In questo racconto, il pensiero, la filosofia ed il
sentimento dello scrittore danese affiorano con eloquente vivezza. L’amore non
vissuto nella vita terrena, la sofferenza tollerata dalla postura statica e decisa,
l’amore mai pronunciato ma esternato tramite lo sguardo corrisposto, il
sacrificio, la morte, la successiva
immortalità sono solo alcune delle tematiche universali evocate dal racconto
di Andersen. La premessa di base della storia, vale a dire il concetto
fondamentale dei giocattoli “vivi”,
semoventi, in grado di provare emozioni, è stata fonte d’ispirazione per “Toy Story”, uno dei franchising
cinematografici di maggior successo della Pixar. Woody, Buzz
Lightyear, Mr. Potato, Rex e tutti gli altri giocattoli che dimorano nella
cameretta del giovane Andy sono senzienti e quando smettono di essere osservati
da occhi indiscreti riprendono a muoversi, a parlare, a ridere, a giocare e ad amare.
Woody, col suo viso fortemente espressivo, con i suoi occhi buoni, con la sua voce calorosa e garbata è il giocattolo più celebre di questo particolarissimo nucleo familiare. Egli è la guida, nonché il punto di riferimento della grande famiglia di pezza creata da Andy. Woody incarna uno sceriffo, un tutore della legge e dell’ordine, un “soldatino” che se ne sta perennemente sugli attenti, ad osservare e proteggere i propri amici. Un soldatino che, per l’appunto, s’innamorerà, a sua volta, di una “ballerina”, Bo Peep, la bambola di una pastorella. Woody e Bo Peep rappresentano una possibile rivisitazione della storia d’amore tra il soldatino e la sua danzatrice; un rifacimento più lieto, meno travagliato e profondo della fiaba di Andersen ma ugualmente intenso e sentimentale. Come i due sfortunati amanti della fiaba anderseniana, lo sceriffo e la pastorella s’innamoreranno, ma verranno separati da un destino ingiusto.
“Toy Story 4” inizia con un lungo ed emozionante flashback. E’ sera
e fuori piove a dirotto. Woody balza sulla finestra e, scortato e sorretto dai
suoi amici, si getta, senza remora alcuna, verso il cortile per soccorrere RC,
la macchina giocattolo dimenticata da Andy. Tale scenario notturno richiama l’atmosfera della fiaba dello scrittore
scandinavo. Fu proprio in un giorno di pioggia che il vento ghermì il
soldatino, trascinandolo via nella fanghiglia. Un fato alquanto simile rischia
di ripetersi per quanto concerne il povero RC, caduto preda dell’acqua piovana
e della conseguente melma. Per fortuna, Woody riesce ad afferrare il suo amico
giusto in tempo, e a condurlo in salvo. Proprio quando ormai il pericolo della separazione pareva essere stato
scongiurato, Woody vede Bo Peep, inerte, venir presa e posta in una scatola,
pronta per essere venduta ad un’altra famiglia. Woody non può far nulla per tenerla con sé, poiché essere ceduti è
il fato a cui vanno incontro molti trastulli. Woody, il buon “soldato”, assiste così, impotente, all’addio della sua
“ballerina”.
Molti anni dopo, l’uomo
con la stella di latta sul petto ed i suoi amici appartengono a Bonnie, una
timida bambina che li tratta con affetto e con riguardo. Bonnie gioca
quotidianamente con i suoi giocattoli e, come ogni altro bambino, ha i suoi
preferiti. Se Buzz e Jessie continuano ad essere usati dalla piccola in maniera
costante, Woody, invece, finisce spesso per venire dimenticato nell’armadio. Ciò, però, non muta l’affezione che lo sceriffo nutre nei confronti della sua padroncina.
Il giorno in cui Bonnie comincia
a frequentare l’asilo, spaventata e intimidita da questa nuova esperienza,
Woody decide di accompagnarla in gran segreto, celandosi nel suo zainetto. Bonnie è molto introversa e decisamente
insicura, per tale ragione fatica a relazionarsi con i suoi coetanei. Per
aiutarla a sentirsi meglio, Woody le porge, senza che lei se ne accorga, dei
pastelli colorati ed altri oggetti cavati dal cestello dall’immondizia. Con essi, Bonnie crea “Forky”, un balocco
nato da una forchetta di plastica. Bonnie riversa su Forky tutto il suo
amore e le sue sicurezze.
Durante il ritorno a
casa, Woody, con estrema meraviglia, scopre che anche Forky ha acquisito una
grande vivacità. Forky, però, non comprende lo scopo per cui è stato plasmato
da Bonnie: essere un giocattolo. Per
tutta la notte, questi cerca di sfuggire alla dolce “presa” della sua padroncina
per tornare nella spazzatura,
venendo sempre agguantato da Woody. Per tutta la notte, il cowboy resta prudente
ed accorto per far sì che Forky non abbandoni la sua Bonnie.
“Perché ti importa così tanto?” – domanda Buzz al suo vecchio amico.
“Perché è l’unica cosa che posso fare…” – confessa Woody.
Lo sceriffo non è più il
giocattolo preferito del suo bambino. Bonnie
non è Andy, non ama ricreare gli scenari del vecchio west, quei luoghi polverosi ed aridi in cui Bo
Peep finiva sempre per interpretare la classica damigella in pericolo e il
cowboy il valoroso eroe che l’avrebbe tratta in salvo. Woody sente di non
essere più importante come un tempo, non ha mai smesso di pensare al suo amico
più caro, Andy, e, non potendo espletare i suoi compiti da giocattolo, cerca
almeno di farsi trovare pronto, d’essere
utile nel preservare a qualunque costo l’animo puro ed innocente della sua
padroncina. Dopotutto, Andy, poco prima di congedarsi dai suoi giocattoli,
aveva confidato a Bonnie una verità immutata: Woody, qualunque cosa accadrà, non volterà mai le spalle ad alcuno.
Lo sceriffo, come un soldatino fedele al
suo credo, seguita, infatti, a non dare le spalle alla sua adorata famiglia
e alla sua premurosa bimbetta, vegliando su di lei dal sorgere del sole sino al
tramonto inoltrato.
Woody vuol continuare a
mostrare la propria lealtà, non vuol diventare un giocattolo dimenticato, smarrito, così sceglie di vigilare
senza sosta su Forky, un giocattolo privo di un’identità ancora ben definita. La
novità più grande introdotta dal quarto film di “Toy Story” riguarda proprio questo bislacco e capriccioso gingillo. Forky non è un trastullo come gli altri,
non è nato in fabbrica, non è stato realizzato in serie, non possiede gadget e
altrettante peculiarità adatte al gioco per l’infanzia. Forky è stato assemblato dalla fantasia di
una frugoletta, è stato creato per essere molto più di ciò che dà a vedere;
eppure lui non può rendersene conto semplicemente perché, generato da resti e
avanzi, non ha una concezione specifica su cosa sia e cosa debba fare.
Spetterà proprio a Woody il
compito di spiegare qual è il “dovere”
di un giocattolo: far divertire il proprio fantolino. Forky è un abbozzo, un’accozzaglia, non è un vero oggetto
ludico ma poco importa. Un giocattolo può essere tale anche se non lo è
davvero, poiché spetta all’immaginazione e al cuore di un bambino infondere in
esso le qualità principali che fanno di lui un “ninnolo”. Forky, tuttavia, sarà
duro d’orecchi e, inizialmente, non ascolterà i consigli di Woody. Quando la
famiglia di Bonnie partirà per un viaggio, Forky ne approfitterà per scappare
ma Woody non si darà per vinto e si
lancerà al suo inseguimento. Una volta ritrovatolo, Woody insegnerà a Forky che
l’amore incondizionato di un bambino è quanto di più bello possa ricevere un
giocattolo. Forky, allora, si convincerà a tornare da Bonnie, non riuscendo più
a immaginare la sua vita senza la vicinanza della sua creatrice. Ma un giocattolo può vivere senza l’affetto
di un infante? Qual è lo scopo esistenziale di un balocco? I giocattoli
servono per dilettare i piccini, se restassero soli, riuscirebbero a vivere felici
senza patire la loro mancanza? I giocattoli possono vivere… liberi?
Woody, nel corso di
questa avventura, ammette che se non si fosse occupato costantemente di Forky, la sua “vocina” interiore lo avrebbe
tormentato. Buzz, ironicamente, scambia questa presunta “voce” per le consuete
registrazioni vocali che alcuni giocattoli hanno tra i loro sintetizzatori
vocali. Lo Space Ranger, allora, chiederà, di volta in volta, consiglio al suo
“io interiore”, pigiando i pulsanti incastonati nella sua tuta spaziale per
udirne i suggerimenti. Invero, la voce a cui Woody fa riferimento, corrisponde
a qualcosa di più profondo e di più personale.
Woody sta attraversando un periodo di forte crisi in questa quarta avventura.
Egli patisce il peso della dimenticanza e teme di finire obliato. Woody si è sempre considerato un giocattolo fedele, non si
è mai chiesto cosa avrebbe fatto se non fosse più stato “adottato” da una
famiglia e da un bambino. Cosa gli avrebbe suggerito la sua voce interiore se
ciò fosse accaduto realmente? Si sarebbe sentito in colpa se avesse iniziato
una vita indipendente, da giocattolo libero?
A proposito di "voci", quella di Fabrizio non la scorderemo mai... Qui potete trovare il nostro omaggio a Fabrizio Frizzi. Dipinto di Erminia A. Giordano
Tale, intima “voce” che
alberga nell’animo dei giocattoli è molto più importante di quanto si possa
intuire. Essa rappresenta la “coscienza”, il pensiero, la morale di ogni
giocattolo che corrisponde alla medesima coscienza umana. Tuttavia, i giocattoli hanno realmente una voce caratteristica che può
attrarre ancor di più l’attenzione dei piccini. Woody ha un sintetizzatore
vocale nuovo di zecca, Gabby Gabby, una bambola che lo sceriffo incontrerà in
un negozio di antiquariato, ha il riproduttore vocale a cordicella danneggiato
e crede fermamente che per tale menomazione nessun bambino voglia giocare con
lei. Se Gabby Gabby potesse riacquisire il suono della sua cordicella potrebbe
riottenere una famiglia con cui vivere. Woody, anche in questo caso, darà
ascolto alla sua voce e farà quanto dovrà per aiutare Gabby Gabby. Ogni desiderio, ogni gesto altruistico,
parte sempre dall’interno: è ciò che il quarto capitolo di “Toy Story” vuol ricordarci. Tutti
noi dovremmo fare come fanno i giocattoli e dare più spesso ascolto al nostro
“io”, alla nostra sfera emotiva. L’altruismo,
la generosità, nascono sempre dalla saggezza proveniente dall’interno.
Durante la sua
disavventura nel mondo esterno, Woody raggiungerà un parco giochi e, fingendosi
privo di vita, verrà raccolto da un bambino che, nell’altra mano, regge a sé l’aggraziata bambola che raffigura una
pastorella. Restando silenti, inanimati, impassibili, Woody e Bo Peep, il
soldatino e la ballerina, rincrociano i propri sguardi. Sarà proprio Bo Peep a prendere per mano
Woody, a guidarlo sino ai cespugli più vicini per sottrarsi alla vista
dell’uomo. Woody riabbraccia la sua cara amica, riscoprendola sotto una luce
molto diversa. Bo Peep adesso vive sola con le sue pecorelle, nel grande Luna
Park. Ella è divenuta una damigella
forte, indipendente, ardimentosa ed intrepida. Grazie all’aiuto di Bo Peep,
e al pronto intervento di Buzz, Woody riuscirà a riportare Forky da Bonnie, a
salvare Gabby Gabby, offrendole il proprio sintetizzatore vocale, e a riunirsi
con tutti i suoi amici per un
arrivederci.
“Toy Story 4” è una pellicola emozionante, bellissima, colma di spunti
commoventi, di sequenze catartiche e attimi profondamente sensibili e
intelligenti. Il quarto episodio della serie è completamente incentrato sulla
figura del cowboy gentile, unico e
vero mattatore della vicenda. A lui è dedicata quest’ultima tappa, quest’ultima
evoluzione. Woody ha trascorso tutta la propria vita a prendersi cura dei suoi
amici. Egli è rimasto tenacemente sugli
attenti, custodendo coloro a cui voleva bene, proteggendo i suoi compagni e
i suoi padroni da ogni pericolo, da ogni avversità, da ogni cattiveria. Adesso, però, è giunto il momento che lo
sceriffo rompa le righe, smetta di restare sugli attenti e viva il futuro di
cui più ha bisogno.
Andy è ormai cresciuto,
Bonnie starà bene, e, cosa più importante, la famiglia di giocattoli di Woody è
pronta a vivere al sicuro senza più la sua leadership. “Toy Story 4” racconta il congedo di un valoroso soldatino, il ritiro di uno sceriffo senza macchia,
di un eroe coraggioso che ha sempre messo il bisogno degli altri al di sopra
del proprio.
Buzz, il più sincero dei
suoi amici, è il primo a capire il profondo desiderio di Woody. Sarà proprio lo
Space Ranger a convincere il cowboy a compiere questo passo finale.
“Bonnie starà bene” – sussurra Buzz allo sceriffo. La bimba non avrà più bisogno del suo
sacrificio.
"Buzz Lightyear" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
Buzz porge la mano al suo
grande amico e i due si salutano un’ultima
volta. Questa magica storia di amicizia cominciò molti anni prima, quando
un piccoletto ricevette in regalo un nuovo pupazzo: un astronauta dal sorriso fanfarone, dal colore acceso e dalla tuta fosforescente.
Questi arrivò in cameretta in punta di piedi ma, senza volerlo, aveva già
scavalcato le gerarchie, superando colui che fino ad allora era il giocattolo più rappresentativo. Woody
non avrebbe dovuto prendersela più del dovuto, dopotutto quale marmocchio non
avrebbe donato tutte le sue attenzioni ad un Buzz Lightyear? Buzz sapeva
volare, sì insomma cadere con stile, sparare un potentissimo raggio laser,
Woody, dal canto suo, doveva ancora liberarsi del serpente che si intrufolava di soppiatto nel suo stivale.
Eppure, il cowboy non
poté accettarlo facilmente e provò, nei confronti di questo “dannato” ranger
dello spazio, una grandissima gelosia. Ripensare
al giorno in cui Buzz irruppe nella vita di Woody mutandola decisamente, adesso
che tutto volge al termine, crea un sapore agrodolce. Da avversari e
perfette controparti, i due divennero amici inseparabili. Ciò che una volta
sembrava così importante, essere il
giocattolo prediletto, divenne, sin dalla prima peripezia, una questione di
blanda importanza. Quello che contava davvero per Woody e per Buzz era restare
insieme, mantenere unita la famiglia dei giocattoli. Ma ora questa missione è
finita, ultimata con successo. Woody
cederà il suo cappello, donerà la sua stella a Jessie e abdicherà in favore
di Buzz, colui che d’ora in poi dovrà vigilare sui giocattoli che portano,
sotto i loro piedi, il nome di una tenera piccola.
"Arrivederci, sceriffo" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
Woody aveva perduto la
sua Bo Peep molto tempo prima, adesso
non la smarrirà mai più. Ancora una volta, lo sceriffo ha dato ascolto alla
sua coscienza e alla voce del suo
amico spaziale. Woody non ha più la cordicella sulla sua schiena, non potrà più
udire i suoi tipici detti registrati ed impressi su di un nastro di memoria,
ciononostante la voce del suo io
rimbomba ancora forte e chiara, suggerendogli che il momento per dire addio
è giunto e che, finalmente, può vivere la propria vita liberamente con colei
che ama. Woody si volterà e abbraccerà la sua Bo Peep. Darà le spalle ai suoi “fratelli” soltanto per un istante. Egli non
li dimenticherà, così come non li abbandonerà mai davvero, serbando i ricordi
dei loro volti per sempre nel suo cuore.
Lo
sceriffo non starà più sugli attenti. Woody trascorrerà il
proprio avvenire con Bo Peep. Il soldatino, infine, riuscirà nel suo sogno:
prendere in moglie la sua ballerina.
"Mamme, tra grande e piccolo schermo" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
Donne e madri
Chiome lunghe o corte
ammantano i loro volti, occhi dei più variegati colori adornano i loro lineamenti.
Esse hanno voci tanto diverse, talvolta fioche, smorzate, talvolta acute e
calde.
Cos’è
una madre?
Nel linguaggio corrente,
non vi è una singola risposta che possa ottemperare, con esaustiva finitezza,
ad un tale quesito. Le madri possiedono varie incarnazioni, configurazioni
difformi, aspetti disparati e caratteri eterogenei. Stando ad una affermazione
semplicistica, si suole definire madre una
creatura di genere femminile che, dopo una gestazione, partorisce un
figlio. E’ questa l’esplicitazione più disadorna, chiara, comune, della figura
materna. Eppure, attorno alla sola parola “madre”
vi è custodita una qualità ed una quantità di significati vari e sempre più
articolati. Con il termine madre si può intendere “l’origine” e con la sua
valenza ideale si è soliti manifestare la concezione, la nascita, la
plasmabilità di un’idea, di un fenomeno, di un atto d’amore. Al vocabolo “madre” è, dunque, accomunato il pensiero
stesso della vita, della formazione, della crescita. Se lo vuole, ogni donna,
sin da ragazza, avrà la possibilità di diventare madre. Attenti però, solo se
lo vuole davvero! Tengo a sottolineare quest’ultima esclamazione, poiché
diventare madre dev’essere un desiderio, una volontà intrinseca, non deve mai
essere un obbligo ma una scelta, un volere, e quindi un desiderio.
Parafrasando ciò che
disse frate Guglielmo ne “Il nome della
rosa” - Dio non avrebbe introdotto un essere così particolareggiato,
splendido, come la donna in questo mondo senza dotarla di numerose virtù. Lo
credo fermamente anch’io. La donna sono
solito definirla primavera, poiché più di ogni altra creatura in essa è
preservato il segreto della vita, del divenire, dell’amore. Portare in
grembo una creatura, percepirne il senso, sentirla crescere dentro di sé,
nutrirla, vivere in due è un’esperienza che soltanto le donne possono provare.
Tuttavia, diventare madri
non è e non deve mai essere una coercizione. Per molti anni, la società, il costume, il credo popolare hanno fatto sì
che donna e madre continuassero ad essere un nesso inscindibile. Niente di
più sbagliato! Essere donne e diventare madri sono due categorie separate che
possono essere, se lo si vuole davvero, congiunte in un sol spazio. Basti
pensare all’epoca dei tanti sovrani e delle loro rispettive consorti, l’era in
cui ad una regina spettava l’arduo compito di generare un erede maschio che
potesse succedere al trono una volta che il regnante avesse abdicato. Il potere della donna di generare la vita
veniva ghermito dall’uomo, fatto proprio, come un artificio da utilizzare per
il proprio fine, e la figura della donna veniva ridotta a sola dispensatrice di
eredi.
Un tempo, molte fanciulle
potevano essere riconosciute come donne solo se diventavano mamme, in caso
contrario, di donna, agli occhi di una società arretrata e sciocca, avrebbero
avuto soltanto una parvenza. Esse sarebbero rimaste eternamente incomplete e,
in cuor loro, schiacciate da questo dogma imposto dalla tradizione, dalla
consuetudine, si sarebbero sentite realmente tali. In quegli anni, prender marito
e rimanere incinta erano passaggi obbligati della maturazione, impellenze da adempiere più che sogni da realizzare. Le prime
manifestazioni del movimento femminista nella prima e, immediata, seconda metà
del Novecento assunsero grande rilievo per rivendicare l’indipendenza della donna.
Il corpo di una donna è straordinario per la sua possibilità di poter mutare,
di adattarsi, per accogliere una nuova vita. Ciononostante, non si può in alcun modo ridurre la femminilità, il
valore corporale di una donna, a mero strumento di fecondazione. Una donna
può essere madre se lo vuole davvero ma non necessariamente, in quanto la sua
femminilità e la sua importanza non possono in alcun modo dipendere da questo fattore.
Diventare madre non deve
mai essere un’intimazione, un vincolo, un dovere ma un’aspirazione intimamente
sentita. Oggi le donne, mediante i loro sacrifici e le loro lotte continuano a
ricercare un’autonomia, rivendicando il loro diritto ad essere madri e la loro
libertà nel caso in cui non vogliano esserlo.
Madre,
naturalmente, non è soltanto colei che partorisce ma colei che sceglie
volontariamente di esserlo e, quindi, di crescere un figlio.
Pertanto, la definizione ordinaria, usuale, con cui ho iniziato questo mio scritto
non può essere quella definitiva. A tal proposito, vi è una nitida differenza
tra il termine “madre” e “mamma”. “Mamma” è un sostantivo che possiede una
valenza più profonda, affettiva. Potrei,
or dunque, dire che “madre” è una figura astratta e generica, un’entità fisica
che dà alla luce un figlio senza, necessariamente, creare un legame con lui.
Mamma, al contrario, è un’essenza definita, che accoglie tra le sue braccia un
figlio che può aver dato lei stessa alla luce o, in alternativa, adottato ma come
se lo avesse davvero portato in grembo sin dal suo concepimento.
Mamme, tra religione e mitologia
Interrogandosi sull’esistenza o meno del Paradiso e di una vita ultraterrena, il grande filosofo partenopeo Luciano De Crescenzo confessò, intimamente, che se davvero dovesse esserci un “dopo”, esso dovrebbe cominciare con l’apparizione di una figura a noi molto cara. Alle porte del Paradiso, fece intendere il De Crescenzo, ognuno di noi dovrebbe vedere l’anima di una persona che abbiamo amato perdutamente nella nostra vita. A tal proposito, Luciano disse teneramente: “Mi piacerebbe rivedere mia madre…”. Le mamme, infatti, sono spesso annoverate tra i più grandi amori dei propri figli.
Quando si ragiona sulla figura della mamma, non si può prescindere dal citare Maria di Nazareth. Maria è madre e mamma al contempo, è il simbolo per antonomasia della sfera materna. Stando al credo cattolico, Ella era una ragazza vergine che, una notte, ricevette la visita dell’Arcangelo Gabriele, il quale le annunciò che sarebbe presto rimasta incinta. Maria esitò per un istante, sapendo che mai nessun uomo l’aveva sfiorata. Maria comprende, in quell’attimo, che il bambino che in Lei potrebbe incarnarsi possiede un’essenza divina. Ella accetta la richiesta del messaggero di Dio, sceglie volutamente di accogliere questa vita, rimarcando con tale accettazione il miracolo della nascita. Maria è una donna che acconsente a custodire nel proprio grembo una vita inattesa. Ella non aveva deciso d’essere madre sino ad allora ma, molto probabilmente, lo aveva sempre desiderato. La parola dell’Arcangelo più che una richiesta può sembrare, ad una lettura superficiale del racconto biblico, un’imposizione. Invero, Maria è stata scelta da Dio come la sola meritevole di dare alla luce il Dio fatto uomo. Maria è posta davanti ad una valutazione difficilissima: se accettare o meno una gravidanza che cambierà per sempre il proprio destino. Maria agisce come donna e anche come madre, decide secondo il suo volere, come una fanciulla libera, e acconsente di diventare madre. Maria accoglie così una vita misteriosa, trascendentale, e lo fa con la consapevolezza di voler essere madre di un Figlio così speciale.
Maria è una mamma che può
crescere il proprio figlio ma che non
potrà mai proteggerlo. Ella sa che Gesù è destinato a morire, e non può far
altro che accettare, questa volta senza possibilità di scelta, il triste
destino purificatore a cui andrà incontro il proprio discendente. Tutti noi
idealizziamo Gesù come un uomo divino, un mortale che tende all’immortalità, di
rado ci soffermiamo a riflettere che quel Dio che ha camminato sul suolo
terrestre, secondo il narrato religioso, agli occhi di una madre era un erede fragile, indifeso, sofferente.
Maria osservava Gesù come una madre qualunque che mira, felice, il proprio
figlio. Ella vedeva in Lui la grandezza,
la meraviglia, ma queste sue qualità non sostituivano mai la naturalezza di un
figlio a cui Lei non avrebbe mai potuto evitare il dolore che, da adulto, Egli patirà.
Quanta forza, quanta resistenza vi era nel cuore di Maria, la mamma che più
di tutte dovette sopportare un destino già scritto.
Maria divenne madre
tramite un’immacolata concezione. Questo
tema mistico fu ripreso da George Lucas nella sua opera cinematografica
fondamentale: “Star Wars”. Anakin Skywalker, il protagonista
dell’esalogia di Lucas, nacque mediante un’immacolata concezione. La madre
di Anakin, Shmi, restò incinta senza aver avuto alcun rapporto carnale. Anakin
fu concepito dalla Forza, l’essenza immutabile che circonda e pervade l’intero
universo, avvolgendo ogni essere vivente e garantendo la vita. La forza, ideata da Lucas, è paragonabile
alla sostanza intangibile del Divino e il ruolo di Shmi Skywalker a quello
della Madonna. Shmi ha portato in grembo Anakin, lo ha fatto nascere, senza
mai spiegarsi cosa fosse accaduto. Ella fu scelta, senza alcuna annunciazione.
Nessuno si recò dinanzi a lei per porla davanti ad una opzione. Shmi divenne
madre senza poter vagliare l’opportunità di esserlo. Eppure, ella fu felice,
come se la Forza, inconsciamente, sapesse che ella avrebbe voluto diventare
madre. Anakin, pertanto, possiede tratti in comune con la figura di Cristo: come Lui, egli è considerato una sorta di
Messia, di prescelto, di cui un’antica profezia ha anticipato la venuta molti
secoli prima. Differentemente da Gesù, Anakin cederà alle tentazioni di
“Satana”, il Signore Oscuro dei Sith Darth Sidious.
Anakin prova per sua
madre un amore fortissimo. Per tutta la sua giovinezza, ella fu la sola donna
che Anakin ebbe vicino, il suo unico legame d’affetto. Quando dovrà lasciarla,
prigioniera della sua schiavitù, Anakin soffrirà tremendamente e non smetterà
mai di ricordarla. Il distacco dalla madre e il dolore patito per la sua
lontananza cominceranno a far emergere in Anakin sentimenti oscuri di rabbia. Il
fato tragico a cui andrà incontro il giovane Skywalker è condizionato proprio
dall’addio. La mamma, nella storia, rappresenta la prima ferita incurabile che
farà avvicinare il cavaliere Jedi sull’orlo del Lato Oscuro.
Anakin, dopo aver
lasciato la madre, si innamora istantaneamente di Padmé. L’amore provato per la genitrice viene adesso superato dall’amore che
il protagonista proverà per la ragazza. Un amore, quest’ultimo, che mai
svanirà e lo accompagnerà per tutta la crescita. L’affetto per la mamma e l’amore
per la moglie sono le due sintesi su cui si fonda il sentimento umano del
futuro Darth Vader, un sentimento che alberga nelle sue reminiscenze, occultato
sotto la maschera nera e buia. L’amore che Anakin provò un tempo mai lo
abbandonerà del tutto e riemergerà in lui nel momento in cui si scoprirà essere padre. Anakin, personaggio
estremamente complesso e articolato, nel suo animo tormentato provò amore e
affettuosità soltanto per due donne: Shmi e Padmé, la moglie che diverrà madre a sua volta. In punto di morte, Padmé
userà le forze residue per mettere al mondo i suoi gemelli e dar loro un nome.
Li sfiorerà a malapena, li guarderà con amore, poi si spegnerà tristemente
nutrendo, però, la ferma speranza che nel cuore di Anakin vi sia ancora del
buono. Saranno proprio quei piccoli,
messi al mondo da una madre che mai potrà crescerli sebbene avesse tanto voluto
farlo, a redimere il padre e a far riemergere lo spirito di Anakin dalle
tenebre. Padmé è una donna che, vinta da un esito infausto, non ha potuto
essere mamma per i suoi figli. Cionondimeno, dando loro la gioia della nascita,
riuscirà a salvare la vita di Anakin prima che l’ombra cali sul suo volto
pallido ed esangue.
La parola “mamma”
coincide con “bontà”, con “affetto”, con “amore” e con “educazione”. La mamma protegge ad ogni costo il proprio
figlio. La Mitologia Greca offre
un’immagine evocativa di una mamma che si adopera per garantire l’incolumità
del proprio pargoletto sin da quando questi ha aperto per la prima volta i suoi
occhi al mondo. In un passo fondamentale di un racconto mitologico, Teti
regge tra le sue braccia un batuffolo bianco appena nato. La dama generò quel
bimbo dopo aver giaciuto con un mortale, conosciuto col nome di Peleo. La
Nereide non poteva tollerare la natura semidivina del piccino, poiché egli, in
virtù della sua mortalità, sarebbe stato vittima di dolore e, un giorno, di
morte. Teti era una ninfa e non poteva sopportare l’idea che il proprio figlio
potesse perire. Così lo raccolse e lo strinse a sé, conducendolo sino allo
Stige, nelle cui acque avrebbe immerso il figlioletto. Reggendolo per un piede,
Teti fece sì che la cristallinità del
fiume avvolgesse il fragile corpo del piccino, così da renderlo invulnerabile
ad eccezione del suo tallone, rimasto emerso dallo specchio d’acqua. Il
gesto di Teti è estremamente simbolico per evocare l’amore di una mamma, colei
che più di ogni altra creatura desidera la protezione sempiterna del proprio
figlio.
Ma la mitologia vuol
ricordarci anche che non tutte le madri
possono provare affezione e premura nei riguardi della propria prole. Il
volto tenebroso, distorto, ed insano di Medea
evoca il male che può albergare nel cuore di una madre. Medea considera i propri
figli delle creature di cui ella detiene
il possesso. Medea valuta il parto come un legame indivisibile. I figli che
sono stati messi al mondo hanno, nei confronti della loro madre, secondo il
folle pensiero di Medea, un debito che
nulla potrà mai ricompensare. Pertanto, la nobile reputa i propri
discendenti una merce di sua proprietà, di cui ella potrà servirsi e, disfarsi, quando vorrà. La principessa
di Colchide è un’assassina e testimonia l’immoralità ed il peccato di ogni
genitrice che arreca dolore e morte alla propria creatura.
Le mamme nella Settima Arte
Essere mamme è un lavoro
a tempo pieno, una “mansione” impegnativa, un’ambizione impossibile da
attenuare.
Nel cinema d’animazione
della Walt Disney, una mamma attendeva con impazienza la venuta del proprio piccoletto.
Essa era tanto alta, grande e grigia. Giaceva
rinchiusa tra gli esigui spazi di una gabbia, coperta soltanto da un drappo
azzurro e da una cuffia rosa poggiata sulla sua fronte ampia. Costei non
era una mamma come tutte le altre. Ad essere del tutto onesti, non era una
mamma di un cucciolo d’uomo, bensì una mamma del regno animale. In “Dumbo”, classico disneyano del 1940,
l’elefantessa aspetta l’arrivo del piccolo elefantino in una notte serena. D’improvviso,
uno stormo di cicogne scende giù in picchiata. Le loro sagome in volo vengono illuminate dalle stelle che brillano nel
cielo. L’elefantessa è una madre che ha scelto di esserlo, si sente pronta
a diventarlo con tutte le sue forze eppure, il suo cucciolo tarda ad arrivare. Il dì seguente, una cicogna in colpevole
ritardo porta un fagotto dalle larghe orecchie alla signora Jumbo. La
nascita in “Dumbo” viene
rappresentata come un avvenimento condizionato ad un determinato momento della
vita, in cui gli stessi genitori si sentono pronti ad accogliere e allevare un
figlio. Gli animali/genitori nella
pellicola sono il più delle volte singole madri. La stessa signora
Jumbo aspetta il proprio figlioletto, ma esso sembra tardare ad arrivare,
rendendo ancor più unica la sua nascita, come
un parto speciale e per questo difficilmente prevedibile. Dumbo non
possiede un padre, come se si volesse sottintendere che anche le madri rimaste
sole possano crescere con affidabili riscontri i propri figli, districandosi
comunque tra il lavoro (qui rappresentato dal circo) e il ruolo affettivo ed
educativo di “mamme”. La Signora Jumbo
simboleggia ogni madre che ha scelto di divenire tale e che attende che il
cielo risponda alle sue suppliche donandole quell’esserino.
In “Tarzan”, invece, pellicola del 1999, Kala, una gorilla che ha perduto il proprio cucciolo, rinviene nella giungla un piccolino che dorme in una culla. Essa desidera fortemente crescere un figlio e, trovando Tarzan, decide di allevarlo come sua madre. Kala apre le sue braccia ad un bambino che la stava cercando, invocandola con la dolcezza ed il fragore di un pianto. Tra Kala e Tarzan non vi è alcun legame di parentela, eppure i due sono ugualmente madre e figlio. E’ splendido notare come Kala sia un primate e Tarzan un essere umano. I primati sono proprio i parenti più stretti e somiglianti degli uomini. Sebbene abbiano aspetti diversi, Kala e Tarzan trovano nei loro sentimenti un modo per sentirsi vicini e simili. In particolare, i due si toccano le mani. Nonostante le “zampe” della gorilla siano più grosse di quelle del piccolo Tarzan, esse somigliano agli arti del piccolino. E’ questo il primo segno di come tra loro possa esserci una vicinanza assoluta se entrambi lo desiderano. Il personaggio di Kala personifica tutte le madri che educano e crescono un figlio che non hanno generato. Non è un semplice legame di sangue a garantire un rapporto, non è una parentela a fortificare una relazione, madre è soprattutto chi cresce un figlio. Lo stesso figlio considererà sempre sua madre come colei che lo ha accompagnato nella sua progressiva evoluzione.
La mamma, nella sua
definizione più generica, può avere le fattezze di una educatrice, di una
confidente, a volte, persino di un’amica.
Nella serie televisiva “Gilmore Girls”,
Lorelai è una donna libera, loquace, simpatica, schietta, ed una mamma
amichevole, gentile e comprensiva. Ella sa essere infantile, persino puerile
con la sua parlantina sciolta e ironica, ma autoritaria e giusta quando la
situazione è solita richiederlo. Lorelai ha cresciuto Rory, avuta all’età di 16
anni, in maniera diametralmente opposta a come sua madre ha cresciuto lei
stessa. Lorelai proveniva da una realtà benestante, fu educata per appartenere
obbligatoriamente all’alta società. Da
quel mondo che le tarpava le ali, facendola sentire prigioniera di un sentiero
già tracciato, ella fuggì e decise di educare Rory con comprensione e dolcezza.
Tra Lorelai e sua figlia
Rory esiste un rapporto unico, fatto di sintonie
assolute, di passioni condivise, di parole pronunciate rapidissimamente, di
umorismi particolari ed incomprensibili ai più. Lorelai è l’incarnazione della madre moderna. Ella ha dato vita ad
una parte in cui la mamma non è più vista come un ruolo lontano, distaccato
dalla figlia, bensì come una persona
vicina, il cui compito non è solamente quello di educare con condiscendenza
o con severità. Lorelai è per sua figlia Rory una confidente, una persona su
cui poter contare e a cui poter raccontare ogni cosa.
Ma cos’è, allora,
realmente una mamma? Mamma è Shmi che accoglie una vita e la genera con le sue
sole forze? Mamma è Kala che adotta un cucciolo smarrito come proprio? La Mamma
è un’amica? In realtà, mamma è un’idea,
un pensiero, un desiderio, un nome pronunciato da labbra che si sfiorano due volte.
“Mamma” è tante cose, non può essere compendiata sotto un’unica definizione.
E vi dirò di più, mamma non è neppure necessariamente una donna. Mamma è colei che ama i propri figli, che se ne prende cura giorno dopo giorno. Per tale ragione, il ruolo della madre coincide con quello del padre, e le vesti della mamma possono essere calzate pienamente anche dal papà. Questa verità ce la sussurrò sommessamente Robin Williams, quando, in “Mrs Doubtfire”, cominciò a valutare seriamente la possibilità di “travestirsi” da donna per poter continuare a stare vicino ai suoi figli. Robin continuo a borbottarci tale veridicità, non più cautamente, ma in maniera dirompente quando, nello stesso film, si truccò pesantemente il viso, e divenne un’anziana e permissiva governante. Pur di poter trascorrere le sue giornate con i suoi figli, Robin rinunciò alla sua veste paterna, e assunse i panni del “mammo”.
La seguente è la
definizione più calzante: è l’amore che fa una mamma, non l’aspetto!
Autore: Emilio Giordano
Redazione: CineHunters
Vi potrebbe interessare il nostro articolo "Inchiostro e calamaio - Alla donna, alla musa". Potete leggerlo cliccando qui.
C’era
una volta una fanciulla bella e aggraziata. Quando venne al mondo, il suo
pianto commosse tanto la natura,
fertile e generosa, che decise di elargirle tre doni. Il sole la baciò con un fascio di luce, colorandole i capelli
di un biondo radioso. Il vento le
carezzò l’epidermide, rendendola delicata come seta e candida come un tessuto
finissimo. Il canto degli uccelli, volati sino alla sua finestra per volere
dell’aria, accompagnò le parole d’amore che la madre rivolse all’orecchio della
nascitura, le quali le intenerirono il
cuore e la resero indulgente e dolce
come miele che cola da un albero.
Dopo qualche settimana, la primavera si accomiatò e, ben presto, lo fece anche l’estate. In un giorno d’autunno, il sole, coperto da una nuvola pregnante di lacrime, scomparve e la mamma della bimba spirò. La piccola, accudita dal padre, crebbe sana, garbata e splendida. Qualche anno dopo, l’amato genitore convolò a seconde nozze con una donna benestante, arcigna ed austera, già madre di due figlie. Quando anche il genitore morì, ella rimase sola, assoggettata alle prepotenze delle due sorellastre, e dimenticò il suo nome, poiché nessuno lo usò più per rivolgerle parola. La matrigna non tardò d’affibbiarle, infatti, un nomignolo, un dispregiativo attraverso il quale l’oscura matrona rimarcava l’abitudine della ragazza a sporcarsi con la cenere del focolare.
Cenerentola
viveva alla stregua di una serva, maltrattata e oltraggiata. Ella era un bianco cigno che nuotava su di un lago torbido, in cui era impossibile
mirare alcun riflesso, dissolto nel sudicio. Le pareti della sua modesta stanza
parevano restringersi ogni giorno di più, come una prigione angusta e senza via d’uscita. In quel tempo, in un
palazzo regale, viveva un principe della stessa età di Cenerentola. Benché la
sua camera fosse ampia e sfarzosa, il giovane aveva l’inquietante sensazione
che essa diventasse sempre più opprimente, esigua, quasi soffocante.
Il
principe sapeva che, presto, sarebbe stato costretto a sposare una sconosciuta, la sua futura regina. Ciononostante, egli
non aveva ancora appreso cosa fosse l’amore, e non si era invaghito di nessuna
principessa. L’autorità del padre, tuttavia, era sempre più insistente, così la
famiglia organizzò un ballo in cui lui avrebbe dovuto scegliere la sua sposa. L’amore, lo sposalizio, la vita
matrimoniale erano, così, ridotti ad una selezione, una scelta opzionale tra
aspiranti candidate, agghindate con abiti “trapuntati” con gioielli. Non era quello che il principe aveva sempre
sognato. Egli non poteva sposarsi per amore ma soltanto per dovere, e si sentiva
affranto, prostrato davanti ad una tale imposizione. Se Cenerentola giaceva genuflessa alle malignità perpetrate dai suoi “parenti”,
il principe non era da meno, e permaneva inginocchiato agli obblighi della sua
investitura.
Nella
cenere la donna aveva rinvenuto la propria forma di schiavitù, nella corona l’uomo
aveva scorto la propria forma di assoggettamento. Il principe non poteva
reagire al cospetto dei propri obblighi, essi erano del tutto vincolanti.
Nonostante vivesse nell’agiatezza, egli era costretto a rinunciare alle sue
libertà, sentendosi come un recluso, imprigionato
in un castello dorato. Anch’egli, dunque, come Cenerentola, non riusciva a
raccogliere le forze per eludere i propri oneri. Attendendo un incontro
insperato, i due futuri innamorati soffrivano tremendamente, ciascuno per
proprio conto.
Cenerentola è troppo buona! Per i più, ella personifica l’essenza stessa della
gentilezza, se non anche l’incapacità di reagire a un violento sopruso e,
pertanto, la remissività. Cenerentola
non si oppone, incassa e attenua sulla sua pelle delicata l’ingiustizia di una
vita aspra e dura. Perché lo fa?
Taluni credono per paura, altri, invece, per “stupidità”. Vi è forse stoltezza nel non insorgere contro i prepotenti? Vi è insensatezza in una ribellione non attuata?
Cenerentola pare ingenua, e la sua bontà d’animo va incontro, or dunque, ad una rilettura negativa. Ella sembrerebbe incarnare la debolezza di una donna assuefatta alla sofferenza, il che può apparire veritiero, se non si trattasse di una interpretazione sin troppo basica, superficiale, nonché semplicistica.
Cenerentola simboleggia, anzitutto, la pazienza, quella che, forse, ha avuto in eredità dalla mamma. Quella che la ragazza sperimenta non è un’attesa sciocca, bensì fiduciosa. Cenerentola resta fedele a se stessa, al proprio carattere fatto di autentica e armoniosa purezza. Ella crede che, restando buoni, è possibile riscattare ogni torto subito. Cenerentola non rimane passiva come può realmente sembrare, ella è, semplicemente, differente dalle sue antagoniste, in tutto e per tutto. Non trasforma se stessa in un essere violento e perfido per attuare la propria vendetta, non diventa come le sue sorellastre. Cenerentola resta buona, consapevole che non appena avrà un’occasione, una sola occasione, la sfrutterà pienamente a suo favore. Cenerentola non evidenzia la staticità di una donna indifesa, ma la resistenza di una creatura femminile forte, che non permetterà mai a nessuna crudeltà patita di renderla ciò che mai vorrà essere. Con pazienza, la sua prerogativa più identificativa, al pari della sua bellezza, ella attenderà il giorno del ballo per riprendersi la vita che merita. Cenerentola non vuol suggerire l’arrendevolezza e la sottomissione, tutt’altro. Ella, per quanto non dia tale parvenza, invoglia a reagire contro ogni angheria, senza mai mutare nel carattere e nel profondo. Cenerentola, infine, trionferà, e trarrà in salvo se stessa conoscendo l’amore.
La sera del ballo, aiutata dalla sua fata madrina, la fanciulla indossa un abito azzurro, scintillante come un cielo rilucente di stelle, con il quale si reca alla cerimonia di corte. Il principe, in quegli attimi, cammina nel salone con aria sconsolata, sino a quando non vedrà una luce provenire dal remoto. Il biondo dei capelli di Cenerentola, raccolti in un’acconciatura che mette a nudo la limpida interezza del suo volto, cattura lo sguardo del principe, che si innamorerà istantaneamente di lei. Entrambi, danzando, raggiungeranno una dimensione separata dalla realtà, in cui le lancette del tempo cesseranno di girare, rendendo un singolo istante perpetuo.
Ma
Cenerentola dovrà fuggire quando la mezzanotte rintoccherà davvero. Compiendo
la sua corsa disperata, ella perderà una delle sue scarpette di cristallo. Il principe la raccoglierà e, da quel
momento, non si darà pace fino a quando non avrà ritrovato la donna che ama.
Cenerentola e il principe si ricongiungeranno e, nell’amore, otterranno la
felicità.
Il titolo che ho voluto utilizzare per questo mio pezzo è, volutamente, errato. Spesso, infatti, si crede che soltanto Cenerentola sia riuscita a salvarsi, donando se stessa al principe e abbandonandosi alle sue braccia. Invero, lo stesso principe, in quel passo di danza, in quel primo abbraccio in cui il tempo cessò di scorrere per un solo, meraviglioso, momento scovò la propria salvezza. Il più puro e prorompente dei sentimenti ha salvato due vite, le esistenze di un uomo e di una donna che erravano soli e disperati, in attesa di congiungersi.
Restando vicini, stringendosi, sostenendosi vicendevolmente, tutti gli innamorati che si smarriscono nei rispettivi sguardi, perdendosi in un bacio infinito, ottengono la libertà.
"La spada nella roccia" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
Da principio, se qualcuno
avesse detto ad Anacleto che quel
bimbetto, sì, insomma, che quel garzone mingherlino, tutto pelle ed ossa,
sarebbe un giorno diventato re,
state pur certi che avrebbe riso e
la sua non sarebbe stata per nulla una
risata contenuta. Anacleto, un gufo dal grigio piumaggio, alquanto
proverbiale per il suo rumoroso sghignazzare, era l’inusuale animale da
compagnia di un anziano anacoreta.
Tale esule dimorava nel cuore di una foresta, in una casa senza acqua e senza
elettricità. Sovente, questi si lamentava dell’assenza di molti comfort che
potremmo, ad oggi, definire “moderni”. Merlino,
in tal modo veniva appellato quest’eremita, era un potentissimo mago dallo
sguardo vispo e dalla barba candida. Egli aveva il dono della preveggenza. Ogni qual volta osservava il domani, si
rammaricava di tutte le mancanze del proprio presente. Il Medioevo era
diventato più oscuro di quanto Merlino avesse mai immaginato. Da tempo, oramai,
l’Inghilterra non aveva più un sovrano. I nobili ideali del passato erano
periti con la morte dell’ultimo regnante, e tutto era precipitato in un limbo
di miseria e apatia. Tutto d’un tratto, dal cielo discende una grossa incudine
di pietra massiccia con una spada
conficcata al suo interno. L’elsa e una parte della lama emergono dalla roccia
e recano una scritta che recita: "chiunque
estrarrà questa spada sarà di diritto re d'Inghilterra". Per secoli,
uomini provenienti da ogni parte della Gran Bretagna tentarono invano di
estrarre la spada.
Perdonatemi, mi sono
smarrito in chiacchiere. Fatemi raccapezzare un momento. Cosa stavo scrivendo?
Ah sì, Anacleto avrebbe riso come un matto se solo avesse saputo che un bricconcello
timido, bene educato, esile come una
spiga di grano, sarebbe asceso al trono. - Chi era, di grazia, costui? - vi
starete domandando. Or dunque, dovete sapere che una bella mattina lo stregone
attendeva alla sua porta l’arrivo di un ospite molto speciale. Non aveva mai
intravisto il volto di colui che era prossimo a giungere, eppure Merlino sapeva
che si sarebbe trattato di un giovanotto di undici, massimo dodici anni. Come sostenni, se Anacleto avesse guardato Semola con attenzione e avesse osato
anticiparne il fato, sarebbe rimasto incredulo poco prima di sbellicarsi dalle
risate. D'altronde, Anacleto non poteva trattenersi, quando qualcosa gli
provocava ilarità sogghignava e poi scoppiava a ridere a “crepapiume”. Lo
faceva sin da quando era un piccolo gufo. Solitamente, fuoriusciva dalla sua
tana, una piccola fessura scavata tra i polmoni di un’antica quercia, si
coricava sul suo bel tronchetto e, preso dall’euforia, rideva per interi
minuti, portava le zampe all’altezza del musetto felice e dibatteva le stesse
al suolo, colto dalla gioia. Di primo
acchito, infatti, Semola tutto poteva sembrare tranne che un futuro re.
Artù, chiamato da tutti
Semola, era un orfano, adottato dal severo Ettore e addestrato come l’umile scudiero
di suo fratello, Caio. Semola è tanto riservato ed è, per certi versi, succube
delle angherie dei suoi famigliari che sono soliti rimproverarlo ad ogni minimo
errore. Ciononostante, sotto i suoi occhi schivi e vogliosi di scoprire, è
possibile intravedere l’anima cristallina
e valorosa di un impavido. Tuttavia, Semola “vanta” una fisicità
striminzita, due braccia secche e altrettante gambette sparute. Egli non
possiede affatto la prestanza di un futuro condottiero. Cionondimeno, Semola ha qualcosa che tutti gli altri non hanno: la
brama di conoscere. “La mente batte
sempre i muscoli!” - è ciò che, sovente, borbotta Merlino. Semola ha un’attitudine innata allo studio del
mondo esterno. Così, Merlino, coadiuvato dall’arguto Anacleto, deciderà di
fungere da suo precettore.
Il soprannome che tutti hanno
affibbiato al personaggio principale del film adombra il vero nome di Semola,
che diverrà leggendario. Tuttavia, per i popolani e i villici, Semola è soltanto Semola, poco più di
un fanciullo con una cascata bionda come
capigliatura. Ma quella sua chioma dorata non è che il preludio alla corona d’oro che, un giorno, svetterà
alta sul suo capo, rilucente di gemme sfolgoranti e rubini tanto preziosi. Artù
è destinato, in un dì lontano, a diventare un monarca venerabile, dall’inestimabile
virtù. Dal grano macinato si genera la
farina e da essa il pane profumato, buono
come un bene pregiato ma alla portata di tutti. Semola era uno dei tanti,
una spiga gialla in un campo di grano. Egli è paragonabile ad un granello di
farina, un prodotto della terra che dovrà essere lavorato per diventare “pane”. Educato ed istruito dai suoi
maestri, Semola, da granello di farina,
diverrà speciale, similmente a del pane nato dal frumento luminoso per il bene
di tutti.
Ma Semola non sa di
essere speciale né può immaginarlo. Egli non ha fiducia in se stesso poiché
nessuno ha mai lasciato intendere di averne in lui. Soltanto Merlino crede
nelle sue capacità nascoste, e si adopererà per tramandargli tutto ciò che ha
appreso nel corso della sua esistenza. Semola è unico, soprattutto perché è
generoso, paziente, riflessivo, ascolta
e ragiona prima di agire, caratteristiche assai rare in quell’epoca
Medievale dipinta e tratteggiata con nitidezza nel lungometraggio, dove tutti
pensano solo a duellare e a discutere animosamente. Semola ha la semplicità
delle creature genuine, l’accortezza dei puri di cuore, la gentilezza di chi vive in armonia con la natura. E’ un alunno
perfetto, pronto più che mai ad imparare.
“La spada nella roccia” è un’opera di formazione, di crescita, di educazione. Merlino è un mentore assennato e la sua casa, piena zeppa di modellini in legno raffiguranti locomotive a vapore, veicoli volanti e altre dozzine di invenzioni provenienti dal futuro, somiglia al laboratorio di Leonardo da Vinci, ed è una finestra spalancata sull’avvenire. Il mago vuol sviluppare la mente del piccolo Semola ancor prima dei suoi muscoli, e anela ad insegnargli la matematica, la storia, la biologia, le scienze naturali, la geografia. Un re, per Merlino, è tale quando avrà accresciuto il proprio acume e la propria intelligenza, peculiarità imprescindibili per una maestà che dovrà dissolvere le tenebre di un medioevo buio e senza speranza. Nei giorni seguenti, Merlino educa Semola, conducendo le sue lezioni all’aria aperta, tra le verdi foglie e le fronde degli alberi in modo che il piccino apprenda restando immerso nel creato. Anche Anacleto scenderà dalla sua casetta, ricavata da un ciocco di legno, e insegnerà al “principe” le basi dello studio: leggere e scrivere. Semola fa sì che i suoi maestri, il mago ed il gufo, l’uomo e l’animale, facciano di lui il loro pupillo, un discepolo prediletto.
Il mago, per far ben recepire i suoi insegnamenti, trasforma Semola in un animale differente: un pesce, uno scoiattolo e un uccellino. Mediante le sue metamorfosi, Semola esplora una parte diversa del mondo: l’acqua, la terra, l’aria. Come se vivesse una favola sulla propria pelle, Artù si rapporta con le creature più piccole e delicate della natura, assumendo le loro caratteristiche fisiche, emotive e comportamentali. Come la Sirenetta anderseniana che, dal mare, si protrasse sino alle coste e, alla morte, raggiunse l’immortalità come uno spirito dell’aria, Semola, nella pellicola disneyana, da essere terrestre, “ascende” al mare e all’aria per purificare la propria essenza. Un re, se dovrà essere magnanimo e misericordioso, dovrà conoscere e avere cura di ogni essere vivente, sia esso appartenente al reame acquatico, a quello dell’aria o a quello terrestre. Semola si confronta con gli animali più minuti, indifesi, così da sviluppare l’intenerimento, la pietà di un uomo munifico. In particolare, quando sarà uno scoiattolo, Semola scoprirà per la prima volta cos’è il sentimento puro dell’amore, la forza che muove ogni cosa, più potente della gravità stessa. Una scoiattolina si invaghirà di Semola, mutato in scoiattolo, salvo poi accorgersi che egli non è un membro della sua specie. A quel punto, essa cederà al rammarico di ciò che sarebbe potuto essere, al singhiozzio, ad un mesto lacrimare. La delusione e il dolore di un cuore infranto sono i patimenti più strazianti da sopportare. Proprio Artù, in età adulta, soffrirà anch’egli per amore, quando la propria consorte, Ginevra, lo tradirà con Lancillotto; ma questa è un’altra storia, che appartiene ad un tempo ancora inesplorato per l’innocente protagonista.
Merlino ammira e al contempo teme il futuro, e pone le sue speranze
sull’avvenire glorioso di Artù. A tentare di ostacolare la maturazione del
giovane arriverà Maga Magò, acerrima
nemica di Merlino. Magò veste i panni, rivisitati ed imbruttiti, della fata Morgana, avversaria del potente
stregone nelle leggende del ciclo Bretone. A poco serviranno le vili azioni
della maga cattiva, i giorni del re sono
prossimi ad arrivare.
Merlino, osservando Semola,
trovò in lui l’erede al trono. Un qualcosa di simile accadde anche a Gandalf, lo stregone grigio e bianco de
“Il signore degli anelli”, quando questi
scorse per la prima volta Aragorn,
colui che riuscirà a restaurare la stirpe spezzata dei grandi Re degli uomini. Aragorn poté, così, ricostituire la
discendenza di Isildur, Artù quella di Uther
Pendragon.
In
un giorno quieto e radioso, Semola estrarrà la spada dalla roccia senza
sforzo alcuno. E’ lui il re che tutti attendevano. Sarà l’alba di un ciclo splendente
e prosperoso. Seduto sul suo trono, Artù sente d’essere impreparato ad
adempiere le sue responsabilità regali. L’incertezza, il dubbio, il timore di
non essere all’altezza sanciscono l’umiltà di un sovrano che si metterà sempre
in discussione per il bene dei suoi sudditi. Semola è divenuto pane, un bene
posto al servizio di ogni bisognoso. Anacleto ammirerà Semola con stupore, restando
al suo fianco, seguito dallo stesso Merlino, tornato appena in tempo da una vacanza
ad Honolulu. Il XX secolo sta bene lì dov’è, per lo stregone sarà più opportuno
godersi uno splendido presente.