Vai al contenuto

Le 5 leggende disegnate da Erminia A. Giordano per CineHunters

 

La brezza estiva, quel venticello leggero che carezza col suo rinfrancante soffio il viso accaldato di chi lo riceve, smette di regalarci i suoi servigi allo scadere di settembre. Un’aria decisamente più fresca giunge poi da lontano, portando con sé l’autunno. Le esili foglie degli alberi cadono giù dai rami con sempre maggiore insistenza, creando ai crocicchi delle strade tappeti ingialliti, simbolo di una natura apparentemente stanca. Col passare dei giorni, l’autunno spossa il paesaggio, prima vigoroso e soleggiato dell’estate, come una sorta di “traghettatore”, che prende la natura per mano fino a condurla alle porte dell’inverno. Il vento soffia forte all’arrivo della stagione invernale. Nelle regioni più fredde, ai cigli delle strade, la coltre di neve riveste il terreno come un manto bianco e l’acqua dei laghi, così limpida e trasparente in primavera, diventa improvvisamente di ghiaccio.

Proprio tra le gelide acque di un lago ghiacciato, rianimato da un soffio leggero ma colmo di un astratto vigore, riapre i suoi occhi al mondo un giovane. Tutto intorno a lui era buio e faceva tanto freddo. Egli emerse da uno spicchio d’acqua, e si generò dal sospiro di un’entità nascosta sulla luna, proprio come spirito dell’inverno, battezzato col nome di Jack Frost. Una volta in piedi, Jack raccolse un bastone che giaceva a pochi passi da lui, su quella stessa sottile lastra di ghiaccio che, sebbene fosse tanto fragile, continuava a resistere al peso del giovane, tanto era eterea la sua consistenza. Era come se Jack fosse incorporeo, i suoi balzi felini non arrecavano alcun “disturbo” a quel fragile “pavimento” che egli calcava. Jack si accorse che lambendo il tronco degli alberi col suo bastone catalizzante poteva rilasciare “ghirigori di ghiaccio”, che si adagiavano sulle cortecce e le ornavano come arti decorative cristallizzate. Comincia così la fiaba cinematografica de “Le 5 leggende”. In tale racconto visivo, Jack Frost ha l’eterna parvenza di un giovane dai capelli bianchi, simili alle candide distese innevate che circondano il paesaggio in cui è nato. Compiaciuto dai suoi prodigiosi poteri, Jack comincia a correre fino al villaggio più vicino. Tuttavia, con grosso rammarico, scoprirà che nessun essere umano è in grado di vederlo. Jack è un’essenza fisica, razionale ed emotiva non percepibile, e che nessuno scorgerà mai per i successivi trecento anni.

Tre secoli dopo, Jack è uno spirito frizzante e giocherellone, giulivo e pieno di vita, e passa gran parte delle sue giornate a divertire i bambini con giochi di neve e “freddolose” magie. Il giovane è mosso da un’incontenibile gaiezza, e sebbene il suo spirito sia l’incarnazione impalpabile del freddo inverno egli ha comunque un animo e un cuore calorosissimi. Jack, quando osserva gli altri giocare, mostra un sorriso radioso come il sole, ma al contempo, la sua condizione d’invisibilità lo rende caratterialmente triste, come se nel suo intimo proliferasse una gelida solitudine. Ciò non gli impedisce, tuttavia, di ricercare sempre il divertimento per offrirlo al prossimo. E’ come se Jack Frost dal gelo traesse il mite e coinvolgente ristoro per gli animi altrui. Egli è però anche vittima dell’incomunicabilità: nessun bambino può sentirlo, solo con la magia riesce a far percepire la sua mistica presenza. La sua è un’aura speciale, di quelle che a malapena si avvertono, ma ci sono. Di quelle paragonabili alla levità di un fiocco di neve che cade solitario dal cielo e subito si disperde su distese ammantate. Jack è una piccola leggenda, raccontata in alcune credenze popolari, ma non ancora così importante da conquistare l’affetto dei bambini, i soli a poter aiutare Jack a diventare un guardiano.

I bambini, grazie al loro animo sognante, credono nelle creature magiche come Babbo Natale, Calmoniglio, la Fatina dei denti e Sandy, quest’ultimo, protettore del loro sonno. Queste quattro creature rivestono per l’appunto il ruolo di “guardiani”, e preservano l’innocenza e la fantasia dei piccoli. Babbo Natale e Calmoniglio allietano le festività degli infanti durante il Natale e la Pasqua, la Fatina dei denti porta gioia ai piccini quando loro perdono i dentini da latte, e Sandman veglia ogni notte sui loro sogni. Un giorno, l’uomo nero torna sulla Terra, dopo essere fuggito da un luogo d’esilio in cui i quattro guardiani lo avevano confinato anni prima. Preoccupato dal potere dell’uomo nero, che vuole privare ogni bambino della fantasia che alimenta il credo nei quattro guardiani, l’Uomo sulla Luna ordina agli stessi di convocare un quinto elemento, vale a dire Jack Frost.

“Le 5 leggende” è un’opera favolistica, visivamente incantevole e sapientemente costruita, incentrata sulla fede dei bambini verso il mondo incantato. Una fedeltà che rischia di vacillare all’arrivo dell’uomo nero, il quale ha lo scopo di annientare l’innocenza, la felicità, la speranza dei bambini con la paura.

Babbo Natale, noto semplicemente come “Nicholas Nord”, ha l’aspetto tradizionale di figura austera e corpulenta, dalla bianca barba fluente. Calmoniglio è un coniglio di grandi dimensioni, agile e scattante, che maneggia sempre dei boomerang affilati con cui combatte i cattivi. La Fatina dei denti è, invece, dolce e protettiva, con uno spiccato senso materno, e ha l’aspetto di una fanciulla dal corpo rivestito di piume variopinte con piccole ali simili a quelle dei colibrì. Infine, Sandman è il guardiano dei sogni. Sandman, chiamato affettuosamente Sandy, è di minute dimensioni ma pingue, dallo sguardo affettuoso e dai modi affabulanti. Egli vive in un regno fatto di nuvole d'oro, e le sue stesse magie vengono modellate da una sabbia dorata, attraverso la quale Sandy riesce a rendere veri i sogni delle persone.

Le arti magiche di Sandman discendono dal cielo tutte le notti, come fasci di luce scintillanti dalla consistenza granulosa. La sabbia è l’essenza della magia e serve a materializzare i personaggi animati di un sogno, i quali aleggiano sopra le menti dei bambini dormienti. I sogni indotti da Sandy sono in grado di rendere visibili figure magiche e incantate, come un delfino che nuota in un mare fatto d’immaginazione, e un unicorno che scorrazza su praterie oniriche. A Sandy, tuttavia, si oppone il crudele uomo nero che può “toccare” un sogno, opprimerlo con la sua oscurità, e trasformarlo in un incubo. Sandman e l’uomo nero sono forze contrarie, come Hypnos e Thanatos, figure contrapposte della mitologia greca, le quali dominano il sonno e l’incubo. Sandy rilascia la sua dolce polverina dorata, l’uomo nero invece la sua lercia sabbia nera. E’ interessante notare come Sandy non si esprima mai con la semplicità, talvolta blanda, delle parole, superflue per lui che comunica con la forza espressiva delle immagini, delle forme, delle forze visive che emergono dall’animo. L’uomo nero è, invece, un antagonista sinistro, diabolico, un infingardo tentatore.

La fanciullezza è spesso la fase più lieta nella vita di un essere umano. E’ la prima tappa di un percorso vitale, quella maggiormente influenzata dall’immaginazione. Nelle loro incarnazioni spirituali, i guardiani hanno il compito di portare gioia nel cuore dei bambini. Tale compito viene cadenzato dal tempo. In un intero anno solare, le due festività più importanti sono la Pasqua, ma soprattutto il Natale. Babbo Natale e Calmoniglio cadenzano la crescita anno per anno dei bambini attraverso le festività natalizie e pasquali. I fanciulli durante la loro crescita attendono con incontenibile gioia l’arrivo delle feste, così da poter scartare i regali ai piedi dell’albero tra luci sfavillanti e palline colorate o per dipingere le uova che trovano la mattina di Pasqua. Gli altri due guardiani, la Fatina dei denti e in particolar modo Sandy, invece, restano accanto ai bambini per un periodo molto più lungo nel tempo. Sandy si manifesta ai bambini durante la notte, al termine di una intensa giornata, e diletta i sogni dando forma e colore a figure festanti e giocose. Sandy guida dunque i bambini durante la loro crescita quotidiana, mentre la Fatina dei denti nella loro progressiva maturazione; in altre parole segue il passaggio dall’infanzia all’adolescenza.

La Fatina dei denti ha il delicato compito di portare gioia ai bambini in un momento in cui, per la prima volta, hanno perduto qualcosa di sé: la caduta del tutto naturale di un dentino da latte. Dentolina, questo è il nome della fatina, raccoglie i dentini dei bambini e ne custodisce i ricordi di ognuno di loro in preziosi contenitori come fossero scrigni. La perdita dei denti è infatti un segno simbolico, una fase distinta della crescita, uno sviluppo graduale cominciato con la venuta al mondo. Nella caduta dei primi denti avviene una sorta di “separazione” che comporta un distacco dal passato per guardare al futuro. E’ forse per tale ragione che Dentolina custodisce i ricordi di ogni bambino che col tempo diverrà adulto. Tutte e quattro le leggende agiscono in un spazio temporale differente: Sandy ogni notte, Dentolina nelle notti in cui un bambino ha bisogno del suo intervento, Calmoniglio nel periodo pasquale e Babbo Natale, naturalmente, a dicembre, proprio nell’ultimo mese dell’anno. Jack Frost è, invece, uno spirito che agisce durante la stagione invernale.

Egli dall’asperità del freddo trae i propri poteri per convogliarli in gioia e divertimento. L’inverno è una stagione particolare, spesso considerata avversa. I bambini non trascorrono molto tempo fuori, il freddo non permette loro di giocare e correre all’aria aperta come farebbero durante l’estate. Ciononostante, Jack sa usufruire delle proprie arti magiche per trasformare i doni dell’inverno in giochi divertenti per i bambini. Com’è invisibile il suo corpo così lo sono i suoi ricordi, su chi lui sia realmente. Jack non ricorda chi fosse nella sua vita precedente. Scoprirà la sua vera identità grazie a Dentolina.

Quando era un ragazzo come tanti, Jack, un giorno, andò a pattinare con la sua sorellina, Emma, sulla lastra sottile di un lago ghiacciato.  Quando la lastra cominciò a cedere, Jack riuscì a mettere in salvo la sua Emma, allontanandola via con il proprio bastone. La tranquillizzò dicendo che si trattava solo di un gioco. Jack portò la sorellina a credere in lui, a fidarsi di quanto le stava raccontando, e così facendo poté salvarla. Il giovane però non riuscì ad allontanarsi in tempo e il ghiaccio sotto i suoi piedi, dato l’esiguo spessore, si frantumò; fu così che scomparve nelle gelide acque del lago. Commosso dal suo altruismo, l'Uomo sulla Luna decise di restituirgli la vita, trasformandolo in uno spirito. Jack riacquistò la vita nel medesimo luogo in cui la perdette.

Una volta scoperto il proprio trascorso, Jack Frost raduna le forze residue e si prepara a fronteggiare l’antagonista. Tutti gli altri guardiani sono stati fatti prigionieri, perdendo i loro poteri perché i bambini, spaventati dalla furia dell’uomo nero, hanno smesso di credere in loro. Così Jack tenta disperatamente di usare le proprie arti magiche per convincere Jamie, l’ultimo bambino rimasto fedele, dell’esistenza dei custodi. Ma per il grande stupore di Jack Frost, Jamie, quando scorgerà la magia che ritrae un coniglio fatto di neve, riuscirà a vedere per la prima volta l’immagine di Jack. La mamma di Jamie lo aveva più volte messo in guardia dal freddo, raccontandogli la storiella di Jack Frost, così il bambino iniziò a credere nella sua esistenza. A quel punto Jack riesce finalmente a rendersi visibile ai bambini che, attratti dai suoi giochi di ghiaccio, lo riconoscono e immediatamente riacquistano fiducia nei guardiani i quali, riappropriandosi dei loro poteri, sconfiggono l’uomo nero. Jack verrà così proclamato come quinta leggenda, guardiano del divertimento e signore dell’inverno. E’ il capoverso finale di questa bellissima fiaba, un incanto visivo per gli occhi e nutrimento per il cuore.

Ma cos’è l’inverno? E’ pioggia che batte sui vetri delle case, neve che ondeggiando vien giù dal cielo, freddo che induce l’animo umano, ancor prima del corpo, a ricercare il caldo abbraccio della persona amata; è paesaggio bianco, natura innevata, lago ghiacciato, mare burrascoso, monti coperti di candida coltre, camini accesi. In altre parole l’inverno è pura, tersa e dolce atmosfera. Esso ha una magia tutta sua. In questa stagione, in cui la vita, malgrado il freddo, continua il suo ritmo febbrile, l’uomo gode la dolcezza e l’intimità della famiglia, mentre fuori la natura ricama sulla terra fiori di gelo, di brina e di neve, che danno al paesaggio un aspetto fiabesco.

Chissà se sia realmente Jack Frost con il proprio bastone a esercitare i suoi incantesimi sugli alberi in autunno per far cadere le foglie e accelerare l’arrivo dell’inverno. Chissà se sia veramente lui a scuotere le nuvole in cielo, e a farle piangere lacrime di neve. Nascosto allo sguardo dell’uomo adulto, chi lo sa, magari Jack si diverte a sfiorare col bastone le pozzanghere d’acqua torbida per renderla cristallina, così che essa possa riflettere, come uno specchio, le sagome della gente. Ha un che di generoso il pensiero che lui, nascosto alla vista, ami sfruttare i propri poteri per rendere mirabile l’immagine riflessa delle persone, le quali in maniera fugace potranno specchiarsi per un istante, passeggiando per strada. Capiterà, di tanto in tanto, che un adulto, prossimo a riflettersi in quell’acqua, sia stato un bambino che un tempo scorse l’immagine di Jack Frost ma che oggi non riesce più a vedere.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

Vi potrebbero interessare:

Mosè disegnato da Erminia A. Giordano per CineHunters.

 

  • Analisi del Prologo

Dal cielo precipitiamo giù verso la Terra d’Egitto, attraversando delle nuvole “pastose” nella loro colorazione e ruvide come sabbia. Una volta oltrepassatele, un cumulo di polvere si leva dal basso, e va a prendere proprio il posto di quelle nuvole che prima si stagliavano alte nel cielo, per tutto l’orizzonte. L’acre lezzo di quella fanghiglia che si alza dal suolo sembra essere avvertito anche dagli spettatori, tanto da farli sprofondare in un’atmosfera opprimente, quasi schiacciante. Senza concedere tregua alcuna, i bagliori del sole oltrepassano gli angoli schiusi delle costruzioni piramidali, irradiando con guizzi incandescenti il popolo ebraico, mentre è intento a raccogliere dai campi la paglia e farne balle. Alcuni schiavi, ricurvi su se stessi, restano sorprendentemente in piedi, nonostante abbiano le gambe per metà infossate nel fango. E’ questa una scena di rara potenza espressiva. La progressione continuata delle immagini viene accompagnata dai versi cantati dagli schiavi che invocano Dio, supplicandolo d’inviare loro un salvatore che possa liberarli. La costruzione scenica dell’ambientazione è di splendida esecuzione. Un alone copre gran parte delle scene, così da farci percepire l’aria pesante che si respira nella zona degli scavi, ma anche in tutto l’Egitto. Gli sfondi non vengono dipinti al solo scopo di dare risalto ai primi piani, ma anche in lontananza è possibile notare alcune statue nel momento in cui vengono issate dagli operai. E’ evidenziata l’imponenza delle costruzioni egizie, inquadrate dal basso verso l’alto per accentuarne la maestosità, a scapito degli schiavi inquadrati invece dall’alto verso il basso, quasi a volerli ridimensionare ulteriormente, catturati nell’atto di ammirare le statue col viso rivolto all’insù. In quello stesso modo si rivolgono al loro Signore, implorando il cielo per una salvezza che tarda ad arrivare.

In quei drammatici frangenti, le spietate guardie del Faraone stanno mietendo vittime tra i neonati maschi delle madri ebree. Soltanto una donna di nome Jocabel riuscirà a sottrarre il neonato all’infausto destino cui era condannato. Jocabel mette il bambino in una cesta che abbandona al volere delle correnti del Nilo, poco prima di rivolgergli un addio con un melodioso canto.  Il bambino viene rinvenuto dalla moglie del Faraone (nella storia biblica viene invece trovato dalla figlia) che, insieme al figlioletto Ramses II, decide di portarlo con sé e chiamarlo Mosè, che significa “salvato dalle acque”. La camera si solleva verso l’alto, fino a inquadrare il palazzo della famiglia regale d’Egitto, dove d’ora in poi Mosè vivrà alla pari di un principe.

E’ interessante scorgere i piccoli dettagli nella scena del ritrovamento dell’infante: nel momento in cui la regina prende tra le sue braccia il piccolo e comincia a cullarlo, le ancelle non possono fare a meno di notare la stoffa con la quale questi è stato avvolto, vale a dire un panno di tessuto ebraico. Una di loro accompagna la mano alla bocca, sgomenta. La sovrana lancia uno sguardo minaccioso alle ancelle che abbassano immediatamente il viso. Una “minuzia” candidamente gradevole che sottolinea come la salvezza di Mosè sia stata dettata dall’amore disinteressato della regnante, che salva il bimbo sebbene fosse consapevole della sua provenienza.  Mosè viene visto sin dalla nascita come una manifestazione dello spirito divino agli occhi dei più grandi che lo osservano: dal punto di vista della sua famiglia ebrea, Mosè è paragonato al profeta del popolo ebraico, a seguito della sua miracolosa salvezza, giudicando tale miracolo come un gesto di protezione che Dio riversa su di lui. Dal punto di vista della regina d’Egitto, anche se ciò non viene propriamente espresso ma è comunque facilmente intuibile, Mosè rappresenta un dono divino sottratto agli ebrei e offerto alla famiglia regale d’Egitto attraverso il volere soprannaturale del Nilo. La figura di Mosè è quindi avvolta da un senso d’astratto misticismo secondo entrambi i popoli.

  • Le origini

L’idea di realizzare un’opera d’animazione sui passi biblici dell’esodo balenò nella mente di Jeffrey Katzenberg ai tempi in cui lavorava per la Walt Disney. La Disney bocciò però il progetto, e questo spinse Katzenberg ad abbandonare il colosso dell’animazione e non solo, per fondare, assieme a Steven Spielberg e David Geffen, la Dreamworks. Spielberg, d’educazione ebraica e profondamente sensibile ai trascorsi biblici dei suoi avi, diede immediatamente il via libera a Katzenberg per lavorare al progetto. Furono spesi 70 milioni per la completa realizzazione del lungometraggio: al 1998 era il film d’animazione più costoso di tutti i tempi. Alla fine il film avrebbe incassato in tutto il mondo circa 220 milioni, diventando il film non disneyano di maggior successo. Avrebbe poi vinto anche un premio Oscar: venne infatti premiata la meravigliosa canzone “When you believe” cantata da Mariah Carey e Whitney Houston.

Si avverte sin dal primo fotogramma il coinvolgimento emotivo degli autori e la devozione artistica nel ricreare il dramma del racconto biblico. “Il principe d’Egitto” poté contare su un cast stellare: Val Kilmer doppiò il protagonista, Ralph Fiennes prestò la sua voce a Ramses II, Michelle Pfeiffer a Zippora, Sandra Bullock a Miriam, Jeff Goldblum ad Aronne, Patrick Stewart sarà il Faraone ed Helen Mirren la Regina. Chiusero il cerchio Steve Martin e Martin Short come Hotep e Hoy, i due sacerdoti di corte.

  • La recensione dettagliata de “Il principe d’Egitto”

Se da una parte si scelse di trasporre con accuratezza gli eventi più importanti della vita di Mosè, il film si piegò comunque ad alcuni stereotipi hollywoodiani, rendendo Mosè e Ramses due fratelli cresciuti a stretto contatto, inseparabili, che lentamente, gravati dai rispettivi destini, arriveranno a scontrarsi tra loro. Sebbene non sia stata adempiuta l’esatta veridicità biblica, la messa in scena del rapporto, dapprima idilliaco e in seguito burrascoso, tra i due personaggi principali del film, verrà resa magistralmente e accentuerà la resa drammatica di tutto il film. Sia Mosè che Ramses sono due personaggi piegati al volere di esseri superiori. Ramses vive all’ombra del padre e teme, nel suo intimo, di non meritare la successione al trono per paura di non riuscire a garantire prosperità al regno. Mosè sarà poi privato di una casta d’appartenenza, finché non verrà scelto e obbligato da un Dio che conosce ben poco.

Mosè è un principe d’Egitto cresciuto nell’accondiscendenza, e per questo a tratti superficiale, che vive naturalmente all’oscuro della sua reale origine. Quando apprende la verità, tramite le parole di sua sorella Miriam, scappa, corre alla volta del palazzo, incappando in un povero anziano che, alla vista del principe, si mostra terrorizzato. Per la prima volta Mosè vede gli schiavi sotto un’altra luce. La corsa di Mosè procede metaforicamente a ritroso, ed egli canta con tanto di affanno, ciò che ha sempre dato per vero: l’esser un principe d’Egitto. Mosè procede dal suo luogo d’origine (le modeste abitazioni ebree), un posto che inevitabilmente gli appartiene e che viene reso vivido dal canto di Miriam che intona le parole della madre Jocabel, e fugge verso “l’altro mondo”, quello degli Egiziani. Una fuga dalla realtà, perpetrata in un percorso inverso, dall’origine ebrea all’illusione egiziana, che culminerà nella comprensione del suo passato. Rientrato nelle sue stanze, Mosè sogna un passato orribile che rivive in alcune rappresentazioni eseguite coi tratti stilistici tipici degli egizi per demarcare la realtà contemporanea da quella di un tempo. Egli vede le guardie del faraone uccidere i piccoli maschi ebrei. Una scena dall’indubbia valenza inquietante che pone fine alla prima parte del film: da questo momento in poi il principe d’Egitto si spoglierà delle sue vesti per vagabondare senza metà nel deserto. Mosè giace privo di un’identità e pertanto decide di espatriare a seguito di un brutale incidente in cui ha trovato la morte, per causa sua, un egiziano.

Quando Charlton Heston raggiunse una sorta d’immortalità artistica con Cecil De Mille che lo scelse come interprete del Mosè per antonomasia ne “I dieci comandamenti”, l’attore statunitense lanciò un accattivante suggerimento. Consigliò che la voce di Dio, udibile nel roveto ardente, sarebbe dovuta essere la stessa di Mosè, poiché Dio è in ognuno di noi e sentendolo parlare avrebbe dovuto avere la voce del nostro io, in tal caso, di Mosè stesso. Il suggerimento di Heston non verrà mai dimenticato, e verrà ripreso ne “Il principe d’Egitto”.

Mosè, dopo essersi innamorato di Zippora, con cui convolerà a nozze, conduce per mesi una vita serena come pastore. Un giorno, una pecorella si avventura solitaria nei meandri di una caverna, e così, Mosè, nel tentativo di recuperarla, si addentra in quella spelonca fino a rimirare un ulivo che arde tra le fiamme senza consumarsi. Quando Mosè vede le fiamme divampare e avverte la parola di Dio, la ode con la sua medesima voce. Vi è però una particolarità splendida ne “Il principe d’Egitto”: ogni qualvolta Dio pone a conclusione le sue frasi, una voce femminile scandisce lentamente le ultime sillabe. Gli autori vollero che Dio esprimesse tanto l’uomo quanto la donna per generare un’aura divina di totalità, valida ad abbracciare univocamente il genere maschile che quello femminile.

L’incontro con Dio avviene in un luogo interno, cinto da rocciose pareti che isolano Mosè dal tempo e dallo spazio. Egli, timoroso e titubante dinanzi a Dio, viene comandato a guidare il suo popolo verso una terra dove scorre latte e miele, ma quando questi esprime a Dio le sue perplessità in merito alla riuscita di tale impresa, Dio manifesterà la sua ira, intimando a Mosè di adempiere al suo volere. Nella rappresentazione mistica di Dio ne “Il principe d’Egitto” emergono due aspetti in particolare: l’austera severità del Dio, tipica del vecchio testamento, ma anche la bontà con cui sprona Mosè a compiere i suoi prodigi. Dio appare tanto crudo quanto misericordioso. Il roveto ardente, per la prima volta in una trasposizione filmica, si leva da terra e avvolge Mosè, facendolo librare in aria. Egli non può bruciare avvolto da queste divine fiamme e per la prima volta, sente Dio vivere in lui.

Una volta depostolo al suolo, Dio congeda il suo messaggero, sussurrandogli paternamente: “Io sarò con te, Mosè!”.

Mosè torna in Egitto con Zippora e si ricongiunge al fratello adottivo Ramses, succeduto a suo padre come Faraone e astro del mattino e della sera. Ramses nel frattempo ha avuto un pargoletto, e rimane alquanto sorpreso di scorgere la sagoma di Mosè, da egli ritenuto ormai morto nel deserto. Mosè confessa a Ramses di essere tornato per liberare gli schiavi, e Ramses, dapprima scioccato, respinge con fermezza ogni supplica da parte del “fratello”. Da quel momento si spezza l’idillio fraterno che vigeva tra Mosè e Ramses. Il sovrano d’Egitto non vuole essere l’anello debole della sua dinastia, e per punire la presunzione di Mosè raddoppia il carico di lavoro degli schiavi. A quel punto, gli stessi ebrei si rivoltano contro Mosè, che arriva a trovarsi come dilaniato nell’animo da due forze oppositrici e contrastanti.

Il Mosè de “Il principe d’Egitto” è un vero uomo nella sua emotività più recondita e sopita. Ripeto, un uomo, sempre e solo un uomo. Si differenzierà dal Mosè di Charlton Heston perché non recherà in sé fermezza e sangue freddo. Mosè, quando accetterà il suo destino da guida, lo farà di buon grado, ma sempre con un certo timore, contrassegnato da un indomabile senso di giustizia, pur se con tanti rimorsi che ne turbano lo spirito. Mosè non potrà mai dimenticare l’affetto che nutriva nei confronti di Ramses, ma non potrà neppure ignorare il grido di dolore lanciato dal suo popolo. Il Mosè de “Il principe d’Egitto” è un personaggio drammaticamente Shakespeariano, depositario del volere di un Dio, melanconicamente oppresso dal suo passato e da ciò che richiede il suo futuro. Un uomo colmo di timori, ma pienamente consapevole di ciò che il suo popolo gli chiede.

Questa de “Il principe d’Egitto” resta in assoluto l’interpretazione dal valore più empatico del Divino che incontra l’uomo. Perché tutti i prodigi che Mosè compirà li farà sì con stupore ma anche con una dimostrata sofferenza umana. Mosè interagisce magistralmente con il proprio pubblico, creando con esso un legame fatto di reciproche comprensioni.

La cura scenografica riservata alla ricostruzione della magnificenza delle opere architettoniche egizie viene esaltata nella sequenza delle dieci piaghe che annientano ciò che di sublime avevamo potuto contemplare nella prima parte del film. Il cuore del Faraone, indurito dalla sua ferrea volontà di non ceder in alcun modo, costringe Mosè a scatenare sull’Egitto i castighi del Signore. In una sequenza da brividi, lunga quasi tre minuti, si susseguono, come in una pomposa panoramica, riproduzioni artistiche terrificanti, appunto le famose piaghe d’Egitto. Le rane invadono le case egiziane, le cavallette infestano le vegetazioni, il bestiame spira a seguito di una moria inspiegabile, e una pioggia di fuoco cade dal cielo, riducendo in un cumulo di cenere la potenza e la gloria dell’Egitto.

Due scene spiccano su tutte, quelle riguardanti la prima delle piaghe scatenate da Mosè e l’ultima, la più terribile. Per la prima, Mosè calca con i suoi piedi le sponde del Nilo, per poi toccare le acque con il proprio bastone. A seguito di tale gesto, le correnti del fiume diverranno bagnate dal sangue. Nella medesima scena, le acque permangono azzurrastre solamente intorno a Mosè. L’ultima piaga viene attuata da Mosè con estrema sofferenza: l’angelo della morte declinerà come uno spirito di bianco colore, che si intrufola nelle case per uccidere i primogeniti maschi. Gli autori diedero consistenza allo spirito dell’angelo, cosa che non avveniva ne “I dieci comandamenti”, dove la camera indugiava all’interno dell’abitazione di Mosè.

Prostrato dal dispiacere per la morte del figlio, Ramses concede a Mosè di poter liberare il suo popolo. Il profeta, però, procede con il dolore nel cuore, quando conduce il suo popolo sino alle rive del Mar Rosso.

Arriviamo dunque alla scena più intensa del film, quella in cui Mosè, avvertendo ancora una volta le parole di Dio, chiude i suoi occhi e lambisce il mare col suo bastone: a quel punto le acque si aprono, formando due gigantesche muraglie d’acqua salata sia a destra quanto a sinistra.  Mosè guida il suo popolo in salvo per poi consegnargli le Tavole della Legge. L’opera si conclude com’era cominciata, con l’intonazione del verso “Ascoltati…”: e così accadde.

  • Conclusioni

“Il principe d’Egitto” è un’opera in grado di suscitare emozioni sia nell’animo del credente che del non credente, tanto è la forza con cui vengono disegnate e interpretate le scene più emozionanti del film, tutte realizzate con estremo realismo. Lo stile classico con cui vennero dipinti i fondali, gli stessi personaggi e la colonna sonora di Hans Zimmer e Stephen Schwartz (anch’essa candidata all’Oscar), così perentoria, resero il lungometraggio un capolavoro in assoluto. Il film, sebbene mantenga in alcuni tratti un ritmo più compassato, affidandosi a dei canti di sicuro più scanzonati, non si discosta mai realmente dal mantenere uno stile magniloquente, austero, a tratti persino epico. “Il principe d’Egitto” è un inno glorificante rivolto al percorso di un “salvatore”, un uomo scelto per un fine supremo, che attuerà davvero solo al termine di un cammino arduo e tortuoso, fatto di dolore e sacrificio, ma anche di fede e di speranza.

Mosè diviene il profeta del popolo ebraico solo nel finale. Non quando dona le Tavole della Legge, neppure quando divide le acque, ma un po’ prima. Quando procede insieme alla sua gente, e notando i loro volti fiduciosi e compiaciuti, comincia a sorridere, comprendendo l’importanza di quello che sta per compiere. In quell’istante, Mosè gioca con due bimbi, sollevandoli con l’ausilio del suo bastone, poggiato sulle sue spalle. In quel preciso istante, Mosè diviene ai nostri occhi un “salvatore”: un portatore di gioia, quella vera, che può essere vista così spontaneamente solo nel volto di un bambino.

E quei bambini, con Mosè, ridevano, e lo facevano per la prima volta.

Voto: 9/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

Vi potrebbe interessare:

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: