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Per le selettive scelte di copione, per la sua proverbiale versatilità, per la celeberrima abilità nel combinare il successo di critica con quello di pubblico, e in particolar modo, per l’impressionante capacità di intuire il potenziale di ogni lungometraggio,  Dustin Hoffman è stato uno degli attori maggiormente richiesti del cinema anni ‘70. Passare dal palcoscenico teatrale al grande schermo nel ‘68 (Il laureato) e avvicinarsi immediatamente alla statuetta dorata dell’Academy fu una sorta di battesimo del fuoco.   Inizia, come si suol dire, col "botto" la carriera di questo grande interprete nativo di Los Angeles. Il suo primo film da protagonista, "Il laureato", lo consegna immediatamente alla storia della settima arte. Dustin Hoffman brilla come una stella alla sua prima apparizione sul grande schermo, eppure le premesse non erano certo state così positive.

Hoffman per ascendere al ruolo di icona del cinema non ebbe dalla sua l’ausilio di un fisico imponente: gli appena 165 cm di altezza, quel suo sguardo introverso e quel naso prorompente lo allontanavano, e di molto, dalle classiche fattezze belle e prestanti del divo di Hollywood. Ma è proprio qui da trovarsi l’abilità di Hoffman, quella di trasformare un punto debole in un punto di forza. Quel fisico minuto e quell’aria dimessa diverranno, infatti, il suo marchio di fabbrica, connotati consoni atti a interpretare ruoli da “antieroe”.

La dedizione al lavoro, lo studio maniacale e perfezionista della parte lo renderanno pignolo e difficile da gestire per ogni regista; c’è infatti chi racconta che Hoffman studiò per oltre sei mesi la camminata della gente claudicante sui marciapiedi per rendere al meglio la parte di Salvatore Rizzo, un uomo zoppo e malato di tubercolosi nell’iconico “Un uomo da marciapiede”. Laurence Olivier si divertiva a raccontare che Dustin, sul set de “Il Maratoneta”, dedicò tre giorni e tre notti per girare una singola scena e che fu proprio lui, vedendolo distrutto, a dirgli una battuta estemporanea rimasta però indimenticabile per i più: “non sarebbe più semplice recitare e basta?”

Gli anni ‘70 e ‘80 furono gli anni d’oro nella carriera di Hoffman, i due decenni in cui abbatté lo stereotipo dell’icona nerboruta e orgogliosa di Hollywood.  Dopo aver abbandonato i complessi e difficili panni di Rizzo, Hoffman si getta a capofitto nel thriller psicologico “Cane di Paglia” del grande Sam Peckinpah.
Il film, una complessa analisi e un’articolata ostentazione critica della violenza sfociata brutalmente nell’uomo vessato e deriso, tema caro al cineasta nativo di Fresno, mostra un Hoffman inaspettato, capace di dare al professor Summer toni tanto pacati e ingenui quanto freddi e spietati all’aguzzino che il personaggio finisce per diventare. Altro giro altro successo; questa volta si passa al Western interpretando sia il giovane che (con un trucco impressionante) l’ultracentenario Jack Crabb, uomo di umili origini che ripercorre la sua vita sempre in precario equilibrio tra la fede per la sua “razza” e l’affetto per i nativi d’America in “Piccolo grande uomo”.

Disdegnerà la commedia? Certo che no! Eccolo infatti accettare il ruolo primario in “John e Mary” al fianco di Mia Farrow, o la parte di Alfredo per l’ultimo film diretto dall’italiano Pietro Germi.

Il richiamo americano, però, tornò ad essere incalzante e lo troviamo nel 1973 a spalleggiare Steve McQueen nel Prison-movie “Papillon”. Trasforma il suo aspetto e il suo modo di porsi per quest’ultima interpretazione, rasandosi quasi del tutto i capelli e dimagrendo più del dovuto per mostrare ancor di più le disumane condizioni a cui erano sottoposti i prigionieri della Guyana Francese negli anni trenta. Dopo aver ultimato quest’ultime riprese, arriva il momento di cimentarsi nel biografico “Lenny”, discussa pellicola del 1974 nella quale viene narrata la sregolata vita del comico Lenny Bruce, che con il suo linguaggio scruttile e provocatorio, volto a mettere a nudo l’ipocrisia della società americana, rivoluzionerà la comicità statunitense. E’ per lui la terza nomination all’Oscar!

Passano gli anni ma l’attore non ne vuol saperne di sbagliare un film; il passo successivo vede Hoffman interpretare Carl Bernstein, un giornalista del Washington Post che contribuirà a svelare lo scandalo Wathergate nel capolavoro “Tutti gli uomini del presidente”, uno dei capisaldi del cinema d’inchiesta, strepitoso successo di pubblico e di critica, vincitore di 4 statuette. Tra il ‘76 e il ‘78 si dedica ancora al genere thriller con l’acclamato “Il maratoneta”, lungometraggio in cui con Laurence Olivier contribuirà a rendere sinistramente impressa nella storia del cinema la cruenta scena della tortura.

Dopo queste ennesime grandi prove, nel 1980, riesce finalmente a strappare all’Academy il premio Oscar come miglior attore protagonista grazie alla grande interpretazione di Ted Kramer, il padre fiero e commovente in lotta per la custodia del figlio, in “Kramer contro Kramer”, al fianco di Meryl Streep. Il film si aggiudicherà i premi Oscar nelle categorie più importanti: miglior film, regia, attore, attrice e ancora per la sceneggiatura non originale. Il tema portante della pellicola è il divorzio e l’impatto che ha verso le persone coinvolte, in particolare sul figlio della coppia; il senso di solitudine e di incompletezza che si avverte quando una famiglia si divide permea tutta l’opera.

Hoffman continua a mostrarsi inarrestabile, e appena due anni dopo sarà lo straordinario protagonista di “Tootsie” per la regia di Sydney Pollack. Nella commedia interpreta Michael Dorsey, un attore che, pur di lavorare, si finge donna. "Tootsie" avrà così tanto successo da essere eletta dall’American film Institute come la seconda più grande commedia della storia del cinema americano, dietro solo al film “A qualcuno piace caldo”. L’attore, supportato da un efficiente trucco, dimostrerà un innato talento istrionico sfoderando una performance fuori dall’ordinario, ottenendo così la quinta nomination al Premio Oscar. Il lungometraggio vanterà addirittura 9 candidature. Hoffman arriva così come grande favorito alla serata, cinematograficamente parlando, più importante dell’anno, ma tra “Tootsie” e le statuette si interpone “Ghandi - Il film” che strapperà otto premi. Hoffman deve rimandare l’appuntamento alla seconda statuetta che viene vinta in quell’anno da Ben Kingsley. Per Tootsie gli viene conferito nuovamente il Golden Globe.

Tra il 1982 e il 1987 trasporta il teatro in televisione con l’opera “Morte di un commesso viaggiatore (già recitata da lui stesso a Broadway), tratta dall’omonimo dramma di Arthur Miller. Hoffman presta magistralmente il proprio volto a Willy Loman, in una meravigliosa interpretazione prettamente a carattere teatrale che gli varrà la conquista dell’Emmy Award e la quarta statuetta della sua carriera ai Golden Globe. Nel 1987 commette il primo e probabilmente unico passo falso della sua carriera con “Ishtar”, deludente al botteghino e stroncato dalla critica per via di una narrazione frammentaria e confusa, ma l’anno successivo torna immediatamente sulla breccia accettando la parte dello struggente autistico Raymond in “Rain man – L’uomo della pioggia”.

Dedicherà oltre un anno allo studio della malattia e al comportamento delle persone autistiche, impegnandosi anche nella concezione delle movenze e delle peculiarità comportamentali di Raymond, introducendo, così, un incedere caratterizzato da una postura del tutto particolare: una spalla leggermente piegata, gli occhi persi nel vuoto e la voce che, durante i passi, tende ad appiattirsi sempre più. Con questa ennesima, straordinaria interpretazione, entrata di diritto tra le più grandi della storia del cinema, l’attore vincerà il suo secondo Oscar.

Con questa pellicola si chiude l’arco temporale più importante nella carriera di questo inarrivabile interprete, ma la nuova decade continuerà a riservare altri apprezzabili successi: tra le diverse produzioni a cui prenderà parte, è doveroso citare in primis il suo lavoro nel fantastico “Hook – Capitan Uncino” diretto da Steven Spielberg, in cui interpreta magnificamente proprio il famoso pirata nato dalla penna di J.M. Barrie, spalleggiato da un cast pieno zeppo di “stelle” come i compianti Robin Williams e Bob Hoskins, la giovane Julia Roberts e la sempre verde Maggie Smith. Verso la fine degli anni ‘90, torna a recitare in una grossa produzione: “Sesso e potere” al fianco di Robert De Niro, ricevendo la sua settima nomination al Premio Oscar.

Negli anni Duemila oltre a recitare in pellicole fantasy come l’adorabile “Mr. Magorium” o il toccante “Neverland”, e in nuovi thriller come “La giuria” dove dà vita a uno strepitoso duetto con l’amico Gene Hackman, riceve il Golden Globe e il Kennedy Center Honor alla carriera, ciliegina sulla torta per il sensazionale percorso intrapreso sul finire degli anni ‘60 da questo magnifico attore che, nel 2008, darà un’ulteriore prova del suo immenso talento prestato alla settima arte, passando addirittura dietro la macchina da presa per dirigere Maggie Smith nell’apprezzato “Quartet”.

Ancora oggi Dustin Hoffman predilige ruoli di un certo spessore e significato, siano essi da protagonista o comprimari, in pellicole argute e accattivanti (vedasi “Oggi è già domani”), anteponendo sempre la qualità alla quantità. A differenza di altri suoi illustri colleghi che nel periodo recente hanno abbandonato del tutto la linea cinematografica prettamente artistica a favore di quella, come dire, più “leggera”, Hoffman crede, e di questo anch’io ne sono certo, di poter dare ancora tanto al cinema, ancor di più adesso, quando si appresta a tagliare il traguardo degli ottant'anni.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Il film di Arthur Penn, dal titolo “Il piccolo grande uomo”, girato nel 1970, innescò per certi versi una rivoluzione nel cinema western americano. In quel medesimo anno furono tre i film che eseguirono questa sorta di traslazione tematica che cambiò il modo in cui il western, inteso in senso classico, metteva in scena i nativi americani: “Il piccolo grande uomo”, “Soldato blu” e “Un uomo chiamato cavallo”. Con “Il piccolo grande uomo”, Penn realizzò un western inconsueto, avventuroso, notevolmente diverso dagli altri per longevità e varietà delle situazioni in cui il protagonista si trova a far fronte, e per tale ragione, un western diversificato, unico. “Il piccolo grande uomo” è il viaggio a ritroso di un uomo per solcare le reminiscenze più arcane rimaste impresse nei meandri più intensi dei suoi ricordi. E’ la ricostruzione narrata di una vita divisa tra la propria origine di uomo bianco e quel suo innato affetto e senso di appartenenza alla popolazione degli Indiani d’America, qui per la prima volta rappresentati non più come biechi selvaggi e violenti barbari, ma come effettivamente furono, nelle loro ammirevoli e curiose usanze, nelle loro bizzarre credenze e nei loro immutati valori.

La storia viene raccontata dal vecchio Jack Crabb (Dustin Hoffman con un pesantissimo trucco sul viso) in prima persona. Questi è giunto alla ragguardevole età di 121 anni, e si trova adesso a parlare della battaglia del Little Big Horn a un giornalista studioso del processo d’integrazione tra i nativi americani e i coloni. Jack Crabb è scampato assieme alla sorella Caroline a un’incursione indiana quando era ancora in tenera età. I due fratelli vengono rinvenuti nella prateria, in mezzo a ciò che resta dei carri arsi, da un indiano cheyenne di nome Ombra Silenziosa, che li sottrae a quell’inferno portandoseli al proprio accampamento.  La sorella durante la notte se la dà a gambe, mentre Jack rimane lì e così viene adottato dalla tribù, entrando nelle grazie di Cotenna di Bisonte, capo anziano e saggio sciamano. Per via della sua piccola statura, al contrario della sua grande intraprendenza, a Crabb viene dato il nome di “Piccolo Grande Uomo”. Tra lui e un suo coetaneo della tribù, di nome Orso Giovane, non corre buon sangue, ma nonostante questo, durante un attacco ad una tribù nemica, Jack gli salva la vita e così Orso Giovane rimane legato a lui da un vincolo di gratitudine. In seguito all’uccisione di donne e bambini del loro villaggio, ad opera dell’esercito degli Stati Uniti, i cheyenne entrano in guerra contro i bianchi. Allo scontro partecipa anche Jack il quale sta per essere sopraffatto, ma si salva per aver mostrato al soldato la sua carnagione bianca. Dal momento che è stato allevato dai pellerossa si stabilisce che il giovane debba essere educato come tutti gli altri della stessa sua razza, e quindi viene mandato presso un vecchio pastore protestante, fanatico assertore della mortificazione della vita sregolata, per raggiungere la salvezza dell’anima, nonostante la di lui moglie abbia avuto ed ha ancora innumerevoli relazioni fuori dal matrimonio.

In una strana occasione incontra la sorella, ma in principio non la riconosce, in quanto è avvezza a indossare abiti maschili ed è ora a capo di una banda di giustizieri. E’ proprio lei che gli insegna a maneggiare la pistola, anche con ottimi risultati. In veste di pistolero Jack fa amicizia con Wild Bill Hickok, una sorta di figura emblematica nella storia americana. Successivamente il nostro piccolo grande uomo diviene un commerciante e si unisce in matrimonio con Olga, una giovane svedese, ma subito dopo va in bancarotta. Inizia quindi a viaggiare e mentre sta per raggiungere il West, la sua diligenza subisce l’attacco dei pellerossa i quali gli portano via la moglie. Per ritrovarla Crabb visita i vari accampamenti e arriva anche ad arruolarsi nell’esercito. Durante un attacco a un villaggio indiano assiste alla morte del suo vecchio amico Ombra Silenziosa, ma ne salva la giovane figlia incinta, Raggio di Luna, e ne diventa il marito. E’ per lei che fa ritorno alla tribù di Cotenna di Bisonte, ormai vecchio e stanco e nel frattempo diventato pure cieco, che lo accoglie con grande gioia.  E’ lì che Jack rivede la moglie Olga, sposata ora con Orso Giovane, però fa finta di non riconoscerla.

Accade adesso che il generale Custer e il Settimo Cavalleggeri assaltano di sorpresa l’accampamento indiano trucidando donne e bambini, compresa la moglie di Crabb. Dal massacro soltanto Cotenna di Bisonte ne esce vivo. Così il piccolo grande uomo si arruola nuovamente nell’esercito statunitense, intenzionato a uccidere Custer, ma giunto lì per lì non ce la fa e desiste. Anzi il generale gli dà del fallito sia come bianco che come pellerossa. Ritorna quindi sulla strada e si dà all’alcool. Nel frattempo Custer è sempre più intenzionato ad annientare le tribù dei cheyenne e dei sioux. Jack fa ritorno nel reggimento del generale in qualità di guida. Lo convince così a cadere nell’imboscata degli indiani nella valle di Little Big Horn, che prendono di sorpresa il Settimo Cavalleggeri e lo massacrano. Durante lo scontro Crabb rimane ferito e quando Custer, in un delirio di follia sta per finirlo, sopraggiunge Orso Giovane, pagando così il suo vecchio debito nei confronti dell’amico. Nel prosieguo del film il protagonista incontra nuovamente Cotenna di Bisonte il quale comprende che malgrado la vittoria sul generale, gli sconfitti rimangono sempre i pellerossa. Il vecchio capo indiano a quel punto ringrazia il Creatore e invoca la sua fine. Ma la morte desiderata invece non arriva, constatando così l’inefficacia della magia, mentre sotto la pioggia che vien giù copiosa, parla delle sue nuove mogli al nipote adottivo.

La scena finale vede Jack Crabb che saluta il giornalista a cui ha narrato la sua incredibile vicenda e resta a rimembrare un mondo che ormai non esiste più.

Arthur Penn prende lo spunto dal romanzo di Thomas Berger e porta sul grande schermo la vita di Jack Crabb, interpretato magistralmente da Dustin Hoffman, che fin dalla sua tenera età si trova a vivere tra i pellerossa in seguito ad un attacco alla sua famiglia. Da quanto sopra esposto ci si rende conto che il lungometraggio di Penn non è un film western come tutti gli altri, in cui ci si aspetta il punto vitale della vicenda, ma è un western atipico.

Il primo approccio di Arthur Penn al cinema fu con un western dal titolo Furia selvaggia del 1958. Un film completamente diverso rispetto a “Il piccolo grande uomo”.  Se in quel film narrava le vicende di uno dei tanti personaggi leggendari del west, in questa pellicola sovverte i canoni, gli schemi, i dettami. Egli non intende soltanto riabilitare quell’universo che i suoi connazionali avevano eliminato quasi completamente, ma vuole perseguire un percorso in cui narra dell’America psicotica e incongruente nell’aspro passaggio dagli anni Sessanta ai Settanta.

La vita di Jack Crabb è costellata da avventure straordinarie, da ragguardevoli mutamenti nel proprio arco esistenziale che però non scalfiscono mai il suo spirito di adattamento. Egli attraversa con disinvoltura anni e anni di battaglie e di rinunce, di sacrifici e di privazioni, dalla sua formazione sotto la tutela del suo mentore, Cotenna di Bisonte, padre amorevole che si rivolge a lui chiamandolo sempre con l'appellativo di "figlio mio", alle decadi di conflitti tra i coloni americani e gli Indiani. Jack si muove così con naturalezza, alternandosi tra la realtà americana e quella indiana come fossero due facce esistenziali di una medaglia che spacca in una duplice fonte il suo cuore. L’ammirazione che nutre per il popolo degli uomini è un pretesto che serve d’ausilio a far emergere gli usi e i costumi del popolo degli indiani, che egli mira con ingenua curiosità. Loro erano devoti alla magia, fedeli alla religione e convinti che tutto ciò intorno a loro fosse vivo. Questo viene espletato meravigliosamente in una celebre sequenza in cui Cotenna di Bisonte, ferito e divenuto cieco, mostra la stessa quietudine di un tempo, ammettendo di essere stato ferito a un astratto canale mediante cui “la luce arriva fino al cuore”, e che d’ora in poi non vedrà più le figure. In quegli intensi frangenti, Cotenna esterna il credo del popolo degli uomini attraverso un monologo in cui viene esaltato il rispetto e l’amore che gli Indiani d’America nutrivano per le loro terre, le vasti praterie in cui abitavano, campeggiando coi loro Tepee.

La rilassatezza flemmatica con cui Chief Dan George interpretò questo saggio capo Indiano, e la spontaneità mediante cui espresse le aspettative mistiche del “pellerossa”, trasmettono un senso di assoluta saggezza. Una saggezza non dettata dal sapere scientifico del mondo civilizzato, ma una prerogativa di chi viveva a stretto contatto e nel pacifico rispetto della natura e del territorio, un valore terreno superiore a qualunque conflitto guerrafondaio.

“Il piccolo grande uomo” invitò il pubblico a una riflessione critica sul triste destino cui andarono incontro i nativi americani, questa volta interpretati come uomini e non più come feroci nemici. “Il piccolo grande uomo” è l’odissea personale di Jack Crabb, un portatore di storia inconfutata, che si conclude dov’era iniziata, quando egli continua a richiamare alla mente gli anni oramai andati.

A quasi cinquant’anni dalla sua uscita nelle sale “Il piccolo grande uomo” resta un film straordinario, mitico, che ha stretta corrispondenza con la realtà di un mondo ormai alla deriva.

Il film ha avuto nel 1970 una nomination all’Oscar come Miglior attore non protagonista a Chief Dan George. Sempre nel ’71 ha avuto una nomination al Golden Globe come Miglior attore non protagonista a Chief Dan George, mentre nel 1972 al Bafta Awards ha ottenuto una nomination come Miglior colonna sonora a John P. Hammond e una nomination come Miglior attore protagonista a Dustin Hoffman.

Voto: 8/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Era il 1985 quando Dustin Hoffman tornava a interpretare Willy Loman per la trasposizione televisiva di “Morte di un commesso viaggiatore”, capolavoro di Arthur Miller qui riadattato per la regia di Volker Schlöndorff. Proprio cosi, Hoffman tornava, perché aveva già vestito i difficili e angoscianti panni di Loman, un commesso viaggiatore, nel prestigioso teatro di Broadway.

Il testo drammaturgico di Miller, destinato a diventare una pietra miliare del teatro americano del dopoguerra, vide per la prima volta la luce nel 1949. Come per tutte le opere dell’autore statunitense, anche e soprattutto qui, viene posta l’attenzione sull’uomo comune e sulla vita di ogni giorno, caratterizzata da timori, paure, debolezze ma anche da tante speranze e aspettative. In Willy Loman infatti è facile riconoscere l’uomo comune che per tutta la vita si è sacrificato svolgendo con la massima dedizione il proprio lavoro, nella speranza di lasciare ai propri figli un futuro brillante.

Le sue sicurezze crolleranno quando arriverà la consapevolezza, perentoria e devastante, di non essere riuscito a costruire nulla: al fallimento professionale si unisce il disprezzo da parte dei figli che tuttavia non coinciderà con il loro odio. E' proprio questo uno degli elementi più significativi introdotti da Miller. In una vicenda prevedibile egli aggiunge un elemento nuovo: il figlio incolpa il padre di averlo illuso, avendogli egli stesso suggerito, sempre erroneamente, di essere destinato a mete ambiziose, raggiungibili senza sforzo alcuno. Un'illusione che finì per condizionare il figlio. Nonostante queste menzogne, l'erede, al termine di una brutale lite verbale, ammetterà di non odiare il padre. E' questo sentimento di perdono che fa scattare in Loman l'intenzione di porre fine alla sua vita per salvaguardare il futuro dei suoi figli.

"Morte di un commesso viaggiatore" è un’opera teatrale prestata, in questo caso, alla televisione (e al cinema considerando che in Europa usci nelle sale cinematografiche) ma che non perde quasi nulla del suo fascino originale. Lo scenografo Tony Walton sin da subito ci presenta infatti un ambiente casalingo semplice ma a tratti cupo e malinconico che perfettamente si abbina al dramma originale, con una regia, quella di Schlöndorff, che evita inquadrature complesse e articolate per lasciare il giusto spazio ai personaggi e per focalizzarsi al meglio sull’interpretazione degli attori, proprio per mantenere quanto più possibile una visione di carattere più teatrale che televisiva.

L’assoluto spessore del film lo si trova nelle interpretazioni degli attori: Hoffman, qui sottoposto a un pesante trucco d’invecchiamento, offre una performance straordinaria, coinvolgente e da manuale. Gli viene data ampia libertà di movimento, così da poter spaziare da un angolo all’altro della casa catturando lo spettatore con la gestualità e la sua categorica presenza scenica; l’attore, in quel periodo reduce dagli enormi successi cinematografici di “Kramer contro Kramer” e “Tootsie”, si cimenta in una caratterizzante interpretazione prettamente di stampo teatrale. Hoffman, aiutato anche da un grande John Malkovich, è capace di mostrare ogni sfumatura di fierezza e di orgoglio del personaggio come anche il sentimento di disperazione e di angoscia che attanaglia Loman nel tragico finale.

Il sacrificio vedibile nell'ultimo atto testimonierà che il valore della vita di un uomo non sarà mai riconducibile soltanto alla sua riuscita sociale. La sua morte volontaria non è più la resa di un debole che non è riuscito a imporsi in un mondo che premia soltanto i forti, ma si configura come una estrema rivendicazione di dignità, mediante la quale il protagonista, che ha sempre subito sommessamente ogni forma di angheria credendo che fosse il prezzo da pagare per il raggiungimento di uno stato sociale consono, si ribella a questa situazione, ritrovando la propria identità di uomo. Con il suo suicidio, il commesso viaggiatore garantisce alla sua famiglia i ventimila dollari dell'assicurazione, una somma di denaro con cui può congedarsi e lasciar vivere i suoi cari in condizioni decorose.

Miller con questo suo dramma esistenziale tocca le corde più profonde della riflessione emotiva e sociale.

Per questo suo lavoro, Hoffman ricevette l’Emmy Award come miglior attore protagonista.

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Capita spesso di porsi alcune domande, specie nei momenti più riflessivi, come al calar della notte, quando si resta seduti sulla poltrona, circondati da una serie di piccoli specchi, rinchiusi nella propria cabina sulla poppa della nave a sorseggiare del vino da una coppa dorata. Sono quei momenti in cui neppure giocare con la propria isola e fare fuoco a babordo con il plastico di un galeone può attenuare la nostalgia per un ricordo felice, che appare tanto distante da indurti a chiedere: “cos’è la felicità?”.  Un orizzonte limpido davanti a sé, privo di alcuna preoccupazione imminente, è forse questa la vera felicità? Quella che si concretizza nel mantenere un senso di rilassatezza che possa permettere il proliferarsi della creatività, della fantasia e del sogno. La felicità più pura, quella che coincide con il desiderio sognante è tipica dei bimbi: è il pensiero felice. Personalmente, me lo ha insegnato “Hook”. No, non solo il film, anche lui, proprio Uncino, pardon, Capitan Giacomo Uncino. Mi ha insegnato che se si è privi di un solo pensiero felice si cede alla malinconia, vivendo nella solitudine dell’abbandono e nell’alienazione di un mondo ormai svuotato dalla benché minima avventura da quando la nemesi di un tempo è ormai l’ombra sfocata di ciò che rappresentava tanti anni fa. Si finisce poi per rievocare spaventati la mamma, un’ultima volta, quando un gigantesco coccodrillo, risvegliatosi per pochi istanti, spalanca le fauci lasciando cadere al suolo una grossa sveglia col solo intento di banchettare con i nostri corpi inermi.

Un pensiero felice è anche legato ad un singolo oggetto, per noi custode di vecchi ricordi e di emozioni trascorse, me lo ha insegnato Tootles, che riprendeva il sorriso quando ritrovava le sue biglie e smetteva così di sembrare perennemente “sulle nuvole”, perché poteva raggiungerle davvero questa volta, volando sopra la torre del Big Ben una sera d’inverno, avvolto dalla neve, con l’ausilio di una polvere di fata. Lo ha insegnato anche a voi?

Me lo ha insegnato anche Robin, voglio dire, Peter. Mi ha insegnato quanto possa diventare ripetitiva, monocorde, una vita dedita soltanto al lavoro e alla freddezza di un ufficio, lontana dal calore di una famiglia e dall’avventura di un luogo staccato dalla realtà, dove continua ad attenderlo e ad amarlo Trilli, che alberga proprio laggiù, tra il sogno e la veglia, dove non possiamo più ricordare cosa stavamo sognando davvero. Un luogo all’apparenza imperscrutabile, poiché troppo vicino al reale e ancora poco distante dal fantastico. Peter ha continuato ad insegnarmi quanto possa essere difficile ritrovare un vero pensiero felice e come sia arduo vivere senza, poiché il pragmatismo, la tendenza realistica, tiene saldamente i piedi ancorati a terra, impedendo ai sognatori di alzarsi in volo. Restano condannati, se scevri da un pensiero felice, persino i previdenti e gli speranzosi, coloro che sanno di non dover volare troppo vicini al sole ma vogliono comunque provarci, perché magari, nel mondo dei sogni, il sole non brucia davvero le nostre ali di cera e non mette freno ai nostri desideri. “E’ fatta! L’ho trovato!” - me lo ripeto sempre quando scorgo un pensiero felice, e voi? Trovarne uno sancisce una sfida nel non perderlo; dobbiamo tenerci stretto quel pensiero felice, così che allontani tutti gli affanni accumulati e scacci ogni residuo di paura, e se ci riusciamo, siamo pronti a spiccare il volo, il Peter Pan che dorme sopito in noi è tornato. Un pensiero felice è un domani radioso, un orizzonte non solo limpido ma anche soleggiato, è il bambino che è in noi che torna ad allietare l’adulto, perché proprio come Peter voliamo fino al sole, mentre i bimbi sperduti ci guardano entusiasti, e con un’ulteriore spinta delle nostre gambe, piombiamo giù in picchiata, come un falco sulla preda, a volare sopra i galeoni, facendoci solo sfiorare dalle palle di cannone che i pirati ci sparano contro ed evitando ogni genere di freccia scagliata dagli indiani dell’isola.

“Hook” è un’opera fantastica che si riduce ad una sola e unica indagine: scorgere la via di una felicità mirabile, e in questa costante ricerca, verità e leggenda si intrecciano, travalicando i confini dell’infinito. Un Peter adulto nella sua consistenza reale mira con sgomento un disegno che lo ritrae giovane e audace tra le pagine consunte di un libro che narra ciò che fu ma non ciò che potrà essere. La negazione della fantasia si scontra così con l’arte dell’affresco che immortala, sulle stesse pareti della casa, Uncino su di un’imbarcazione in procinto di giungere da un mondo imperscrutato. Il ritratto e la narrazione letteraria sono prove di un passato oramai sperduto nell’oblio dei ricordi, e il mito di Peter Pan viene testimoniato nell’arte, atta a tracciare l’iniziale percorso della ricerca della felicità che il protagonista dovrà presto intraprendere. Una ricognizione lunga una vita, con il tempo, temuto da Uncino, che scorre inesorabile, anche se non viene scandito dal suono di una sveglia o di un cucù.

Sebbene il film diretto da Steven Spielberg sia meritevole d’esser menzionato per l’imponenza di un cast stellare, per l’indubbia qualità di una pellicola onirica e visionaria, e per il rispetto amorevole che nutre verso la spensierata fanciullezza, “Hook” dev’essere analizzato, prima di tutto, come un film che esplora la felicità in quanto motore acceso dell’animo umano. Pertanto, il lungometraggio di Spielberg dovrebbe essere commentato con un linguaggio garbato e amichevole, come se venisse rinarrato tra le pagine di un diario dei ricordi. Per tale ragione ho scelto di descriverlo attraverso ciò che per me ha significato, perché è una pellicola alquanto personale, capace di subentrare nella profondità dell’animo dei piccoli spettatori che, come il sottoscritto, hanno avuto la fortuna e il piacere di vederlo per la prima volta da bambini. “Hook” è un film che desidera insegnare, trasmettere in un formato di magia didascalica ciò che ogni personaggio può esplicare tramite il proprio percorso.

“Hook – Capitan uncino” non è solo un fantasy che rielabora l’immortale storia di J. M. Barrie mostrandoci un Peter Pan adulto, “Hook” è un continuo elogio alla natura mutevole della felicità, quella che ognuno di noi può e deve ricercare nel corso della propria vita nelle più disparate ragioni. La felicità è motivazione, una spinta costante, e proprio per questo è tra i più coinvolgenti sentimenti provati dall’uomo, specie se combinata con l’arte dell’immaginazione. Ciò porta a sedersi intorno a una tavola imbandita di piatti e bicchieri vuoti, e di posate lasciate lì unicamente per rammentare ai piccoli commensali il bisogno di non doverle usare, poiché l’inganno della fantasia e del gioco ci permette di trovare di colpo, non appena apriamo gli occhi, piatti ricolmi di cibo appetitoso e bicchieri traboccanti.

“Hook – Capitan uncino” ci mostra che il sogno è uno strumento che non smette di funzionare non appena si abbandona l’innocente illusione della giovinezza, e ci offre questa tangibile testimonianza seguendo le orme e il pellegrinaggio di Peter, che ritrova se stesso quando ormai sembrava troppo tardi, quando aveva già varcato la soglia della monotonia degli adulti. Un’opera volta a ricordarci l’importanza di “credere nelle fate” e di vedere il più delle cose con gli occhi sognanti di chi crede che tutta una vita possa essere una grande avventura.

Perché il pensiero felice ci permette di volare, di finire realmente su nel cielo, a “nuotare” sopra un pascolo di nuvole, facendoci accarezzare dal vento poco prima di mirare la seconda stella a destra, per poi proseguire dritto fino al mattino. Già! All’isola che non c’è!

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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