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La nostalgia è una cosa strana. Non è un sentimento vero e proprio, è uno stato d’animo che alberga sopito nella nostra sfera intima e che reca in sé un certo desiderio, un rimpianto per qualcuno o qualcosa a noi caro. E quando si ridesta, tocca le corde più profonde del nostro cuore, le travolge con un tale turbinio di sentimenti da giungere persino a celebrare una sorta di vacuità. E’ quasi un’avvertenza emotiva, dovuta al desiderio di ritrovare ciò che arreca quello stato di nostalgica insofferenza. Sembra strano, ma la nostalgia è materia, è corpo, e si configura nell’aspetto di una persona o di un luogo a noi tanto cari che non rivediamo da tempo. E’ anche oggetto, perché la memoria di un piccolo giocattolo che tenevamo in mano da bambini ci rammenta teneramente l’attimo, l’istante più dolce di un percorso lontano, candido e sognante; è altresì sensazione, respiro, battito accelerato, reso tale da una forte emozione, ma è soprattutto “atmosfera”. La nostalgia quando si plasma all’atmosfera perde consistenza, fino a divenire invisibile, astratta, impalpabile al tatto ma toccabile con la levità di un ricordo bellissimo. La nostalgia, sebbene arrechi una lieve tristezza, è il bacio malinconico di una carenza, che rievoca la felicità di una letizia vissuta. E’ come se fosse una finestra spalancata sulle esperienze più dolci della nostra vita, le quali, proprio perché trascorse, vengono gravate di un peso ancor più accentuato dalla nostalgia.

Gli anni ’80 sono stati un decennio “mitico”, quando per divertirsi bastava un pallone o una bambola, quando si giocava in strada con gli amici, senza cellulari, privi di google, internet e social network. Erano gli anni delle cabine telefoniche e dei gettoni, degli apparecchi stereo e dei videoregistratori.  Per i ragazzi italiani, gli anni ’80 erano quelli delle 500 lire e delle schede telefoniche custodite negli scomparti del portafogli. Gli ’80 erano gli anni del grande cinema di fantascienza, dei lungometraggi impregnati di magia, passione, amore, del candido fantasy e del lieto fine, ma, soprattutto, erano gli anni dell’originalità, del coraggio e dell’audacia autoriale. Due decadi mitiche, intrise di nostalgica riverenza, d’ammirazione per tutti coloro che in quegli anni continuavano a lasciare sonnecchiare la loro infanzia su di un letto di nostalgici ricordi custoditi tra lenzuola di seta.

Ma quella nostalgia, la nostalgia di un tempo trascorso, di uno stile, di un’atmosfera riconoscibilissima, possiede una peculiarità che la rende unica. Può essere provata anche da chi non ha propriamente vissuto quegli anni. Semplicemente osservando con attenzione, con una partecipazione emotiva più che razionale, le fotografie ma soprattutto il cinema ambientato in quel determinato periodo, si può apprezzare così tanto quel tempo da sentirsi parte integrante di esso, e provare, forse ingenuamente, un senso di nostalgia per non aver vissuto propriamente quei lustri. Forse per le passioni che abbiamo sviluppato siamo tutti figli degli anni ’80, anche coloro che, come il sottoscritto, appartengono alla generazione immediatamente successiva ma altrettanto nostalgica: i primi anni ’90. Ma io gli anni ’80 li ho vissuti, in un certo senso, attraverso l’occhio cinematografico di molti registi: con il fantasy di Ron Howard, mi sono innamorato di una sirena dai ricci capelli d’oro di nome Madison (Daryl Hannah); e Madison con Allen (Tom Hanks) ha vissuto un amore tanto profondo da vivere ancora oggi nelle profondità del mare, nei pressi di un castello regale. Grazie a Zemeckis, ho fatto amicizia con un coniglio dalle grandi orecchie chiamato Roger, con Donner ho ammirato l’amore tra un cavaliere e una dama, tra un lupo e un falco, e seguendo le volontà di un autore come George Lucas, ho sconfitto l’Impero Galattico e restaurato la Repubblica. Erano gli anni ’80, i meravigliosi anni ’80!

Oggi viviamo nell’epoca dei molesti remake, degli improbabili reboot, insomma, delle riproposizioni maniacali. Si attinge a quei magici anni per riportare in auge vecchie glorie, classici che hanno raggiunto lo status di culto. Molti remake pescano dagli anni ’80, in un vago ed esecrabile tentativo d’imitarne l’atmosfera, deturpando, tuttavia, l’unicità dell’originale, impareggiabile nei cuori degli spettatori. Nell’era delle riproposizioni al cinema, sul piccolo schermo, forse l’attuale frontiera della settima arte, giunge “Stranger Things”.

Dal connubio amoroso tra nostalgia e malinconia, viene partorito “Stranger Things”, un’ode al passato, un carme ossequiale alla magia degli anni ’80, un elogio passionale a un periodo oramai trascorso. “Stranger Things” è tributo, non remake. E’ omaggio, non reboot. Se gran parte delle altre produzioni attorno a “Stranger Things” guardano il passato come un’usurpativa miniera d’oro da cui poter trarre i medesimi simboli e rimodellarli in un 2017 povero di idee, “Stranger Things” volge il proprio sguardo rispettoso e contemplativo al periodo, e si lancia verso gli anni ‘80, come a volerli raggiungere. In questo salto nel tempo, in questo tuffo nel passato, la serie porge la mano ai propri spettatori, esortandoli a seguirla. “Stranger Things” è una storia nuova, immersa in un contesto già visto. E’ l’innovazione che porge la guancia al classicismo.

“Stranger Things” è la letizia d’esser nostalgici, un po’ come la malinconia è la felicità d’essere tristi, come scriveva Victor Hugo. E’ una prosa elegiaca che ci ricorda l’infanzia, una fase intensa della nostra vita che nelle rimembranze del nostro passato genera un acutizzarsi della nostalgia. Quando guardiamo questa serie televisiva torniamo bambini, in un processo empatico che porta ad accomunarci a Undi, Mike, Dustin, Lucas e Will, quasi fino a sostituirci ad essi. I protagonisti di “Stranger Things” sono bambini, e si comportano come tali. Sebbene vengano coinvolti in eventi di natura sovrannaturale, fantastica e fantascientifica, non smettono mai d’essere fanciulli, e di interpretare tutto ciò che li circonda con sguardo avventuroso e sognante. La freschezza di questo particolare quartetto di amici, a cui poi si aggiungerà una ragazzina dagli straordinari poteri telecinetici e telepatici, è il nucleo della storia. Una storia che di fatto assume le sembianze di una partita giocata intorno a un tavolo. Una sfida a “Dungeons and Dragons” nella quale un imprevisto, il palesarsi di un mostro d’immaginifica natura, può comportare una battuta d’arresto nella progressione del gioco e obbligare i giocatori a escogitare una risoluzione pertinente per fermare quella minaccia.

“Stranger Things” è una fuga in bicicletta con gli amici su nastri d’asfalto pieni zeppi di pericoli pronti a stanarci alla prossima curva.  La serie televisiva è una reviviscenza, e ci ricorda quanto improvvisamente l’innocenza possa essere scossa e turbata da un evento che cambierà per sempre la vita. Da piccoli bambini, i protagonisti vengono investiti da una situazione difficoltosa che li farà affacciare alla durezza dell’età adulta. Ma il tutto viene affrontato senza mai discostarsi dalla spensieratezza tipica della giovane età. E’ questa la chiave interpretativa dell’opera: inscenare un mondo forse spaventoso ma sconfitto dall’allegria e dalla spontaneità dei bambini. Una gioia che non dovrebbe essere mai persa durante la crescita.

Il serial è un madrigale commemorativo all’infanzia, e trasforma la nostalgia in una fonte di sviluppo mutevole, il carburante per una storia semplice ma fantasticamente coinvolgente. Che i remake o i reboot prendano esempio dalla serie per comprendere come si possa attingere dal passato senza il bisogno di tirare fuori dalle vetrine espositive personaggi da museo, d’ammirare e ricordare soltanto per le loro originarie imprese, perché ben radicati nel nostro immaginario collettivo. “Stranger Things” insegna come si possa rendere gloria al passato senza intaccarlo, e lo fa seguendo uno stile narrativo attinente al cinema fantascientifico di quegli anni, bellissimo, immediato e diretto. I colpi di scena all’interno della serie non sono frequenti, la progressione non è articolata, è tutto lineare e magico, fantasioso e intrigante, esattamente come fosse un prodotto forgiato dagli anni ’80.

E da quella doppia decade fioccano citazioni, menzioni e rimandi. “Stranger Things” è un componimento musicale scritto da un musicista che volge le proprie arie melodiche alla meraviglia invivibile di un passato reso vivibile nell’attimo presente. E’ la sinfonia n°80, intonata da un’orchestra che dà prova di sé, e fa risuonare, dall’equilibrio melodico degli strumenti, un suono vivido, melanconicamente mesto però energico. E in quest’aria sinfonica “Stranger Things” muta in una sorta di macchina del tempo, alimentata dal fluidificare di un flusso canalizzatore che sospinge la serie fino a farle raggiungere la velocità di 88 miglia all’ora, per poi tornare indietro… in un passato che ha l’aria di un “contemporaneo presente”. Sempre udendo una così dolce sinfonia possiamo notare come Mike, Dustin, Lucas e Will divengono i quattro Ghostbusters, muniti di zaini protonici e trappole da acchiappafantasmi. Ecco che il demogorgone si configura in un Alien mostruoso che uccide senza remore e con un’efferatezza inaudita le sue povere vittime; e ancora, “gli uomini cattivi” del governo, che danno la caccia alla piccola Undi, si tramutano negli uomini dal volto imperscrutabile che predano il piccolo “E.T.”. E in tutto questo, Sean Astin fa ritorno per risolvere le situazioni più gravose, così come faceva nella sua infanzia quando risolse gli enigmi più intricati con i suoi Goonies. Ma “Stranger Things” è ancora la storia di un legame, di una connessione forte, sentimentale tra Mike e Undi. Se Spielberg nel 1982 aveva immortalato la tenera amicizia, sorta in un contesto fiabesco, tra Elliot e il piccolo “E.T.”, “Stranger Things”, invece, trae ispirazione dal grande cineasta per eternare l’incontro, l’affetto e l’amore nato tra Mike e la misteriosa Undi. Un affetto sbocciato nella diversità, ma che si accresce proprio nella reciproca fiducia e nel rapportarsi tra due mondi: quello “comune” qual è quello di Mike, e quello tormentato e sofferente della ragazzina.

Ognuno ascoltando tale sinfonia può rimirare soggettivamente i personaggi di quegli anni che più ama, le meraviglie di un cinema prezioso. “Stranger Things” è, inoltre, l’affettuosità di una madre (Winona Ryder) che vuol proteggere a tutti i costi suo figlio, ma anche la premura di un padre (David Harbour) che vuol prendersi cura di una figlia adottiva. Età adulta e età giovanile si intersecano vicendevolmente in un’interazione conoscitiva che porta i grandi a essere compresi dai piccoli e viceversa. L’intero telefilm è un’interconnessione tra la maturità e la giovinezza. La dualità si ripete costantemente, la serie riguarda, per l’appunto, anche due realtà. Il sottosopra minaccia di sovrapporsi al nostro piano esistenziale, nel tentativo di rovesciare la realtà che noi conosciamo.

E’ un costante intrecciarsi. La sinfonia di una musica tanto nostalgica si interseca alla nostra musica contemporanea; la modernità è una fase transitoria in cui la novità artistica non è che un’illusione. E se fossimo intrappolati in una sorta di stasi del sottosopra, e la bella realtà cinematografica e televisiva si trovasse solo nel passato?

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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