
Cosa scriveva Gordie Lachance alla fine di “Stand by Me”?
Quella frase che componeva davanti al computer e che concludeva il suo racconto, quello che aveva dedicato ad un ricordo d’infanzia condiviso con gli amici di un tempo, qual era?
Ma sì, certo, scriveva questo: “Non ho mai più avuto amici come quelli che avevo a dodici anni. Gesù, ma chi li ha?”.
Una frase decisamente ad effetto e, sotto sotto, molto veritiera. Quanti di noi si sono ritrovati in quella “affermazione”?
In fondo, l’amicizia che sboccia quando si è ragazzini è talmente sincera, schietta, disinteressata, travolgente che difficilmente può essere replicata. Quando si è bambini e si ha la fortuna di far parte di un gruppo di amici, ebbene quegli amici divengono una seconda famiglia, il nucleo delle varie giornate, compagni di cui ci si fida ciecamente, con cui ci si diverte senza remore e si resta uniti da un solido legame che sembra destinato a non esaurirsi mai. Eppure, col passare del tempo e il volgere dell’età adulta spesso e volentieri le amicizie intessute da ragazzi si disfano. La vita divide, allontana, e le strade conducono verso sentieri a volte diversi, inaspettati, sorprendenti. Delle amicizie maturate durante l’infanzia resta solo una gradevole e malinconica reminiscenza.
Chissà se crescendo anche i giovani amici di “Ci hai rotto papà” avrebbero concordato con quella frase elaborata e trascritta da Gordie al culmine del suo testo. Secondo me sì! Eccome!
A proposito di reminiscenze: fra le memorie personali che riecheggiano dal passato, quelle che risuonano come un’eco, fa spesso capolino nella mia mente, per l’appunto, “Ci hai rotto papà”. O per meglio dire: “Gli Intoccabili”.
Eh già, perché per quelli della mia generazione “Ci hai rotto papà” è sempre stato anzitutto “Gli Intoccabili”. Molti di noi allora chiamavano quel film in tal modo, con quell’appellativo piuttosto che con il titolo appropriato. Ci veniva spontaneo. D’altronde erano loro il fulcro della nostra attenzione, quella banda, gli amici che trascorrevano i pomeriggi andando in bici per le vie della città, giocando, facendo scherzi anche un po’ pesanti agli adulti, colpevoli di non comprendere più quella particolare fase della vita, di essere divenuti troppo grandi per rammentare la spensieratezza di quando si è ragazzi. Quel film parlava degli Intoccabili e per noi era semplicemente questo!
“Ci hai rotto papà” è stato un piccolo classico della nostra infanzia, un lungometraggio sovente registrato sulla videocassetta dall’amico di turno, una videocassetta che veniva quasi venerata e che passava di mano in mano, da un compagno di scuola ad un altro.

Concedetemi il paragone azzardato ma “Ci hai rotto papà” è stato il nostro “Stand by Me”. Fermi tutti, so di averla sparata grossa!
Ne sono ben conscio, è un confronto che non può essere preso troppo sul serio. Dunque, chiarisco immediatamente: “Stand by Me” aveva una narrazione stratificata, che esplorava il contesto drammatico e miserabile in cui si svolgeva l’avventura estiva di una combriccola di ragazzini ben caratterizzati; una narrazione che sviscerava le ansie, i tormenti, le sofferenze di quei personaggi che si affacciavano lentamente ad una prima maturazione. Il nostrano “Ci hai rotto papà” si accontentava di essere una commedia scanzonata, fracassona, grezza eppur frizzante e piena di cuore, che aveva dalla sua un fascino difficile da descrivere per noi giovincelli di allora che cantavamo “Noi siamo Gli Intoccabili e voi ci avete rotto”, quell’indimenticabile motivetto che ci faceva sentire ingenuamente ribelli e che tutt’oggi sappiamo intonare a memoria. Il paragone va dunque interpretato in un’ottica adeguata, preso con le dovute e giuste proporzioni, si intende.
“Ci hai rotto papà” non aveva la pretesa di affermarsi come un film seminale e di formazione, voleva unicamente divertire, e con il suo piglio si è imposto come una sorta di cult generazionale, amato non certo per la sua qualità bensì per quella sua efficacissima capacità di catturare l’atmosfera e il sapore di un periodo italiano tutto nostro, nel quale ci si poteva identificare con estrema facilità.
Ebbene, l’ultima pellicola di Castellano e Pipolo era dedicata all’amicizia. Quella più bella, più lieta, sincera e allegra, quella che coinvolgeva una comitiva di ragazzetti: Marco, Stefania, Fabrizio, Andrea, Paolo, Zibbo e Carletto.

Le vicissitudini dei 7 giovanotti vengono raccontate, per lo più, da Andrea, arrivato in città da poche settimane e ancora alla ricerca di nuovi amici. Un pomeriggio, Andrea prova ad avvicinarsi agli “Intoccabili”, i quali si intrattengono nel cortile del suo palazzo. Tutti gli Intoccabili, ad eccezione di Zibbo, vivono nello stesso condominio. Già, un po’ come i Goonies che abitavano nello stesso quartiere. Concedetemi questo sottile parallelismo, suvvia.
Dunque Andrea irrompe d’un tratto, mentre gli altri sono intenti a giocare a calcio, raccoglie il pallone tra i piedi e inizia a fare qualche dribbling, venendo però ignorato dagli altri che proprio non vogliono accettarlo fra le loro fila.
“Vattene che è meglio!” – grida uno di loro.
“Sì, vattene, che è proprio meglio!” – grugnisce qualcun altro.
Andrea, il protagonista, avverte sulla sua pelle ciò che molti altri ragazzini sperimentano in quella fascia d’età: la difficoltà ad inserirsi in un gruppo, a fare amicizia avendo l’etichetta del “nuovo arrivato”, visto, frequentemente, come una “minaccia” per un team ben affiatato. Andrea però non si dà per vinto e alla sua maniera si prende la sua rivincita sugli Intoccabili, rei di avere atteggiamenti presuntuosi, architettando una rivalsa coi fiocchi. Quasi inaspettatamente, dopo un confronto goffo e burlone, Andrea viene finalmente accolto dagli altri, che ridono delle sue inventive argute.
Per dirla tutta Andrea si ritrova a fronteggiare in un “vero e proprio duello” Fabrizio, il quale dà sfoggio della sua tecnica sopraffina, mimando tutte le temibili mosse di Karate che è in grado di applicare in una singolar tenzone. Andrea assiste con un fare imperturbabile a quei gesti minacciosi, poi estrae una pistola giocattolo che spruzza vernice “inchiostrata” e sporca la faccia di Fabrizio.
Tutti scoppiano in una fragorosa risata e Paolo commenta: “Avete visto? Lo ha fregato come Indiana Jones!”.
In effetti, la dinamica degli eventi ricorda uno dei combattimenti più simbolici (e brevi) de “I predatori dell’Arca perduta”, quello in cui l’archeologo si imbatte in uno spadaccino che lo sfida apertamente; questi si pavoneggia, palesando l’invidiabile destrezza che possiede nel dimenare la propria lama. Indiana Jones non si lascia impressionare e, quasi annoiato, estrae il revolver e con un secco e preciso colpo si disfa del suo rivale. L’ironia della sequenza è evidente e ha contribuito alla sua iconicità.
Come Indy anche Andrea si è dunque “liberato” dell’avversario che si dava tante arie con una mossa rapida e “indolore”. Gli Intoccabili se la fanno sotto dalle risate, perfino Fabrizio si fa conquistare dall’arguzia di Andrea e gli porge la mano. Come per magia, esattamente come accadeva un po’ a tutti durante quegli anni d’infanzia e preadolescenza, l’amicizia tra Andrea e gli altri Intoccabili nasce tra un sorriso e una burla.

“Ci hai rotto papà” non aveva una trama ma una raccolta di momenti, un insieme di frammenti, di spaccati di vita quotidiana in cui i protagonisti dopo la scuola si incontravano al cinema Esperia, la loro “base”, una sala cinematografica rimasta in disuso, con la platea abbandonata a sé stessa, il palcoscenico che cadeva a pezzi; ciò nonostante per quei ragazzini quel cinema costituiva un riparo, un rifugio, il loro mondo grazie al quale isolarsi da tutto il resto e vivere la loro intensa amicizia. Il cinema, del resto, è un luogo intriso di un’astratta magia: in esso vengono materializzati i sogni, prendono vita le immaginazioni, le fantasie impresse su di un nastro di celluloide. E così il cinema è per Gli Intoccabili il posto ideale in cui ritrovarsi, in cui progettare e dare seguito a tutte le loro fantasticherie, a tutte le loro marachelle punitive verso gli adulti indifferenti.
L’ultimo film trasmesso presso il cinema Esperia è “Gli Intoccabili” di De Palma, la cui locandina campeggia all’ingresso della sala. Tutti i ragazzini avevano modificato il poster inserendo sul volto dei personaggi del film i loro visi di bambini. Quella “base” recava in tutto e per tutto il loro tocco irriverente.

“Ci hai rotto papà” è stato un film sull’amicizia che quelli come me, che appartengono agli anni ’90, oppure coloro che sono nati negli anni ’80, hanno adorato incondizionatamente durante le elementari e le medie, e hanno continuato a guardare e riguardare con inalterato affetto una volta raggiunto il traguardo dell’età adulta. Si tratta certamente di una commedia sconclusionata, caratterizzata da un montaggio scompigliato, caotico, che sembra inconsapevolmente richiamare il disordine, la frenesia, il ritmo incalzante che cadenzava le giornate della preadolescenza, fatte di corse e divertimenti fino a sera, di appuntamenti con i compagni, di compiti a casa, di ore noiose passate in classe e di pagelle mostrate con timore ai genitori.
La fatica cinematografica finale di Castellano e Pipolo metteva in scena trovate stupidotte, puerili, ma anche genuinamente esilaranti.
Una sequenza, fra tutte, vantava una grazia rimasta immutata: quella in cui Paolo e Zibbo si incontrano e stringono amicizia.
È buio, la luce nel condominio è saltata, Paolo, per le scale, sente qualcuno o qualcosa singhiozzare nel silenzio, come il miagolio di un gatto. È così che conosce Zibbo, rimanendo a lungo nell’oscurità: i due non si vedono, non sanno che faccia hanno, ma chiacchierano come se potessero guardarsi negli occhi. Paolo conforta Zibbo, che ha paura del buio, lo tranquillizza, fino a che la luce non torna improvvisamente. In quell’istante Paolo vede chi ha davanti a sé: un ragazzino di colore. Si allontana di scatto, quasi scioccato. Ma che andate a pensare!
Paolo non indietreggia di certo perché Zibbo ha la pelle scura, bensì perché Zibbo indossa un cappello e una sciarpa targate Juventus.
Paolo, napoletano doc, mugugna: “Sei della Juve?”.
Zibbo risponde prontamente e con una nota di fierezza: “Sì!”.
E Paolo, sornione, replica: “E vabbè, dai, nessuno è perfetto”. E i due da quel momento divengono amici per la pelle.
Questa scena possiede un garbo evidente: mostra, con una trovata geniale, come i bambini siano incapaci di provare alcuna forma di odio razziale. Quando Paolo vede per la prima volta Zibbo resta stupito, malamente impressionato dalla sua fede calcistica, non certo dal colore della sua pelle. Nel buio erano uguali esattamente come lo sono alla luce.

Quando guardavamo “Ci hai rotto papà” da piccoli ci immedesimavamo in tante situazioni: nelle partite di calcio in cortile, quando il pallone calciato di punta toccava la finestra del vicino iracondo, che si affacciava e sbraitava. Ci immedesimavamo nelle attività degli Intoccabili, come lo scambio delle figurine dei calciatori al ritmo di “Ce l’ho! Ce l’ho! Mi manca!”, così come nei giri in bicicletta, nei gelati mangiati in compagnia, nei citofoni suonati per poi correre di gran carriera nonché nelle letture dei fumetti di Dylan Dog.
E da adulti, “Ci hai rotto papà” si lascia guardare con malinconia, generando nello spettatore una sana sensazione di rimpianto per un mondo che non c’è più, un mondo senza social, senza scatti fotografici pubblicati con filtri che ne abbelliscono il contorno deturpandone però il realismo, senza “storie” ritmate da brani musicali, senza spunte blu a sottolineare una visualizzazione su Whatsapp, un’epoca fatta unicamente di galoppate all’aria aperta, di partite a pallone giocate con quello che si trovava, con le porte fatte con gli zainetti usati come pali, pomeriggi di ritrovi al “solito posto”, serate consumate a registrare film su nastri di VHS evitando accuratamente la pubblicità, ad ascoltare la musica con le cuffie e il compact disc, a fare gli squilli per dire “ti sto pensando”; nostalgia dei computer antidiluviani, quelli con gli schermi grandi grandi, dei Game Boy grossi come mattonelle, della prima Playstation e della sua versione Slim, dei match a Pro Evolution Soccer in cui i nomi dei giocatori della Nazionale venivano storpiati, delle gare condotte su circuiti d’asfalto a Gran Turismo introdotte da “My favourite game” dei The Cardigans o dei campionati a Fifa intervallati da “Complicated” di Avril Lavigne. Nostalgia dei primi amori. Eh sì, “Ci hai rotto papà” parlava anche di quello.

Andrea si innamorava dell’amica Stefania e non sapeva come dichiararsi, come esprimere quel sentimento nato con naturalezza, tanto forte da essere nascosto con fatica e un certo imbarazzo. Dinanzi agli occhi di Stefania, Andrea voleva apparire forte, impavido, tanto da correre verso di lei per strapparla alle grinfie di una donna adulta e “cattiva” che l’aveva colta in flagrante durante uno dei loro soliti e “perfidi” scherzi. In quei momenti, Andrea incarnava tutti i ragazzini che si prendono la loro prima cotta, e che farebbero i gesti più sciocchi, audaci e altruistici pur di far ridere e pur di impressionare la ragazza che ha rubato il loro cuore.

Stefania fu il sogno proibito di molti ragazzini, me compreso. Una cotta sincera e appassionante. Ancora oggi, quando sento quel nome, Stefania, non posso fare a meno di pensare che sia un nome bellissimo, qualcosa che mi riporta alla mente l’immagine di una ragazzina graziosa e sorridente, dai lineamenti delicati, dai lunghi capelli biondo cenere, bravissima nel suonare il violino, coraggiosa e abile nel congegnare e nel perpetrare gli scherzi più arguti e divertenti; ancora oggi ogni qualvolta mi sovviene quel nome non posso che pensare ad un’infanzia perduta, ad un primo amore, ad un dolce e tenero ricordo.
Autore: Emilio Giordano
Redazione: CineHunters
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