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"Mary Poppins" (Emily Blunt) - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
  • Arrivederci, Mary Poppins…

Con la sua voce soave e modulata, lo aveva annunciato sin dal principio. Quando la brezza avrebbe smesso di soffiare da est, lei sarebbe andata via. Ed ecco che il vento cambiò. La famiglia Banks era accorsa al parco, beata. George aiutava i figlioletti a far volare l’aquilone nel cielo terso del mattino. Egli rideva sotto i suoi baffi spessi, spensierato come non lo era mai stato. Il signor Banks era stato salvato, e con lui la sua famigliola, fieramente unita, finalmente felice. Il compito di una tata buona che, in quei lieti frangenti, sostava sulla soglia della porta di casa Banks, era stato ultimato con la precisione minuziosa di una fata praticamente perfetta sotto ogni punto di vista.

Il manico del suo ombrello incantato borbottava qualcosa. Quel becco a forma d’uccello mormorava di sentimenti ed emozioni, di rammarichi e nostalgie. “Io so benissimo cosa provi per quei bambini” – fu l’ultima frase che il bislacco manico riuscì a pronunciare. La tata lo zittì con la solita delicatezza. “Adesso basta parlare a vanvera” – disse. Quelle parole, però, erano vere e non “ciarlate a casaccio”. Mary Poppins ne era consapevole, si era davvero affezionata a Jane e Michael, gli adorabili figli di George e Winifred Banks, ma non poteva fare altro che accingersi a partire. Schiuse quel fatato parapioggia, raccolse la borsa dalla capienza illimitata e cominciò a librare verso le nuvole bianche.

La vide, per l’ultima volta, lo spazzacamino Bert, che alzò gli occhi al cielo e scorse quella sagoma dolce e gentile. “Arrivederci, Mary Poppins… Non stare via molto!” – disse il tuttofare. Mary Poppins parve sentirlo, si voltò e gli elargì il più affettuoso dei suoi sorrisi.

Bert non venne ascoltato, e quella sua richiesta non fu mai esaudita. Mary Poppins rimase lontano per tanto, poco più di mezzo secolo. Cinquantaquattro anni dopo ella fece ritorno, scese da un candido nembo, accompagnata da una luce radiosa. Non era invecchiata di un solo giorno, come tenne a precisare Michael, oramai adulto, eppure la tata dei sogni era cambiata. Le sue scarpe blu come il mare ritoccarono terra in un periodo alquanto particolare: erano gli anni della Grande Depressione, e per i Banks nulla andava come doveva…

  • Mary Poppins, sei tornata!

Il ritorno di Mary Poppins” è il sequel dell’intramontabile classico del 1964. Nei cinema di tutto il mondo, sono trascorsi cinquantaquattro anni dall’immortale apparizione della bambinaia dai magici poteri. “Mary Poppins”, grazie ad una storia a carattere famigliare, ad un’ambientazione realistica, la quale raffigurava una Londra d’inizio Novecento viva e fervente di colore, ad una forte componente favolistica, ed una dimensione onirica generata dalle arti stupefacenti della protagonista, che riesce a penetrare, ad avvolgere e a mutare il reale, è stata una delle pellicole più rivoluzionarie, intrinsecamente artistiche e sorprendenti del panorama cinematografico di ogni tempo. Julie Andrews, con grazia, autorevole dolcezza, e con un’inimitabile signorilità materna, ha ramificato nell’immaginario collettivo.

Girare il seguito di un lungometraggio che ha scritto pagine indelebili nella storia della settima arte e che ha cresciuto e coccolato, rispettivamente, molte generazioni di piccoli e grandi spettatori, pareva essere un’impresa titanica, presumibilmente da evitare, facendo appello ad un briciolo di prudenza. Ma la Disney, si sa, non è nuova a raccogliere guanti di sfida, a cercare di rendere possibile ciò che sembrerebbe impossibile. Or dunque, traendo spunto dal libro “Mary Poppins ritorna”, scritto dalla stessa P.L. Travers e seguito letterario ufficiale del ben più celebrato “Mary Poppins”, lo studio Disney ha dato disco verde alla produzione e alla successiva realizzazione dell’ambizioso sequel del capolavoro degli anni Sessanta.

Mary Poppins possiede, ora, il volto roseo e delicato di Emily Blunt. L’attrice britannica raccoglie l’eredità di Julie Andrews, infondendo alla sua Mary Poppins una spensierata leggiadria. Se Julie Andrews emanava una garbata eminenza dal suo portamento elegante, Emily Blunt fa scaturire una graziosa superbia. Ella offre così un’interpretazione lodevole, coinvolgente e spumeggiante. Nonostante, con ogni probabilità, Julie Andrews continui ad essere ritenuta la Mary Poppins per eccellenza, Emily Blunt non tentenna né mostra mai di soffrire il paragone, adoperando tutto il proprio talento nella creazione di una Mary Poppins nuova, che coniuga una gestualità classica con un’espressività moderna. Ad insidiare il suo eccelso lavoro ci pensa, però, lo sviluppo narrativo, il quale si limita a soddisfare più che a sorprendere, ad accontentare più che a meravigliare.

  • Le lancette del tempo

L’inizio de “Il ritorno di Mary Poppins”, citando, a suo modo, l’atto conclusivo del capostipite, crea un collegamento tra gli anni trascorsi. E’ anzitutto una questione di tempo quella che il film vuole trattare, e ciò viene suggerito sin dal momento in cui il sipario si apre. Nel finale dell’opera originale, Mary Poppins volteggiava via, mentre i piccoli Banks erano tutti presi a giocare con mamma, papà ed il loro aquilone. Molti anni dopo, i figli di Michael rinvengono il vecchio aquilone del padre, ed esso vola via, sfugge alle loro mani, risucchiato da una corrente impetuosa. L’aquilone si disperde nel cielo ottenebrato, quand’ecco che viene recuperato da Mary Poppins, il cui corpo schiarisce il grigio della tempesta, e porta con sé una luce nuova, carica di speranza. Si potrebbe affermare che Mary Poppins torni nell’esatto momento in cui le avevamo detto addio, o perlomeno in uno scenario davvero simile a quello di tanti anni prima. Allora, Jane e Michael giocavano con il loro aquilone, e adesso, nell’intro del film del 2018, i piccoli Banks inseguono anch’essi il medesimo aquilone. E’ un ritorno al passato, un segno di come il tempo giri ciclicamente e rivesta un ruolo di primo piano.

Nell’essenza fisica della protagonista, il concetto astratto di tempo trova la sua massima esaltazione. In Mary Poppins, infatti, il tempo pare essersi fermato. Ella non invecchia, essendo stata baciata dal dono dell’eterna giovinezza. Se sull’epidermide di questa nuova protagonista non è riscontrabile alcuna testimonianza dello scorrere degli anni, al contrario, nel mondo in cui vivono i Banks, il tempo ha addotto effetti malaugurati. Il viale dei ciliegi ha perduto vivezza cromatica, perché gli alberi non sono sani e floridi come una volta, l’Ammiraglio Boom, che tuttora amministra la propria dimora come un vascello che solca il mare aperto, è vecchio, arrembato, e non spacca più il secondo con la stessa precisione del Big Ben. Vi è un serio problema di “tempistiche” nel viale dei ciliegi, tutto sembra oscillare tra un triste “andato” e un imminente “prossimo”. La moglie di Michael è venuta a mancare e l’amata casa dei Banks è sotto pignoramento. E’ il momento propizio per il ritorno di Mary Poppins, che discende sul suolo terrestre come una fata e rincontra Jane e Michael, ormai adulti e un tantino smemorati. Infatti, sebbene la riconoscano immediatamente e restino tanto felici quanto sorpresi nel rivederla, essi non rimembrano pienamente le stupefacenti avventure in cui Mary Poppins li aveva condotti col suo inconfondibile brio. Erano soltanto dei bimbi quando la conobbero, oramai hanno dimenticato o forse, cosa ben peggiore, hanno smesso di credere!

La relazione tra Jane, Michael e la loro tata è a stento accennata se non quasi del tutto assente. Mary Poppins, in passato, ha cambiato le loro vite, ciononostante il ritrovarla non genera, ai fratelli, alcuna tangibile emozione che possa essere percepita da noi spettatori. I due, se non nella fase iniziale, restano quasi indifferenti dinanzi alla costante presenza della “strega” buona. Un qualcosa di inspiegabile se non addirittura di incomprensibile e d’imperdonabile. Vedere poi Michael rimproverare aspramente Mary Poppins, rea di aver riempito la testa dei suoi figli di “sciocchezze”, causa un effetto straniante.

La sceneggiatura pone Mary Poppins sullo sfondo delle vicende, come se fosse un’attenta accompagnatrice invece che un’amabile catalizzatrice degli eventi. In “Mary Poppins”, la tata dispensava dolcezza ai bambini e, al contempo, migliorava tutto quello che si trovava intorno a lei. Lo scopo segreto di Mary Poppins era quello di trarre in salvo il signor Banks, un uomo precipitato in un abisso di insensibilità e avarizia, ed un papà schiacciato dagli obblighi lavorativi, i quali esigevano il sacrificio dei suoi doveri paterni. Mary Poppins si rivolgeva, con una frequenza dosata, al padre dei bambini, riuscendo, con la sua proverbiale dialettica, a mutare l’indole crucciata e severa del genitore. Ne “Il ritorno di Mary Poppins” questa basica sotto-trama non può essere presente, e purtroppo non viene sostituita da un racconto altrettanto interessante. Mary Poppins finisce, conseguentemente, per svolgere il semplice ruolo dell’intrattenitrice. La tata, di fatto, distrae i piccini dai turbamenti quotidiani, trascinandoli in mondi fantastici e “immergendoli” in regni sottomarini. Michael, distrutto dalle paure, appare nervoso, irascibile e sfoga la crescente ira rimproverando i suoi figli. Tutto questo non è che un mero refuso del ruolo che fu di suo padre. Ma Michael non è il signor Banks, e non soffre della medesima, incompresa, fragilità. Una debolezza, questa, che neppure lo stesso George riusciva a comprendere e a rinvenire in lui. L’incanto promanato da Mary Poppins permetterà, comunque, ai bambini di consolare il padre con saggezza e amorevolezza, così che lo stesso Michael rammenti l’importanza della famiglia.

Verso la fine delle vicende, la grossa lancetta del Big Ben si accinge a sancire la mezzanotte. E’ una corsa contro il tempo quella della famiglia Banks per mantenere il possesso della loro casa. Grazie all’intervento di Mary Poppins, l’imponente torre dell’orologio potrà far sì che l’ora indietreggi di qualche minuto, così che i Banks salvino la loro proprietà e tornino a volare, lieti, su in cielo con il supporto di palloncini colorati. Un messaggio espresso velatamente e rivolto a tutti quanti noi: mandiamo indietro le lancette del nostro orologio, torniamo a provare l’emozione fanciullesca, lo stupore dell’infanzia, il desiderio di sognare.

  • Ripulire e illuminare

 “Il ritorno di Mary Poppins” è una meravigliosa esperienza visiva, capace di ingolosire il palato di coloro che amano nutrirsi di trucchi e illusioni, di magie e incantesimi. La pellicola è una delizia per gli occhi, diletta gli animi, riscalda i cuori, tuttavia soffre di una storia poco entusiasmante e di un preminente richiamo al passato: il montaggio rievoca l’esatta successione delle sequenze del primo film e, in egual modo, molti altri elementi fanno eco con la prima pellicola: l'entusiasmo per l’attivismo che anima il carattere di Jane porge la guancia all’ardore della signora Banks, la quale lottava strenuamente per l’emancipazione delle donne, la bizzarra cugina di Mary Poppins, interpretata dalla celeberrima Meryl Streep, mima l’esuberante zio Albert, persino Michael, negli atteggiamenti, emula il padre e, infine, la figura del lampionaio Jack fa il verso a quella di Bert, lo spazzacamino di Dick Van Dyke. La Disney è sempre stata maestra nel confezionare lungometraggi intrisi di stupefazione estetica, cionondimeno negli ultimi anni la stessa ha plasmato uno stile cinematografico votato alla suggestione, alla malinconia. “Il ritorno di Mary Poppins” non è da meno, contempla ed elogia il “primo capitolo” per poi rilasciare un nuovo messaggio, il quale, però, risulta essere sacrificato sull’altare del citazionismo.

Molti anni or sono, Bert, infilandosi nelle “canne fumarie”, ripuliva i camini dalla fuliggine e dal nerume. Il suo mestiere aveva delle somiglianze con quello della stessa Mary Poppins. Anch’ella spazzava via lo sporco di un’esistenza vacua, triste, scevra dal sogno fanciullesco e dalla fantasia dell’innocenza. Come gli spazzacamini, i quali salivano sino alle vette più alte dei palazzi, anche Mary Poppins, dondolando nel firmamento, poteva guardare il mondo dall’alto, da una prospettiva unica. Bert, molto tempo fa, liberava i camini dal sudiciume e, così, Mary Poppins spolverava, a ritmo di “supercalifragilistichespiralidoso”, la vita del signor Banks, sozza dal giogo dell’avarizia. Ne “Il ritorno di Mary Poppins”, Jack è un lampionaio. Egli, insieme ai suoi colleghi acciarini, accende i lampioni disseminati per le vie di Londra, illumina la strada ai viandanti così che possano far ritorno alle loro case. Allo stesso modo, Mary si presenta come un arcobaleno, comparso allo scadere di un fortunale, per irradiare il tortuoso percorso dei Banks e aiutarli a ritrovare il tragitto verso la quiete e la felicità. Sia in “Mary Poppins” che ne “Il ritorno di Mary Poppins”, la protagonista e il suo comprimario, che sia uno spazzacamino o un acciarino, condividono una “missione” piena di assonanze. E’ questo quello che ha fatto Mary Poppins alla famiglia Banks: dapprima ha spazzato via ogni affanno, in seguito ha illuminato ogni giorno della loro esistenza, come una madre buona e generosa.

  • Non ti dimenticheremo, Mary Poppins…

Sul finale, Mary Poppins rimarrà nuovamente sola, sull’uscio della grande villa dei Banks. Il viale dei ciliegi è nuovamente fiorito, ed il tempo è tornato a scorrere con benevolenza. Mary Poppins è pronta ad andare via, ancora una volta ha salvato i suoi cari ma nessuno si è soffermato a dirle “arrivederci”, guardandola negli occhi. E’ il dono ma anche il fardello di Mary Poppins: amare, essere amata, ma non potersi mai fermare troppo a lungo a gustare il tepore della famiglia. Andrà via, col suo ombrello, scomparendo ma non venendo mai dimenticata.

Il ritorno di Mary Poppins” ha un fascino seduttivo, è un film assolutamente ben fatto, divertente, colmo di spensierata festosità. Inferiore al suo predecessore ed altresì manchevole di una morale profonda, di un’educazione alla crescita e alla formazione che solo l’originale sa tutt’oggi esprimere, può essere comunque annoverato tra i sequel discreti. Un film piacevole, godibilissimo, gioioso, ma poco sincero poiché troppo studiato a tavolino.

Voto: 7,5/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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Come puoi spiegare ad un bambino che non può giocare col suo giocattolo? Come potresti distoglierlo dal tenere in mano il modellino di un aereo da combattimento e fingere di pilotarlo? Sarebbe come arrestare la sua voglia di crescere, smorzargli la fantasia.  Quel medesimo desiderio che lo porterebbe a fantasticare d’essere all’interno della cabina di pilotaggio e volare alto nel cielo, a combattere contro i malvagi della sua avventura testé improvvisata. Non ci riusciresti mai! Ciononostante, il piccino non può davvero giocare. E’ complicato replicare con la voce i suoni che immaginerebbe provenire da quell’aereo in volo. Analogamente, se tenesse in mano la riproduzione giocattolo di una locomotiva non potrebbe fare “ciuf ciuf”, e muoverla con le mani, un po’ a destra e un po’ a sinistra, immaginando di farla sferragliare su dei binari visibili solo nei suoi candidi occhi. Nel mondo in cui vive quel bambino è vietato fare alcun rumore se si vuole sopravvivere.

Mentre la sua famiglia è intenta a racimolare provviste e generi alimentari in un negozio abbandonato, il piccolo Beau ha trovato una navetta spaziale giocattolo, e vorrebbe portarla con sé. Tuttavia, il padre prontamente lo ferma e gli spiega che il giocattolo farebbe troppo rumore e attirerebbe i mostri. Il bambino è triste ma non può che acconsentire al volere del genitore. Di lì a breve, la sorellina più grande, all’insaputa del padre, gli rende il giocattolo. Quando l’avrebbe scoperto, papà avrebbe capito, - avrà pensato la sorella - ma fino ad allora doveva essere il loro segreto. La famiglia procede scalza sul sentiero che la conduce verso casa. Prima di uscire dal negozio, Beau recupera le batterie e le inserisce all’interno della navetta, mettendola in funzione. Il piccolo si ferma improvvisamente e resta per qualche istante come rapito dagli effetti acustici e dalle luci multicolori emesse dal giocattolo. Il flebile suono e l’innocente stupore prodotto dall’intermittenza della luce colorata, concepite per attirare la fantasia di un bambino, si riveleranno, loro malgrado, l’arma che condurrà Beau alla morte. Quella navetta spaziale che non era altro che un “balocco” nato per divertire, si rivelò, invece, come la “sonora” fine di un’anima innocente. Il rumore fuoriuscito dal giocattolo attira delle strane creature provenienti dai boschi, le quali catturano il bambino e lo uccidono davanti alla sua famiglia, rimasta inerme in preda a una disperazione incontenibile. I genitori di Beau e i suoi fratelli non poterono neppure lasciarsi andare ad uno straziante pianto, non ebbero la possibilità di squarciare l’angosciante quiete che dominava il tutto con un urlo disperato. Ebbero solamente la mera opportunità di piangere contenendo i lamenti. Quello che “A quiet place” ci presenta è il dramma laconico di una famiglia a cui non è più concesso esternare con la voce alcuna sensazione.

A quiet place – Un posto tranquillo” comincia il proprio corso una mattina dell’anno 2020.  In questo futuro, la Terra è stata invasa da creature extraterrestri, prive di vista ma estremamente sensibili al rumore. Nel giro di poche settimane, la popolazione terrestre è stata devastata dall’azione predatoria di queste creature. I pochi sopravvissuti vivono giorno dopo giorno stando attenti a mantenere un costante, quanto angosciante, silenzio. Anche il minimo rumore può, infatti, attirare l’attenzione degli alieni. La famiglia Abbott è composta da Lee (John Krasinski, protagonista e regista del film), la moglie Evelyn (Emily Blunt), i figli Marcus, Regan, la quale è affetta da sordità, e lo scomparso Beau. Gli Abbott, sopportando con sempre più fatica i disagi di un’esistenza regolata dal mantenimento del più assoluto silenzio, continuano a restare in vita, comunicando tra loro per mezzo della lingua dei segni. Sono trascorsi 476 giorni dall’arrivo di questi “demoni” discesi dallo spazio, invasori ostili dalla natura ignota. Evelyn è incinta e si accinge a partorire a breve. Lee sta ultimando quanto è necessario per rendere sicura una stanza insonorizzata, che possa garantire la venuta al mondo e la crescita del nascituro.

“A quiet Place” è un film atipico e originale. Non è un semplice horror, il cui scopo preminente è quello di acutizzare il terrore come potrebbe sembrare dall’ingannevole locandina. Non è nelle intenzioni basiche del lungometraggio esagitare un’emozione di paura nel cuore degli spettatori, così come ha voluto far credere la “menzognera” campagna pubblicitaria scelta per promuovere il film. Il genere che maggiormente dovrebbe calzare a pennello per descrivere “A quiet place” è quello del thriller fantascientifico. E’ il senso di allerta ad essere precipuo, o ancor più specificatamente, la tensione a venire alimentata in un crescendo durante lo scorrere della pellicola piuttosto che lo spavento. Il lungometraggio cerca di indurre all’immedesimazione il pubblico nella disagiante situazione in cui vertono i protagonisti. La storia e l’ambientazione non fanno che rimarcare sin dall’inizio quanto il pericolo sia sempre imminente. Basta una minima disattenzione, la più sbadata delle dimenticanze, per generare un suono e attirare verso di sé la morte. Non fare alcun rumore diventa sempre più difficile, un “dovere” quotidiano sempre più snervante.

La pellicola di Krasinski è apprezzabile anzitutto per il coraggio: girare un film quasi interamente sprovvisto di dialoghi verbali, e garantire comunque un’eccellente scorrevolezza, non è impresa da poco. Voler stimolare la concentrazione degli spettatori per mezzo di un magniloquente mutismo è un tentativo lodevole, poiché un pubblico attento non potrà che lasciarsi trascinare dalla suggestiva atmosfera dell’opera, che nel silenzio ricorda un’evocativa facondia simbolica. La dialettica in “A quiet place” è filtrata nei gesti, il significato di una parola diventa fruibile nei cenni, l’esternazione di un’emozione negli sguardi, la trasmissione di un pensiero nelle mimiche facciali. Il silenzio prolungato fa sì che gli occhi, l’espressione del viso, le mani stesse diventino tutti strumenti comunicativi per esternare una volontà. Nella corrispondenza degli sguardi scambiati tra i personaggi si instaura un rapporto empatico con gli spettatori. Per gustare appieno l’esperienza offerta dal film, occorrerà che ognuno di noi provi inevitabilmente ad immaginare d’essere al posto dei protagonisti, a dover far fronte ad una vita di stenti e rinunce.

Nell’incomunicabilità vocale, emerge un silenzio assordante che permea la totalità dell’ambiente. Gli unici suoni che riescono ad allietare la silenziosità imposta alla razza umana sono quelli della natura, come il gorgoglio di un ruscello, il fragore di una cascata o il sibilo del vento. I personaggi vivono tutti oppressi da un mutismo inviolabile, tranne la giovane Regan, che risulta essere ulteriormente isolata dalla sua sordità. Non vi è un vero e proprio scampo da una situazione tanto alienante. Gli Abbott vivono nell’isolamento, nell’emarginazione. Procedono giorno per giorno ad elaborare il loro lutto, e permanendo in silenzio faticano ancor di più a superarlo. Non possono comunicare apertamente i loro dispiaceri, affrontarli per mezzo della parola, del lamento e dello strillo. Non riescono a sfogare il loro dramma intimo, devono, invece, soffocarlo, e non potendo comunicare apertamente ecco che si presentano le incomprensioni, i dubbi, le ansie di una figlia che teme di non essere più amata dal padre. Per andare avanti occorre affidarsi alla bellezza delle piccole cose. Ecco che una semplice partita a Monopoli diventa il solo passatempo per Regan e Marcus.

E in egual maniera, anche la musica, riprodotta a volume basso e ascoltata attraverso le cuffie, è l’unico accompagnamento musicale che riesca a cadenzare i passi di danza di una moglie, Evelyn, e di un marito, Lee, i quali, per qualche istante, riescono a dimenticare i loro affanni fintanto da concedersi la libertà di un lento. Anche quel “razzo giocattolo” era una “piccola cosa”, e doveva rappresentare una “via di fuga” per un bimbo che non voleva altro tranne volare via con l’immaginazione e porre fine a quel maledetto silenzio. Sacrifici, coraggio, amore, affetto, protezione verso la propria famiglia, sono solo alcuni dei temi affrontati con sagacia dal thriller di Krasinski. Un bel film, ricco di suspense che nel suo essere laconico comunica più di quanto, alle volte, potrebbero fare le parole.

Come abili mimi che si esprimono con l’arte dei gesti, gli attori protagonisti ci aiutano a comprendere come il loro unico scopo sia proteggere i propri figli ad ogni costo. Krasinski interpreta il ruolo di un padre di famiglia protettivo e valoroso. Ma è la moglie Evelyn a prendersi meritatamente la scena. Una straordinaria Emily Blunt interpreta una madre prostrata dal dolore ma mai arresasi ad esso. Incredibilmente potente la sequenza del parto, in cui la donna tollererà gli spasmi e un dolore straziante, restando muta, trattenendo a fatica le urla di dolore che il suo corpo reclamerebbe. Il suo volto madido di sudore, i suoi occhi addolorati, le lacrime che le scendono lungo le gote, la sua bocca che fatica tremendamente a bloccare anche il benché minimo gemito di sofferenza, sono tutte caratteristiche interpretative riscontrabili nell’immediatezza e che accentuano la sua convincente ed entusiasmante interpretazione.

E’ interessante notare come in questo mondo postapocalittico, in cui vige la morte, questa famiglia abbia voluto e cercato in ogni modo di garantire la nascita di una creatura portata in grembo con tutte le problematiche del caso. Con la venuta al mondo del loro ultimo figlio, Lee e Evelyn hanno dato alla luce la speranza in un’esistenza oppressa dall’oscurità. Ogniqualvolta il bambino piangerà, il suo pianto costituirà una lieta melodia che interromperà quel drammatico silenzio, riecheggiando come un lamento liberatorio e pieno di voglia di vivere.

Voto: 7/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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