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Quegli imbecilli che marciano con il passo dell’oca come lei, dovrebbero leggerli i libri invece di bruciali!” - affermava con fermezza Sean Connery quando, in “Indiana Jones e l’ultima crociata”, vestiva i panni del professore Henry Jones.

Una frase proferita in uno scenario non certo idilliaco, in cui l’oscurantismo promanato dal Terzo Reich era prossimo a prevalere. Il professor Jones, in quel frangente, si rivolgeva ai soldati delle milizie tedesche, colpevoli di ardere intere cataste di libri. Un gesto barbaro, perpetrato per tentare d’estinguere ogni barlume di cultura, ogni anelito di conoscenza.

Le parole scritte inducono i lettori a pensare, a riflettere, a ragionare. Durante l’ultimo conflitto mondiale, secondo il credo totalitario del gerarca nazista, l’erudizione "autonoma" e la stessa istruzione "indipendente" dovevano essere cancellate, avvolte dalle fiamme. Il fuoco serviva, così, per ridurre in cenere i componimenti stampati e con essi annientare la libertà d’espressione, disfare l’intelletto e sopprimere la ragione.

Lo scrittore Raymond Bradbury trasse, in parte, ispirazione dall’orrida pratica nazista per scrivere e pubblicare, nel 1953, il suo capolavoro letterario “Fahrenheit 451”, da cui è tratto l’omonimo adattamento cinematografico di François Truffaut del 1966. La storia si sviluppa in un imprecisato futuro distopico in cui è severamente vietato dalla società dominante leggere o solamente possedere dei libri. Scorrere attentamente con lo sguardo un testo scritto, dunque, è un atto proibito, un autentico crimine. Persino le strisce a fumetti vengono tratteggiate su sfondi bianchi, amorfi, come se fossero anonime sequenze illustrate e prive di dialogo, di un messaggio, di un valore. Sono le grandi antenne che sovrastano la sommità degli edifici e le televisioni che da esse traggono la propria fonte di trasmissione a porre le menti degli uomini sotto un giogo incantatore che seduce, intontisce gli esseri umani sempre più spettatori passivi e sempre meno inclini alla lettura.

In questo scenario angosciante e surreale, i Vigili del fuoco hanno il tassativo compito di individuare  i libri e bruciarli. Che drammatico e inaspettato “rovesciamento di fronte” ha offerto questa società futuristica!

I Vigili del fuoco, gli eroi della realtà d’ogni giorno, nell’opera filmica, vengono "reinterpretati", osservati sotto una veste negativa, sotto un’uniforme antagonistica. I Vigili del fuoco di “Fahrenheit 451” sono rivisitazioni inusuali, generate da un governo indolente. Essi non sono, in effetti, dei “vigili” poiché non vigilano per nulla sugli incendi, non si battono per fronteggiare le fiamme; del resto le abitazioni, come tengono più volte a ricordare gli stessi, sono costruite con materiali ignifughi e dunque i compiti che un tempo essi espletavano quotidianamente sono diventati obsoleti, inutili, sorpassati. Gli incendi non si verificano più in questo mondo distorto che appare, però, così inquietantemente vero.

I pompieri, dunque, non spengono più le vampe ardenti, si prodigano, invece, nel provocarle: utilizzano il fuoco, lo generano loro stessi con l’ausilio di un lanciafiamme che brandiscono con disinvoltura per appiccare roghi sempre più frequenti, in cui consumare i libri rinvenuti nei posti più disparati. La dicitura impressa su alcuni elmetti di questi pompieri, ovvero “451”, induce a ricordare la scala Fahrenheit, una sorta di metafora con cui, di lì a poco, i libri cominceranno a prender fuoco, nell’inesorabile processo di combustione.

Il protagonista di questa storia atipica e spaventosa è il giovane Montag, appunto un pompiere. Montag si è arruolato come volontario, affascinato dalla "divisa" scura, eppure egli sembra non sapere molto circa il trascorso della Caserma in cui ha scelto di prestare servizio, circa il passato del Corpo Ufficiale a cui ha deciso di appartenere, tant’è che quando la sua nuova amica, Clarissa, un’insegnante conosciuta in metropolitana, gli rivela che un tempo i Vigili del fuoco estinguevano gli incedi e salvavano vite umane, egli si mostra alquanto sorpreso da una simile confessione. Montag, come tutti del resto, non si fa troppe domande. Le persone che quotidianamente egli osserva con una mal celata indiscrezione si muovono come automi sommessi, privi d’emozione, esenti da sogni, del tutto sprovvisti di fantasia. Essi sono poco più di un manipolo di anime grette, scialbe, mancanti di immaginazione, di pensiero astratto, spogliate dell’estro sognante che può derivare dalla coinvolgente lettura di un libro.

Montag non è una persona loquace, tutt’altro, è un uomo schivo e introverso. Ma quando Clarissa gli porrà una fatidica domanda, ovvero se lui ha mai sfogliato, se ha mai letto uno dei volumi che ha bruciato, il suo spirito si ridesterà dal torpore. La curiosità prevarrà nel suo cuore e sarà portato ad aprire uno dei tanti tomi capitatigli tra le mani, a decifrare i “segni” e i “simboli” in esso contenuti.

Montag comincerà, allora, a nascondere sempre più libri in casa e a leggerli tutti d’un fiato. Inizierà dapprima con “David Copperfield”, facendo non poca fatica, ripetendo il tutto a voce alta, mantenendo il segno con l’indice della mano destra e carpendo le parole con le dita e con la bocca ancor prima che con lo sguardo. Per Montag sarà un vero e proprio processo di apprendimento: riscoprirà cosa comporta la lettura, saprà quanto la mente potrà aprirsi sollecitata dai lunghi e intensi periodi di una pagina scritta.

Da quel giorno in poi, egli non riuscirà più a fermarsi. La lettura diventerà per il personaggio cardine di quest’avventura un bisogno irrinunciabile, in quanto carburante che muove la sua emozione un tempo abulica, piatta, spenta, ora più viva e accesa che mai.

Invero, nei suoi prolungati silenzi, Montag si era già dimostrato in passato un accanito lettore. Egli non parlava molto perché amava ascoltare, afferrare il pensiero degli altri, scrutare l’interiorità, sondare ciò che si cela oltre la parvenza, “leggere” le anime di tutti coloro che si rivolgevano a lui o che se ne stavano a pochi passi, quieti, afflitti o inanimati.

Montag sceglierà, infine, di ribellarsi, scapperà via e si rifugerà in campagna, divenendo un “uomo-libro”, un custode di memorie, di ricordi, di parole, di ghiribizzi e di sensazioni. Montag redime la sua esistenza, riscatta sé stesso, incarnando nei suoi silenzi, nei suoi laconici momenti e nelle parole dei libri da lui ripetute, la figura eroica con cui identifichiamo, in maniera classica, i veri Vigili del fuoco.

"I libri in fiamme" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

Montag personificherà, sul finale, l’essenza di un uomo puro, di un amico, di un eroe in grado di salvaguardare e proteggere, con la propria conoscenza e abnegazione, il destino dell’Umanità. 

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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  • Prometeo, il dio benefattore

L’allegro oscillare di una fiammella così come il divampare di una lunga lingua di fuoco è metafora di un divenire perpetuo. Il divenire è allegoria dell’avanzamento, l’avanzamento dell’evoluzione, l’evoluzione del progresso. Con lo sfregamento di due pietre focaie, l’antenato dell’uomo come oggi è conosciuto ha segnato l’inizio di una nuova era.

Il fuoco è un elemento della natura, eppure la mitologia greca insegna che il fuoco, in principio, era un prodigio ultraterreno, custodito gelosamente sul monte Olimpo, dimora degli dei, i quali mai avrebbero voluto che cadesse preda del genere umano.

Fu il titano Prometeo a far dono ai mortali del fuoco. Egli sottrasse una scintilla a Zeus, la nascose nella cavità di una canna e la portò nel mondo. Fu la vittoria più preziosa ma quella che costò più cara al dio benefattore. Prometeo pagò quel suo gesto con la condanna perenne e la genuflessione alla schiavitù in catene. Ciononostante quel suo nobile atto segnò, secondo i racconti antichi, l’avvento dell’evoluzione. Vi siete mai domandati perché, nei miti arcani, gli dei temevano che l’uomo scoprisse l’esistenza del fuoco?

Invero, come la fiamma imperitura, che brucia in una progressione senza fine, così l’essere umano, con l’ausilio del fuoco, avrebbe sviluppato in modo pressoché illimitato le proprie inclinazioni nelle arti e nei mestieri, asservendo quella forza rossa a proprio piacimento, sia come mezzo per riscaldarsi durante i freddi inverni sia come fonte d’illuminazione per rischiarare l’oscurità della notte, nonché per la cottura dei cibi e la creazione della metallurgia. Con il fuoco l’uomo progredì, divenne più forte, arguto, indipendente dalla magnanimità degli dei.

Sebbene l’uomo sia in grado di controllare il fuoco, esso è un elemento pericoloso che può sfuggire al suo volere, alla sua gestione. L’uomo sfrutta il fuoco, usufruisce del suo “potere” ma sempre in costante allerta, ne vigila l’utilizzo, a volte l’abuso, poiché il divampare incontrollato di esso può tramutarsi in elemento guizzante e distruttore, e ridurre in cenere tutto ciò che incontra sul proprio cammino.

Per vegliare costantemente sugli incendi esiste il Corpo dei Vigili del fuoco. Spesso paragonati agli eroi dei fumetti, sprovvisti di mantello e costume, i Vigili del fuoco hanno ispirato la cinematografia di tutto il mondo. Se nel racconto mitologico troviamo le prime tracce dell’esistenza e della successiva scoperta del “fiore rosso”, così come era solito definire il fuoco lo scrittore Rudyard Kipling ne “Il libro della giungla”, nel cinema possiamo trovare, immortalate su pellicola, le gesta eroiche di coloro che sorvegliano la potenza e i rischi correlati al fuoco: i pompieri.

Nel cinema italiano, la divisa del pompiere fu “calzata” persino da Antonio De Curtis, in arte “Totò”, che nel 1949 vestì i panni di un ironico vigile del fuoco ne “I pompieri di Viggiù”. La sua appartenenza al Corpo fungeva da pretesto alla narrazione filmica per dare vita a scenette tratte dal teatro di rivista. Il cinema nostrano ha poi continuato a proporre i Vigili del fuoco sotto una lente comica e secondo uno stile scanzonato, tipico delle commedie di stampo goliardico.

La figura dei Vigili appare, invece, assai più complessa nel film del cineasta francese François Truffaut “Fahrenheit 451”, un thriller fantascientifico ambientato in un futuro distopico nel quale la fiamma viene utilizzata come uno strumento di annientamento, opportuno per bruciare grandi quantità di libri che, in quanto mezzo di apprendimento, possono condurre un popolo schiacciato dall’apatia alla sovversione.

Nella trasposizione di Truffaut, tratta dall’omonimo romanzo di Ray Bradbury, il Corpo dei Vigili ha l’ordine tassativo di distruggere i numerosi volumi scampati ai roghi, i tomi che perdurano, fino al momento in cui Montag (Oskar Werner), un pompiere, riscopre il piacere della lettura e la meraviglia della riflessione che essa è in grado di suscitare nella mente di un lettore.

Montag, travolto dalle emozioni prodotte dalla lingua scritta, sviluppa un anelito di ribellione. Questi diventa, in tale contesto, un eroe sospinto da un volere di riconoscimento, da un desiderio di rivalsa che lo porterà a cercare di ristabilire l’ordine in un mondo consumato dal torpore e dall’indifferenza generale e, infine, a fuggire, ad isolarsi da una realtà abulica e opprimente.

Il film “Fuoco assassino”, diretto dal premio Oscar Ron Howard, ha come protagonisti due fratelli vigili del fuoco, Stephen e Brian (rispettivamente Kurt Russel e William Baldwin), alle prese con un’intricata indagine riguardante alcuni incendi dolosi. Ma è forse il cult del 1974 “L’inferno di cristallo” ad essere uno dei titoli più emblematici del genere. Il lungometraggio si avvalse di un cast di prim’ordine, su cui spiccano Paul Newman e Steve McQueen, quest’ultimo interprete del capitano dei Vigili del fuoco Mike O'Halloran. La pellicola, diretta dal cineasta John Guillermin, è interamente ambientata all’interno del grattacielo più alto del globo terrestre.

Steve McQueen, celebre interprete di ruoli da eroe risoluto e spericolato, darà lustro e gloria al ruolo di questo coraggioso ed intrepido “vigilante”, eroe razionale e dal sangue freddo che riuscirà a salvare quante più persone rimaste imprigionate nel colossale edificio, attuando, con la collaborazione di Roberts (Paul Newman), un difficoltoso ma necessario piano per evacuare la zona, martoriata dal divampare dell’incendio. 

Dal racconto mitologico “all’’afoso” cinema “pompieristico”, il simbolismo fatale del fuoco seguita ad essere utilizzato per porre l’uomo al centro della narrazione, sia esso trattato come ricevente di un dono evolutivo, sia esso posto come l’accorto “guardiano” di un pericolo insidioso.

  • Il monumento “cristallino”

La prestigiosa compagnia navale britannica White Star Line, quando ultimò la produzione di due transatlantici, realizzò una cartolina promozionale decisamente accattivante. Tale cartolina mostrava ciò che era effettivamente vero ma dava comunque l’impressione d’essere inverosimile. Questo perché quello che essa mostrava, lasciava chiunque di stucco tanto da indurre a credere i più che si trattasse di una esagerazione, di un paragone improprio, di una falsa equiparazione.

L’illustrazione appena citata ostentava, in un’ordinata successione, i palazzi più imponenti della Terra affiancati ai monumenti più antichi e maestosi del mondo. Al centro della cartolina, emergeva la rappresentazione verticale di una colossale nave: il Titanic.

Si trattava di una raffigurazione destinata a destare notevole clamore dal momento in cui ci si rendeva ben conto che quel piroscafo, così dettagliatamente illustrato, aveva una lunghezza superiore a tutte le altre costruzioni sorte sulla terraferma. Il Titanic, transatlantico della classe “Olympic”, appariva come l’oggetto” semovente più grande che fosse mai stato costruito dalla mano dell’uomo. La mastodontica nave, lunga 269 metri, impeccabile gioiello tecnologico, fu soprannominata “l’inaffondabile”, perché secondo le previsioni del periodo, i transatlantici avevano raggiunto delle dimensioni tanto ragguardevoli e un’affidabilità così elevata da rasentare la perfezione.


Un'altra cartolina del Titanic. Potete leggere di più cliccando qui.

Agli uomini d’inizio Novecento, il Titanic dava una fosca e superba sicurezza: quella di aver assoggettato le acque dell’Atlantico al volere dell’essere umano o per meglio dire, in una visione più ampia e di stampo prettamente filosofico, la nave faceva effluire l’idea di aver genuflesso l’intera forza della natura al dominio dell’uomo. L’imprevedibilità dell’accadimento o la tragicità di un inaspettato incidente non erano eventualità contemplate da tutti coloro che, sopraffatti da un’insana sensazione di invincibilità, peccarono di presunzione. L’equipaggio del Titanic, durante il viaggio inaugurale, cadde preda di una strana sicurezza, uno “spettro” astratto ed invisibile che aleggiava lungo tutta la nave e che si impadronì di loro conducendoli, tra la notte del 14 e del 15 aprile del 1912, ad un disastro senza precedenti.

Il Titanic era un colosso d’acciaio, più grande di qualunque altro edificio sorto sul suolo terrestre. La cartolina stampata dalla White Star Line rimarcava questo concetto, palesandolo come una verità assoluta, opportuna per magnetizzare l’attenzione di ogni aspirante passeggero, attratto dalla grandezza del piroscafo. La dimensione del transatlantico avrebbe generato stupore e creato un clima di fiducia nell’impeccabilità stessa della costruzione. Ma la grandezza del Titanic non era realmente sinonimo di affidabilità e d’inaffondabilità.

L’inferno di cristallo”, opera magna del cinema “pompieristico”, racconta l’inaugurazione del grattacielo più alto del mondo, ideato dall’architetto Doug Roberts. Lo smisurato edificio vantava una capienza di 138 piani e un’altezza approssimativa di 550 metri.

Il “monumento”, che appare bianco, trasparente come un lungo velo cristallino che si erge sino alle nuvole, assume le fattezze di un gigante con il volto proteso verso il cielo, di un “titano” che fa sovvenire alla mente il ricordo della cartolina citata poche righe prima.

Lavorando un po’ di fantasia si potrebbe supporre che, anche nell’immaginario del film, i produttori di questa monumentale costruzione avessero realizzato una speciale cartolina promozionale in cui i più alti edifici del mondo venivano, di colpo, sminuiti dal confronto con la solennità del grattacielo di cristallo.

Come accaduto realmente nella tragedia del Titanic, ne “L’inferno di cristallo” lo sfarzo delle ambientazioni e l’imponenza del progetto crearono un’ingannevole patina d’ingenua leggerezza. Alcuni addetti ai lavori ignorarono, infatti, le norme di sicurezza e riciclarono per la sistemazione dell’impianto elettrico materiale di dubbia qualità. Tale mancanza di zelo condurrà gli invitati, giunti sul posto per presenziare all’inaugurazione, ad incorrere in una gravosa emergenza.

Dal sistema elettrico scoppierà un incendio che distruggerà non soltanto quanto di meraviglioso era stato eretto dalle mani degli abili costruttori ma che arrecherà morte e dolore alle innocenti vite umane rimaste prigioniere in quel lussuoso “fabbricato”, tramutatosi in una prigione “fiammeggiante”.

Il grattacielo di cristallo, così grande e, in principio, apparentemente inviolabile, si trasformerà in un fragile gigante, caduto preda di fiamme avviluppanti come fuochi infernali. Data la gravità della situazione, i Vigili del fuoco, guidati dal Capitano Mike O'Halloran, preparano accuratamente un piano per evacuare l’edificio. Grazie al loro supporto, gli innocenti riusciranno a trovare scampo alla catastrofe.

L’inferno di cristallo” è un’ode rivolta al corpo dei Vigili del fuoco, un inno al loro coraggio e al loro pragmatismo. Il Capitano O’Halloran venne interpretato da Steve McQueen, eroe intrepido e risoluto del cinema spericolato qui catturato in una veste più flemmatica, saggia e generosa.

Il personaggio di McQueen agisce dall’esterno, coordinando le operazioni di salvataggio ai piedi di quel grattacielo che osserva quasi con disprezzo, come fosse un'effige color diamante, adusa a esternare la superbia dell’uomo.

Come una splendida nave che riposa, tutt’oggi, sul fondo dell’oceano dopo essere stata flagellata dai marosi, così, nella narrazione filmica, il grattacielo di cristallo collassò su se stesso per il solito, inspiegabile errore umano: quello di sottovalutare i rischi e dimenticare l’importanza della vita, bene prezioso ricordato proprio dal Capitano sul finale. “Nulla è e sarà mai più importante di una vita da salvare.”

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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