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  • E abbiamo pianto, “tessoro”, perché eravamo tanto soli

Sorse un sole giallo in un giorno mite e radioso. La primavera era arrivata, e con i suoi vividi colori adornava i boschi. Sulle sponde dell’Anduin, gli alberi erano cresciuti rigogliosi e pieni di vita. Fiori variopinti germogliarono nei prati, e l’erba delle collinette della Contea era divenuta delicata e verdissima.  Approfittando del bel tempo, due minute figure decisero di recarsi in una delle foci del fiume per una battuta di pesca. Su di una piccola imbarcazione, uno hobbit lasciava penzolare la lenza dalla canna da pesca, mentre il suo giovane amico si accingeva a innescare il proprio calamento. Quest’ultimo aveva gli occhi strabuzzati e teneva in mano una creaturina strisciante, osservandola con un ghigno irrisore. La lambì pochi istanti dopo con un piccolo utensile a forma di uncino. D’un tratto, uno di loro avvertì il morso di un pesce all’amo. “Ne ho preso uno, Smeagol” – disse il fortunato pescatore. “Tiralo fuori, Deagol” – esortò l’altro.

Il pesce, grande e grosso, tentò di liberarsi con tutta la sua forza e riuscì a trascinare lo hobbit in acqua. Deagol raggiunse il fondale e vide, nel limpido dell’alveo, un tremolante folgorio. Volse la mano e ghermì quella perla dorata priva di alcuna conchiglia. Risalito in superficie, Deagol cominciò a rimirare l’oggetto donatogli dal rigagnolo e ad accarezzarlo come fosse una preziosa sfera perlacea. Quando lo hobbit schiuse la mano, l’Unico, che giaceva su di essa, emergeva dal lercio fango col suo fulgido chiarore. Il colore dell’anello, mischiato allo sporco del terreno, emanava un’attrazione ambigua: la bellezza apparente unta dalla sporcizia. L’anello rifulgeva come il più seducente dei gioielli, ciononostante la melma scura che lo insudiciava suggeriva l’oscurità celata dietro la più fervida perfezione.

Smeagol raggiunse Deagol di tutta fretta, seguitando a sorridere scherzosamente. Intravide anch’egli lo scintillio dell’anello e ne rimase profondamente rapito. Il suo sguardo stralunato si confuse nel cerchio del tesoro. Smeagol chiese l’anello, come regalo per il suo compleanno. Deagol rifiutò ed i due hobbit, ammattiti e deliranti, ingaggiarono un’aspra lotta. Smeagol impazzì, e nella colluttazione uccise Deagol soffocandolo. Raccolse poi l’anello, dedicandogli il più distorto e morboso dei suoi sorrisi.

La storia di Smeagol, come quella di Bilbo, cominciò in un giorno di festa. Smeagol trovò l’anello al mezzodì del suo compleanno, Bilbo se ne liberò la sera del suo centoundicesimo anno di età. Nel prologo de “Il Signore degli anelli – Il ritorno del Re”, l’occhio meccanico di Peter Jackson dilatò la propria palpebra mirando un animale nauseabondo. Quel verme, catturato dalla sadica presa del mezzuomo, suggeriva il tipo di essere che Smeagol sarebbe presto diventato. Una volta ottenuto l’anello, Smeagol si tramuterà lentamente in un essere “viscido”, subdolo, untuoso, “insinuante”, un verme, per l’appunto, ingollato e rigurgitato dalle tenebre.

La natura rinfrancante che avvolgeva Smeagol e Deagol fu spettatrice silente e sconvolta di un folle assassinio. Nell’Eden verdeggiante, Smeagol compì un atroce delitto: uccise un suo congiunto. Il tetro affiorato dalla cristallinità dell’Anduin condusse gli Hobbit alla follia. La quiete della foresta ed il sole luminoso che irradiava il tutto non potevano preludere all’orrore che di lì a poco si sarebbe verificato. E’ proprio in un’atmosfera di gioia, di pace, che il male dell’anello trova il modo di promanare il proprio potere. L’Unico sconvolge la serenità di una giornata felice, turbandola con l’orrore. Smeagol e Deagol erano amici, famigliari, eppure, nel giro di pochi attimi, si tramutarono in mostri, avvelenati da un aroma ipnotico, da una esalazione tossica che li rese subito dipendenti da quel tesoro. 

L’Unico irretì istantaneamente lo spirito contorto dello hobbit e ne fece il proprio schiavo. Come Caino così Smeagol pose fine alla vita del proprio “fratello”, invidioso della sua scoperta, agognando quella sua conquista. L’Unico appariva inestimabile come uno scettro regale. Come Eteocle e Polinice, i due consanguinei della mitologia greca, figli del re Edipo, Smeagol e Deagol combatterono tra loro per ereditare un potere raro, prestigioso come la corona di un regno. L’Unico, similmente al trono di Tebe, poteva essere conquistato soltanto da uno dei due. Pur di impadronirsi di quell’oggetto, Smeagol e Deagol combatterono tra loro fino alla morte. A differenza di Eteocle e Polinice, entrambi periti in duello, tra i due hobbit, uno di loro riuscì a prevalere. Eteocle, come Deagol, riceverà una degna sepoltura, Polinice come Smeagol no. Smeagol non morirà, subirà una metamorfosi che lo renderà, col tempo, un cadavere errante dal pallido colorito, una carcassa ambulante sprovvista di alcun tumulo. In quel mattino sorse un sole giallo, l’indomani, a seguito dell’omicidio perpetrato da Smeagol, sarebbe sorto un sole rosso poiché era stato versato del sangue innocente.

Per aver commesso un tale peccato, Smeagol verrà scacciato, espulso come uno straniero malvagio e dall’anima informe. Smeagol non fu più uno hobbit, non fu più umano. Assunse le sembianze di un individuo amorfo e sgradevole alla vista. Diventò, pertanto, lo straniero di ogni popolo, un essere che non apparteneva più ad alcuna razza della Terra di Mezzo. Smeagol divenne Gollum, indecifrabile nella propria mostruosità, unico come unico era l’anello che possedeva.

Smeagol si ritirò nelle caverne, solitario, e lì, nel buio, avulso dal resto del mondo, dimenticò chi fosse, smise di ricordare il sapore del pane, la delicatezza del vento, persino il suo nome. Il corpo si deformò, e la gola cominciò a fargli molto male. Ad ogni parola pronunciata, Smeagol rigurgitava un frammento della propria passata umanità, fino a che il dolore scomparve del tutto, e dalla sua gola fluì il suo nuovo appellativo. Dai suoi versi strazianti si udì “Gollum, Gollum”. I suoi denti si fecero neri e appuntiti, la sua carne si fece purulenta come prova emblematica del suo spirito consumato.

Peter Jackson, per l’ultimo capitolo della trilogia, scelse di alzare il sipario mostrando il tormentato avvenuto di Gollum. Questi, come preannunciato da Gandalf nelle Miniere di Moria, rivestirà, sia nel bene che nel male, un ruolo fondamentale nell’ultima fase del viaggio di Frodo e Sam e per il destino dell’anello. Il prologo de “Il ritorno del re” pare volerlo preannunciare. L’esito del conflitto passerà dalle sue mani.

Gollum tiene tra le sue dita il destino dei popoli liberi di Arda come una moira. Una sua scelta errata potrà spezzare le sorti, recidere con il taglio netto di un paio di forbici il filo del fato.

  • Sveglia, dormiglioni!

Nelle lande desolate della terra nera, la luce del giorno si era affievoliva. Le giornate si erano fatte più corte, e su tutto l’ombra era calata. Il fumo esalato dal Monte Fato copriva il cielo con una fitta bruma, e i raggi del sole non riuscivano a valicare il fosco nell’aria. Le arti di Sauron avevano generato ammassi gassosi di nuvole ferrigne che occultavano ogni barlume di luce, così che gli eserciti del sire di Mordor potessero spostarsi con grande rapidità.

Frodo e Sam riposavano, nascosti all’interno di una esigua spelonca. Gollum arrivò di soprassalto e li esortò a riprendere il cammino. Frodo dedusse che le giornate si erano fatte sempre più buie e avvilenti. Sam raramente si lasciava sopraffare dalla tristezza. Il tempo angusto, però, era capace di abbattere il suo spirito. Già durante i passi iniziali de “Le due torri”, Sam, osservando quei nembi cupi e carichi di pioggia che dominavano la volta celeste di Mordor, ammise di sentirsi impaurito. L’atmosfera torva e fuligginosa che avviluppava i due hobbit, oramai sempre più vicini alla meta, metteva a dura prova le loro resistenze e anche le loro speranze. Ma nulla poteva far demordere Sam. Subito egli ricordò a Frodo che avrebbero dovuto dilazionare il cibo rimasto per il viaggio di ritorno. Frodo, allora, rispose laconico con la sola espressione del viso. Il nipote di Bilbo voleva nutrire ancora fiducia ma dal suo volto trapelava un’ansia mista a profonda negatività.

In questo frangente, Samvise confida nella concreta possibilità di poter adempiere alla missione del proprio padrone. Pensare a rateizzare i viveri per il ritorno voleva dire, per Sam, valutare tangibilmente la fattibilità della sopravvivenza. Già da questa significativa affermazione è percepibile la tenacia che anima Sam. Sebbene il compito sia tutt’altro che agevole, egli non paventa l’eventualità che i due possano perire nell’impresa. Sam non lascia che il clima opprimente di Mordor genufletta il suo animo speranzoso. Man mano che le forze del suo padrone cederanno, Sam si farà carico di lui e del suo fardello.

  • La morte di Saruman

Gandalf, Aragorn, Legolas e Gimli raggiungono Isengard e ne osservano la caduta. Sui ruderi dell’industria guerrafondaia, Merry e Pipino banchettano prima di riabbracciare i loro amici. L’acqua del fiume ha diluito la perfidia di Saruman, le fiamme delle fornaci sono state estinte; il tronco, le foglie ed il verde hanno prevalso sul ferro e sull’acciaio.

Barbalbero riceve i coraggiosi visitatori, accogliendoli nel suo nuovo reame depauperato dalle insidie di Curumo. Il vecchio Ent ammette d’essere sollevato nel rivedere Mithrandir, poiché Saruman, anche da sconfitto, risulta essere pericoloso. Rinchiuso nella torre di Orthanc, Curunir ha avuto modo di prender coscienza del proprio fallimento. Il bianco macchiatosi di nero emerge sulla cima del sozzo pinnacolo. Lassù, Saruman seguita ad osservare i suoi rivali dall’alto. La costruzione scenica ideata da Jackson per questa sequenza è estremamente simbolica.

I buoni, vincitori del conflitto al Fosso di Helm, giacciono al suolo e, col capo rivolto all’insù, intravedono il loro nemico, il quale, persino nella disfatta, permane ancorato alla propria arroganza. Sulla vetta di Orthanc, Saruman manifesta nuovamente la propria albagia, e continua a sentirsi potente, superiore a coloro che avrebbe dovuto difendere. Su quella prominenza, lo stregone lascia che la sua protervia discenda fino al basso.

Lo stregone è fermamente convinto che le forze di Sauron si dispiegheranno numerose, abbattendosi sul più grande del regno degli uomini come un martello sull’incudine. Saruman pecca ancora di tracotanza, e presume che l’imminente vittoria dell’Oscuro Signore potrà essere ritenuta anche sua. Saruman non fu mai modesto, non amò mai le creature piccole ed indifese della Terra di Mezzo. Professandosi come il più potente e saggio degli Istari, Saruman non volse mai attenzione ai più deboli, se non per schiacciarli. Saruman si innalzò su di un piedistallo figurato. Sulla cima della torre, negli ultimi momenti della sua esistenza terrena, Saruman non metterà da parte la sua superbia. Guarderà ancora i suoi interlocutori dall’alto e da quella prominenza cadrà. Lo stregone verrà pugnalato alle spalle da Grima, il quale, a sua volta, verrà colpito a morte da Legolas. Ferito, Saruman precipiterà giù e morrà. Più in alto volle salire, più rovinosa fu la sua caduta. La prepotenza di Saruman cessò in quel lampo. Gandalf, mai innalzatosi al di sopra dei suoi simili, vide la fine di un vecchio amico dal bianco vestito e dal cuore nero.

La fine di Saruman, ideata per la versione estesa della pellicola, fu notevolmente differente rispetto a quanto scritto da Tolkien. Jackson riteneva concluso l’arco narrativo dello stregone corrotto. Saruman fu annientato dalla natura, dalla rivolta degli Ent. Nulla più sarebbe rimasto del suo potere. Abbracciando questo credo, Jackson decise di far morire Saruman nella sua Isengard decaduta. Nel romanzo del Professore, Saruman compariva sul finale come ultimo nemico, dopo aver assoggettato al proprio potere la Contea. Questa parte della storia sarebbe risultata eccessiva nella trasposizione cinematografica che, per ragioni di tempo e di ritmo, doveva necessariamente concludersi con la distruzione di Sauron ed il ritorno pacifico ad una Hobbiville mai realmente coinvolta nei drammi della Terra di Mezzo. La Contea, per Jackson, rimase sempre un luogo isolato dal resto di Arda. Una terra integra ed inalterata che non ricevette mai alcuna influenza dagli orrori della guerra.

  • Di tutti gli hobbit ficcanaso, Peregrino Tuc, tu sei il peggiore!

Pipino scorse nell’acqua un riverbero. Dunque si avvicinò, e raccolse una sfera vitrea. Gandalf, intuito di cosa si trattasse, prese la gemma e la celò nel suo mantello. Quel piccolo globo inespressivo era un occhio perennemente dilatato. Col suo gesto, Gandalf volle occultare lo sguardo al Palantir, intimorito da colui che, lontano, stava guardando.

Carlo Collodi scrisse che “La curiosità, massime quando è spinta troppo, spesso e volentieri ci porta addosso qualche malanno”. Peregrino Tuc non riusciva a dormire né a distrarsi. Essere perennemente indiscreto era una sua prerogativa. Come tutti i Tuc, Pipino era interessato, invadente, avventuroso, impiccione e, come terrà Gandalf stesso a precisare, ficcanaso. Pipino guardava, doveva sempre guardare! La consistenza misteriosa del Palantir aveva interdetto ogni sua attenzione. Nel cuore della notte, Pipino si alzò e sottrasse la pietra veggente dalle mani di Gandalf. Volgendo il proprio sguardo nel Palantir, Peregrino, inavvertitamente, vide l’occhio infuocato di Sauron. Il Signore degli anelli si insinuò nella mente del piccolo hobbit, torturandolo. Pipino si salvò appena in tempo, grazie al tempestivo intervento di Gandalf.

Pipino, come un burattino che sognava di diventare un bambino vero, era sovente curioso ed ingenuo. La sua troppa curiosità gli stava costando caro. Eppure, Pipino col suo errore riuscì a scorgere qualcosa d’importante. Vide un albero morente ed una città in fiamme. Sauron avrebbe indirizzato le sue armate verso Gondor, per distruggere Minas Tirith. La curiosità di Pipino gli arrecò dolore, cionondimeno gli permise di anticipare i tragici eventi che si sarebbero consumati di lì a breve.

Intenzionato ad avvertire Gondor dell’incombente attacco, Gandalf si dirigere a Minas Tirith con Pipino. Merry si congeda dal suo inseparabile amico, tra le lacrime e la mestizia. I due non si erano mai separati. Sin dalla più tenera età, in qualsiasi pasticcio fossero finiti, Merry era sempre rimasto accanto a Pipino. Ambedue, però, non si trovavano più nella fresca campagna, intenti a giocherellare per tutta la notte sino a che il sole, emerso dalle ombre dell’oriente, avrebbe proiettato i suoi raggi sul manto erboso della Contea. Da Rohan a Gondor, Merry e Pipino avrebbero assistito e combattuto la guerra più grande del loro tempo, e lo avrebbero fatto restando lontani.  I conflitti generano addii, separazioni e raramente la guerra porta alla riconciliazione. I due hobbit si renderanno presto conto di quanto le battaglie siano le calamità più gravi.

  • L’albero del Re

In sella ad Ombromanto, Gandalf ed il gracile hobbit volsero verso la città bianca. Minas Tirith sorgeva su di una collina, ai piedi di un’imponente catena montuosa. Le mura della città erano state edificate con la candida pietra, la quale scintillava come polvere di stelle quando veniva raggiunta dall’abbraccio del sole ogni mezzodì. Pipino, piccolo visitatore intimorito dalla vastità della capitale, colossale nella propria maestosa presenza, varcò i cancelli del regno e giunse sino al settimo livello. Nella cittadella, il mezzuomo toccò il suolo del vasto cortile. Lì, al centro, svettava alto come una bandiera ed immobile come una scultura, un albero bianco senza neppure una foglia. Pipino lo aveva già scorto quando pose lo sguardo sul Palantir. L’albero di Gondor sarebbe presto stato arso da fiamme divoranti; di esso non sarebbe rimasta che della cenere argentea. Quell’albero era morto da molti anni e non dava alcun segno di resurrezione.

Tramontò il tempo in cui l’albero del Re era rigoglioso e pieno di salute. La sua vitalità veniva espressa dalla fioritura dei suoi rami. Nessun fiore germogliava nei pressi come se attorno a sé l’albero emanasse un’aura di sterilità. L’albero giaceva silente e quatto, dal suo tronco non sgorgava alcun suono, dalle sue radici non trapelava il benché minimo anelito di rinascita. Contrariamente agli alberi delle foreste, nessun Ent custodiva il riposo dell’albero bianco. Esso, solitario, attendeva in un sonno senza respiro.

Peregrino Tuc, mirandolo con la sua proverbiale indiscrezione, constatò che l’albero veniva sorvegliato da alcune guardie fedeli. Erano gli uomini a proteggere il grande albero bianco. Gli stessi nutrivano ancora speranza che esso, simbolo della gloria del reame dell’uomo e della rinascita dei grandi Re, potesse, un giorno, destarsi dal suo dormiveglia.

  • La speranza divampa

Poco dopo, Gandalf e Pipino incontrarono Denethor, il sovrintendente, mettendolo in guardia dall’avanzata degli eserciti di Sauron. Denethor, distrutto dal dolore per la morte del suo adorato primogenito, volle negare qualsiasi intervento e restò seduto sul suo seggio, immerso nella proprie tristi rimuginazioni.

Pipino, allora, si mise all’opera. Arrampicatosi fino ad una torre, lo hobbit guadagnò la postazione dei fuochi di segnalazione. Con coraggio e abilità, il mezzuomo accese la grande pira e le fiamme si propagarono su di essa. In lontananza, alcune vedette recepirono il segnale e diedero, a loro volta, fuoco alla catasta di legno. Sulla cima di ogni monte, uomini vigilavano in costante allerta. Quando videro il fuoco di Amon Dîn avvampare, fecero altrettanto di postazione in postazione. Gandalf mirò il rosso delle fiamme e constatò come la speranza divampasse nell’aria e valicasse l’acqua e l’aria, le pianure ed i monti. La speranza si estese oltrepassando ogni frontiera. I roghi luminosi alimentarono la temerarietà di tutti.

Il fuoco, di colpo, assume nel linguaggio estetico de “Il Signore degli anelli” un valore speranzoso. In quelle fiamme è custodita la fiducia, l’alleanza e la fratellanza che tiene uniti i popoli liberi della Terra di Mezzo. Comunicando a distanza con l’accensione di una vampa, i gondoriani reclamano la vicinanza dei loro fratelli. Il fuoco, usato da Saruman in precedenza per distruggere, per bruciare, per erigere una fabbrica guerresca, viene adesso usato da Gandalf per implorare l’umano aiuto. La speranza prende i contorni di una fiamma imperitura ed ondeggiante che, col suo acre fumo, si sparge sino alla cupola celeste. In quel fuoco non vi è la brama di distruzione, bensì la voglia di difendere tutto ciò che di bello c’è sulla Terra. Le lingue di fuoco che fervono nel legno emanano l’aspettativa di una nuova alleanza che potrà garantire la sopravvivenza della razza umana.

  • L’eterna memoria di un monarca

Così il segnale si protrasse fino ai confini di Rohan e fu avvistato da Aragorn. Proprio lui, l’erede al trono di Gondor e Arnor, ravvisò per primo la disperata richiesta d’aiuto del suo popolo. Le fiamme ardenti di Minas Tirith evocavano la venuta del re. Aragorn corse di gran carriera ed avvertì Théoden che Gondor necessitava dell’appoggio dei loro alleati. Théoden esitò per qualche istante. Perché avrebbe dovuto aiutare coloro che, governati da un funzionario freddo e distaccato, ignorarono il grido di dolore di Rohan?

In quell’attimo, quando Aragorn esortò i rohirrim a partire, Théoden ripensò a quanto detto da Saruman poco prima di spirare. Il Signore di Isengard accusò Théoden d’essere l’anello debole di una salda dinastia regale, e che il trionfo al Fosso di Helm non fu conquistato per meriti suoi. Théoden ribadì, sconvolto, questo concetto anche alla sua bella nipote, Éowyn. “Non è stato Théoden di Rohan a condurre il proprio popolo alla vittoria” - sibilò il regnante, per poi glissare su quanto pronunciato.

Théoden non combatté con estrema vigoria durante il conflitto alla fortificazione di Helm Mandimartello. Per la maggior parte del tempo, fino a quando gli Uruk-hai non aprirono una breccia nel trombattorione, Théoden stette a guardare, guidando i suoi uomini più con le parole e le esortazioni che con la spada e gli scudi. Theoden, ne “Le due torri”, appariva afflitto dal maleficio infertogli da Curumo e Grima, il Vermilinguo. Era stanco, dolente, ancora incredulo per la morte del proprio figliolo. Théoden trasse audacia soltanto nel finale, quando Aragorn volle sollecitarlo a salire a cavallo e caricare i nemici per un ultimo gesto di gloria. Agli occhi di Théoden fu Aragorn, coadiuvato dai suoi amici, a condurre Rohan alla salvezza.

Il sire, angosciato da questa sua sensazione, accetta di rispondere alla supplica di Gondor, vedendo nella battaglia dei Campi del Pelennor l’ultima occasione per poter riscattare il proprio onore. Théoden sa, in cuor suo, che non vi è molta speranza. Gli eserciti di Sauron, cospicui e molteplici nelle loro schiere, li sovrasteranno. Eppure, il sovrano di Rohan vuole affrontarli ugualmente. Sarà dinanzi ai portoni di Minas Tirith che il destino del loro tempo verrà deciso. Théoden desidera conquistare la grandezza dei propri padri, ed è disposto a sacrificare la sua stessa vita pur di salvare il popolo indifeso della grande città bianca.

Nell’impeto della battaglia finale, Théoden vuol far echeggiare le proprie gesta. Come i celebri eroi della mitologia greca, il cui epiteto seguita a far eco nella gloria dei secoli, Théoden spera che il proprio nome venga ricordato in eterno, ma ancor di più egli si augura di poter essere ritenuto, dai propri sudditi, un Re magnanimo e valoroso così che la sua figura non possa sbiadire se confrontata a quella dei suoi avi.

  • L’ultimo viaggio di Arwen Undómiel

Arwen procede nei boschi in sella ad un bianco destriero. Ella indossa una veste cerulea come un mare calmo, rassegnato, le cui onde si adagiano lente sulla riva, senza alcuna forza più ad animarle. Il suo volto candido, radioso persino nell’accoramento dell’addio, esterna l’arrendevolezza di un fato ineluttabile. Coi suoi occhi azzurri, la dama di Gran Burrone osserva, docile, i boschi che la avvolgono per un’ultima volta. Fu proprio in una verde boscaglia che ella vide per la prima volta il suo amato. Tra le alte betulle, Arwen scoprì un giovane che la stava osservando meravigliato. In quel giorno, ella conobbe Aragorn e lesse il proprio futuro nei suoi occhi.

Nel fitto bosco, lo splendido elfo femmina rimirò nuovamente il proprio avvenire. Un bambino sbucò dal nulla e corse felice, non curandosi affatto del passaggio dei nobili Eldar. Nessuno degli elfi lì presenti parve intravedere quel fanciullino dal biancastro vestito. Arwen orientò il suo sguardo su di lui e capì che era la sola a vederlo. Il bambino sorrideva felice tra i cespugli. Proseguì ancora fino a calcare un impalpabile balcone di pietra. Bianche colonne svettavano alte e, poco distante, un uomo volgeva lo sguardo verso l’orizzonte, oltre una ringhiera. Una luce solare affiorava dal profondo ed illuminava in ogni dove. L’uomo si voltò, rivelando d’essere Aragorn. I grigi capelli e la barba incolta suggerivano il naturale invecchiamento di un discendente di Numenor. Aragorn sollevò il bimbo, reggendolo con amore, e lo baciò sulla guancia. Attorno al collo, il fanciullo aveva la Stella del Vespro che brillava luminosa come una cuspide argentea. Quando Arwen riconobbe la gemma elfica, il piccolo le rivolse lo sguardo, ricambiando la sua attenzione, come se anch’egli riuscisse a vederla.

Eldarion, il futuro figlio di Aragorn ed Arwen, apparve d’un tratto e per pochi attimi. Il piccino volle guardare sua madre senza dir nulla, rendendola cosciente della sua prossima esistenza. Arwen si commosse e comprese che il futuro non era ancora stato scritto. Arwen ereditò per un solo momento il potere del padre, Elrond, infatti, aveva il dono della preveggenza. Le parole del custode di Vilya riecheggiarono nella sua memoria: “Non c’è nulla per te qui, solo morte”. Arwen, però, aveva compreso che la vita non era del tutto svanita dal remoto. Così, quando la rifulgente illusione si dissolse come un’aurora, la dama abbandonò il percorso e tornò a Gran Burrone. Arwen ha compiuto la sua scelta. Afferrando quella fievole speranza, aggrappandosi a quel futuro non ancora sfumato, Arwen ha rinunciato alla sua immortalità.

"Elrond" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

Elrond vede la figlia rientrare nella Dimora Accogliente e le rivolge parola. Le mani della giovane erano diventate fredde, e la forza degli Eldar la stava abbandonando. La grazia perpetua degli elfi si era disfatta. Arwen era diventata mortale. Il padre della nobile fanciulla non avrebbe voluto che la figlia perdesse la propria eternità, e così anche lo stesso Aragorn. Questi, perdutamente innamorato di Arwen, avrebbe desiderato, pur patendo il rimpianto, che ella mantenesse la propria essenza immutabile. Aragorn sapeva che l’amore, il più grande amore, corrisponde al sacrificio. Egli avrebbe, con dolore, rinunciato ad avere Arwen con sé pur di saperla al sicuro per sempre.

Ma né Aragorn né Elrond poterono decidere per lei. Arwen, come il più puro degli esseri liberi e fulgidi della razza elfica, mostrò, in questa sua decisione, la propria femminile indipendenza, la propria coraggiosa autonomia. Soltanto lei poteva scegliere per se stessa, nessun altro. Arwen amava tanto, amava spontaneamente senza compendiare alcun limite. La sola possibilità di poter riabbracciare il suo Re e di poter mettere al mondo suo figlio la condusse verso l’adempimento del suo volere. Arwen è una donna forte, coraggiosa, e con la sua rinuncia palesa il più grande degli amori provati. Elrond fatica a trattenere le lacrime quando scopre che la sua discendente non è più immortale. Il destino di Arwen è adesso legato al destino dell’anello, poiché ella non ha più forze sufficienti per resistere al male che si diparte da Mordor. Con le forze residue, la nobile fanciulla invita il padre a riforgiare la spada. Le arti degli elfi possono, infatti, ricostruire Narsil, la gloriosa lama che fu di Elendil ed Isildur.

Arwen, tenendo il viso celato sotto un cappuccio, osserva i frammenti della spada. Ella certamente ricorda l’ultimo colloquio che ebbe con Aragorn, Vicino ai resti dell’arma, ella infuse coraggio al suo adorato. Gli disse che non doveva temere il proprio destino, poiché egli avrebbe affrontato quel male e sarebbe riuscito a primeggiare. Arwen rammenta quanto affermato e agogna di poter instillare nuovo eroismo nel cuore del suo sire. Dalle ceneri una fiamma sarà risvegliata.  Una luce dall'ombra spunterà. Rinnovata sarà la lama che fu spezzata. Il senza corona di nuovo re sarà!

Con quest’ultima richiesta, Arwen fa sì che Narsil, la spada che rappresentava la stirpe spezzata dei sovrani, venga ricostituita. La nascita di Andúril sarà il primo annuncio simbolico del ritorno del Re. L’ultimo viaggio di Arwen non si compì mai, poiché ella rimase ad attendere, tra la vita e la morte.

  • La fiamma dell’occidente

Aragorn sogna Arwen. Come accaduto alla dama di Gran Burrone, anche Aragorn vede l’imminente. Differentemente da lei che vide il futuro da sveglia, Aragorn lo scruta in sogno. Estratti imprecisi, tasselli sparsi, immagini velate si susseguono nel suo incubo agitato. Aragorn vede Arwen distesa su di un letto, sfinita. La sua pelle raggiante è divenuta cerea, quasi esangue. Arwen sussurra con una voce spezzata un ultimo pensiero: “Come avrei voluto poterlo rivedere, un’ultima volta!”. Dopodiché, Aragorn vede se stesso in piedi, al cospetto del trono di Gondor, mentre smarrisce la Stella del Vespro ed essa, lambendo il suolo, si disintegra. Il figlio di Arathorn si sveglia di soprassalto. Egli non sa che ha veduto un nuovo futuro, un avvenire scuro e burrascoso, che tende ad intrecciarsi con quello lieto osservato da Arwen. Cosa significa quanto sognato da Aragorn? Perché egli ha visto la gemma elfica scivolargli via e infrangersi?

L’eventualità che la Stella del Vespro possa rompersi indica come il futuro sia incerto e suscettibile di cambiamenti rapidi ed incalzanti. La Stella del Vespro che l’elfo femmina ha ammirato beatamente al collo del suo figliolo, rischia di venire distrutta. Se questo dovesse accadere, il futuro contemplato dallo sguardo attonito e felice di Arwen cesserebbe di esistere?

Aragorn si desta nel cuore della notte, impaurito da ciò che i suoi sogni gli hanno mostrato. Il ramingo viene convocato da Théoden, il quale, dopo averlo accolto in una tenda, si ritira. Aragorn riceve qui la visita di Elrond, che afferma d’essere giunto fino a lì per volere di colei che ama. Arwen sta morendo e la luce della Stella del Vespro che Aragorn regge stretta a sé si è quasi del tutto spenta. La gemma elfica simboleggia il cuore palpitante di Arwen. Il dissolversi della sua luce testimonia il dolore che Arwen sta tollerando. Aragorn sa che per salvare la sua amata dovrà abbattere il più terribile dei mali ma sa anche che le forze di Rohan e Gondor non potranno soverchiare i reggimenti dell’Oscuro Signore.

Elrond sprona Aragorn a diventare ciò per cui è nato. Vedendo Andúril, la fiamma dell’Occidente forgiata dai frammenti di Narsil, Aragorn comprende che Arwen gli sta dando l’ulteriore coraggio di cui ha bisogno. Toccando l’elsa, Aragorn estrae la spada e mira le rune incise sulla lama. La casata dei Re è stata ricostruita, è il momento che Aragorn metta da parte il ramingo. Nell’opera letteraria di Tolkien, Arwen tessette un vessillo nero. Su di esso era stato cucito dalla donna l’emblema di Elendil. Sfiorando la stoffa con le sue mani, Aragorn agguantò il coraggio per addentrarsi nel viottolo che lo avrebbe portato alla dimora dei Morti. Quando quel vessillo sarebbe sventolato alto, tutti avrebbero rimirato il primo, trionfante, annuncio del ritorno del Re. Nell’adattamento cinematografico di Peter Jackson, Arwen non “filerà” alcun stendardo poco prima che Aragorn volga verso la montagna. Sarà proprio la ricostituzione della spada, ordinata da Arwen, a sostituire la potenza simbolica di quel vessillo.

Aragorn ed Elrond, parlando in lingua elfica, sembrano rievocare un recente passato. Nell’Ultima Dimora Accogliente, poco prima che l’alba sorgesse e la Compagnia dell’Anello partisse, Aragorn indugiava solitario nei pressi della tomba di sua madre. Con la mano, Aragorn scostò foglie avvizzite dall’autunno che sostavano sull’effige marmorea. Quando libererà il volto della statua che ritraeva Gilraen, Aragorn allungherà la mano e carezzerà le fredde gote della scultura. Fu accompagnato in quel commuovente saluto da Elrond, il quale gli ricordò come sua madre volesse per lui un futuro sereno. Gilraen volle proteggere Aragorn dal suo arduo destino, pertanto lo nascose tra gli elfi. A loro, ella donò la stella più luminosa. Aragorn, conosciuto tra gli elfi con l’appellativo di Estel, crebbe e divenne l’incarnazione persistente della speranza.

Aragorn ed Elrond, poco prima di salutarsi, ripeteranno quanto la moglie di Arathorn era solita dire: “Ho dato la speranza ai dunedain, non ne ho conservata per me.”  E’ giunta l’ora che Aragorn assuma le fattezze della speranza, e si erga a stella guida di tutti. Brandendo la sua nuova spada, e animato da un ritrovato impulso, Aragorn s’incammina verso i Sentieri dei Morti. Avrebbe voluto compiere questo rischioso viaggio da solo, ma i suoi fedeli amici, Legolas e Gimli non glielo permisero.

I tre avevano cominciato quest’avventura insieme, ed insieme l’avrebbero finita.

"Legolas" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
  • Legolas del Reame Boscoso

Una lunga chioma flava cingeva un volto lindo, nel cui centro vi erano incastonati occhi azzurri, vigili e sapienti, che tanto avevano visto del mondo. Costui era abbigliato con i colori della natura. Una considerevole dose di verde agghindava la sua veste ed una traccia di marrone ciò che ne restava. Ghirigori ed ornamenti elfici guarnivano il suo abito, impreziosendolo come ricami cuciti sulla seta. Legolas, l’elfo regale di Bosco Atro, giunse a Gran Burrone col suo fedele corsiero. Lungo la schiena portava un arco con una faretra colma di frecce e alla cintura due lunghi pugnali dai manici d’oro. L’erede di Thranduil scese da cavallo e tornò a rimirare le bellezze della valle di Rivendell.

Quando tutto ebbe inizio, quando la Compagnia dell’Anello vide l’albore della nascita, Legolas prese parte al Concilio di Elrond, deciso a prestare il proprio aiuto. L’elfo conosceva Aragorn sin dalla sua giovinezza, e nutriva per lui un affetto profondo e sincero. Fu proprio Legolas a difendere Aragorn dalla stolta accusa di Boromir, che lo definì un mero “ramingo”. Legolas scattò diritto, e tenne a precisare che Aragorn “Non era un semplice ramingo, ma l’erede al trono di Gondor”. Legolas nutre per Aragorn l’affezione di un migliore amico e, al contempo, la premura di un padre. Legolas era vecchio. Vecchio come un elfo di aurea levatura, e pertanto eternamente giovane ed in forze. La nascita di Legolas risale ai primi anni della Terza Era. Egli visse per svariati secoli, ed assistette ai molteplici cambiamenti della Terra di Mezzo. In virtù della sua “anzianità”, Legolas provava per Aragorn ciò che, in seguito, proverà anche per Gimli, vale a dire il sentimento di un’amicizia inattaccabile e l’amorevolezza di una figura saggia e paterna. 

Legolas era alto e slanciato, come tutti gli altri elfi suoi analoghi. Qualcuno, cadendo in errore, avrebbe potuto supporre che la sua statura fosse la più solenne tra i 9 della Compagnia dell’Anello. Prerogativa dei discendenti di Numenor era una vistosa altezza. Aragorn, conseguentemente, risultava essere il più alto dei 9 compagni, persino più alto dell’elfo di Bosco Atro. Questi si distingueva come un arciere formidabile, ed un combattente agile ed inafferrabile. La sua vista acuta era in grado di adocchiare e discernere luoghi e creature sfuocate ed elusive. Con ogni suo gesto, Legolas estrinsecava l’etereità della sua razza. In particolare, sul passo di Caradhras, quando la neve fioccava copiosa, flettendo le resistenze umane dei suoi amici, Legolas non avvertì alcun freddo né patì la tormenta. Come una creatura di stoica resistenza, egli neppure risentiva del gelo, udendo per primo l’empia voce di Saruman dispersa nell’aria.

Legolas è un essere assennato e paziente, altruista e generoso. Sin dall’inizio, quando siederà nel consiglio di Elrond, egli non si lascia coinvolgere nelle discussioni con Gimli, evitando di redarguire il suo futuro amico quando questi lo aveva accusato di voler assumersi il compito di distruggere l’anello. Soltanto per un breve momento Legolas perderà le proprie sicurezze, e non farà uso della sua notoria pacatezza. Quando gli eserciti di Isengard marceranno sul Fosso di Helm, Legolas si farà prendere dalla disperazione e confiderà ad Aragorn che non vi è speranza e che tutti i presenti sarebbero morti. Poco dopo aver ascoltato quanto detto dall’elfo, Aragorn si infurierà, affermando con fierezza che sarebbe morto volentieri come un uomo di Rohan, consapevole che le possibilità di poter sopravvivere si erano ridotte ulteriormente. Per una volta, Aragorn, il più “giovane”, mostrò la fiducia che il più “anziano” non avrebbe mai dovuto far vacillare in sé. Legolas se ne renderà presto conto, e, con la sua grande sapienza, si riconcilierà immediatamente con Aragorn.

Col trascorrere dei giorni, Legolas e Gimli stringeranno un rapporto di grande amicizia. Gli elfi ed i nani, da sempre divisi da un’incomprensibile rivalità verranno finalmente accomunati.

Legolas seguiterà sempre a proteggere i suoi più fedeli amici, Aragorn e Gimli, quei “bambini” così come una volta egli stesso lì definì negli scritti del Professore. E li difenderà come un padre. Quando Gimli verrà minacciato da Eomer, sarà proprio Legolas ad armare il suo arco per schermare il suo amico e, al Fosso di Helm, sarà sempre Legolas a salvare i due lanciando loro una corda e issandoli lungo le mura, verso la salvezza. Nuovamente nella battaglia finale davanti al Cancello Nero di Mordor, Legolas si preoccuperà di Aragorn, prossimo ad essere sopraffatto dalla carica di un troll.

Da questi piccoli dettagli, si può notare come Legolas protegga i suoi amici con la dedizione di un amico e di un vecchio guardiano.

"Gimli" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
  • Gimli, figlio di Glóin

Il concilio di Elrond avrebbe presto avuto luogo. Membri appartenenti alla razze più disparate sarebbero accorsi per presenziare. Poco distante da Legolas, una figura tarchiata si fece avanti. Due occhi buoni e delle guance paffute si intravedevano al di sotto di un elmo argenteo, ed un naso pienotto spuntava da un viso quasi del tutto “taciuto” da una fitta peluria che si estendeva sino alla pancia carnosa.

Gimli era un nano della dinastia di Durin, figlio di Glóin, uno dei componenti della compagnia di Thorin Scudodiquercia. Egli visse per molti anni ad Erebor, dopo che suo padre ed i suoi familiari espugnarono la Montagna Solitaria. Gimli era un nano astuto e risoluto, sin dalla giovane età. Molto tempo prima, quando il padre partì per raggiungere Thorin, Gimli espresse il desiderio di seguirlo, e di prendere parte alla comitiva capeggiata da Gandalf il Grigio. Tuttavia, fu ritenuto dal genitore troppo giovane per partecipare ad una missione così pericolosa. Gimli, allora, attese, aspettò che la vita gli riservasse l’occasione di dimostrare la propria determinazione e fermezza.

Gimli ricordava ciò che sin dai tempi più antichi veniva detto sugli elfi. “Non rivolgerti agli Elfi per un consiglio, perché ti diranno sia no che sì.” Come tutti i suoi simili, egli diffidava di loro, reputandoli furbi ciarlatani. “Nessuno si fida di un elfo” – sbraitò nel primissimo diverbio che ebbe con Legolas. Ciononostante, quando Gimli si proporrà come rappresentante dei nani all’interno della Compagnia dell’Anello, egli comincerà ad interagire con Legolas. In principio, i rapporti tra i due furono tesi, poiché Gimli conservava ancora tristi memorie nel suo cuore. Egli rammentava che Thranduil, padre di Legolas, tenne prigionieri nel proprio palazzo Glóin ed i suoi congiunti durante la loro peregrinazione verso Erebor. I torti subiti dalla stirpe nanica vengono fatti propri da Gimli, il quale va fiero della sua distintiva razza. Gimli è, infatti, un nano orgoglioso ed altero, estremamente dotato in combattimento. Brandisce un’ascia massiccia con cui è in grado di abbattere orchi ed Uruk-hai con la medesima semplicità.

Il suo legame affettivo con i suoi affini è tanto profondo. Gimli fu il primo a proporre a Gandalf di attraversare le Miniere di Moria, poiché era convinto che, in quei luoghi, Balin avesse ricostituito il reame di Nanosterro. Quando Gimli oltrepassò i cancelli occidentali e vide, con sgomento, che Moria si era tramutata in un sepolcro, fece sì che un urlo di dolore si levasse alto, svanendo come un’eco nella profondità della Terra.

Nel giorno seguente, Gimli rinverrà la tomba di Balin, scorgendola in una camera che era stata assediata. Si inchinò dinanzi ad essa e pianse. Una luce proveniente da un uscio scavato nella pietra irrompeva dall’alto, illuminando il loculo. L’avello era cinto dai resti scheletrici di altri nani, massacrati dagli orchi e dai troll di caverna. Gandalf troverà un tomo impolverato, stretto tra le mani ossute di un vecchio e caro combattente. In quel volume, Gandalf leggerà gli ultimi momenti di lotta vissuti dai nani che tentarono di riconquistare il reame dannato di Moria. Gimli ricaverà dalla morte dei suoi simili la forza e la vanagloria per affrontare le tenebre che avviluppavano Nanosterro. Egli manifestò la sua audacia quando, irto sulla tomba di Balin, prese le sue asce e disse: “Che vengano pure, troveranno che qui a Moria c’è ancora un nano che respira!”.

Gimli capì quel giorno che si sarebbe elevato e sarebbe stato, un giorno, considerato uno dei nani più celebri ed importanti dell’intera storia di Arda. Gimli fu il solo nano a sopravvivere alle miniere e fu, altresì, il solo a comprendere e a rimirare la bellezza degli elfi. Ammaliato dallo splendore di Lady Galadriel, Gimli imparerà ad apprezzare la grazia elfica, e deciderà di custodire la ciocca dorata. Col passare del tempo, Gimli stringerà una profonda amicizia con Legolas, abbattendo ogni divisione.

Quanta grandezza vi è nel cuore di Gimli? Egli è l’unico nano a combattere le battaglie più importanti della Guerra dell’Anello. Mentre tutti i suoi conformi si ritirarono nelle montagne, indifferenti al dramma arrecato da Sauron, Gimli fu l’unico ad ergersi come rappresentate della propria razza. E così fu ugualmente il solo ad ammirare l’essenza degli elfi, a provare amore ed amicizia per loro.

Gimli è un guerriero implacabile e feroce ma anche un dispensatore di gioia e di sorrisi. Peter Jackson scelse Gimli come personaggio ideale per distendere la tensione ed elargire felicità. Gimli appare, infatti, molto simpatico non soltanto per il pubblico che lo osserva ma anche per gli stessi personaggi. Éowyn, triste e affranta dai mesi di prigionia vissuti nel suo castello con lo zio, divenuto inavvertitamente schiavo del maleficio di Saruman, tornò a sorridere per la prima volta proprio grazie a Gimli.

Il nano raccontava aneddoti bislacchi sulla sua specie e poi, quando il suo cavallo s’imbizzarrì e corse d’improvviso, egli cadde rovinosamente giù, suscitando le risate affettuose della dama di Rohan. Gimli dona vivacità, brio, felicità a coloro che lo osservano. Ed è forse questo il più grande pregio di un personaggio astuto e di un guerriero imbattibile.

Aragorn, Legolas e Gimli sono vincolati da un’amicizia incrollabile. Nel rapporto tra un elfo, un uomo ed un nano non vi è disparita, non vi è differenza. E’ questa una metafora che tutti dovrebbero dedurre e fare propria per comprendere come tutti i figli della Terra siano uguali nelle loro diversità, poiché ogni diversità può essere una risorsa conoscitiva.

Alla vigilia della battaglia, Aragorn prenderà la via verso il labirintico Sentiero dei Morti. Legolas e Gimli, amici fedeli, non lo lasceranno solo. Poiché nella vera amicizia non vi è considerato l’abbandono.

  • Solo un’ombra ed un pensiero

Éowyn era sveglia, cauta e vigilante come da consuetudine. Rimase accorta anche in piena notte. Vide coi suoi occhi attoniti Aragorn andare via. Tentò di fermarlo, ma egli, garbatamente, le disse che doveva lasciarla. Éowyn confessò implicitamente il suo amore al ramingo, ma questi, cortese come solo i puri di cuore sanno essere, le rispose che non poteva ricambiare e offrirle quello che tanto desiderava. Il cuore di Aragorn apparteneva ad Arwen, qualunque cosa fosse accaduta.

Éowyn si intristì. Ella, innamorata di un’ombra e di un pensiero, assimilò la forza dalla delusione, la spavalderia dall’amarezza. Respinta delicatamente dall’uomo di cui si era invaghita, Éowyn poté incanalare il proprio cordoglio e mutarlo in coraggio. Bramando di morire dando la propria vita per i suoi cari, la creatura femminile escogitò il modo di scendere in guerra.

Ella si avvicinò allora a Merry, anch’egli respinto dai più. Éowyn era una principessa “ignorata” ed una donna trascurata dai soldati. Merry, dal canto suo, era soltanto un mezzuomo, non un uomo integro. La portata del suo braccio non era stimata dagli altri guerrieri e la sua modesta stazza era fonte di derisione. Nessun cavaliere lo avrebbe voluto come fardello. Merry voleva combattere per i suoi amici, ma nessuno credeva in lui. Soltanto Éowyn intuì la forza nascosta nel suo cuore. Ella veniva sottovalutata dagli uomini stolti, poiché era “soltanto” una donna, Merry, invece, veniva sottostimato in quanto minuto. Restando vicini, Éowyn e Merry paleseranno come le semplici apparenze siano fuorvianti. Éowyn si travestirà da soldato e, in incognito, si infiltrerà tra i ranghi dei rohirrim.

Il coraggio e l’eccezionale forza delle donne vengono espressi pienamente dalla principessa di Rohan. Analogamente a quanto fatto da Arwen, Éowyn dimostrerà che nessuno potrà mai decidere per sé stessa al suo posto. La dama di Rohan cavalcherà verso Gondor, calpestando le discriminazioni e diventando un’eroina.

Merry seguirà la bella fanciulla. Lo Hobbit era stato da poco eletto scudiero di Rohan. Anche Pipino, il suo amico lontano, aveva guadagnato la carica di Guardia della Cittadella. Entrambi, però, sapevano che le loro investiture erano poco più che patine di poco valore. Avrebbero dovuto dimostrare nei momenti topici cosa erano davvero capaci di fare. Pipino, da una parte, salverà la vita a Faramir, preda del folle volere distruttore del padre, Merry, a sua volta, salverà Éowyn, durante il combattimento con il Re Stregone di Angmar. Faramir ed Éowyn, salvati dai due hobbit, si incontreranno nelle case di cura di Minas Tirith e lì si innamoreranno.

  • La carica dei rohirrim

Seimila lance furono scosse, altrettanti scudi frantumati. L’esercito di Sauron aveva asserragliato Osgiliath. Innumerevoli legioni si protrassero sino ai campi del Pelennor, occupando l’intera vallata. Con le catapulte, gli orchi avevano inferto i primi danni alla struttura esterna di Minas Tirith. Il cancello principale fu brecciato e molti orchi riuscirono ad invadere i vari livelli della città, seminando morte. Gandalf e Pipino si rifugiarono nella cittadella. Gandalf volle infondere serenità al suo piccolo amico. Egli giudicava Pipino come un avventato ed uno sciocco. Più volte, a Moria, volle rimproverarlo per la sua leggerezza. Quando la morte sembrò vicina, Gandalf notò, forse, la sensibilità di Peregrino Tuc, il quale stava già pensando alla fine. A quel punto, Mithrandir volle tranquillizzare lo hobbit, ricordandogli che la morte è soltanto un’altra via, che dovremmo prendere tutti. Una volta valicato il “paradiso”, ogni anima trapassata può contemplare bianche sponde ed un verde paesaggio sorto sotto una lesta aurora.

La descrizione astratta, evocativa, di questo regno celestiale compiuta da Gandalf, corrisponde al credo religioso, al sogno dell’infinito. I mortali sperano che dopo la fine ci possa davvero essere l’immortalità dell’anima in un giardino di nuvole.  Le bianche sponde tratteggiate dalle parole dello stregone ristorano lo spirito dei credenti e danno loro la forza necessaria per sostenere l’ultimo passo. Ma non era ancora l’ultimo atto!

Un corno risuonò nella notte. L’alba era prossima a sorgere e le armate dei Rohirrim erano sopraggiunte. Théoden caricò il temperamento dei suoi uomini. Urlò: “Morte! Morte!” – il monarca di Rohan. Egli sapeva che sarebbe caduto in guerra e voleva far sì che la fama dei Signori dei Cavalli echegiasse nell’eternità.Théoden non pensava in quell’ultimo discorso alle bianche sponde che presto avrebbe mirato. Il paradiso agognato dal Re era la memoria. Egli avrebbe vissuto nella casa dei suoi padri e nelle illimitate reminiscenze della sua gente. Con la morte i Signori dei Cavalli avrebbero ottenuto la vita eterna, nel ricordo, nella tradizione, nel racconto di ogni generazione. I rohirrim marciarono, dunque, sui Campi del Pelennor con incredibile audacia e travolsero i reggimenti avversari.

  • L’approdo degli Haradrim

La vittoria era vicina. Le schiere di Sauron, benché più numerose, non poterono contrastare le incursioni disperate degli uomini. Quando tutto sembrò volgere per il meglio, versi atroci rimbombarono nel vento da un breve distacco. La terra tremò, scossa da arti titanici poggiati ritmicamente sulla distesa. 

La cinepresa di Jackson inquadrò il volto stupefatto del regnante, poi seguì l’espressione sconvolta di Éomer. I rohirrim stavano osservando l’avanzata di una legione dalla devastante capacità offensiva. I soldati, impietriti ed esterrefatti, vennero colti dal timore. Jackson, similmente a quanto fece Steven Spielberg nel suo “Jurassic Park”, volle volgere il suo sguardo impassibile sui volti allibiti dei personaggi sulla scena, intenti ad osservare le mastodontiche sagome di alcuni animali. Il regista neozelandese non volle anticipare ciò che Théoden e gli altri stavano guardando, desiderò, invece, che gli spettatori avvertissero il pericolo attraverso lo sguardo inquieto degli eroi lì presenti. Sia in “Jurassic Park” che ne “Il ritorno del Re”, il pubblico percepisce l’avvento di un essere colossale mediante l’espressione intimorita dell’essere umano.

Gli Haradrim pervennero dal sud su enormi pachidermi. Una sfilza di Olifanti muoveva verso le mura di Minas Tirith. Tali fiere avrebbero raso al suolo tutto quello che si sarebbe parato loro davanti. Tolkien, forse ispirato dalle tecniche e dalle strategie belliche dell’antico condottiero cartaginese Annibale, ideò la razza degli Haradrim. Annibale era solito servirsi di grandi pachidermi tra gli schieramenti dei suoi eserciti. Nell’universo di Tolkien, i mûmakil erano elefanti grigi, con zanne d’avorio affilate e una mole possente. Alti più di un edificio, gli Olifanti venivano addomesticati dagli Haradrim e utilizzati come infallibili pedine di una scacchiera. In guerra, venivano dispiegati davanti potendo aprire ogni varco. L’enorme stazza di questi animali si rivelava adeguata per sbaragliare le unità avversarie e per abbattere ciascuna resistenza.

Nei Campi del Pelennor, i mûmakil sgominarono le fila dei rohirrim, generando il panico e lo scompiglio. I Rohirrim attinsero comunque ulteriore coraggio e riuscirono a tener testa alle titaniche creature. Nel caos del conflitto, Théoden venne artigliato da una creatura alata. Il re Stregone di Angmar spezzò il corpo del regnante di Rohan. Prima che la cavalcatura alata si cibasse dei suoi resti, Éowyn sopraggiunse e affrontò gli oscuri poteri del signore dei Nazgul. La ragazza trafisse il Re Stregone, colui che nessun uomo avrebbe mai potuto uccidere.

Una donna si innalzò oltre la più fulgida speranza ed abbatté un terribile male. Théoden spirò poco dopo, tra le braccia di sua nipote. Aveva raggiunto quello che anelava. Il ricordo di lui perdurerà per sempre tra i fuochi scintillanti ed imperituri dei più grandi monarchi di Rohan.

  • I Sentieri dei Morti

Un fiore nacque su di un lattiginoso ramo. L’albero di Gondor destò le sue braccia dal sonno e dai suoi polmoni lignei soffiò un alito di rinascita. Nessuno notò quel fiore. L’albero sentì che qualcosa stava avvenendo, che un Re stava rientrando, e risorse. Sul cammino verso il Monte Fato, anche Frodo e Sam videro la statua di un vecchio Re. La scultura era stata deturpata. La testa del sovrano ritratto, recisa dal resto dell’opera, giaceva a terra, sul verde manto. La fronte era adornata da fiori colorati che nel frattempo erano spuntati e che adesso formavano una sorta di corona attorno al capo del Re. La natura lo aveva capito: Aragorn era prossimo a salire sul trono di Gondor.

"Il ritorno del Re" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters

In quel tempo, Aragorn si addentrò nei dintorni del Dwimorberg e perdette la diritta via. L’aria era diventata glaciale. I tre viaggiatori non incontrarono altrettante fiere sul loro cammino ma avvertirono la sensazione che il calore dei loro corpi gli fosse stato sottratto.

Aragorn procede silente, incamminandosi in una selva oscura. Arrivato ad una porta scavata nelle viscere della montagna, l’erede di Isildur varcò la soglia, spingendosi in quel regno di morte dove la malvagità ristagnava e poteva essere respirata come un effluvio maleodorante. Aragorn si incamminò verso quella città dolente, tra l’eterno dolore e la gente perduta. Come il sommo poeta, il ramingo discese nelle tenebre di un inferno terrestre e giunse nei pressi di un limbo sconsacrato. Gimli non aveva ancora ben chiaro cosa si celasse nei meandri di quella catena montuosa. Fu Legolas ad illuminarlo.

Legolas, rivestendo il ruolo di guida in questa discesa “agli inferi” nelle tenebre più tetre, assume i contorni del saggio Virgilio, il quale spiega ciò che nel buio attende d’essere liberato. Legolas racconta a Gimli che un tempo, un esercito negò aiuto ad Isildur quando questi ne ebbe necessità. Isildur maledisse quei soldati, imprigionandoli tra la vita e la morte. Essi non avrebbero avuto pace sino al giorno in cui riscatteranno il loro onore.

Gimli rabbrividì nel percorrere il Sentiero dei Morti. I tre si protrassero sino ad una sala dimenticata. Aragorn, Legolas e Gimli non avevano raggiunto l’Ade, ma era come se si trovassero in un Antinferno. Laggiù, gli ignavi vagavano come anime in pena. Essi non avevano preso posizione nella loro vita, non mantennero mai la loro parola, il loro giuramento. I soldati di Isildur erano diventati spettri crudeli e privi di alcuna dignità. Nella vita preferirono astenersi dai loro compiti. E così come il Celestino V dantesco non si preoccuparono mai d’adempiere ai loro doveri, ai loro obblighi. Il Re dei Morti ed i suoi sudditi erano pigri, negligenti, anonimi, persone senza infamia e senza lode, incapaci di scegliere, impossibilitati ad optare per il bene o per il male. I fantasmi, da vivi, preferirono sottrarsi, restare in disparte senza partecipare alla battaglia. Agirono meschinamente, senza schierarsi mai a favore di un solo vessillo.

Aragorn incontrerà il Re dei Morti, il quale tenterà di ucciderlo. Nessuno può lambire la pelle di un non-morto, eccetto Aragorn, in quanto erede di Isildur. Il ramingo, per mezzo di Andúril, respinse l’attacco del Re. Questi rimase stupefatto nel notare che Aragorn poteva toccarlo. Nella versione cinematografica, il doppiaggio del Re dei Morti è differente rispetto a quello della versione estesa per una sola frase. Nel primo adattamento, esso dirà: “Quella stirpe fu spezzata” – riferendosi alla dinastia di Aragorn. Nel secondo adattamento, dirà: “Quella lama fu spezzata”, riferendosi a Narsil. Appare evidente, anche da queste differenze stilistiche e di parole, quanto la spada Andúril rappresenti, nella sua integrità, la ricostruzione della casata dei Re. Notando quella lama e vedendo Aragorn implorare il loro aiuto, i morti compresero chi avevano dinanzi: il vero erede al trono, l’unico che potrà liberarli dalla loro morte vivente.

I morti accetteranno di combattere per Aragorn. Gli ignavi compiranno finalmente una scelta.

Aragorn, Legolas e Gimli, in testa all’esercito dei Morti, raggiungeranno le sponde di Gondor. Sui Campi del Pelennor ristabiliranno il dominio degli uomini, decimando gli eserciti nemici. Aragorn lo aveva giurato a Boromir in punto di morte: pur non sapendo quanta forza aveva nel suo sangue, non avrebbe mai permesso che Minas Tirith cadesse. E così fu!

  • Futuro nebuloso

Aragorn entra nella sala del re. Restando solo, il figlio di Gilraen pone la mano sul Palantir. Aragorn getta il suo guanto di sfida a Sauron. Egli vuole che l’Oscuro Signore cada nell’agguato e creda che gli uomini siano tanto sfrontati da attaccarlo a viso aperto. Aragorn vuole azzardare un ultimo tentativo. Riunendo gli eserciti di Rohan e Gondor, egli vuol marciare sul Nero Cancello, così da catturare lo sguardo di Sauron e tenerlo fisso su di sé. Sam e Frodo, se fossero vicini al Monte Fato, avrebbero la concreta possibilità di passare inosservati e giungere sino al baratro infuocato. Con il Palantir, Aragorn intima Sauron alla resa ma questi, riconoscendolo, gli mostra Arwen, inerte e cerea. Aragorn ne resta spiazzato, temendo che Arwen sia morta. In preda allo sconforto, Aragorn libera la presa dal Palantir e fa cadere, inavvertitamente, la Stella del Vespro al suolo. Ciò che aveva sognato si è avverato: la Stella del Vespro si è dissolta. Il futuro visto tra il sonno e la veglia da Aragorn si è avverato, ma non del tutto. Ciò vuol dire che la visione avuta da Arwen da sveglia è errata? Eldarion non avrà più la gemma elfica attorno al collo?  Neppure lui esisterà più?

Invero, come specificato da Elrond, il futuro in cui vi è ancora vita per Arwen è quasi scomparso. Già, ma non completamente! Aragorn si appella alla flebile speranza che il male promanato da Sauron possa venire assoggettato e sconfitto e per questo decide di marciare su Mordor.

  • Padre e figlio

Faramir non poté far nulla. Osgiliath venne asserragliata ed invasa col favore della notte. Boromir l’aveva difesa prodemente tempo prima. Faramir non riuscì a fare altrettanto. Le truppe nemiche erano superiori in numero. Con l’occupazione di Osgiliath, l’esercito di Sauron avviò la propria mobilitazione sulla valle. Il fallimento di Faramir avrebbe portato all’attacco a Minas Tirith. Faramir era soltanto un uomo, non poteva fermare da solo le inarrestabili sortite nemiche. Eppure, Denethor vedeva in lui l’inabilità, l’inettitudine. Il Sovrintendente di Gondor versava ancora lacrime per la morte di Boromir, il suo figlio adorato. Nella sua oscura follia, egli arrivò persino a confessare la propria indifferenza nei riguardi di Faramir. Denethor avrebbe voluto che i posti dei suoi figli fossero stati scambiati. Avrebbe agognato che Boromir vivesse e che Faramir perisse. Un pensiero orribile tramutato in parole ed in un’esternazione quando proferì tale agghiacciante verità.

Denethor credeva di aver perduto Boromir in guerra. Non capì mai che egli perdette suo figlio nel momento in cui volle ordinargli di portare l’anello a Gondor. Quel pensiero mellifluo e insidioso offuscò la saggezza del primogenito. Boromir avrebbe tenuto l’anello per sé, non lo avrebbe ceduto ad alcuno, non si sarebbe più destituito da una simile possessione. Denethor condusse suo figlio alla morte ben prima degli assalti operati dagli orchi. Faramir ne era consapevole, cercò di avvisare il proprio genitore sul triste fato a cui andò incontro Boromir ma senza riuscirci. Denethor ordinò a Faramir di condurre un nuova offensiva su Osgiliath. La volontà del Sovrintendente divenne follia. Faramir accettò, come ogni buon soldato volle assecondare l’ordine del proprio comandante. Non agì come un uomo colto qual era, neppure come un assennato studioso, rifiutando quell’atto suicida, volle compierlo, poiché Faramir si comportò come un figliolo ubbidiente, devastato dalla mancanza di approvazione del padre.

Poco prima che la guerra cominciasse, il Capitano di Gondor guidò i suoi soldati. Tutti li accolsero in un corteo funebre, salutandoli. In quella folla fiacca ed angustiata, è possibile scorgere il volto di due piccoli bambini che osservano: un maschietto ed una femminuccia. Non è la prima volta che questi due pargoletti compaiono sulla scena. Se si osserva attentamente, si può notare come Jackson abbia inserito questi due piccini in tutti e tre i film. Per la prima volta, essi apparvero ad Hobbiville, durante il racconto di Bilbo circa la sua disavventura con i troll. I due fanciullini tornano nel capitolo successivo, rivestendo due ruoli differenti. Essi ne “Le due torri” restano nascosti nelle grotte del Fosso di Helm, sorretti dall’abbraccio di alcuni famigliari. Ne “Il ritorno del re”, i bambini fanno parte della folla di Gondor. In tutti e tre i capitoli della trilogia, essi osservano, silenti, gli eventi come piccoli spettatori immersi nella pellicola.

Faramir avanzò verso gli avversari. Nel frattempo, Denethor, incurante, si accinse a pranzare. Si cibava con poca eleganza il Sovrintendente, sporcandosi continuamente il viso. La rozzezza delle sue scelte viene esternata dal modo volgare con cui si nutre. Quando Faramir verrà trafitto dalle frecce, la bocca di Denethor sarà macchiata di rosso, come se dalla sua bocca fuoriuscisse il sangue del proprio figlio. Con la sua ria lingua e con le sue labbra maligne, Denethor condusse i suoi figli alla morte. Quella scia rossa che cola lungo il suo mento evoca il sangue di un nobile che ha banchettato sul corpo morente del proprio figlio. Denethor, similmente al Conte Ugolino citato dall’Alighieri nella “Divina Commedia”, ha “desinato” sui resti del proprio eroico discendente.

Ma Faramir non morì. Riuscì a sopravvivere e, grazie al provvidenziale intervento di Pipino, raggiunse molto dopo le Case di Guarigione di Minas Tirith.

  • Moglie e marito

Éowyn fu trovata stesa a terra, morente. Éomer la scorse lontano e gridò devastato. Fu trasportata alle case di cura. Ivi venne guarita da Aragorn che rimarginò le ferite del suo corpo, anche se nulla poté fare per cicatrizzare la ferita che, non volendo, aveva inciso nel cuore della dama di Rohan. Nel sangue di Aragorn scorreva il potere della guarigione dei Numenoreani. Éowyn si riprese in fretta, ed in quel luogo incontrò Faramir.

Éowyn avrebbe desiderato morire in battaglia. Non le importava più niente. Credeva che la vita non potesse elargirle alcuna felicità, e avrebbe voluto lasciare di lei una meravigliosa reminiscenza. Ella capì a poco a poco che la vita poteva ancora riservare molto per lei. Vide allora Faramir. Anch’egli aveva tentato di morire. Non per la gloria, certo, ma per un desiderio di approvazione. Faramir avrebbe voluto far ricordare il proprio nome al padre, e aveva creduto che soltanto morendo ci sarebbe riuscito.

Éowyn non fu ricambiata da Aragorn, colui che per lei rappresentava un amore carnale e spirituale; Faramir, dal canto suo, non ricevette mai l’amore paterno che egli, da figlio, si sarebbe aspettato di avere dal genitore.  Faramir ed Éowyn, entrambi feriti nel corpo da una guerra infausta e nel cuore da un amore non corrisposto, cominceranno a guarire insieme.

Poco distante dal Cancello Meridionale del regno, nella sesta cerchia di Minas Tirith, il secondogenito di Denethor si rimise in piedi. Volse lo sguardo in quei luoghi di asilo. Scorse i feriti, i malati, sorretti dalle amorevoli premure dei guaritori. Di colpo, Faramir mirò una bella creatura dai lunghi capelli impegnata a guardare l’orizzonte da un’altura. Gli occhi del gondoriano furono irradiati dalla fioca luce che dal corpo della fanciulla stillava. Éowyn sembrava essere una debole candela, la cui fiamma esigua consumava la poca cera rimastale. Un soffio di brezza avrebbe potuto “zittirla” del tutto. Éowyn era spenta come una mattina di pallido autunno, eppure, il Capitano di Gondor vide in lei un percettibile volere di fioritura. Ella era pronta a germogliare, a maturare come una donna felice in un giorno di primavera. Éowyn osservava gli eserciti procedere verso Mordor. In lei albergava la forza di combattere ancora. Eppure, quando Faramir le si avvicinò, i pensieri bellicosi svanirono del tutto ed Éowyn venne permeata dalla pace e da un affetto rifulgente. Lontana da ogni conflitto, Éowyn tornò a risplende di serenità.

Faramir adorava la scrittura, i vecchi racconti, la letteratura e la poesia. Fu finalmente felice di depositare arco e faretra. Si portò nei pressi della donna e i due si conobbero. L’affinità di Faramir accrebbe la fiammella dell’animo della dama e la candela tornò ad irrobustirsi.

L’amore tra Éowyn e Faramir non sboccia causalmente nelle Case di Guarigione. Il più puro e coinvolgente dei sentimenti può curare un corpo fiacco ed un’anima spenta più di qualsiasi altro rimedio. Il Capitano di Gondor e la signora di Rohan leniranno le proprie ferite vicendevolmente con la levità di una carezza e la dolcezza di un abbraccio. Sarà l’amore a ritemprare i loro fisici dimessi ed il loro spiriti fiacchi.

Al mattino, sulla terrazza, Faramir baciò Éowyn sotto un cielo assolato. Ambedue deposero le loro armi a terra, e, finalmente liberi, si tennero per mano.

  • La distruzione dell’Unico Anello

Frodo e Sam giacevano sui pendii del Monte Fato. Frodo non aveva più alcuna forza, si era ormai abbandonato all’abbraccio della calda roccia. “Non credo ci sarà un viaggio di ritorno, padron Frodo” – tuonò Sam. Lo hobbit aveva perduto la speranza. Sam esternò un pensiero opposto a quello pronunciato giorni prima. I due mezzuomini erano esausti. Sebbene provati dal convincimento che non sarebbero sopravvissuti all’impresa, Frodo e Sam continuavano a salire. Frodo si trascinava, ma il peso dell’anello divenne insopportabile. Più le fiamme del Monte Fato si facevano vicine più l’anello aumentava l’onere della propria custodia.  Sul collo dello hobbit si erano formate piaghe e lesioni, come se l’Unico stesse divorando la carne del suo portatore. Sam si fece carico del fardello, senza mai toglierlo al proprio padrone. Sollevò Frodo sulle sue spalle e salì sino al passaggio.

Sam non fu mai tentato. Non patì la corruzione dell’Unico. Ne ignorò sempre le cupe voci, le oscure esalazioni. L’anello non poteva soggiogare l’animo di Sam, troppo candido. Sam non ambiva a padroneggiare alcun potere, non aspirava ad assoggettare alcun avversario. I suoi pensieri erano rivolti alla propria casa, la sua amata terra. Non vi era menzogna, non vi era cupidigia, non vi era avidità negli occhi di Sam. L’anello non poteva servirsene. Conseguentemente, esso fece effluire tutte le sue arti oscure per curvare la tempra di Frodo sino a condurlo allo stremo. Frodo non ce l’avrebbe fatta senza Sam e, ugualmente, Sam avrebbe sofferto sin troppo se fosse stato il solo portatore dell’anello. Ambedue, spalleggiandosi, riuscirono ad adempiere a questo viaggio. Un’amicizia profonda legò Frodo a Sam. Persino quando il padrone commise un grave errore e preferì seguire Smeagol a discapito di Sam, l’amicizia tra i due non si dissolse. Sam comprese che Frodo agì con stoltezza ma non fece nulla per fargli pesare il suo smacco. Tornò indietro e salvò coraggiosamente il suo amico. Sam sostenne il combattimento contro chiunque osasse intralciare il cammino verso la fine. Nonostante venisse fronteggiato da esseri più grandi e potenti di lui, Sam non si diede mai per vinto e riuscì a imporsi con la stoffa incomparabile del proprio carattere. Sam da “spalla” divenne l’assoluto protagonista.

Sam, il più grande degli eroi, nel mentre saliva e trasportava il proprio padrone sulla schiena, pensò al panorama verdeggiante della Contea. Egli rimembrò la bellezza della valle d’estate, la limpidezza del fiume Brandivino e la sua fresca acqua. Ma soprattutto, Sam ammirò l’immagine, custodita nei suoi ricordi, di Rosie Cotton. Nel calore infuocato del vulcano attivo, Sam fu investito dalla frescura di una memoria che gli carezzò le guance stanche. Rosie ballava felice, e teneva tra i capelli nastri bianchi che accentuavano ancor di più il biondo dei suoi ricci. Quella parvenza materializzatasi nella sua fantasia più nitida, servì a Sam per compiere l’ultimo sforzo. Raggiunto il valico del Monte, Sam e Frodo furono aggrediti da Gollum. Come previsto da Gandalf, Gollum avrebbe svolto un ruolo cruciale sul finale di questa storia. Infine, Smeagol scelse il male, optò per essere ricordato solo e soltanto come Caino, or dunque come un assassino.

Poco distante dal Monte Fato, Aragorn capitanò gli eserciti di Gondor e Rohan. Non vi era alcuna possibilità di vincere con la forza delle armi. Quello orchestrato da Aragorn sarebbe stato l’ultimo atto per dare tempo a Frodo. I popoli liberi non possedevano certezza. Non sapevano se il portatore dell’anello fosse effettivamente in procinto di raggiungere la voragine di fuoco. Aragorn per primo doveva soltanto sperare.

Aragorn e Gandalf riposero le loro ultime aspettative nei loro cuori. Lo fecero da sempre. Durante i festeggiamenti per la vittoria alla roccaforte di Helm, Aragorn prese Gandalf in disparte e gli disse che di Frodo non vi era alcuna notizia. Gandalf apparve pavido. Aragorn allora gli suggerì di pensare fortemente a Frodo e capire cosa il suo cuore gli sussurrava. Gandalf sorrise, poiché spesso il cuore è più saggio della ragione stessa. Affidandosi ai loro cuori, ai loro sentimenti, gli eroi caricarono verso i nemici, confidando nell’impossibile.

Aragorn infuse ardore negli animi dei suoi fratelli. Non volle ingannarli. Non avrebbero ottenuto la vittoria, ma avrebbero dovuto soltanto resistere. Reggere per tutto ciò che ritenevano caro. L’era degli uomini non era ancora finita. Lo sarebbe stato un giorno. Ma non quel giorno!

Aragorn avanzò per primo e lo fece per Frodo. Pochi rammentarono Sam. Eppure, in quei frangenti, proprio Sam si contorceva nella lotta con Gollum, per facilitare l’ingresso nel valico del Monte Fato a Frodo. Ivi, il portatore fu posseduto dall’Unico e la situazione parve precipitare. Aragorn cadde a terra, schiacciato dalla forza bruta di un troll. Gli eroi della Compagnia erano spossati e stremati. Gollum ghermì l’anello e lo ammirò sorridente. Egli fece lo stesso sorriso del passato quando, da umano, osservò quel verme nauseante. Frodo rinsavì, si mise in piedi e spinse Gollum giù. Questi morì e portò l’anello con sé. Il male si disgregò. La torre di Barad-dûr collassò e l’occhio di Sauron si spense nel suo stesso fuoco. Le armate di Mordor, plasmate col potere dell’Unico, si dileguarono e gli eroi della Compagnia sopravvissero.

Frodo rimase appeso, appollaiato alla sporgenza. Non aveva alcuna energia, stava per cedere. Giunse Sam e gli porse la sua mano. Frodo vacillò, poi scelse di afferrarla e lo hobbit lo portò su. Un momento simile i due mezzuomini lo vissero tempo innanzi. Quando Frodo volle andare a Mordor da solo, prese con sé una barca e lasciò Amon Hen. Sam lo seguì e per far fede al suo giuramento, arrivò persino a tuffarsi in acqua. Il povero hobbit non sapeva nuotare. Si perse così nel fondale, tendendo la mano verso l’alto. Frodo lo vide e allungò la presa per farlo salire a bordo.

Nel Monte Fato avvenne il contrario: Sam, in alto, avvicinò la mano e acchiappò il suo padrone. Frodo aveva salvato Sam da un sepolcro acquatico, Sam salvò Frodo da una tomba di fuoco.

I due hobbit, sfibrati, verranno recuperati da Gandalf e dalle aquile. L’impossibile divenne possibile.

  • L’incoronazione del sire Elessar

Gandalf pose la corona sul capo di Aragorn. Questi quasi non trasse respiro. Aveva fatto fronte ai dissidi più aspri, cionondimeno sentiva in cuor suo che l’accettazione del proprio destino da Re fosse il compito più impegnativo e ardimentoso che avrebbe dovuto ancora svolgere. I giorni di pace erano giunti. Aragorn doveva guidare la sua gente verso un radioso avvenire. Finalmente si sentì pronto per essere la stella brillante del suo reame. Aragorn, dunque, sospirò felice, e si voltò verso il popolo che lo accolse festante. Intonò un canto e camminò.

Egli intravide Arwen, nascosta dietro un drappo di seta. Il suo volto splendeva come il raggio di luna riflesso nello specchio d’acqua di un lago. Ella stringeva tra le mani una candida asta sulla cui sommità svettava un vessillo bianco. Su tale “araldico” era stato impresso l’albero di Gondor. Esso era rifiorito, aveva ripreso a vivere con il ritorno del vero Re. Petali di vario colore fioccavano dall’alto creando una magica atmosfera. Non vi era però spettacolo alcuno che potesse distogliere Aragorn dal volto della sua adorata. Arwen tenne lo stendardo e lo porse al suo amato. Ricambiò la sua espressione armoniosa ma solo per qualche istante. La dama di Gran Burrone manteneva il viso basso. Intimidita, peritosa la fanciulla tentennò, credette forse che l’incoronazione avesse mutato il cuore di Aragorn e che egli non volesse prenderla in moglie. Nella sua dolce esitazione, Arwen emanò la debolezza della sua mortalità, della sua umanità. Aragorn rimase sorpreso della timidezza della fanciulla. Per lui nulla era cambiato. Il male era stato disfatto e l’amore, adesso, poteva essere vissuto. Aragorn sfiorò le gote della nobile fanciulla ed ella sorrise, commuovendosi. A quel punto egli la baciò. Una fragranza di gioia avvolse i due innamorati. I loro occhi felici sfavillarono come stelle nel cielo. Aragorn e Arwen si abbracciarono e nulla più li separò. Il futuro più roseo venne coronato. Aragorn sposò Arwen nella città dei Re ed ella divenne la sua regina.

  • Il Signore degli Anelli di Frodo Baggins

I quattro mezzuomini tornarono nella Contea. Frodo, Merry e Pipino faticavano ad adattarsi nuovamente allo stile di vita della Contea, Sam no! La purezza di quest’ultimo gli permise di disfarsi in fretta di tutti i residuati di Mordor e di lasciarsi quella fatica alle spalle. Egli adorava Hobbiville, non avrebbe anteposto a quel luogo nulla al mondo. Sam rientrò nella sua terra natia e poté rivedere Rosie. La conosceva sin bambino e, forse, l’amò ancor prima di comprendere cosa fosse realmente l’amore. Fino ad allora non ebbe mai l’impavidità di dichiararsi. Che ironia! Samwise l’impavido, colui che affrontò orchi e progenie di Ungoliant, che sconfisse goblin e luridi esseri, provava ancora un certo timore nel guardare gli occhi profondi della bella Rosie. Il suo sguardo si perdeva in lei. Talvolta, quando la ammirava in segreto ella avvertiva l’attenzione e ricambiava lo sguardo a sua volta. Sam, allora, indirizzava gli occhi da un’altra parte, imbarazzato. Il suo fiato sembrava interrompersi quando provava anche solo a bisbigliarle qualcosa. Nei mesi precedenti non riusciva neppure ad invitarla a ballare. Sam, il temerario aveva una sola paura, a quanto dava a vedere: che Rosie potesse respingerlo. Una sera prese l’iniziativa, confessò il suo amore a Rosie e la prese in moglie. Sam realizzò il suo sogno, spinto dal coraggio e dalla sua amorevole umiltà, e fu felice.

Nelle settimane successive Frodo si dedicò alla scrittura. Proseguì sulle pagine rimaste intonse del libro di Bilbo. Tredici mesi dopo, ultimò il suo racconto: “Il Signore degli Anelli”. La ferita alla spalla che Frodo aveva rimediato a Colle Vento continuava a fargli male. Essa non sarebbe mai scomparsa, segno di come quello che aveva vissuto non sarebbe mai andato via. Frodo, allora, decise di partire per un nuovo viaggio. Accompagnato da Bilbo, egli raggiunse Gandalf, salutò Sam e navigò sino alle Terre Immortali. Sulle rive si sciolse la Compagnia dell’Anello. I due hobbit protagonisti delle storie del Professore fecero un’ultima avventura. Non sarebbero più tornati. Sam ereditò il libro di Bilbo e Frodo. In quelle pagine, la scrittura, tanto amata da Tolkien, aveva immortalato l’amicizia, l’ardore, l’eroismo di eroi le cui azioni echeggeranno per sempre.

Sam tornò a casa, baciò sua moglie e accarezzò i suoi figli. Per lui niente era cambiato. La Contea era stata salvata ed egli la guardava. Essa era bella come era sempre stata. Rientrò in casa con la propria famiglia e serrò la porta. La storia, com’era cominciata, finì in una casa scavata nella terra. Tale vano non era certo un brutto buco, sudicio e umido, con la presenza di vermi e pervaso da un lezzo maleodorante; e neppure spoglio, arido e inospitale, senza nulla su cui sedersi né qualcosa da mettere sotto i denti: era un buco hobbit, vale a dire comodo e accogliente.

Il narrato del “Signore degli anelli” si dissolse sulla casa di Sam, lo hobbit che forgiò il destino di tutti.

FINE

Voto: 10/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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"Gandalf fronteggia il Flagello di Durin" - Dipinto di Erminia A. Giordano per CineHunters
  • Attraverso l’acqua e le fiamme

Quand’erano innevate, le Montagne Nebbiose somigliavano ad una vasta distesa canuta, un candido manto che ornava l’azzurro del cielo. Non tutti appellavano le Montagne Nebbiose in tal modo. Alcuni prediligevano soprannominarle Torri Brumose, poiché erano alte, slanciate come imponenti pinnacoli, e massicce come torrioni fortificati. Su quelle vette regnava un assoluto silenzio. Ad una tale altitudine nulla turbava mai il laconico sereno della natura. Un giorno, però, l’eco di un conflitto scosse la placida alba. Urla intimidatorie e versi frastornanti irrompevano dal profondo, frantumando lo spessore delle rupi. Una battaglia stava infuriando nel ventre della montagna, nell’oscuro subbuglio dell’antico reame di Moria.

Al principio de “Il Signore degli Anelli – Le due torri”, la cinepresa di Peter Jackson sorvola una catena montuosa, osservando la stessa con astratta ammirazione, ed eternando la bianca appariscenza della coltre di neve adagiata sulle grandi cime. Tuttavia, il regista non può soffermarsi a lungo ad immortalare quel paesaggio fantastico, poiché il clamore del combattimento richiama ineluttabilmente la sua attenzione. Il cineasta orienta, dunque, il proprio sguardo impassibile sul fianco del massiccio roccioso, sino ad oltrepassare la spessa materia e a giungere presso il ponte di Khazad-dûm.In quei vasti antri si estendeva l’arcaico reame nanico. Le grida di dolore, di resistenza, che filtravano forti, varcando i confini delle miniere, erano quelle di Gandalf, prossimo a sacrificare la propria vita per arrestare l’avanzata del flagello di Durin.

Questo mostro d’origine antica dimorava negli oscuri cunicoli delle montagne. Ivi dormì per millenni fin quando il loculo pietroso che serbava il suo sonno non fu spalancato. I nani di Moria scavarono a fondo con avidità e ingordigia. Infrangendo la pietra, solcando la roccia, i Lungobarbi erano soliti rinvenire un prezioso metallo: il mithril. Con questo raro minerale i nani forgiarono i cancelli occidentali del regno. Gandalf scambiò quell’argento rifulgente per ithilden quando raggiunse le mura di Moria, al culmine della sua vita terrena. Il mithril costituì, per una moltitudine di decenni, l’inestimabile tesoro della grande città di Nanosterro. La bramosia di recuperare più Argentovero portò i figli di Aulë a condurre i loro scavi sempre più in profondità. Nel buio, disseppellirono un terrore innominato. Dapprima, essi videro una grande ombra all’interno della quale si stagliava una figura intrisa di fuoco. Occhi rossi si dilatarono d’improvviso, una fiamma si levò alta formando una folta criniera, rossa e giallastra, sul volto occultato dell’essere. Due masse nebulose simili a delle enormi braccia si mossero, e materializzarono una spada fiammeggiante.

Qualcuno, un tempo, disse che la scoperta, più spesso di quel che si creda, non possiede nulla d’eccezionale. Essa è una penetrazione attiva che distrugge ciò che esplora, e non è altro che uno stupro perpetrato su di una vergine realtà. Nell’esplorare ogni angolo remoto della montagna e nel voler giungere sino al cuore buio della stessa, i nani compirono la loro più grande e terrificante scoperta. Ridestarono un male atavico ed arcano, dileguatosi nelle atroci memorie di un’era oscura, in cui Morgoth mosse guerra contro i Valar. Il Balrog fu una scoperta infausta, adempiuta per un desiderio d’irraggiungibile sazietà, che distrusse la pace di una natura irrimediabilmente contaminata. Quando le fiamme del demone tornarono ad accendersi, rosse e spaventose, i nani furono decimati. Moria divenne un sepolcro smisurato, in cui l’Ainu immondo poté risiedere per innumerabili lustri. La punizione per l’avarizia dei Lungobarbi si espletò in quel momento. Quel Balrog, come tutti i suoi simili, era un Maia, un essere d’origine divina. I Balrog vennero sedotti da Melkor ed assunsero, una volta discesi su Arda, l’aspetto di demoni avvolti nel fuoco più intenso ed inestinguibile.

Quando Tolkien concepì i Balrog richiamò a sé, nuovamente, l’elemento narrativo della corruzione angelica. Tolkien trasse più volte ispirazione dal racconto biblico per stilare la cosmogonia del proprio universo fantastico. I primissimi figli di Eru, il Dio della mitologia Tolkieniana, furono i Valar. Tra essi, Melkor si distinse come il più potente. Egli cominciò a covare, ben presto, desideri oscuri, e scelse di ribellarsi al suo Creatore. Nelle credenze cristiane, Lucifero risultava essere il più bello e splendente degli arcangeli. La sua magnificenza veniva espressa, anzitutto, dal suo nome, il quale soleva significare “portatore di luce”. Sul volto di Lucifero calò sin da subito l’oscurità e la sua mente si fece nera. Egli si ribellò al volere di Dio, considerandosi superiore a Lui. Sia Lucifero che Melkor, una volta discesi sulla Terra, seminarono il male nel Creato. Entrambi verranno conosciuti con appellativi nuovi e tanto differenti: Lucifero, stando alla tradizione cristiana, diverrà Satana, Melkor, negli scritti del Professore, Morgoth.

Deturpati dalla malvagità del loro Signore e padrone, Morgoth, i Balrog assunsero fattezze demoniache, passando da esseri celestiali a creature infernali. Dai corpi mortali su cui si incarnarono fecero esacerbare il fuoco avvampante. I Balrog sono “angeli dannati” e sembrano promanare sulla Terra le fiamme degli Inferi.

Quando i 9 viandanti affrontarono le lunghe tenebre di Moria intravidero in lontananza il fascio di luce infuocata effuso dal demone. Al suo manifestarsi, gli orchi di Moria fuggirono terrorizzati. Non appena Gandalf identificò quel guizzo di fulgore con la denominazione di Balrog, l’occhio di Jackson si soffermò sul volto atterrito di Legolas. Non una scelta casuale. Il figlio di Thranduil, come tutti gli elfi, aveva memoria del devastante potere di quell’entità. Dinanzi alla compagnia dell’Anello, il Balrog emerse dalle fiamme e ruggì. Il mostro bruciava senza consumarsi e, poggiando gli arti inferiori al suolo, faceva sì che un fumo nero esalasse sino a disperdersi nel nulla. Gandalf fece precipitare la tremenda creatura nel baratro, ma essa non si dette per vinta. Brandì la frusta incandescente ed afferrò la gamba dello stregone, trascinandolo nell’abisso. Tutto sembrò ripetersi ma qualcosa, all’inizio de “Le due torri”, cambiò. Gandalf non scomparve, esanime, nell’oblio, come mostrato ne “La compagnia dell’Anello”. Non appena Mithrandir lasciò la presa, la musica si fece alta, il ritmo avvincente. La camera di Jackson si tuffò nella voragine e seguì la caduta del fu Olórin. Il sipario sul fato di Gandalf non era ancora calato. Jackson, nel primo capitolo della trilogia, dovette congedarsi in fretta dallo stregone. Non poté trattenersi, volle seguire la fuga della compagnia dalla miniere, e catturare la disperazione dei loro pianti. All’inizio del secondo capitolo, Jackson decise di tornare indietro, per render più chiaro il destino di Gandalf. Il grigio pellegrino precipitò nel vuoto, riafferrò la spada e proseguì il combattimento con questo titanico nemico.

Il Balrog cadde dal suo regno verso una voragine inesplorata, esattamente come accadde a Lucifero, gettato giù dalla volta celeste. Le ali del Balrog, per come sono state rappresentate nella pellicola, mi riportano alla mente le ali angeliche dello stesso Lucifero, così come egli venne dipinto da Gustave Doré. Su quella "tela", Satana precipita dal cielo stellato, abbandona la fulgida luce di Dio per addentrarsi nella dimensione terrena.

Il fuoco propagato dal Balrog illuminò il buio. Gandalf trafisse più e più volte l’epidermide rovente del demone. I due terminarono la loro caduta su di un lago sotterraneo che smorzò il calore dell’essere. Al contatto con l’acqua, il flashback ebbe fine e Frodo si risvegliò. Era tutto un sogno del mezzuomo, o invero una visione onirica ma veritiera di ciò che effettivamente accadde. Perché Frodo vide in sogno la prosecuzione del destino di Gandalf? Di certo, perché il portatore dell’anello nutriva ancora dolore nel suo cuore, ma non solo. Frodo sentiva altresì il rimorso. Fu proprio lo hobbit a scegliere di valicare le Miniere di Moria. Quando Gimli, sul passo di Caradhras, incalzò con i suoi consigli, Gandalf, consapevole dei pericoli, lasciò la decisione finale al portatore. “Colui che porta l’anello decida!” – disse lo stregone. E lo hobbit rispose: “Attraverseremo le miniere!”.

Frodo, senza colpa, scelse l’unica via rimasta, il sentiero che avrebbe trascinato Gandalf nell’abisso. Lo Hobbit avvertiva un ingiustificato senso di colpa, proseguì poi sull’impervio cammino con Samwise, quando entrambi intuirono d’essere seguiti.

"Gollum" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters
  • La pietà di Bilbo può cambiare il destino di molti

Sam ammise, scoraggiato, d’essersi smarrito. Sia lui che Frodo erravano incerti verso una meta che non riuscivano in alcun modo a raggiungere. Al calar della notte, una creatura denutrita e pallida si avvicinò. Quest’essere parlava tra sé e sé a voce alta, manifestando una rabbia mai sopita, un odio non svanito. “Ladri, ladri, ce l’hanno tolto, rubato!” – seguitava ad affermare tale viscida figura.

Frodo e Sam lo sorpresero di colpo e bloccarono Gollum a terra. I due hobbit sapevano d’essere osservati e attesero le tenebre per catturare quello scarno segugio. Gollum, per avere salva la pelle, offrì ai mezzuomini i propri servigi: giurò sul tesoro di guidare Frodo sino a Mordor. Gollum era un viaggiatore esperto e sapiente, un barcaiolo astuto ed un abile arrampicatore. Poche erano le destinazioni in cui non riusciva a giungere ed i luoghi in cui non poteva accedere.

La pietà di Bilbo cominciò ad indirizzare il destino di Frodo e dell’anello. I due hobbit, incapaci di raggiungere il Monte Fato da soli, troveranno nella cruenta personalità di Gollum un alleato sul loro tortuoso percorso. I tre viaggiatori verranno, nuovamente, braccati dai morti. Al guado del Bruinen, gli spettri dell’anello erano stati spazzati via dalle acque burrascose scatenate da Arwen. Tuttavia, essi non annegarono nella limpidezza del fiume ma riaffiorarono dal putrido dei loro residui. I Nazgul sovrastano, adesso, la cupola celeste in sella a fiere alate. Queste bestie dalle ali a guisa di pipistrello emettono versi stridenti che terrorizzano i poveri mezzuomini. I cavalieri neri scrutano come falchi tenebrosi gli acquitrini nel vano sforzo di adunghiare incauti viandanti. Gollum rammenterà a Sam che i “fantasmi dell’ombra” sono impossibili da uccidere e che non cesseranno mai di tallonarli. Volando nel cinereo del cielo, il Nazgul si dileguerà poco dopo.

Il passato di Gollum è impregnato di mestizia, d’orrore e di peccato. Il suo corpo minuto, e la sua fisicità emaciata, sofferente, consumata, esternano la deformazione della malvagità. Ancor prima che nella mente, egli appare mostruoso e terribile nel corpo. Gollum, un tempo, fu Smeagol, ma del suo passato “umano” non era rimasto che un debole pressappoco. L’anello aveva trovato Gollum cinquecento anni prima. Nel fondale del fiume Anduin, esso luccicava come una moneta d’oro dalla doppia faccia. Come un’esalazione tossica, l’Unico traviò la mente di Smeagol, curvò il suo corpo, impallidì la sua epidermide.  Soltanto un colore restò ben visibile in quel cadavere nomade: l’azzurro dei suoi occhi. L’anello divenne per Smeagol la sua unica ragione di vita. Egli vincolò a quel male la sua anima, e il suo corpo iniziò a deformarsi di pari passo alla malvagità che l’Unico riversava nel suo cuore. Similmente ad un personaggio della letteratura inglese, concepito dalla prolifica penna di Oscar Wilde, Gollum “vendette” la propria anima al peggiore dei mali. Ma se il personaggio dell’opera letteraria di Wilde, nonostante gli orrori commessi, riusciva a mantenersi giovane e attraente poiché una tela dipinta inorridiva al suo posto, Gollum non poté fare altrettanto: ogni suo peccato, ogni sua torbida azione, ogni sua oscura e tormentata contemplazione all’anello finì per deturpare sempre di più il suo corpo. Smeagol divenne l’orripilante Gollum, e la sua disgustosa fattezza fu la testimonianza della sua contaminazione. Col passare del tempo, Gollum sviluppò una doppia personalità. Iniziò a parlare da solo, a dialogare animosamente con se stesso, come se al suo interno si celassero due persone diverse e ben distinte. Gollum patisce quella che sembra essere un’astrusa ed enfatica schizofrenia. Due caratteri, differenti, oscillanti tra passato e presente, dilaniano la coscienza dell’essere: Smeagol e Gollum. Pertanto, egli si rivolge a se stesso usando il plurale. Non tollerando più la luce del Sole e della Luna, Gollum si nascose nelle caverne.

La Luna, quando è al suo ultimo ciclo, giace nel cielo tonda e opalina e simile a una moneta. Gollum non riesce a sopportare i raggi che da essa “scintillano”. Egli menziona quel corpo celeste, bianco e solitario, tra i versi di una delle sue bizzarre filastrocche: “Fredda è la mano, le ossa e il cuore. Freddo è il corpo del viaggiatore. Non vede quel che il futuro gli porta quando il sole è calato e la luna è morta.”

La luna piena è uno spicciolo tondo. Un antagonista dei fumetti DC Comics osò paragonare la luna ad un gran dollaro d'argento lanciato da Dio, caduto nel firmamento con la faccia segnata all’insù. Harvey Dent, come Gollum, soffre una dualità schizofrenica. Il suo volto disgiunto a metà, ustionato su di un solo lato, rappresenta la suddivisione della propria personalità, sospesa eternamente tra bene e male. In un mondo governato dall’ingiustizia, “Due Facce” ha trovato nella propria moneta d’argento l’unico giudice imparziale. Tale moneta non è come tutte le altre, essa possiede una particolarità che la rende speciale. Non ha una testa ed una croce bensì due teste: una integra e l’altra sfregiata dallo stesso Dent. Lanciando tale moneta, Harvey affida alla sorte l’esito di qualsivoglia scelta. In quell’oggetto, confluiscono le due personalità di Due Facce, così come nell’Unico Anello si congiungono le due nature di Gollum. Sebbene siano personaggi notevolmente differenti, entrambi hanno affidato le loro intere vite ad un “gingillo luccicante”, rimirando lo stesso con totale devozione. Harvey in quella moneta ha rinvenuto il suo futuro, Gollum, invece, mediante l’Anello ha subito la propria sventura.

Gollum odia e ama l’anello esattamente come odia e ama se stesso.

  • Al mutare della marea

Aragorn volge l’orecchio alla nuda roccia e ascolta, inerte, il suo fievole parlato. Il suono recondito prodotto dalla terra guida il ramingo. “Affrettano il passo” – egli dice – “ci devono aver fiutati. Presto!” conclude poi.  Gli orchi corrono come destrieri imbizzarriti, aizzati dai colpi di frusta. Aragorn riesce a carpire il rimbombo del loro “galoppare” e sente che essi si stanno allontanando. Grampasso, Legolas e Gimli stanno proseguendo l’inseguimento per ritrovare un drappello di Uruk-hai. I tre spingono la loro ricerca sino alle verdi praterie di Rohan, la dimora dei Signori dei Cavalli. Raggiungeranno, in seguito, la foresta di Fangorn, luogo in cui si persero le tracce dei due mezzuomini.

L’uomo, l’elfo ed il nano varcano con timore la soglia della boscaglia. La foresta, così come rappresentata nel lungometraggio, appare plumbea; i raggi del sole riescono appena ad infiltrarsi tra il groviglio di rami. Quegli alberi alti e robusti, dotati di un poderoso apparato radicale si estendevano prepotentemente nell’intimità velata del terreno. Foglie rattrappite ricoprivano i tronchi, e piante appassite giacevano al suolo, cupe e tristi. Quella foresta era molto vecchia e malata. Echeggiavano versi provenienti dal suolo freddo, che si disperdevano nell’aria. Gli alberi dialogavano tra loro, facendo sì che dalle fronde fluisse un’eco di dolore e di collera. Fangorn era stata ferita, maltrattata, e le creature viventi della foresta erano cresciute incupite e torve. Avviluppati dalla densa vegetazione, Aragorn, Legolas e Gimli scorsero un viatore, dalla veste chiara come albume, vagare nel verde fiacco ed esangue della flora di Fangorn. Essi agirono in fretta, scambiando il bianco viandante per Saruman, e lo attaccarono. Questi respinse quelle rapide incursioni e si arrestò. Una rifulgenza accecante contornava il suo volto, facendolo risultare invisibile. Allora cominciò a parlare, confessando ai tre di sapere cosa stessero cercando. Aragorn, allora, gli chiese dove fossero i due giovani hobbit, e questi gli rispose che ambedue erano passati da quei luoghi giusto due giorni prima e che adesso si trovavano al sicuro.

Nell’opera filmica di Peter Jackson, l’ignoto stregone, avvolto da un bagliore raggiante, è indistinguibile nell’aspetto quanto nel parlato. La sonorità con cui egli si esprime è, invero, l’unione di due emissioni di voci. Il misterioso pellegrino dialoga con il timbro vocale di Saruman ma presto muterà nell’intonazione, come un’onda agitata che si infrange sulla riva e fa ritorno più leggera e quieta. La voce di Saruman si mescolò alla voce di Gandalf per poi essere del tutto sgominata. Quando la luce si dissolse, Gandalf apparve ai suoi vecchi amici ed essi s’inchinarono al suo cospetto.

Sul picco dell’Argentacuspide, Gandalf combatté col Balrog e lo uccise, scagliando la sua carcassa sul fianco della montagna. Dopodiché, il grigio stregone si distese a terra e morì. Calò l’oscurità ed egli errò fuori dal tempo e dallo spazio. Una luce lo avvolse e così riottenne la vita. Lo stregone grigio rinacque come Gandalf il bianco.

Gandalf ha assunto le vesti ed il ruolo del signore di Isengard. Egli tornò sulla Terra e sostituì il suo vecchio amico, oramai divenuto un pericoloso avversario. Mithrandir “prese” la voce di Saruman e la modellò alla sua, “trasse” la bianca tunica e la indossò, rendendola ancora più luminosa, ghermì un nuovo bastone, anch’esso bianco. Gandalf divenne ciò che Saruman doveva ma non fu mai. Ecco perché nell’adattamento cinematografico di Peter Jackson, Gandalf il bianco, al suo principio, parlò con una voce ancora indistinta e miscelata a quella del suo “predecessore”, Saruman, poiché egli era barlume divenuto carne, il nuovo stregone bianco.  Gandalf assunse i poteri e le mansioni che Saruman avrebbe dovuto possedere e svolgere.

L’evento portentoso e mistico della resurrezione viene esteriorizzato dalla rinascita di Mithrandir. Gandalf morì e risorse, fu rimandato sulla Terra a terminare il suo compito, a riportare la luce e la speranza in un mondo che stava cadendo preda dell’oscurità più torbida. Con l’apparizione di Gandalf, il quale errava qua e là con le fattezze di un vecchio con mantello e cappuccio, si compì un miracolo religioso che manifestò il potere degli esseri divini che vegliano su Arda. Gandalf, ricomparso nella Terra di Mezzo, vagava solitario come Cristo uscito dal sepolcro della morte. Egli attese il momento in cui i suoi più fedeli alleati e discepoli poterono intravederlo, così da rivelare la compiutezza di un prodigio: il ritorno all’esistenza. Gandalf è adesso divenuto il più potente tra gli Istari, il custode più valoroso della pace. Il chiarore dei suoi indumenti emana la purezza del bene assoluto, la trasparenza dell’incontaminato. Gandalf il bianco non è più un vagabondo dal cappello a punta che gironzola per i paesaggi verdeggianti, vigile e felice. Egli è adesso un guardiano ed un guerriero, la cui sola missione è quella di sconfiggere Sauron. Lo stregone non giacerà più sulla Terra per goderne le gioie, gli affetti, le amicizie e le bellezze, ma permarrà su di essa fino a quando potrà, fino a che il male proveniente da est non dovrà più essere contrastato perché definitivamente sbaragliato.

Ian Mckellen, eccelso interprete, caratterizzò Gandalf il bianco differentemente dal grigio pellegrino. Gli diede un’aura solenne, maestosa, infondendo al personaggio un carattere maggiormente inflessibile, meno comprensivo rispetto al passato ma ugualmente buono e prodigo.

Gandalf informa di tutta fretta i tre guerrieri circa il triste destino a cui è andato incontro Théoden, re di Rohan, soggiogato dal veleno effuso da Saruman. I quattro si dirigono, così, ad Edoras. Prima di lasciare Fangorn, Gandalf confida, cripticamente, ad Aragorn che la presenza di Merry e Pipino nella foresta sarà d’ausilio nel ridestare la forza degli Ent.

  • I Pastori degli Alberi

Quando uno strepitio d’imprecisata fonte risuonò dal bosco, Merry volle ricordare a Pipino una diceria bislacca udita tempo prima. Nell’antica selva, sita ai confini della terra di Buck, c’era qualcosa nell’acqua – rammentò lo hobbit – qualcosa d’insolito, di magico, per cui gli alberi che in quei luoghi si “abbeveravano”, cominciavano ad allungarsi a dismisura e a prendere vita. “Vita?” domandò a quel punto Pipino. Curioso quanto viene detto in questo scambio di battute dai piccoli hobbit. Cosa voleva intendere Merry quando affermò, stupefatto, che gli alberi “prendevano vita”?

Non sono forse sempre vivi gli alberi? Se asportassimo un frammento di corteccia, vedremmo il colore e la consistenza della linfa che scorre come sangue nelle vene. Tale linfa rappresenta la loro vitalità e ci permette di capire il loro effettivo stato di salute. Gli alberi sono vivi anche se non lo danno mai a vedere. Essi giacciono pacifici, ancorati al suolo come figli silenti della terra. Merry era conscio della vigoria che anima lo spirito astratto e laconico degli alberi, pertanto con quella sua osservazione voleva intendere altro. Gli alberi dei boschi di Buck “prendevano vita” perché cominciavano a sussurrare, a parlare, persino a muoversi. Divenivano, così, esseri straordinari, dotati di movimento, di parola, d’intelligenza: diventavano “vivi” a tutti gli effetti, o perlomeno “vivi”, così come noi esseri umani siamo soliti, nel quotidiano, intendere un essere vivente: una creatura che agisce, pensa, si esprime. Quando un qualcosa si muove è vivo. E’ questo un concetto semplice, elementare, piuttosto sottinteso. Ma se qualcosa non si muove e rimane rigido, irto, statico, può essere ritenuto ugualmente vivo? Certamente, se lo è. Eppure, gli alberi, nella loro sosta eterna, nella loro incapacità di opporsi, di insorgere, di muoversi, non sempre vengono ricordati come vivi da chi, verso di loro, muove violenza.

L’albero è imponente e, al contempo, impotente. Se osassimo incidere ancor più in profondità, tagliare i suoi rami, profanare l’integrità del suo tronco, esso soffrirebbe ma nessun grido di dolore echeggerebbe dalla sua florida costituzione. L’albero, qualunque esso sia, a qualsivoglia specie appartenga, non ha voce, non ha moto, non ha reazione. Esso è immobile come una scultura, eppur vivo come un essere umano. Soffre un mutismo sebbene riesca a comunicare con l’eloquente apparenza del proprio verde. Gli alberi possiedono sembianze umane solo dinanzi agli occhi di chi riesce a scorgerle e a rispettare la loro sensibilità e la loro senziente coscienza. La massa legnosa del “corpo” di un albero è una scorza resistente, un’epidermide rigida ma anche tenera, fragile, vulnerabile, feribile. Le escrescenze erbose del torso di legno sono pelurie che rivestono la struttura portante. Nelle fronde sono celati i polmoni della creatura, e giù, oltre il sottobosco le radici si dipartono simili a arti multiformi e a piedi alquanto pronunciati. I rami, protratti sino al cielo, sono braccia lunghe con grandi mani e mille dita verdi. Gli alberi sono “persone” tacite e d’aspetto differente, non hanno lingua, cadenza, accento, non intrattengono alcun discorso, non avanzano, non lasciano il proprio posto, la propria casa, permangono fermi, silenziosi come una natura che osserva e che accoglie. 

Tolkien era innamorato degli alberi, delle piante, dei prati, dell’ambiente puro e limpido. Quando creò gli Ent volle dare finalmente movimento e voce alla natura. Per volere del Professore gli alberi assunsero movenze e gesti, cenni e dialetti. Essi erano sempre stati vivi, ma, visto che l’uomo non riusciva a considerarli tali e a custodirli come avrebbe dovuto, Tolkien partorì nei suoi lavori i Pastori degli Alberi, esseri dotati di movimento, difensori delle foreste. Se gli uomini avessero letto di un albero capace di vagare e parlare, avrebbero ricordato come essi siano in realtà vivi, soprattutto quando giacciono diritti e fermi. Per mezzo degli Ent, Tolkien cercò di evocare la morale dei lettori sul rispetto assoluto verso madre natura.

  • Barbalbero

Così come realizzato nel film, Barbalbero è un essere antropomorfo, con due gambe e due braccia, con un volto e dotato di voce propria. Ha i “connotati” di un uomo ciclopico intagliato nel guscio di un tronco ed incarnato nel tegumento di un albero.

Pipino montò su di un ceppo e da lì sul fusto. In alto, vide due pupille schiudersi nell’albero. Sconvolto, il mezzuomo si lasciò cadere giù e fu acchiappato appena in tempo dal misterioso essere. L’Ent si era svegliato in quell’attimo e con le braccia raccolse i due hobbit, reggendoli senza fatica. Due occhi tondi come una pietra levigata e profondi come un pozzo colmo di storie e di memorie abbellivano un volto legnaceo. Attorno alla bocca, scavata nel coriaceo ligneo, vi erano dei baffi di lichene e giù dal mento fibroso una barba folta color del muschio.

Gli Ent sono pastori di un immenso gregge, immobile, costante. Essi sono guardiani di un giardino sconfinato che cresce spontaneo ed indifeso.

Barbalbero è antico come la prima alba sorta sulla foresta ed il primo crepuscolo disceso su essa, ed in quanto manifestazione pensante e dinamica del bosco, egli conserva, tra le sue conoscenze, ricordi antichi, sapori vetusti. Egli fa della calma l’esteriorizzazione del proprio essere. Gli Ent serbano nei loro ramoscelli e nei loro tralci le orme di un’esistenza millenaria. Il loro linguaggio, così come mostrato durante l’Entaconsulta, è compassato, poiché la lingua conserva in sé l’evoluzione del parlato, del cambiamento, dell’accadimento. Tutti gli Ent si esprimono lentamente, come se dalle loro parole lasciassero trapelare la quiete di secoli e secoli di natura immutata. Ciascun concetto per gli Ent va espresso con estrema pazienza. Così come mai dev’essere accelerato un percorso di crescita vitale, nulla dev’essere affrettato, tanto meno l’atto comunicativo. Per far sì che da un seme sorga una pianta, per far sì che da una ghianda maturi una quercia, è necessario un tempo opportuno. Ogni cosa si compirà al momento appropriato, quando lo sviluppo avrà fatto il suo corso. Il linguaggio stesso, per la sua consistenza e plasmabilità, progredisce come una pianta nata da un germoglio dissetato dalla fresca acqua e cullato dal caldo sorriso del sole. Gli Ent, similmente agli hobbit, amano tutto quello che cresce sano e rigoglioso, e le parole, per loro, equivalgono a sementi di stagione.

Sebbene gli Ent siano flemmatici, indolenti, miti, essi rappresentano la forza arcana e indomita della natura, la rivalsa sull’indifferenza degli apatici e sulla crudeltà degli avidi.

Barbalbero dirà di non essere dalla parte di nessuno circa il conflitto tra Sauron e i popoli liberi della Terra di Mezzo, poiché nessuno ha mai dimostrato d’essere dalla sua parte. Tolkien, in uno dei suoi più celebri aforismi, ammise d’essere sempre stato dalla parte degli alberi, dalla parte della natura, dalla parte della purezza. Nonostante Barbalbero non ne sia a conoscenza, egli ha nel proprio “creatore” il più grande alleato.

  • Tra le fiamme dell’industria

Differentemente dagli Ent, Saruman non apprezzò mai ciò che cresce naturalmente. Egli preferì ammirare una forma di vita mutilata, rovinata, terribile. Nei sotterranei di Isengard, Saruman incrociò gli orchi con i goblin, protrasse la moltiplicazione dissennata degli Uruk-hai. Le fiamme incendiarie delle sue fornaci devastarono le appendici della foresta. Nel sottosuolo, l’industria voluta da Curumo crebbe in potenza. Il bianco dello stregone parve dissolversi del tutto, avvicendato da un invisibile carminio, il colore del fuoco divorante.

Saruman è divenuto una macchina contorta, un automa col cuore fatto d’ingranaggi, un burattino ferroso dalla mente cosparsa di congegni meccanici. Curunír mira coi suoi occhi, impossibili da scandagliare, la fabbrica bellica da lui edificata. Saruman ha indirizzato le proprie arti magiche verso un potenziamento della tecnologia. I rami ed i tronchi sono stati arsi per alimentare le fucine da cui vengono fuori scudi imponenti, lame d’acciaio, armature impenetrabili. La natura è stata conseguentemente violata per generare risorse letali. La saggezza dello stregone viene prestata a fini guerreschi e così egli forgia, grazie alla sua sapienza, una polvere tanto potente da disfare la pietra, se raggiunta da fiamme. Ecco come Tolkien e Jackson introducono nelle loro rispettive opere la “magia” prestata alla scienza.

Come un moderno Alfred Nobel, Saruman creò un’arma pericolosa e fatale. Nobel inventò la dinamite con dei buoni propositi, credette, infatti, che essa sarebbe stata usata per fini pacifici, per alleviare la fatica, per asciugare il sudore dalla fronte degli uomini, facilitando gli scavi, aprendo varchi per le esplorazioni. Ma poco andò come davvero aveva previsto l’ignaro inventore: l’esplosivo fu presto adoperato come un’arma potentissima. Piuttosto che per costruire, la dinamite fu usata per distruggere. Saruman, sin dall’inizio, usò la sua polvere come un espediente militare, utile per aprire brecce e facilitare l’avanzata dei suoi schieramenti.

Il vecchio mondo brucerà” – per volere di Saruman, tra le fiamme dell’industria guerrafondaia, la Terra si sarebbe consumata, la natura sarebbe stata annientata dall’avanzamento tecnologico promulgato dallo stregone caduto.

Saruman rappresenta il potere oscuro che incrementa la tecnica, annullando ogni quesito morale sul suo utilizzo. Gli Ent che si rivolteranno a lui, testimonieranno, invece, l’insorgere della natura sul ferro e sul fuoco.

Lo stregone crede ingenuamente d’essere per Sauron un alleato di pari levatura. E’ questo l’unico aspetto debole della personalità del personaggio ritratto nel film. Saruman, nel libro, vuole infatti ottenere l’anello per sé, ingannando persino il sire di Mordor. Nella trasposizione cinematografica questa particolarità del suo piano e del suo ragionamento non è menzionata. Così facendo, Saruman, piuttosto che elevato ad astuto stratega, viene leggermente ridotto a mero sottoposto.

  • Il re incupito

Sedeva sul trono del Mark un sovrano reso degente e vegliardo. Rugosa era la faccia di Théoden, grigia la barba, defesso il suo animo. Il monarca restava prono su di un regale seggio, del tutto assuefatto ai sinistri vaneggi del suo consigliere, Grima Vermilinguo. Nel film “Le due torri”, Grima striscia fuori da una “tana” ombrosa, vestito con un abito scuro, portandosi al fianco del re. Subdolo nel carattere e ambiguo negli atteggiamenti, Grima è un serpente che inietta veleno nella mente del suo sovrano. Vermilinguo è al servizio di Saruman, e ha fatto in modo che il re si sottomettesse inconsciamente alla magia oscura e possessiva dello stregone, così da condurre il regno di Rohan alla distruzione. Grima simboleggia l’infido traditore, colui che trama alle spalle e fa delle parole armi taglienti come lame, in grado di mistificare la realtà e ottenebrare l’assennatezza.

Éowyn, la giovane nipote di Théoden, è sempre più stanca, triste, ed impallidita. Ella vede la strada che sta snocciolandosi sotto i suoi piedi e patisce un triste fato. Éowyn sta appassendo come un fiore reciso, abbandonato, senza più nessuno a prendersi cura dei petali e della corolla. Ella si sta spegnendo come una fievole luce soffocata dall’arrivo di una nuvola grigia che porta con sé un fortunale. Éowyn corre via dal suo castello, tramutato in un’angusta prigione, per respirare un’arida aria. Lei che temeva la gabbia ancor più della morte, la reclusione ancor più della sofferenza fisica, che paventava la possibilità che i sogni diventassero aspettative irrealizzabili, attese futili, illusioni dimenticate dall’avanzare dell’età… lei che aveva paura che la speranza svanisse nell’oblio, trascinando con sé la gioia di vivere, la libertà… proprio lei si era appena resa conto che già stava vivendo in una sorta gabbia, sia pure ampia come un regale palazzo, ma tremendamente disagevole come una cella.

Fu l’arrivo di Aragorn a ridarle speranza, a farla sentire nuovamente affrancata. Quando ella uscì e si fermò sulla soglia, la bandiera della casata del re di Edoras si staccò dalla sua asta e venne sospinta dal vento. Aragorn vide quell’araldico volteggiare sino a lambire l’erba, come un segno rovinoso caduto dal cielo. La gloria di Rohan stava venendo meno, è ciò che testimonia tale vessillo strappato. Gandalf arriverà al momento propizio. Con la sua magia estirperà il veleno di Saruman. Théoden tornerà forte, ben più giovane e scaccerà Grima dal suo dominio, non prima di aver tentato di giustiziarlo. Aragorn lo farà desistere dai suoi vendicativi propositi, rammentando al re la pietà dei saggi sovrani.

La speranza è arrivata a Rohan: furono Estel ed i suoi compagni a portarla. Théoden ed Éowyn, schiavi di un’infausta sorte, riotterranno la libertà. Lo stendardo dei Signori dei Cavalli potrà tornare a sventolare alto nel cielo.

Non tutto, però, è stato salvato. Théoden ha perduto suo figlio. Un evento innaturale si è verificato: un padre è sopravvissuto al proprio erede. Théoden comprende i tempi oscuri che si stanno abbattendo sull’immediato futuro della sua gente. I giovani periscono, ed i vecchi resistono. Come si è giunti a questo?

  • Il sogno di Aragorn, l’incubo di Arwen

Cosciente che la minaccia di Isengard piomberà sull’esigue difese dell’Isen, Théoden ordina ai suoi uomini di dirigersi al Fosso di Helm. In quella gola, barricati dentro le fortificate mura della roccaforte, la gente di Rohan sarebbe riuscita a sopravvivere.

Aragorn, Legolas e Gimli guidano la popolazione fino al Fosso. Gandalf, invece, partirà alla ricerca di Eomer e dei suoi soldati. Durante il tortuoso cammino verso il Trombatorrione, essi vengono attaccati dai mannari selvaggi. Aragorn verrà spinto giù da un precipizio, e si infrangerà contro l’acqua del fiume.

Il figlio di Arathorn verrà dondolato dalle correnti sino a che, inerme, raggiungerà la fredda sponda. Il ramingo, dormiente, sognerà la sua amata, ed il bacio di Arwen lo ridesterà dallo sturbo. Aragorn ripensava costantemente alla splendida dama. Quando percorreva l’impervio sentiero verso il Fosso di Helm, egli rimembrò un momento idilliaco trascorso. Disteso su di una morbida coperta, Aragorn giaceva tra il sonno e la veglia. Arwen gli si avvicinava al volto e lo baciava dolcemente.

Aragorn si alzò poco dopo, e strinse Arwen a sé. Ella indossava una veste azzurra come un cielo terso. Ambedue sostavano vicino agli alberi. Le foglie gialle e vizze venivano ondulate da un soffio lieve come un sospiro. Era quella la quiete di una natura stanca che avvolgeva i due innamorati. Quello fu un giorno sereno, l’ultimo prima della partenza. Aragorn era felice ma spossato; fosche preoccupazioni gravavano sulla sua mente. Arwen volle dargli nuova speranza. Gli disse che se non si fosse fidato di niente, avrebbe dovuto fidarsi soltanto di una cosa. A quel punto, ella allungò la mano e toccò la Stella del Vespro che Aragorn portava al collo. La gemma ammantava di un fulgido bagliore vicino al cuore del ramingo. Arwen proseguì a parlare con voce soave - “Fidati di questo, fidati di noi” - disse la fanciulla. Aragorn baciò la sua adorata, e le carezzò il volto, dapprima lievemente. Egli mantenne le mani vicino al viso della ragazza, come se a stento riuscisse a toccarla, tanto morbida e leggiadra era la sua essenza da non poterla sfiorare senza il timore di scalfire la sua cristallinità. Poi, Aragorn la carezzò, baciandola con passione.

Arwen è un pensiero confortante, un desiderio che motiva, una percezione rinfrancante che conforta lo spirito inquieto di Aragorn. Nel suo viaggio, l’erede al trono di Gondor seguiterà sempre a fidarsi di un sogno, ad aggrapparsi ad una speranza radiosa qual è la sua Arwen. Rammentando il recente passato, Aragorn penserà al momento in cui dovette dire addio alla dama di Gran Burrone, persuadendola a lasciare la Terra di Mezzo per seguire la sua gente verso l’ultimo viaggio per le terre immortali. Aragorn rivela così di perseguitare a combattere, tollerando un dolore interno, lacerante. Egli crede che Arwen sia andata via, lontano, e che mai più la rivedrà. Ecco che l’amore di Aragorn è assoluto poiché continua a restare imperituro nonostante non vi sia più la certezza, neppure la flebile possibilità, di rivedere davvero la sua adorata. Aragorn sogna Arwen nel momento in cui è gravemente ferito perché qualunque cosa avverrà mai, qualunque ferita subirà, egli resterà eternamente innamorato, eternamente fedele. Arwen è il sogno perpetuo di Aragorn, la sola immagine che possa allietare la visione di una drammatica realtà. La speranza emanata dal ricordo di Arwen è per Aragorn una fiamma che alimenta il suo ardore, sia che il suo sogno possa realizzarsi sia che resti un gradevole ricordo. Aragorn riapre gli occhi d’improvviso, dopo aver ricevuto l’impercettibile bacio dell’elfo femmina.

Nel frattempo, Arwen riposa, sdraiata, e riflette su Aragorn. Raggiunta dal padre, Arwen manifesta la sua volontà di non voler andare via. Ella ha ancora speranza, e attende il ritorno del re.

Elrond non vuole che la figlia s’intrattenga nella Terra di Mezzo, poiché crede che la morte perverrà sul futuro dei popoli liberi. L’elfo ricorda alla figlia che lei ed il suo amato saranno per sempre divisi. Se Sauron dovesse essere sconfitto e se la pace dovesse ristabilirsi, nulla muterà. Che sia per spada o per il lento sgretolarsi del tempo, Aragorn morirà. E’ l’invalicabile dono pervenuto tra le mani dei mortali.

Arwen volge i propri occhi grandi e belli come una lacrima di rugiada verso l’orizzonte, rimirando l’inevitabile. Il futuro, per quanto distante esso sia, si avvererà. Aragorn soccomberà, il tramonto calerà sul suo viso lasso ed il sole non sorgerà mai più. Nulla le darà mai conforto. Aragorn cadrà, come un petalo staccatosi allo scadere dell’autunno, come una delle foglie avvizzite che circondavano Arwen ed il suo re durante quel magico momento rievocato dall’eroe.

Arwen, in questo incubo vissuto ad occhi aperti, vede se stessa con indosso un abito scuro, funereo, piangere inesorabile per anni ed anni, senza nulla a deliziare la propria mestizia. Ella verserà lacrime sulla tomba del marito. Il sepolcro di marmo su cui è stata scolpita la sagoma del monarca di Gondor sarà l’ultima effige dello splendore del più grande tra i Re degli Uomini, spentosi in gloria, senza macchia, prima del crollo del mondo, al fianco della sua venerata sposa. Arwen, allora, procederà sola, vagando nella foresta, con un velo nero a celare il suo volto affranto. Ella dimorerà solitaria nel gelo di un inverno senza termine, non avrà alcun fuoco a riscaldarla se non la calda carezza di una memoria, il ricordo del suo sposalizio.

Arwen piange. Quello che ha vissuto, ascoltando le parole del padre, è stato un sogno oppressivo, contrapposto al sogno rifulgente fatto da Aragorn poco prima. Arwen sa che quell’incubo si avvererà e sconvolta dall’ineluttabile, decide di allontanarsi. La speranza si è affievolita. Elrond non sa però cosa sua figlia è disposta a fare. Arwen sarà decisa a rinunciare alla propria immortalità. Quando il declino della vita umana del suo amato sarà compiuto, morirà anch’ella. L’inevitabile si adempierà, ma entrambi, insieme, avranno vissuto una vita piena e appagata, ancor più valevole ed intensa poiché non perpetua ma soggetta a concludersi.

  • Un’occasione per mostrare le sue qualità

Frodo ha stretto con Gollum un rapporto di fiducia. Egli ha scelto di chiamarlo col suo nome originario, Smeagol, e vuol credere che possa essere redento. Frodo si illude, sebbene Smeagol dimostri d’essere cambiato. Sam è piuttosto restio a fidarsi della creatura, giudicandola ancora malvagia e fedifraga. Il nipote di Bilbo vede in Gollum una “persona” simile a lui, un essere che ha tollerato il fardello dell’anello. Per tale ragione, lo hobbit vuol provare a salvare Smeagol nella speranza che anch’egli stesso possa sottrarsi, un giorno, a questo male senza conseguenze. Dopo aver superato le Paludi Morte, i tre si dirigono verso un’altra via. Durante una sosta, vengono catturati da alcune guardie di Gondor capitanate da Faramir. Questi è il fratello minore di Boromir. Egli informa Frodo e Sam della morte del loro compagno, avvenuta pochi giorni prima nei pressi di Amon Hen. Nelle ore precedenti l’incontro con gli hobbit, Faramir scorse una barca elfica cullata dalle acque dell’Ithilien. Si avvicinò ad essa e intravide la sagoma, fredda e fiera nella sua posa, del fratello prima che scomparisse nella foschia.

Usufruendo di un lungo flashback, Jackson volle evidenziare il rapporto affettivo e di fiducia che esisteva tra i due fratelli. Quando Boromir riconquistò Osgiliath, tessette lodi nei confronti del proprio fratello al cospetto del padre. Tuttavia, Denethor disprezzava Faramir, reputandolo l’inetto pupillo di uno stregone. Faramir era infatti ben voluto da Gandalf il grigio e, a differenza di Boromir, più forte e valoroso in battaglia, si distingueva più come un lettore ed uno studioso che come un combattente. Ciononostante, Faramir era un eccellente guerriero ed uno scaltro arciere. Faramir non apprezzava i conflitti battaglieri. Sin dal suo esordio sullo schermo, egli si interrogò sugli obblighi che spingono un uomo a lasciare la propria casa per scendere in guerra. Faramir vide, infatti, il cadavere di un Haradrim appena ucciso, e si domandò se questi fosse davvero malvagio o fosse stato, invece, obbligato a muovere guerra. Appare evidente come Faramir sia un uomo riflessivo, ponderante, saggio e più meditativo del fratello. Tuttavia, il disdegno che il padre cova nei suoi confronti lo porta a rapire i due hobbit e a prendere l’anello per sé.

Denethor, infatti, convinse Boromir ad andare a Gran Burrone ed insinuò nella sua mente il desiderio di impossessarsi dell’Unico. Fu Denethor a ordinare a Boromir di portare l’anello a Gondor. Colto dal desiderio di voler assecondare il suo signore e di voler difendere il suo popolo Boromir impazzì e cedette alla tentazione. Denethor, in parte, condusse suo figlio alla pazzia. Faramir si propose per andare a Gran Burrone al posto di Boromir ma fu subito intralciato dal genitore che gli rispose: “un’occasione per Faramir, capitano di Gondor, di mostrare la propria lealtà.”, per poi negargli questa possibilità.

La frase che suo padre gli aveva riferito, Faramir la ripeté dinanzi agli hobbit. Ghermire l’anello e renderlo suo avrebbe dato a Faramir l’ammirazione sempre desiderata del padre. Ma il capitano di Gondor si rivelerà il più saggio dei suoi famigliari. Non cederà all’allettante occasione, lascerà che Frodo, Sam e Gollum vadano via, liberi di espletare l’arduo compito.

Faramir, osteggiato dal proprio padre, si rivelerà migliore di quanto questi abbia mai saputo.

  • L’ultima marcia degli Ent

I Pastori degli Alberi privilegiavano la pacatezza rispetto alla furente rappresaglia. Placidi, gli Ent albergavano, riservati, nella folta vegetazione. Barbalbero era irremovibile nella sua genuina ostinazione. Egli borbottò quanto segue: “questa non è la nostra guerra”. Come soli erano rimasti gli alberi, soli sarebbero dovuti rimanere gli uomini. Pipino ragionò attentamente dopo che Merry lo aveva bacchettato. Se il potere di Isengard non verrà sopraffatto, se una delle due torri non verrà smantellata, il mondo brucerà come un immenso cratere di fuoco e la Contea perirà. Peregrino Tuc escogitò a quel punto un arguto stratagemma, convinse, dunque, Barbalbero a recarsi a sud. Protrattosi sino ai confini di Isengard, Barbalbero vide, con raccapriccio, la deforestazione coronata dallo stregone, oramai scevro da alcun criterio. Barbalbero conosceva molte delle creature sradicate, sin da quanto esse erano poco più che noci o piccoli frutti. L’Ent non udirà più il loro canto trasportato dalla brezza sino ai meandri del bosco.

Con un urlo angosciato e collerico, il custode della foresta chiamò a sé i suoi simili.  I Pastori degli Alberi emersero dalla boscaglia, avanzando adagio per un’ultima marcia. I guardiani della natura muoveranno su Isengard, irrompendo sulla torre come la pioggia sulle rocce.

Dalla foresta, da tanto, si era levato un grido assordante eppur cheto, ma nessuno era riuscito fino ad allora a sentirlo. Gli alberi soffrivano, i cespugli si struggevano, le piante si lamentavano, i fiori penavano ma nessuno osò mai dar loro attenzione ed accogliere quella sommessa richiesta d’aiuto. La natura si destò da sola, poiché altri non vollero proteggerla. Gli Ent attaccheranno la valle di Isengard, disintegreranno le cavità del sottosuolo, ed espugneranno Orthanc stessa. Essi abbatteranno la diga e libereranno il fiume. L’acqua, come una valanga, ricoprirà il terreno, estinguendo le fiamme dell’industria. Quel torrente, come un diluvio benedetto, purificherà tutto. I rami spezzeranno gli scudi, i tronchi frantumeranno le spade, il verde smorzerà il rosso del fuoco, la natura domerà la tecnica. Saruman verrà vinto.

  • La battaglia al Fosso di Helm

Lo sguardo di Théoden ispeziona il nulla, adocchia lo stigio, erra nel dubbio. Il re di Rohan sa che gli eserciti di Isengard giungeranno alle prime ore della notte. Diecimila unità assedieranno una fortificazione difesa da 300 uomini a malapena. Théoden ha condotto la sua gente alla morte? Quante responsabilità può sostenere un comandante, una guida, un monarca? I sudditi affidano il futuro nelle mani del loro re, il quale deve sopportare il supplizio, l’asprezza di una grande responsabilità. Questa consapevolezza pietrifica il cuore e lo sguardo del sovrano. Théoden scruta la vacuità, e vede le tenebre della paura. Domanda al suo fedele Gambling se tutti si fidino del loro re. Gambling risponde che loro seguiranno Théoden verso qualunque sorte.

Théoden ne è al corrente. Le vite del suo popolo sono appese ad un filo, come il loro coraggio. Quanta forza è necessaria per proteggere un popolo indifeso? Théoden esprime, mediante il suo suggestivo monologo, le umane paure di un re.

"Lady Galadriel" - Illustrazione di Erminia A. Giordano per CineHunters

I tempi sono diventati bui, i giorni sono svaniti ad ovest, dietro colline insormontabili. Si è estinta l’era dei cavalieri, e nessun corno suona più. Nulla è rimasto, se non il crepuscolo che volge verso ovest. Mentre Théoden esplica a parole la tristezza di un tempo cessato, bambini innocenti reggono in mano asce e spade, volti spaventati vengono protetti da elmi, corpi tremanti da cotte e guaine. La gioventù di Rohan, costretta ad abbandonare il proprio candore, è chiamata alle armi, per affrontare l’asperità della battaglia. L’era degli uomini sembra essere finita. La lealtà dei vecchi cavalieri è venuta meno, sostituita dalla barbarie, dalla ferocia degli Uruk-hai. Chi ci ha condotto a questo? Cosa può l’uomo nei riguardi di un tale male? Gli uomini non possono fare altro che resistere e stringersi alla speranza, la luce che mai si spegnerà.

Elrond medita nella sua casa accogliente. La voce di Galadriel fiocca da lontano come neve bianca carica di un luminoso albore. La dama di Lórien non vuole abbandonare gli uomini, così sprona Elrond ad inviare un ultimo reggimento di guerrieri elfici. L’esortazione della custode di Nenya riaccenderà la speranza. D’un tratto, gli elfi di Gran Burrone annunciano il proprio arrivo con il distinto suono di un corno. Essi sono giunti numerosi ai cancelli del Fosso. Un’alleanza esisteva una volta e i primogeniti di Eru vogliono onorare tale antico patto. Quando la pioggia cadrà incessante, gli Uruk-hai occuperanno la vallata. Essi dibatteranno le armi, digrigneranno i denti aguzzi, prima di muovere verso le mura. Le frecce scagliate con rapida velocità dagli elfi arresteranno l’impeto della corsa ma soltanto per poco.

La battaglia al Fosso di Helm, una delle sequenze d’azione più spettacolari ed impressionanti della storia del cinema, mostrerà quanto nella storia di Tolkien la tenacia, l’audacia stessa, la voglia di non cedere alla foga del male siano elementi essenziali per esternare il coraggio degli uomini buoni. Messi alle strette, gli uomini, gli elfi, i nani, gli Ent, ciascuna delle creature modellate dall’inchiostro e dalla fantasia immaginifica di Tolkien paleserà un coraggio senza eguali per opporsi al potere tirannico. “Il signore degli anelli” è un’opera che esalta l’eroismo, l’altruismo, la magnanimità, l’alleanza tra specie diverse, accomunate dal desiderio di libertà e di pace. Poche possibilità di trionfare possiedono i guerrieri che contrastano la malignità di Saruman riversata sul Fosso di Helm, cionondimeno, sebbene siano così in minoranza, essi seguitano a resistere, a non sottomettersi, appellandosi alla flebile speranza che si tramuterà in un’inaspettata certezza.

Lo scontro al Fosso evidenzia, altresì, l’amicizia assoluta, profonda, incrollabile che lega Aragorn, Legolas e Gimli. I tre si spalleggeranno per tutta la durata del combattimento. Quando Aragorn e Gimli verranno circondati da lottatori Uruk-hai, fuori dalle mura violate, sarà Legolas a non abbandonarli. Lancerà loro una corda e li tirerà su, salvandoli. L’amicizia, la fratellanza, che unisce Aragorn, Legolas e Gimli sarà salda come un albero impossibile da sradicare.

Quando le ultime resistenze della fortezza cadranno, Aragorn e Théoden cavalcheranno verso le truppe nemiche, in un ultimo atto eroico per far echeggiare la gloria di Rohan. Il corno di Helm Mandimartello suonerà nel fosso, ed i cavalli ed i cavalieri cavalcheranno verso il nemico. I tempi bui non sono ancora giunti davvero, vi è ancora la luce del sole. Aragorn e Théoden, attraverso la loro cavalcata nobile e audace, mostreranno come i regali principi degli uomini non verranno mai scossi. “Dove sono il cavallo ed il cavaliere?” – Si domandava il monarca, eccoli laggiù, fuoriuscire dai portoni dell’edificio ed ingaggiare un’ultima sortita contro il nemico.

Gandalf arrivò né in ritardo né in anticipo ma precisamente quando aveva inteso farlo. All’alba del quinto giorno, Mithrandir sopraggiunse con Eomer ed i soldati rohirrim. La luce del sole accecherà gli Uruk-hai, i quali verranno sterminati. Un nuovo giorno è sorto.

Lo dirà anche Sam, inconsapevole della grande vittoria ottenuta dai popoli liberi. “Arriverà un nuovo giorno, e sarà ancora più luminoso” – sussurrerà il saggio e buono hobbit. Quando tutto sembrerà incupirsi, una luce ancor più radiosa comparirà all’orizzonte. Il buono che c’è nel mondo prevarrà sempre sul male, ed è proprio per quel buono che bisogna combattere. 

Continua con la sesta parte…

Voto: 10/10

Autore: Emilio Giordano

Redazione: CineHunters

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