Come per i più grandi spettacoli di magia, il cinema fantastico si fonda sull’implicito assunto che tutto ciò che verrà mostrato equivale alla più articolata delle menzogne. I personaggi nascono dall’immaginazione creativa degli autori e vivono, alle volte, strettamente legati ai connotati fisici e caratteriali dei loro interpreti, specialmente al cinema. Sappiamo che loro non sono altro che “vesti” indossate su misura da attori protagonisti, mossi unicamente dalla volontà di uno scrittore e guidati dal fermo giudizio di un cineasta, e siamo perfettamente a conoscenza del fatto che non sono veri, eppure, soffriamo per loro, ci appassioniamo ai loro destini ed arriviamo persino a considerare quella storia come parte della nostra vita. Perché, dunque? Accadeva anche nell’antica Grecia dopotutto. Nella tragedia in particolare, l’esibizione teatrale era dedita a rappresentare una narrazione fittizia, la quale risultava talmente potente da indurre all’immedesimazione, alla catarsi, alla purificazione mediata di quanto stavamo vedendo: una storia vissuta attraverso le parole e le azioni delle maschere.
Nei primi anni del Novecento, il miraggio utopico del cinema traeva massimo vigore dalla poca dimestichezza che lo spettatore aveva con la realtà esterna relativa alle lavorazioni sui set. Il primo film che venne trasmesso al cinema riguardava una breve ripresa di un treno che giungeva in stazione. L’effetto fu così impressionante che il pubblico, spaventato, scattò immediatamente in piedi, abbandonando le poltrone in sala per fuggire via, temendo ingenuamente che il treno stesse effettivamente procedendo inesorabile. Un sognatore si trovava in sala quel giorno, stretto in un tenero abbraccio con sua moglie, e restò immobile, a notare l’imbarazzo della gente quando si accorse che il convoglio altro non era che un’immagine in movimento impressa su un nastro di celluloide. Poco dopo, lo stesso signore si lasciava incuriosire da quel peculiare macchinario che proiettava l’evento sulla bianca parete. Cominciò a scrutarlo doviziosamente per tentare di capire come funzionasse. Quell’uomo altri non era che Georges Méliès, o Papà Georges, come affettuosamente lo chiamava la giovane Isabelle proprio di fronte allo sguardo attento di Hugo Cabret. A distanza di diversi lustri da quel primo, fatidico incontro con la settima arte, Papà Georges conduce una vita tranquilla, gestendo un piccolo chiosco a pochi metri dalla stazione ferroviaria dove vive, nascosto all’interno di un grande orologio, Hugo.
Due anime abbandonate: Hugo è un orfano e Georges, invece, appare emotivamente svuotato. Il suo cuore è ormai arido, consumato dall’amara delusione arrecatagli dalla fine di quel sogno che tanto lo aveva coinvolto, lasciandogli come emblema di commiato soltanto brandelli di scenografie ormai ridotti a un cumulo di cenere. Due anime destinate ad incontrarsi e ad aiutarsi l’un l’altro: come un giovane che giunge per rinvigorire il vecchio così che anche il vecchio, suo malgrado, possa aiutare un povero ragazzo ormai sperduto. L’ultimo regalo del defunto padre di Hugo è l’occasione per ricominciare, per offrire al figlio perduto la possibilità di trovare una famiglia che possa amarlo come lui oramai non potrà più fare. L’automa raccolto in eredità dal padre nasconde un congegno programmato appositamente per disegnare l’iconica immagine di un celebre film di quegli anni. E’ l’inizio della ricerca, di un viaggio attraverso le pagine dei libri che “riposano” sugli scaffali della biblioteca di Monsieur Labisse. Un cammino che condurrà Hugo e Isabella a scoprire la vera identità di Papà Georges, quella di uno dei più grandi artisti della storia del cinema.
Georges Méliès è il padre della fantascienza cinematografica. E’ proprio suo il film a cui l’automa, con tale dovizia di particolari, ha reso omaggio disegnando una celebre scena, sua è l’immagine scenografica di una gigantesca luna dagli immensi occhi sognanti che viene colpita da un razzo partito dalla terra per tentare l’impresa dell’allunaggio. L’opera in questione è “Viaggio nella luna” ed è proprio di Papà Georges. Si tratta del cinema precedente alla Grande Guerra, quello d’inizio XX secolo. Era il sogno che diveniva realtà, la possibilità concreta per l’uomo di filmare la fantasia di un concetto della mente. Tagliando e rimaneggiando la pellicola al momento opportuno, Méliès crea il montaggio e con l’ausilio del fumo scenico, del costume ricamato ad arte e delle imponenti scenografie dipinte a mano, contribuisce a realizzare l’effetto speciale. E’ l’alba dell’elogio alla creatività umana, il primo tributo al desiderio dell’uomo di esplorare l’ignoto. Creature fantastiche, mostri pittoreschi, draghi imponenti e creature marine metà donna e metà pesce sono le anime dei suoi film: Méliès incanta le platee dei cinema di tutto il mondo stimolando la fantasia primordiale dell’uomo e la vena sognante che alberga in ognuno di noi. Il cinema diviene a tutti gli effetti la più bella delle menzogne.
Le persone di allora sanno che quello che vedono è del tutto finto e che gli scenari chimerici fanno parte di uno studio cinematografico pre-costruito, ma non possono che emozionarsi davanti ad alcuni coraggiosi eroi che si avventurano sulla superficie lunare fino ad incontrare i Seleniti, i misteriosi abitanti che popolano il nostro satellite naturale. La luna è l’oggetto del desiderio, la metafora di un mondo nuovo ed imperscrutabile per chi, da sempre, vive con la mente rivolta al cielo; è il richiamo più intrigante negli scritti e nell’arte degli uomini che, nel corso dei secoli, a tarda notte, volgendo i loro occhi verso le stelle, la miravano immaginando una realtà vivibile su di essa. Méliès, per primo, rende “vero” e visibile il desiderio dell’uomo, mostrandoci una luna “viva” ed “espressiva” nelle sue forme umanizzate, come se quella creatura del firmamento, nonostante fosse così lontana dalle parole che spesso i poeti le rivolgevano al calar del sole, ricevesse costantemente l’alone della presenza dell’uomo stesso, recando persino un volto simile al nostro.
Il cinema dimostra sin da subito di essere espressione di un linguaggio sempre al passo coi tempi e se prima poteva lasciare spazio al sogno, durante lo scoppio della guerra, non poteva che anteporre all’indole onirica, l’orrore del dramma e della distruzione. Nessuno riusciva ad emozionarsi più coi film di Méliès, la realtà cruda e deplorevole del conflitto mondiale aveva ottenebrato l’estro estatico del pubblico. Méliès vede il suo lavoro sfumare, perdersi tra le sue stesse mani come granelli di sabbia che cedono tra le dita, disperdendosi sulla riva del mare. In quei tristi giorni, Méliès comprende che neppure l’arte impressa sulla pellicola raggiunge l’eternità, e che anch’essa è soggetta alla dura legge del tempo. Tutto ciò in cui credeva viene meno e la sua sensibilità artistica viene scacciata per far posto a un feroce disinteresse. Ma l’arrivo di Hugo fu l’occasione propizia per riscoprire l’arte di Georges Méliès. Proprio lui, il giovane ragazzo che aveva trascorso gran parte della sua breve vita al cinematografo, la sua unica compagnia, lui che aveva permesso a Isabelle di scoprire il cinema per la prima volta, intrufolandosi con lei di soppiatto in sala, lui che aveva portato René a conoscere Georges per permettergli di scoprire che i suoi film non sono andati perduti, tutt’altro; sono stati invece conservati gelosamente da decine di appassionati che non hanno mai smesso di sognare. Méliès si ricrede: l’arte cinematografica può davvero raggiungere l’immortalità, soprattutto se tramandata nei racconti e nei ricordi di chi ha vissuto per primo tali emozioni.
Hugo e Georges ritrovano se stessi e proiettano il loro sguardo ottimistico al futuro grazie alla magia del cinema. Nell’inganno della fantasia Hugo ritrova una famiglia e Georges riscopre come i sogni e le speranze siano impossibilitati a morire. L’orologio dove viveva Hugo, segno dello scorrere inesauribile del tempo, ci ricorda di come le lancette girino, fino al rintocco dell’ora in cui il tetro è ormai passato ed è giunto finalmente il momento di tornare nel mondo della tersa illusione. Il tempo dell’anziano si intreccia con il tempo del giovane, fino a ricreare un “meccanismo” che riprende a funzionare, producendo il gradevole ticchettio di un orologio. Come per l’automa di Hugo, anche per i due protagonisti serviva la chiave di volta per tornare a funzionare. Nella compagnia sognante del cinematografo, Hugo lascia dietro di sé il tempo più ostile mentre Georges rievoca il tempo più lieto, il tutto in un artistico intreccio dove il momento presente si unisce all’immagine di un cinema passato.
A fronte di un tale amore per la settima arte, espresso dal regista Martin Scorsese in questo toccante racconto tramite l’incontro e l’aiuto reciproco di due persone, in principio così lontane, non possiamo che perdurare nell’immobilismo, come l’automa posto dinanzi alla camera sul finale.
La bugia del cinema si disperde in dissolvenza sul cuore meccanico di quell’automa che ha permesso l’incontro tra i due protagonisti: si combinano così macchina e umanità, sogno e tangibilità, bugia e verità in un linguaggio visivo che giunge fino all’animo. Poiché è quello il segreto: raggiunto il cuore di chi osserva, la logica del cinema viene offuscata dall’immaginazione, e le “fandonie” emozionano così tanto da farsi ritenere verità profonde ma imperscrutabili, lineamenti di una matita che compone un viaggio tra le stelle sulle labbra di una luna che non smette mai di sorriderci.
Voto: 9/10
Autore: Emilio Giordano
Redazione: CineHunters
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